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CONSIGLIO NAZIONALE
DEI DOTTORI COMMERCIALISTI E DEGLI ESPERTI CONTABILI
AUDITORIUM DELLA CONCILIAZIONE
Roma, 25 maggio 2011
ASSEMBLEA 2011
DEI DOTTORI COMMERCIALISTI E DEGLI ESPERTI CONTABILI
RELAZIONE DEL PRESIDENTE
Claudio Siciliotti
CONSIGLIO NAZIONALE
DEI DOTTORI COMMERCIALISTI
E DEGLI ESPERTI CONTABILI
Piazza della Repubblica, 59
00185 Roma
Tel.: +39 06 478631 - Fax: +39 06 47863349
www.commercialisti.it
PRESIDENTE
CLAUDIO SICILIOTTI
VICEPRESIDENTE
FRANCESCO DISTEFANO
SEGRETARIO
GIORGIO SGANGA
TESORIERE
GIULIANO BOND
CONSIGLIERI
GIANCARLO ATTOLINI
LUCIANO BERZÉ
CLAUDIO BODINI
GIOSUÉ BOLDRINI
ANDREA BONECHI
MARCELLO DANISI
FLAVIO DEZZANI
ROBERTO D’IMPERIO
ENRICOMARIA GUERRA
STEFANO MARCHESE
MASSIMO MELLACINA
PAOLO MORETTI
GIOVANNI GERARDO PARENTE
DOMENICO PICCOLO
GIULIA PUSTERLA
FELICE RUSCETTA
EMANUELE VENEZIANI
“Noi italiani tutti siamo come nani sulle spalle di un gigante.
E il gigante è la cultura, una cultura antica che ci ha regalato
una straordinaria, invisibile capacità di cogliere la complessità delle cose.
Articolare i ragionamenti, tessere arte e scienza assieme:
questo è un capitale enorme.
E per questa italianità c'è sempre un posto a tavola in tutto il resto del mondo”
Renzo Piano
SOMMARIO
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CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE…
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… IL BILANCIO DELLO STATO…
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… IL CONTENIMENTO DELLA SPESA PUBBLICA…
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… la speranza del federalismo fiscale…
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… la questione dei diritti acquisiti e delle giovani generazioni…
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… la nostra professionalità al servizio della ottimizzazione della produttività…
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… il costo per le imprese e per la collettività di uno Stato “cattivo pagatore”…
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… LA QUESTIONE DELLA (OP)PRESSIONE FISCALE…
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… i compensi telematici degli intermediari fiscali due volte “oppressi”…
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… i rapporti con l’Amministrazione finanziaria…
25
… LE NOSTRE PROPOSTE PER LA LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE…
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… agire sulla pressione fiscale percepita…
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… agire sull’efficacia dei controlli…
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… agire sulla certezza delle regole…
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… LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA…
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… LA MEDIAZIONE CIVILE…
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… UN ACCENNO ALLA QUESTIONE DELLA REVISIONE LEGALE…
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… CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Relazione del Presidente
CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE…
Un caloroso benvenuto a tutte le autorità presenti ed ai colleghi, consiglieri e delegati degli Ordini territoriali, che ancora una volta sono accorsi in grande numero per partecipare ai lavori di questo appuntamento annuale ormai consolidato.
Un appuntamento pensato per consentire alla categoria dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, nelle persone di tutti i suoi quadri dirigenti territoriali e nazionali, di confrontarsi con gli esponenti delle
istituzioni e della politica di questo Paese, ma anche di dibattere al suo interno sulle problematiche che
riguardano il presente ed il futuro della Professione.
Fino allo scorso anno, la denominazione di questo appuntamento era “Conferenza annuale dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili”.
Questa volta, arrivati alla sua quarta proposizione, abbiamo deciso di modificarla in “Assemblea annuale
dei dottori commercialisti e degli esperti contabili”.
Conferenza è infatti un termine che può volere dire tutto e al tempo stesso nulla; assemblea, invece,
rispecchia maggiormente la centralità che ha assunto negli anni questa assise nella dialettica sia interna
che esterna alla categoria.
Sono molti i temi sui quali i commercialisti italiani vogliono condividere alcune riflessioni con il resto del
Paese, partendo sempre da quell’approccio di utilità che ne ha caratterizzato in questi anni il modo di porsi
e di proporsi.
Il primo fra tutti è senz’altro quello che attiene all’andamento dei conti pubblici e alle politiche di contenimento della spesa pubblica che, dopo un inopinato abbandono negli anni dal 2001 al 2006, sono tornate ad essere applicate con il doveroso rigore a partire dal 2007 in poi.
La parte del leone la fanno però le riflessioni cui possiamo contribuire sul lato delle entrate, delle politiche
tributarie e dei conseguenti riflessi sul rapporto tra fisco e contribuente.
Né del resto potrebbe essere altrimenti in una fase storica in cui risultano avviati i lavori per quella che tutti
attendono come la più importante riforma del sistema fiscale da quarant’anni a questa parte – lavori cui i
commercialisti italiani partecipano attivamente, con propri rappresentanti a ciascuno dei quattro tavoli
appositamente istituiti dal Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti – ed in un momento in cui dal governo
e dagli stessi vertici dell’Agenzia delle entrate arrivano richiami contro l’oppressione fiscale ed i controlli
vessatori che rischiano di apparentare, nella percezione del cittadino, l’azione dell’Amministrazione finanziaria a quella di estorsori.
Parole ancora più forti di quelle che i commercialisti italiani usarono, lo scorso gennaio 2011, quando per
primi cercarono di richiamare l’attenzione delle istituzioni su un problema che sembrava pericolosamente
sottovalutato.
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Assemblea 2011
Tra lotta all’evasione e vessazione del contribuente vi è d’altro canto una bella differenza e la prima non
richiede necessariamente la seconda, anzi: si può ben dire che, nel medio periodo, se non già nel breve,
sono antitetiche.
Proprio al fine di gettare le basi di una lotta all’evasione fiscale che sia efficace nel recupero di gettito, ma
al tempo stesso equilibrata nel rapporto con il contribuente, i commercialisti italiani, nell’ambito dei tavoli
sulla riforma fiscale, hanno presentato un decalogo di proposte che, oggi, presentano ufficialmente anche
alla pubblica opinione.
Ovviamente, a meno di voler costruire un Paese fondato sulla riscossione dei tributi, anziché sulla giustizia, tanto maggiore è il potenziamento degli strumenti messi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per accertare e riscuotere, tanto maggiori devono essere le tutele giurisdizionali assicurate al cittadino
nel suo rapporto di eventuale conflittualità con il fisco.
Proprio in quest’ottica, si pongono le proposte che oggi i commercialisti italiani avanzano in tema di riforma della giustizia tributaria: una riforma che deve essere un potenziamento delle risorse economiche e
professionali a disposizione dell’apparato oggi esistente e non uno stravolgimento dello stesso.
Dal tema della giustizia tributaria a quello di un’altra grande riforma in tema di giustizia, a suo modo davvero epocale, quale quello della mediazione obbligatoria, il passo è assai breve ed è un passo che non ci
sottrarremo dal compiere anche in questa importante occasione di confronto con le istituzioni del Paese
e con la pubblica opinione.
Un momento di riflessione, infine, deve essere dedicato al tema della revisione legale.
Il compito della nostra Professione, tra le cui competenze specifiche rientra questa importante funzione, è
quello di mettere il legislatore in condizione di offrire alle imprese non soltanto i maggiori oneri ed i conseguenti aspetti negativi che discendono dal recepimento della direttiva europea che disciplina la materia,
ma anche alcune opportunità che potrebbero essere costruite intorno ad essa, cercando di coniugare al
contempo anche gli interessi dell’Erario.
A sua volta, però, il compito del legislatore è quello di mettere in condizione la nostra Professione di poter svolgere al meglio quella che costituisce appunto una sua funzione tipica, evitando di indulgere in scelte che, per
quanto in modo indiretto ed implicito, potrebbero minare alla radice questa palese evidenza fattuale e giuridica.
In chiusura, nel tirare le fila di quello che è il ruolo che i commercialisti italiani possono e in un certo senso
devono necessariamente svolgere in relazione ai temi trattati, è con piacere che, nell’Assemblea annuale
che cade nell’anno del centocinquantesimo anniversario dell’Unità di Italia, vogliamo condividere con tutti
i colleghi e con i rappresentanti delle istituzioni e della politica qualche riflessione sull’importanza del concetto stesso di unità.
Un concetto tanto più caro e intimamente vissuto a chi, come i dottori commercialisti e gli esperti contabili italiani, ha saputo recentemente superare divisioni del passato per costruire una categoria forte ed
unita, quale quelle che, con orgoglio, cerchiamo oggi di rappresentare al meglio delle nostre possibilità.
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Relazione del Presidente
… IL BILANCIO DELLO STATO…
Andiamo però con ordine.
Come abbiamo accennato, il primo fra i molti temi oggetto di riflessione è senz’altro quello che attiene
all’andamento dei conti pubblici; e non potrebbe essere altrimenti, atteso che i commercialisti italiani sono
coloro cui si affidano non soltanto le imprese private per la predisposizione dei loro bilanci consuntivi e
previsionali, ma anche il settore pubblico per la composizione degli organi collegiali di revisione legale dei
conti.
Il Documento Economico Finanziario presentato nelle scorse settimane dal Ministro dell’Economia, Giulio
Tremonti, ha messo in risalto come stiano tenendo le previsioni effettuate a tutto il 2012, a seguito della
manovra finanziaria che fu varata a metà dell’anno 2010.
L’obiettivo del rapporto tra deficit e PIL al 2,7% per la fine del 2012 si conferma raggiungibile ed è in questo che risiede la “tenuta dei conti pubblici” di cui, giustamente, il Governo va fiero.
Purtroppo, come i commercialisti italiani avevano sottolineato già l’anno scorso, si tratta di un obiettivo che
non può essere considerato un punto di arrivo, ma soltanto una prima tappa.
Il primo a dimostrarsene oggi consapevole è lo stesso Governo, il quale, nell’estendere l’orizzonte previsionale agli anni 2013 e 2014, pone come nuovi obiettivi del Documento Economico Finanziario quello
del raggiungimento del pareggio di bilancio alla fine del 2014.
Se si considera che nella storia della Repubblica questo risultato non si è mai realizzato – il risultato migliore risale all’anno 2000 con un deficit di “appena” 9.962 milioni di euro, pari allo 0,84% del PIL – è facile comprendere quanto sia ambiziosa e complessa una simile aspirazione.
Quel che è certo, però, è che, per quanto ambiziosa e complessa, essa rappresenta una sfida ineludibile.
Da questo punto di vista, siamo assolutamente d’accordo con il Ministro Tremonti quando evidenzia che
l’era della crescita stimolata da deficit pubblico deve considerarsi tramontata e che le politiche di stimolo
alla crescita non possono prescindere dal rigore nella verifica delle coperture finanziarie.
Il 2,7% di rapporto tra deficit e PIL, che, se tutto andrà bene, ci si attende per la fine del 2012, significherà comunque, per il Paese, accumulare ulteriori 45 miliardi di euro su un debito pubblico che, per allora,
starà ormai veleggiando sempre più prossimo alla soglia anche psicologica dei 2.000 miliardi di euro.
Sono numeri che, nel medio periodo, ci condannano a puntare non soltanto a riduzioni dei rapporti percentuali tra debito pubblico e PIL, ma anche a riduzioni del debito pubblico in valori assoluti; e, per fare
questo, non c’è alternativa alla ricerca di un pareggio tra le entrate e le uscite, inedito per l’Italia, ma non
per molti altri Paesi europei nel corso della loro storia.
Tra l’altro, è evidente che proseguire senza soluzione di continuità in politiche di stimolo alla crescita finan9
Assemblea 2011
ziate con deficit pubblico, in un Paese che ha dato ampia prova di sprecare abbondantemente l’allocazione delle proprie risorse pubbliche, significherebbe con ogni probabilità proseguire la via di politiche che, a
fronte della produzione certa di nuovo deficit, offrirebbero certezze assai inferiori sul fronte della contribuzione effettiva alla creazione di nuova ricchezza.
Un momento di discontinuità e di educazione alla regola del “non posso spendere quello che non ho” è
senza dubbio opportuno anche per poter poi riprendere, in un futuro comunque non troppo vicino, politiche di crescita finanziate con risorse pubbliche il cui utilizzo venga dosato con saggezza, anziché sprecato con disinvoltura.
Da questo punto di vista, la proposta contenuta nel Documento Economico Finanziario di esplicitare a livello costituzionale la necessità che sia sempre rispettato il vincolo delle coperture di bilancio per qualsivoglia legge che comporti provvedimenti di spesa, trova assolutamente d’accordo i commercialisti italiani.
Ciò su cui abbiamo invece non poche perplessità è l’entità delle risorse che dovranno essere recuperate
per raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio alla fine del 2014.
Tra le righe del Documento Economico Finanziario si legge infatti che la correzione dei conti pubblici per
il biennio 2013 – 2014 dovrà essere all’incirca di mezzo punto di PIL per ciascuno dei due anni.
Tradotto in numeri, questo significherebbe una manovra su base biennale di circa 17 – 18 miliardi di euro,
o “forse qualcosa di più”, come ha detto a voce il Ministro Tremonti in sede di presentazione del
Documento Economico Finanziario alla Commissione Finanze della Camera.
In verità, i numeri che emergono dallo stesso Documento Economico Finanziario lasciano trasparire che
quel “qualcosa di più” dovrà essere “qualcosa più del doppio”, perché appare ineludibile, per raggiungere
un simile obiettivo, una manovra biennale di oltre 40 miliardi di euro.
La prospettiva è oggettivamente terrificante, se si considera quanta conflittualità ha generato una manovra
di “appena” 24 miliardi varata nel 2010 per il triennio 2010 – 2012, ma il compito dei commercialisti
anche nel rapporto con i loro clienti non è né quello di fare terrorismo, né quello di alimentare speranze
prive di fondamento: è semplicemente quello di esaminare i numeri e spiegare le cose come stanno.
La consapevolezza è infatti il primo passo verso la soluzione: senza quel primo passo nella direzione giusta, si possono percorrere interi cammini per poi scoprire di essersi allontanati ancora di più dalla meta
che ci si era prefissati di raggiungere.
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Relazione del Presidente
… IL CONTENIMENTO DELLA SPESA PUBBLICA…
La nostra convinzione, ma anche il nostro auspicio, è che gran parte di quelle risorse, necessarie al perseguimento o quanto meno al sensibile avvicinamento del pareggio del bilancio già per la fine del 2014,
vadano ricercate sul fronte del dimagrimento della spesa pubblica, piuttosto che sul fronte delle entrate
tributarie.
La spesa pubblica italiana presenta margini di intervento estremamente significativi, dopo che per anni è
stata lasciata lievitare.
In particolare, negli anni dal 2001 al 2006, la spesa pubblica, considerata al netto della variabile esogena
degli interessi passivi sul debito già accumulato, è stata lasciata correre in modo davvero inopinato, crescendo, rispetto al dato del 2000, del 24,43% in termini reali (del 39,38% al lordo dell’inflazione).
A partire dal 2007, si è finalmente arrestato questo trend suicida e bisogna dare atto che, rispetto al dato
del 2006, la spesa pubblica al netto degli interessi passivi è cresciuta in termini reali, negli anni dal 2007
al 2010, appena dell’1,81% (del 9,30% al lordo dell’inflazione), a testimonianza di un impegno davvero
straordinario da parte di chi ha retto i cordoni della borsa nell’Esecutivo precedente ed in quello attuale.
Purtroppo, come detto, non basta.
O, meglio, basterebbe se il Paese avesse tassi di crescita economica assai superiori a quelli che è lecito
attendersi ed a quelli che aveva in anni in cui, però, questa crescita veniva in parte non marginale sostenuta con quella politica dei deficit che oggi, per le ragioni in precedenza evidenziate, non possiamo più
azzardare, perché per l’appunto di questo si tratterebbe: di un vero e proprio azzardo da “lascia o raddoppia” che nessun buon padre di famiglia farebbe correre alle persone di cui è responsabile.
Da questo punto di vista, non possiamo che esprimere la nostra vicinanza al Ministro Giulio Tremonti, ogni
qual volta questa sua linea si trova a scontrarsi con quella di chi, viceversa, riterrebbe preferibili altre vie,
perché magari si rischia, altrimenti, di perdere le elezioni.
È proprio anteponendo la finalità di vincere le elezioni, su quella di fare ciò che è giusto ed utile per il
Paese, che siamo arrivati al punto di quasi non ritorno in cui ci troviamo.
Saremmo carenti di oggettività, se dimenticassimo di sottolineare che la folle corsa della spesa pubblica,
prodottasi negli anni tra il 2001 e il 2006, ha visto per larga parte di quegli anni, come Ministro
dell’Economia, proprio Giulio Tremonti.
Siamo però anche convinti che in questo Paese non si possa continuare a valutare le persone soltanto per
quello che hanno fatto in passato o per la loro provenienza.
Bisogna cominciare a guardare con maggiore attenzione a quello che le persone fanno oggi e intendono
fare in futuro.
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Assemblea 2011
Il passato, le radici sono senza dubbio elementi importanti di valutazione e ponderazione delle persone,
ma il vero spirito di aggregazione di un Paese capace di guardare avanti e affrontare le sue sfide si deve
ragionevolmente fondare più sulla condivisione del percorso che riteniamo ci sia da fare, che non sulla
condivisione del percorso che ciascuno ha sino ad ora fatto.
Questo vale anche per la politica di rigore sui conti pubblici che, come un po’ tutti i temi importanti della
politica del Paese, incontra oggi sia consensi che dissensi trasversali agli schieramenti: non conta più di
tanto chi nel passato ha dato dimostrazione di ritenere di poter prescindere da essa, conta soprattutto chi
dimostra in modo concreto di ritenere che nell’immediato futuro non sarà più possibile farlo.
Tuttavia, proprio perché i numeri testimoniano come nel recente passato la spesa pubblica sia stata lasciata aumentare con eccessiva rilassatezza, è lì che vanno ricercate le risorse necessarie per consentire davvero il raggiungimento di quel pareggio di bilancio che richiede al Paese sacrifici ben maggiori di un punto
di PIL in due anni.
Dal 1993 ad oggi, la spesa sanitaria pro capite è aumentata in termini reali del 51,75% (del 106,43% al
lordo dell’inflazione); quella per protezione sociale pro capite è aumentata in termini reali del 48,47% (del
103,15% al lordo dell’inflazione).
Sono aumenti che non trovano alcuna giustificazione nel parallelo incremento della qualità dei servizi sanitari e del livello di welfare garantito al cittadino.
… la speranza del federalismo fiscale …
Per quanto riguarda la sanità, tutte le speranze sono concentrate sul federalismo fiscale.
Una scelta che condividiamo e sosteniamo, pur ritenendo inevitabile che, nel breve periodo, esso possa
determinare un incremento della pressione fiscale sul cittadino, piuttosto che una sua riduzione.
Non è disfattismo, né prevenzione ideologica rispetto ad un percorso che, anzi, come detto, condividiamo.
È semplice osservazione della realtà e delle dinamiche economiche: la rigidità che caratterizza la spesa
pubblica sul fronte di qualsivoglia intervento volto alla sua diminuzione, renderà assai probabile che le
regioni e gli enti locali, già oggi a corto di risorse, si avvarranno della più ampia autonomia concessa loro,
sul fronte della introduzione di nuovi tributi o addizionali, con una rapidità maggiore di quanto riusciranno
a fare sul fronte della riduzione delle spese.
Dirlo chiaramente è importante, perché, quando accadrà – e accadrà sicuramente – sarà allora possibile
sottolineare che si è di fronte non già ad un fallimento imprevisto del federalismo fiscale, ma ad un più
che prevedibile effetto destinato a scomparire tanto più in fretta quanto maggiore sarà la capacità ed il
coraggio degli amministratori regionali e locali di ristrutturare la spesa degli enti che amministrano.
Dopodiché, va detto, rimane l’impressione che un federalismo non accompagnato in alcun modo da un
dimagrimento dello Stato centrale, nel numero dei componenti dei suoi organi apicali e delle mille artico12
Relazione del Presidente
lazioni dei suoi enti, sia paradossalmente destinato a determinare una battaglia agli sprechi di tipo prettamente centralistico: feroce in periferia, assai blanda al centro.
… la questione dei diritti acquisiti e delle giovani generazioni …
Per quanto riguarda la spesa per protezione sociale, il vero nodo, prima ancora che la sua smisurata crescita, è la sua natura, in larghissima parte ascrivibile a trattamenti pensionistici.
È un po’ la cartina di tornasole della più ampia questione generazionale che caratterizza una spesa pubblica
la cui problematicità deriva non solo dai volumi, ma anche dalle diseguaglianze di diritti ad essa sottostanti.
La spesa per i trattamenti pensionistici è cresciuta molto in questi anni e si manterrà elevata ancora a
lungo.
Grazie alle riforme avviate nel 1995, essa può però considerarsi sotto controllo: a tendere, man mano che
scemeranno le pensioni erogate che vengono in tutto o in larghissima parte calcolate con il metodo retributivo (ossia con il metodo che consente di tenere conto del livello dei redditi percepiti negli ultimi anni
di lavoro) e verranno progressivamente “sostituite” con quelle che verranno in tutto o in larghissima parte
calcolate con il metodo contributivo (ossia il metodo che impone di tenere conto dei contributi effettivamente versati nel corso della vita lavorativa), si assorbirà il debito latente accumulatosi a causa di scelte di
un passato ormai molto lontano, rivelatesi a posteriori davvero poco lungimiranti.
Il punto, però, è che, nel mentre, questo debito latente continua e continuerà a scaricarsi sul bilancio dello
Stato, appesantendolo e rendendo quindi più difficili, se non impossibili in un’ottica di pareggio di bilancio, quelle politiche di crescita e sostegno che viceversa abbisognerebbero soprattutto coloro che un
domani si ritroveranno con trattamenti pensionistici assai inferiori a quelli che vengono percepiti oggi.
La sostenibilità dei diritti maturati negli anni passati dai pensionati di oggi e di domani è resa possibile dalla
rinuncia dei giovani di oggi e di domani a godere dei medesimi trattamenti.
Tale rinuncia, però, non trova alcuna compensazione nell’adozione di politiche volte a sostenere la crescita e la stabilità nel mondo del lavoro di chi ne avrebbe doppiamente bisogno, alla luce di un futuro pensionistico assai meno generoso di quello attuale, perché la sua rinuncia a diritti futuri non è sufficiente da
sola: serve anche la rinuncia alle più che legittime aspettative del presente.
E questo vale, identicamente, anche sul fronte del pubblico impiego e dei correlati ingenti oneri per retribuzioni che incidono sul bilancio dello Stato: da una parte generazioni di eterni precari delle pubbliche
amministrazioni, dall’altra dipendenti assunti con un contratto che va ben oltre il tempo indeterminato e
raggiunge piuttosto la configurazione del contratto a prestazione indeterminata.
Perché, una volta assunto, l’impegno e i risultati sono lasciati all’etica individuale del lavoratore che, per il
resto, può ben scegliere di fare poco o nulla senza per questo veder messo a repentaglio il suo diritto feudale su di un posto di lavoro che, ironia della sorte, sarebbe in teoria pubblico.
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Assemblea 2011
Quando ci riempiamo un po’ tutti la bocca con parole come “crescita” e “futuro”, come possiamo pensare che ciò sia possibile in un Paese che ritiene accettabile un dualismo generazionale tra “padroni del posto
di lavoro con diritti pensionistici acquisiti” e “precari nemmeno messo nella condizione di costruirsi una
comunque assai più magra pensione”?
È una domanda che non riguarda ovviamente solo il settore pubblico, ma attraversa l’intera nostra società e riguarda da vicino anche il mondo delle libere professioni, caratterizzate da un crescente numero di
giovani che dell’autonomia hanno solo l’abito formale della partita IVA, ma che nella sostanza vivono un
futuro sia prossimo che remoto alquanto fosco.
La politica e pure i sindacati dibattono molto su questi temi, ma è un dibattito sterile, perché parte dalla
sostanziale condivisione di un punto: i diritti acquisiti non si toccano.
C’è chi, con soave leggiadria, dice che non si toccano e devono pure continuare ad essere riconosciuti ai
nuovi arrivati; c’è chi, con pragmatico cinismo, dice che non è più possibile riconoscerli ai nuovi arrivati,
ma comunque non si toccano.
La domanda è: perché?
Se questo Paese non è una caserma in cui chi primo arriva, meglio alloggia, ma una comunità nazionale nell’ambito della quale parole come solidarietà ed uguaglianza non sono soltanto parole al vento, gli unici diritti
che possono considerarsi acquisiti sono soltanto quelli che possono continuare ad essere acquisiti da tutti, in
quanto sostenibili nel vincolo dell’equità tra tutti gli appartenenti, attuali e futuri, alla comunità medesima.
Sul mercato del lavoro e sul welfare, questo Paese ha bisogno di meno retorica sindacale e di meno cinismo politico.
Non per togliere qualcosa a qualcuno, anche se è inevitabile che ciò accada nel percorso di ricerca di un
nuovo equilibrio, ma per dare un futuro ai giovani di questo Paese.
… la nostra professionalità al servizio della ottimizzazione della produttività …
Per poter risolvere il problema di una spesa pubblica inefficiente, non si può comunque prescindere dall’implementazione di adeguati sistemi di valutazione e monitoraggio: non puoi infatti correggere l’errore
che non vedi, così come non puoi prendere la direzione giusta se non sai qual è quella che stai intanto
percorrendo.
A tale proposito, il Consiglio nazionale ritiene molto interessante quanto contenuto nel decreto legislativo
27 ottobre 2009 n. 150 ( Riforma Brunetta), con il quale è stata data attuazione alla legge delega n. 15
del 2009, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza
delle Pubbliche amministrazioni.
Le parole chiave della riforma sono trasparenza e integrità della Pubblica amministrazione, merito e premialità, nonché valutazione della performance.
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Relazione del Presidente
Tutti concetti ovviamente condivisibili che tanto più meriteranno attenzione se, una volta tanto, non saranno destinati a rimanere sulla carta.
In questa sede, per intanto, merita di essere spesa qualche considerazione soprattutto sulla c.d. “valutazione della performance” e soprattutto sui soggetti cui ad essa sono deputati, ossia:
• la CIVIT, i cui compiti sono quelli di emanare le linee guida per adottare i modelli di valutazione sulla base
dei requisiti minimi e di accreditare gli organismi indipendenti di valutazione;
• gli organismi indipendenti di valutazione all’interno delle singole pubbliche amministrazioni, i cui compiti sono
quelli di verificare l’adozione del sistema di valutazione e di certificare il “perfomance report”.
Gli organismi indipendenti di valutazione (OIV) sono soggetti interni alle organizzazioni; devono aiutare a
pianificare meglio, lavorare meglio, rendicontare meglio e premiare i più bravi nel rispetto della trasparenza, questo richiede specifiche competenze ed è motivo per cui i membri di questi organismi devono essere selezionati in base alle competenze. Gli OIV sostituiranno gli attuali servizi di controllo interno comunque denominati (quali ad esempio i nuclei di valutazione) di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n.
286.
I commercialisti, anche in relazione a quanto previsto dall’ordinamento professionale, sono certamente
idonei a far parte degli OIV e quest’attività può rappresentare un importante settore di sviluppo della professione visto l’enorme numero di Enti pubblici, fra cui gli Enti locali, che devono dotarsi di tale organismo.
Per dare concretezza alla nostra partecipazione è stato avviato un rapporto di collaborazione con la CIVIT
con l’intenzione del Consiglio Nazionale di definire in modo adeguato le attività da svolgere onde consentire ai commercialisti di adempiere al meglio i compiti loro assegnati nell’ambito degli OIV ed inoltre il
Consiglio intende promuovere anche una specifica attività formativa che consenta, più che in passato, alla
categoria di acquisire una leadership in tale tipo di attività.
Insomma, così come per la mediazione civile e altri ambiti, questo Consiglio nazionale tiene costantemente sotto osservazione ogni possibile sviluppo e sbocco in cui possano felicemente coniugarsi le esigenze
del Paese e la professionalità che i commercialisti italiani possono offrire.
… il costo per le imprese e per la collettività di uno Stato “cattivo pagatore”…
Uno dei tanti aspetti, che evidenziano il cattivo funzionamento della spesa pubblica italiana, è anche quello legato alla tempistica dei pagamenti alle imprese, da parte delle pubbliche amministrazioni.
Da uno studio che abbiamo appositamente commissionato, emerge infatti che, nel 2010, i tempi medi di
ritardo nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni italiane sono stati di 86 giorni.
Il dato di per se stesso può apparire poco eclatante, rispetto alle tempistiche che talvolta emergono dalle
più che giustificate lamentele che provengono da associazioni di categoria delle imprese, ma in realtà bisogna tenere conto che è un dato medio: per alcuni settori, le tempistiche medie di ritardo oscillano tra sei
mesi e un anno.
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Assemblea 2011
Inoltre, se si confronta quel dato medio di 86 giorni con il corrispondente dato di media europea, si può
agevolmente constatare che la posizione dell’Italia è pesantemente deficitaria, posto che, a livello medio
europeo, i ritardi medi si sono attestati sul 2010 in 27 giorni: un rapporto di 3 a 1 a sfavore delle imprese che operano con le pubbliche amministrazioni italiane.
Si tenga inoltre conto che il trend appare fortemente negativo: si è passati infatti dai 40 giorni del 2008
ai 52 giorni del 2009, per arrivare appunto agli 86 giorni del 2010.
Tra l’altro, se è vero che questo più che raddoppio potrebbe trovare la propria giustificazione parziale nella
congiuntura di crisi che ha chiaramente investito anche il settore pubblico, bisogna osservare come negli
altri Paesi europei non si sono registrati scostamenti significativi, anzi tutt’altro.
A livello di media europea, si è rimasti sostanzialmente stabili: 26 giorni nel 2008, 24 nel 2009, 27 nel
2010.
Segno che in Italia, diversamente che altrove, le imprese che lavorano con le pubbliche amministrazioni
sono state chiamate a concorrere alla tenuta dei conti non soltanto con l’obbligazione economica del pagamento delle imposte, ma anche sul piano finanziario, attraverso una paurosa dilatazione dei ritardi sui
tempi di pagamento, più che raddoppiatisi.
Dallo studio emerge una stima del costo per le imprese, derivante da questa deprecabile tendenza, pari
a 1.914 milioni di euro, cui corrisponde un costo per la collettività, al netto del beneficio derivante alla pubblica amministrazione dalla tardività nell’adempimento delle proprie obbligazioni pecuniarie verso le imprese, pari a 1.683 milioni di euro.
Come dire che, se la pubblica amministrazione, e quindi lo Stato, non ragionasse da controparte che
può tra l’altro approfittare della propria posizione dominante, ma ragionasse in termini di minimizzazione degli oneri per la collettività, dovrebbe porre in cima alla propria agenda il tema della puntualità nei
pagamenti.
Basti pensare che, se nel 2010 le pubbliche amministrazioni avessero effettuato i propri pagamenti con
ritardi non superiori alla media europea, il risparmio per il sistema delle imprese sarebbe stato di circa 1,3
miliardi di euro, scendendo da 1.914 milioni di euro a 566 milioni di euro.
È evidente che sul punto bisogna necessariamente intervenire ed è altrettanto evidente che il minimo sindacale dell’equità imporrebbe quanto meno di non differire ulteriormente l’adozione dei decreti attuativi
che, secondo quanto previsto dalla legislazione vigente, dovrebbero garantire quanto meno il diritto di
compensare i crediti che le imprese vantano verso pubbliche amministrazioni, per forniture di beni o di
servizi, con i loro debiti tributari.
Per tutelare l’Erario da comportamenti scorretti, si potrebbe eventualmente pensare di subordinare tale utilizzabilità in compensazione al rilascio di una attestazione, da parte di un libero professionista abilitato al
rilascio del c.d. “visto di conformità del credito IVA”, in merito all’indicazione del credito nelle scritture con-
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Relazione del Presidente
tabili dell’impresa, alla sua conformità rispetto alla sottostante fattura e documentazione contrattuale, nonché alla sua natura esigibile rispetto ai termini di pagamento ormai scaduti.
Si tratterebbe, una volta tanto, di introdurre non un nuovo adempimento che appesantisce il quadro esistente, comprimendo diritti che in precedenza non erano subordinati a vincoli, ma un adempimento attivabile solo ai fini di cogliere un’opportunità precedentemente non ammessa.
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Assemblea 2011
… LA QUESTIONE DELLA (OP)PRESSIONE FISCALE…
Abbiamo detto che la convinzione dei commercialisti italiani è che gran parte delle risorse necessarie al
perseguimento della condivisibile politica del pareggio di bilancio sia da ricercare sul fronte del dimagrimento della spesa pubblica, oltre che ovviamente su quello della crescita dell’economia.
Ciò perché, sul fronte delle entrate, i margini di azione paiono, paradossalmente, ancora più risicati.
Di alzare la pressione fiscale, infatti, non se ne parla proprio; semmai sarebbe necessaria una riduzione
che, però, allo stato, appare vieppiù impossibile.
Nel 2010, la pressione fiscale “ufficiale” si è attestata al 42,39%; un dato, già molto significativo in termini comparativistici con gli altri Paesi europei, che sale addirittura al 51,63% se si depura il PIL della componente di economia sommersa, ossia quella parte di economia che, ragionevolmente, non risulta gravata da alcun tipo di pressione fiscale.
Sulla base delle previsioni del Documento Economico Finanziario, nei prossimi anni la pressione fiscale
“ufficiale” non diminuirà; anzi crescerà seppur di poco: 42,45% nel 2011 (+0,06%), 42,71% nel 2012
(+ 0,32%), 42,56% nel 2013 (+ 0,17%) e 42,43% nel 2014 (+ 0,04%).
Di fronte alla oggettiva impossibilità di aumentare ulteriormente un livello di pressione fiscale già insostenibile, rispetto al livello di servizi e di welfare garantito in cambio al cittadino, i governi hanno tre possibilità alternative o concorrenti al contenimento della spesa pubblica:
• fare affidamento sulla crescita dell’economia e, quindi, sulle maggiori entrate che essa assicura nell’invarianza della pressione fiscale complessiva;
• fare affidamento sulle entrate straordinarie che possono essere assicurate dall’approvazione di condoni fiscali;
fare
affidamento sulle maggiori entrate che possono derivare da un inasprimento della lotta all’evasione fi•
scale.
In questi quasi vent’anni di Seconda Repubblica, abbiamo avuto modo di assistere a tutti e tre i diversi scenari.
Nella seconda metà degli anni ’90, i positivi trend di crescita economica hanno consentito di fare affidamento anzitutto sulla crescita del PIL.
In questi ultimi dieci anni, venuti meno quei tassi di crescita, o, più correttamente, venuti meno anche
senza abbondanti iniezioni di spesa pubblica a supporto (la c.d. “crescita drogata”), i governi che si sono
succeduti hanno scelto:
• ora la via delle coperture finanziarie mediante ricorso ai condoni fiscali (anni dal 2002 al 2004 con al governo il centro-destra e, di nuovo, sempre con al governo il centro-destra, l’anno 2008);
• ora la via delle coperture finanziarie mediante provvedimenti volti ad inasprire e rendere più efficace la lotta all’evasione fiscale e la riscossione coattiva delle imposte (anni 2006 e 2007 con al governo il centro sinistra e anni 2009 e 2010 con al governo il centro-destra).
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Relazione del Presidente
Inutile dire che questo modo di procedere ha contribuito in modo significativo a deteriorare il rapporto tra
Erario e contribuente, generando alla fine circoli viziosi e non certo virtuosi sul fronte della fedeltà del cittadino nell’adempimento degli obblighi tributari e contributivi.
La lesione che determinano i provvedimenti di condono è molto facile da comprendere, ma sul punto sarà
comunque utile tornare più avanti, quando cercheremo di affrontare in modo organico il complesso tema
dell’evasione fiscale e del suo efficace contrasto.
Anche una politica di inasprimento della lotta all’evasione, però, se fondata su presupposti sbagliati, può
sortire effetti opposti a quelli desiderati.
Perché, se ad una pressione fiscale oggettivamente troppo elevata, per quello che il cittadino riceve dallo
Stato, si aggiunge una lotta all’evasione fiscale che ha come obiettivo principale e quasi ossessivo il recupero del gettito, ossia la riscossione, si passa in un attimo dal piano della pressione fiscale a quello della
oppressione fiscale.
Lo sa bene anche il Ministro Tremonti che, non a caso, alcuni giorni fa ha utilizzato proprio queste parole:
siamo un Paese a rischio di oppressione fiscale.
E indubbiamente, dopo un 2008 che era partito sotto i migliori auspici, con provvedimenti di semplificazione che i commercialisti italiani per primi salutarono con soddisfazione, acquisendo anche ampi spazi
sui principali quotidiani per palesarla nel modo che le scelte del governo meritava, tra il 2009 e il 2010
abbiamo assistito ad una recrudescenza di adempimenti fiscali e di norme a senso unico per il fisco, ora
volte a limitare il diritto alla compensazione di debiti e crediti fiscali, ora volte a introdurre presunzioni capestro, ora volte ad accelerare i tempi della riscossione delle imposte, curandosi poco o nulla di gettare le
basi per una parallela accelerazione dei tempi della giustizia tributaria.
All’inizio di quest’anno, verso la metà di gennaio, i commercialisti italiani hanno ancora una volta dimostrato di essere osservatori attenti e competenti delle dinamiche fiscali di questo Paese, denunciando ciò che
ora tutti, ma proprio tutti ammettono e riconoscono.
Parlammo infatti noi per primi di un rischio di oppressione fiscale che si stava ormai materializzando, a
seguito della stratificazione di due anni di provvedimenti normativi che, seppure singolarmente considerati potevano essere considerati ragionevoli, messi tutti insieme in fila portavano ad un sovraccarico di adempimenti insostenibile per gli studi professionali e a un rapporto tra fisco e contribuente basato su “chiacchiere e riscossione”.
Un richiamo che, grazie all’autorevolezza e alla presa sulla pubblica opinione che la categoria ha saputo consolidare su questi temi in questi anni, non è caduto nel vuoto ed ha anzi creato qualche momento di tensione tra la nostra categoria e chi vedeva in quelle considerazioni un attacco privo di fondamento, anziché un
segnale d’allarme lanciato a favore stesso della politica e delle istituzioni preposte, affinché intervenissero.
E alla fine, seppur lanciando ancora timidi segnali soltanto, sono intervenute.
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Assemblea 2011
Cito due aspetti in particolare, non fosse altro perché sono quelli su cui è più netto ed indiscutibile il
costante apporto di proposizione ed interlocuzione della nostra categoria, sui media come nelle occasioni
istituzionali.
Gli accertamenti esecutivi: abbiamo denunciato fin dall’inizio che, dietro una scelta di per sé condivisibile
di eliminazione dei bizantinismi procedurali connessi all’iscrizione delle somme a ruolo e alla doppia notifica di un accertamento e di una cartella di pagamento, si celava in realtà un “solve et repete” di massa,
foriero di generare anticipazioni per circa 2 miliardi di euro, da parte dei contribuenti, per somme che
sarebbero poi risultate non dovute in sede giurisdizionale.
Il risultato cui è pervenuto il Decreto Sviluppo è ben lungi dal soddisfarci, perché pone comunque un termine di 120 giorni dalla data di presentazione dell’istanza di sospensione giudiziale che scarica sul cittadino l’eventuale incapacità del sistema della giustizia tributaria, per mancanza di adeguate risorse, di esaminare l’istanza con tempestività, ma è comunque un passo avanti sul quale cercheremo di costruirne di
ulteriori.
Se pensiamo a come sono state accolte le nostre prime osservazioni su questi temi, è già molto, per ora,
essere riusciti ad arrivare a spostare la palla di questi pochi metri.
L’altro aspetto, per il quale questo ragionamento vale forse ancora di più: l’abolizione dell’obbligo di identificazione mediante codice fiscale dei privati cittadini che effettuano acquisti di importo superiore a 3.600
euro, quando questi acquisti sono pagati con moneta elettronica e, quindi, con modalità di pagamento
perfettamente tracciabili.
Quando muovemmo per la prima volta questa richiesta, in quello che era all’epoca (anche se sono passati solo quattro mesi da allora) un vero e proprio clima di “giacobinismo fiscale”, ci fu quasi rimproverata
non soltanto dai nostri interlocutori istituzionali, ma addirittura da alcuni mezzi di informazione.
Come se chiedessimo qualcosa di assurdo, mentre assurdo era invece che fossimo costretti a chiederlo.
Sottolineare queste cose non significa aver perso il contatto con la realtà al punto da pensare che possano essere decisive per il Paese o per i tanti commercialisti italiani che si ritrovano sommersi quotidianamente di adempimenti e scadenze.
Questo Consiglio nazionale sa perfettamente come l’oppressione fiscale di cui parla il Ministro Tremonti
colpisca i commercialisti italiani due volte: come contribuenti e come soggetti che, lo ha ricordato la stessa Agenzia delle entrate, sovraintendono agli adempimenti fiscali di oltre il 60% delle piccole e medie
imprese e dei lavoratori autonomi di questo Paese.
Il lavoro di comunicazione che stiamo facendo punta anche a veicolare questo messaggio, troppe volte
frainteso.
Noi non viviamo e non proliferiamo sulla complicazione e sugli adempimenti inutili.
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Relazione del Presidente
Per quanto semplice possa essere un sistema fiscale basato sul principio della capacità contributiva individuale e non su arbitrarie e inaccettabili forfetizzazioni, rimarrà sempre un livello di complessità tale da rendere in molti casi necessario l’intervento di esperti, così come ciò è vero per moltissimi settori che caratterizzano la vita di una società in cui, sempre di più, ciascuno si affida ad altri perché facciano ciò che non
rientra tra le sue specifiche competenze o attitudini.
Quello che uccide il sistema e uccide due volte i professionisti che, con propria organizzazione di mezzi,
vi lavorano, è la complessità inutile e ridondante, di cui il nostro fisco è pieno.
… i compensi telematici degli intermediari fiscali due volte “oppressi”…
L’interlocuzione che cerchiamo di portare avanti con l’Agenzia delle entrate riguarda questi aspetti e non
trascura certo il tema dei compensi per gli invii telematici.
Quando viene sollevato questo tema, da più parti, anche all’interno della categoria, si sente dire che è una
battaglia di retroguardia e che comunque non sono certo queste le vie attraverso le quali garantire dei redditi adeguati ai colleghi che si occupano di fisco.
Un po’ le stesse cose che venivano dette e, in una certa misura, vengono tutt’ora dette, quando si parla
di cessioni di quote di srl e deposito a cura del commercialista.
A parte il fatto che, per chi fa molti invii telematici e lavora in aree territoriali dove magari gli spazi per la
consulenza di un certo livello sono alquanto esigui, la differenza, tra l’obolo di 1 euro a dichiarazione che
percepisce attualmente l’intermediario fiscale e i 17,03 euro che percepisce un CAF per il modello 730,
può comunque fare la differenza, quanto meno in termini di concorrenza alla copertura dei costi di strumentazione e di segreteria che il commercialista si deve sobbarcare per svolgere questa attività di outsourcing della Pubblica amministrazione, resto profondamente convinto che non esistono battaglie di retroguardia, così come non esistono battaglie di avanguardia.
Chi si preoccupa di classificare le battaglie è poi talmente occupato a pensare al loro posizionamento tattico da non riuscire nemmeno ad ipotizzare una strategia per vincerle.
Le uniche battaglie che esistono sono quelle giuste o sbagliate; e questa è giusta, per una questione di
dignità e riconoscimento del ruolo svolto, prima che per altri motivi.
Proprio per poter meglio interloquire sul punto, abbiamo recentemente commissionato al nostro Istituto
di Ricerca una indagine statistica sulla informatizzazione degli studi professionali contabili.
Sono pervenute ben 6.209 risposte, da studi di colleghi uniformemente distribuiti sul territorio nazionale,
con una percentuale di rappresentatività su base regionale, data dal rapporto tra numero di questionari
pervenuti e numero di iscritti presso gli Ordini di quella regione, che va da un minimo del 2,5%
(Campania) a un massimo del 9,6% (Trentino Alto Adige), con un dato medio su base nazionale del
5,5%.
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Assemblea 2011
Si tratta quindi di un campione più che rappresentativo, dal quale emergono dati interessanti e assolutamente spendibili a sostegno di legittime rivendicazioni da parte della categoria.
Rimandando alla lettura integrale dello studio, è sicuramente interessante sottolineare i seguenti dati:
• i costi annui mediamente sostenuti per licenze d’uso software sono inferiori a 2.500 euro per il 29,4% degli studi, sono compresi tra 2.500 euro e 5.000 euro per il 35,6%; sono superiori a 5.000 euro per il restante 35,0%;
• il 73,9% degli studi sostiene costi di adeguamento delle licenze d’uso software per assolvere a nuovi adempimenti tributari e/o previdenziali;
gli
• invii telematici effettuati su base annua a favore dell’Agenzia delle entrate sono meno di 100 per il 29,8%,
tra 100 e 250 per il 25,5%, tra 250 e 500 per il 22,0%, oltre 500 per il 22,7%;
• gli invii telematici effettuati su base annua a favore dell’Inps sono meno di 100 per il 76,8%, tra 100 e 250
per il 11,1%, tra 250 e 500 per il 6,2%, oltre 500 per il 5,9%;
gli
• invii telematici effettuati su base annua a favore del Registro delle imprese sono meno di 100 per il 80,5%,
tra 100 e 250 per il 14,3%, tra 250 e 500 per il 3,7%, oltre 500 per il 1,5%;
• gli invii telematici effettuati su base annua a favore dell’Inail sono meno di 100 per il 70,2%, tra 100 e 250
per il 13,9%, tra 250 e 500 per il 14,5%, oltre 500 per il 1,4%.
Sono numeri che dimostrano in modo inequivocabile quanto sia prezioso per la Pubblica amministrazione il lavoro di front office telematico svolto dagli studi professionali e quanto questo lavoro si traduca in
costi diretti di strumentazione e indiretti di tempo.
La questione non si pone certo da oggi, ma è inevitabile che venga tanto più avvertita come insostenibile a fronte della moltiplicazione dei files telematici che devono essere predisposti e inviati all’Agenzia delle
entrate, dovuta a una serie di concause che ben conosciamo e che, come ricordato anche in precedenza,
siamo stati i primi a portare all’attenzione di un dibattito sino ad allora asfittico e tenuto troppo sotto traccia per poter produrre risultati concreti.
Tra elenchi INTRASTAT, comunicazioni black list, comunicazioni delle dichiarazioni di intento per l’utilizzo
del plafond IVA, comunicazioni delle operazioni superiori a 3.000 euro, modelli di pagamento F24 e dichiarazioni annuali varie, ci si mette un attimo a dover confezionare decine di files all’anno per singolo contribuente.
Oggettivamente, non è chiaro perché questo tipo di attività (che va al di là dell’eventuale consulenza prestata a monte al contribuente per la corretta predisposizione dei modelli e attiene piuttosto all’interesse
della Pubblica amministrazione ricevente di non dover, essa stessa, procedere all’imputazione nei propri
sistemi informatici dei dati ricevuti) debba essere lasciata a carico del professionista che trasmette o del
contribuente che presenta.
Perché i files mandati dagli intermediari fiscali con oggetto elenchi o comunicazioni devono prevedere
“zero” nella casella compenso?
E perché i files mandati dagli intermediari fiscali con oggetto dichiarazioni annuali devono prevedere compensi di 1 euro, quando invece per i 730 si aggiungono a quell’euro altri 16,03 euro?
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Relazione del Presidente
Possibile risposta a questa seconda domanda: perché nella presentazione dei 730 i CAF svolgono l’ulteriore funzione pro Erario rappresentata dall’apposizione del visto di conformità della dichiarazione alla sottostante documentazione.
E allora perché, ad esempio, le dichiarazioni annuali IVA presentate con apposizione del visto di conformità ex art. 10 del d.l. 78/2010 (per poter utilizzare in compensazione i crediti IVA) valgono comunque solo
1 euro e non, come minimo, 17,03 euro (come minimo, perché in realtà è evidente che l’apposizione di
un visto di conformità su una dichiarazione annuale IVA implica responsabilità e controlli ben maggiori di
quello su un 730)?
Senza contare che, alla fin fine, non pare nemmeno essere una questione di visto di conformità, atteso
che il modello 730 presentato direttamente dal datore di lavoro (relativamente al quale non è previsto
alcun tipo di visto) viene comunque remunerato dallo Stato in misura pari a 13,82 euro.
Insomma, non è possibile continuare ad avere una situazione tale per cui, a fronte di stanziamenti nel
bilancio dello Stato per 320 milioni di euro per compensi ai CAF, per gli intermediari fiscali venga previsto
uno stanziamento che oscilla intorno ai 30 milioni di euro, per altro nemmeno nel bilancio dello Stato,
bensì all’interno del bilancio dell’Agenzia delle entrate che, nel suo complesso, dallo Stato riceve ben 2.865
milioni di euro.
Su questi fronti, come vedete, non abbiamo nessuna intenzione di mollare e, alle tante parole, cominciamo a mettere a fianco alcuni numeri.
… i rapporti con l’Amministrazione finanziaria…
È fuori di dubbio che queste nostre rivendicazioni, a tutela sia del buon funzionamento del rapporto tra
fisco e contribuente, sia di tutti i colleghi che, come dicevamo, finiscono per essere “oppressi” due volte
quando, pur partendo dalle più lodevole intenzioni, si approda ad eccessi perniciosi, hanno in questi ultimi mesi reso meno fluido il rapporto con l’Amministrazione finanziaria.
Fa parte delle regole del gioco, ma, tanto noi, tanto i vertici dell’Agenzia delle entrate, siamo perfettamente consapevoli che ciascuno fa la propria parte con onestà intellettuale e senza alcuna volontà di rendere
gratuitamente più difficile la vita di chi sta dall’altra parte.
Coloro che ieri magari osservavano che i rapporti erano addirittura troppo cordiali rispetto agli effettivi risultati che da essi derivavano, sono gli stessi che oggi osservano come sia assolutamente imprescindibile tornare al clima che questo stesso Consiglio nazionale aveva instaurato all’inizio del suo mandato.
Pure questo fa parte delle regole del gioco, anche se si tratta di un gioco più stucchevole e fine a se
stesso.
Premesso che i vertici dell’Agenzia delle entrate godono della più ampia stima personale da parte di questo Consiglio nazionale, la vicinanza e la partecipazione a questo o a quel tavolo non sono fini a se stessi, ma mezzi per portare a quei risultati di cui parlavamo, per la categoria e per il Paese.
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Assemblea 2011
Lo abbiamo del resto scritto in modo chiaro anche in una delle nostre pubblicità istituzionali di categoria:
non siamo interessati ai tavoli di confronto per avere una sedia, ma per contribuire con le nostre idee e le
nostre proposte.
Ora che anche i vertici dell’Agenzia delle entrate, così come il Ministro Tremonti, hanno preso atto dei pericoli derivanti da una esasperazione delle aspettative di recupero del gettito che vengono scaricate
sull’Amministrazione finanziaria, siamo certi che si potrà rilanciare un dialogo volto all’individuazione di vere
soluzioni a questo problema, partendo dal presupposto che nessuno può pensare di salire in cattedra e
dare lezioni di etica fiscale.
Così come è fuori di dubbio, come ha riconosciuto il direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera, che
esiste una minoranza di funzionari che, pressati dagli obiettivi di recupero del gettito, tendono ad assumere atteggiamenti vessatori verso i contribuenti, tali da rischiare di apparentare, nella loro percezione, l’azione dell’Amministrazione finanziaria a quella di estorsori, è fuori di dubbio che ci sia una minoranza di commercialisti che ancora oggi equivoca il proprio ruolo nel rapporto tra il proprio cliente ed il fisco.
La soluzione al problema risiede nella costruzione di un nuovo rapporto tra lotta all’evasione fiscale e bilancio pubblico dello Stato.
Fino a quando le previsioni di gettito, derivanti da misure che inaspriscono la lotta all’evasione fiscale, verranno utilizzate a copertura di provvedimenti di spesa, ci troveremo di fronte a due vicoli ciechi.
Il primo rappresentato dal fatto che rimarrà illusorio e meramente propagandistico il motto “pagare tutti
per pagare meno”, in quanto, fino a quando il gettito recuperato dall’evasione fiscale viene impegnato a
copertura di spese già prima di averlo conseguito, non potrà mai essere davvero utilizzato per ridurre le
tasse a chi già le paga.
Il secondo rappresentato dal fatto che il sottostante rapporto tra Ministero dell’Economia e Agenzia delle
entrate dovrà necessariamente continuare ad essere improntato a obiettivi di risultato sul gettito recuperato, anziché sulla qualità, numerosità ed efficacia dei controlli, scaricando in tal modo su tutti i funzionari
degli uffici locali una pressione ancora più forte di quella fiscale scaricata sui contribuenti.
Il punto non è dunque smettere di introdurre norme sempre più efficaci per la lotta all’evasione, ma smettere di fondare le coperture di bilancio sul gettito che ci si aspetta che producano, perché ciò getta le basi
per cui quel gettito deve necessariamente arrivare, a prescindere dal fatto che i contribuenti a cui capita di
essere assoggettati a controlli siano effettivamente degli evasori, oppure dei contribuenti onesti con tutt’al
più qualche irregolarità non sostanziale.
Questa è una battaglia di opinione che i commercialisti non fanno certo contro l’Amministrazione finanziaria, ma semmai proprio a favore dell’Amministrazione finanziaria, oltre che naturalmente a favore di tutti i
contribuenti di questo Paese e quindi, in definitiva, a favore del Paese medesimo.
Questo è il cambiamento culturale di cui abbiamo bisogno e senza il quale viene meno alla radice la possibilità di innestare altri circoli virtuosi nel rapporto tra fisco e contribuente.
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Relazione del Presidente
… LE NOSTRE PROPOSTE PER LA LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE…
Per poter impostare una lotta all’evasione che sia davvero efficace ed equilibrata, senza oscillare perennemente tra ricette repressivo-bulimiche di gettito e ricette permissivo-anoressiche, a seconda della vicinanza o lontananza alle scadenze elettorali e agli elettorati di riferimento della maggioranza politica di turno,
bisogna d’altro canto avere ben chiare quali sono le determinanti dell’evasione; prima ancora, bisogna
avere ben chiaro che l’evasione fiscale è una condotta anti-sociale, al pari di molte altre.
Nulla di più e nulla di meno.
In quanto tale, essa è correlata non soltanto a fattori direttamente connessi al rapporto tributario, ma anche
a fattori che attengono più in generale al rapporto tra cittadino e Stato.
I fattori direttamente connessi al rapporto tributario sono essenzialmente i seguenti:
• livello del prelievo fiscale: al crescere della pressione fiscale percepita, cresce la propensione ad evadere;
• efficacia dei controlli: al diminuire della probabilità di essere sottoposti ad accertamento, cresce la propensione ad evadere;
• certezza dell’applicazione delle regole: al crescere dell’aspettativa che sopravvengano condoni e sanatorie,
cresce la propensione ad evadere.
I fattori che attengono più in generale al rapporto tra cittadino e Stato sono essenzialmente i seguenti:
• rispetto per lo Stato, per le istituzioni e più in generale per coloro che ricoprono ruoli apicali nella gestione
politica e amministrativa del Paese: al diminuire di questo sentimento di rispetto, cresce la propensione ad
evadere;
adeguatezza
del rapporto tra livello dei servizi erogati dalla Pubblica amministrazione e livello della presta•
zione patrimoniale di contribuzione imposta al cittadino: al diminuire della percezione di adeguatezza, cresce la propensione ad evadere;
adeguatezza
del rapporto tra livello delle protezioni sociali garantite dallo Stato e livello della prestazione pa•
trimoniale di contribuzione imposta al cittadino: al diminuire della percezione di adeguatezza, cresce la propensione ad evadere.
In Italia, l’evasione fiscale assurge a livelli ben più elevati di quelli che potrebbero essere considerati fisiologici in quanto vi è una piena concorrenza verso tale direzione sia da parte dei fattori endogeni al sistema fiscale, sia da parte dei fattori esogeni.
Sono senza dubbio corretti i richiami, più volte reiterati in questi mesi da rappresentanti delle istituzioni,
alla necessità di un “cambiamento culturale” del cittadino nei confronti del proprio obbligo fiscale, ma è
fuori di dubbio che questo “cambiamento culturale” riguarda il più ampio contesto nel quale il rapporto
tributario si colloca e non già il rapporto tributario medesimo.
Dare una forte valenza etica al rapporto tributario in un contesto politico e sociale che sembra per il resto
incapace di confrontarsi con i temi etici, se non nell’ottica di una contrapposizione tra giustizialismo e
garantismo a corrente alternata, rischia di produrre effetti controproducenti di accrescimento dell’evasione
fiscale.
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Assemblea 2011
In questa sede, ovviamente, intendiamo limitarci a un’analisi dei fattori direttamente connessi al rapporto
tributario, ma questa premessa è fondamentale per riportare il rapporto tributario alla sua giusta dimensione: una mera obbligazione patrimoniale la cui valenza etica è esogena al rapporto tributario stesso e
determinata dalle modalità con cui viene gestita la cosa pubblica e amministrato il gettito che il prelievo
fiscale genera.
Senza questa consapevolezza, si rischia infatti di cadere in eccessi opposti, fatti di enormi obblighi e
responsabilità in un contesto che per il resto preferisce indulgere in diritti e tutele, con il risultato di produrre, come già si è detto, effetti controproducenti di accrescimento dell’evasione fiscale.
… agire sulla pressione fiscale percepita…
Al crescere della pressione fiscale percepita, cresce la propensione ad evadere.
A sua volta, a parità di livello di pressione fiscale reale complessiva, il livello di pressione fiscale percepito
dal singolo cresce all’aumentare di due fattori: l’iniquità nella distribuzione del prelievo e la farraginosità
del sistema.
La pressione fiscale nel nostro Paese è molto alta, sia in termini assoluti, sia in termini di corrispettività
in servizi e protezione sociale; tanto più, lo abbiamo già ricordato, se si considera che il livello di pressione fiscale ufficiale è calcolato su di un dato del PIL che tiene conto anche dell’economia sommersa stimata.
Tuttavia, la situazione in cui versano i conti pubblici italiani rende, non solo nel breve periodo, ma anche
nel medio, del tutto illusoria un’azione volta a ridurre in modo apprezzabile la pressione fiscale complessivamente esercitata.
È più che possibile, anzi assolutamente opportuno, agire invece sulle due sotto-variabili (iniquità distributiva e farraginosità) ed evitare così una eccessiva dilatazione peggiorativa tra realtà e percezione: iniquità
e farraginosità stanno alla pressione fiscale percepita dai contribuenti a parità di tassazione reale, come
l’umidità sta alla temperatura percepita dal corpo a parità di temperatura.
Per quanto riguarda il primo aspetto, quello dell’iniquità, le principali direttrici sulle quali riteniamo importante agire sono due.
In primo luogo, quella dell’insostenibile divario che esiste tra:
• la tassazione dei redditi medio-alti di lavoro dipendente, lavoro autonomo e piccola impresa, soggetti all’ordinaria tassazione progressiva IRPEF che, tenuto conto anche delle addizionali regionali e comunali, nonché, per lavoratori autonomi e piccoli imprenditori, dell’IRAP, porta il prelievo medio ben al di sopra della soglia
del 30% già a partire da 40.000 euro di reddito;
• la tassazione dei redditi medio-alti di derivazione patrimoniale, mobiliare o immobiliare, soggetti a regimi di
imposizione sostitutiva che mantengono il prelievo costante al 12,5% per le rendite finanziarie e al 20% per
le rendite da locazioni immobiliari.
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Relazione del Presidente
In secondo luogo, quella della incomprensibile sperequazione che l’IRAP, per effetto della indeducibilità
del costo del lavoro dipendente, determina tra imprese che producono in Italia ed imprese che delocalizzano all’estero: oggi, a parità di 1 milione di euro di fatturato e 200.000 euro di utile, una impresa viene
tassata di più se i suoi 800.000 euro di costi sono rappresentanti da salari e stipendi e di meno se i suoi
800.000 euro di costi sono rappresentati da acquisti presso subfornitori localizzati magari in Cina, India o
nell’Est europeo.
Quanto al primo aspetto, non si tratta affatto di tassare i patrimoni, ma i loro frutti, cioè i redditi che i patrimoni producono.
E non si tratta nemmeno di doverli necessariamente tassare di più dei redditi che derivano dal lavoro e
dalla produzione, secondo una discriminazione qualitativa che comunque sarebbe assolutamente ragionevole e che per altro contraddistingueva il nostro ordinamento fiscale fino al 1997.
Qui si tratta soltanto di arrivare ad una parificazione di trattamento che c’è già nei fatti in presenza di livelli di redditi di lavoro e rendite patrimoniali di ammontari non superiori a 20.000 euro e che viene invece
meno in modo sempre più marcato, a favore dei possessori di rendita, al crescere dei livelli reddituali.
Si dice spesso che negli ultimi quindici anni è andata scomparendo la classe media: sarebbe da stupirsi
del contrario, essendo il nostro attuale sistema fiscale tarato esattamente perché ciò accada.
Senza contare che è proprio nell’ambito di politiche fiscali di questo tipo che potrebbero trovare concreto
spazio regimi di tassazione agevolata per i giovani, non in ragione della tipologia di attività da essi svolta,
ma proprio in ragione della loro età anagrafica, a parziale compensazione dei maggiori sacrifici da essi
richiesti su altri fronti, quali ad esempio quello previdenziale e del mercato del lavoro, ove è indiscutibile
che le nuove generazioni scontano sulla loro pelle errori e diritti acquisiti di un passato che pesa tremendamente sul loro presente e sul loro futuro.
Quanto al secondo aspetto, non si tratta di promettere irrealizzabili abolizioni dell’IRAP senza alcun tipo di
sua sostituzione, ma di ridisegnare il gettito da essa prodotto secondo modalità che non indulgano in scelte protezionistiche che l’Europa non accetterebbe, ma che per lo meno evitino l’assurdità di un sistema
fiscale che incentiva la delocalizzazione produttiva all’estero, distruggendo il tessuto economico e imprenditoriale dei territori.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello della farraginosità, è sicuramente necessario porre mano
alla vera e propria giungla di deduzioni, detrazioni e regimi impositivi che in questi anni hanno continuato a moltiplicarsi sia nel comparto delle imposte dirette, sia in quello di imposte indirette come l’IVA e,
cedolare secca sulle locazioni immobiliari docet, continuano tutt’oggi a moltiplicarsi.
Da questo punto di vista, siamo fiduciosi che le intenzioni del legislatore siano quelle di procedere in modo
deciso in questa direzione, alla luce del fatto che uno dei quattro tavoli tecnici sulla riforma fiscale, quello
sulla c.d. “erosione fiscale”, ha come oggetto precipuo proprio la mappatura di questa vera e propria giungla, al dichiarato fine del suo sfoltimento.
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Assemblea 2011
… agire sull’efficacia dei controlli…
Al diminuire della probabilità di essere sottoposti ad accertamento, cresce la propensione ad evadere.
Le statistiche presentate a questo tavolo di lavoro, dai vari enti preposti all’accertamento della correttezza
dei comportamenti dei contribuenti sul fronte degli obblighi fiscali e contributivi, evidenziano con chiarezza come, nonostante la crescente capacità operativa di detti enti, la particolare struttura produttiva italiana,
basata su un numero significativamente elevato di micro realtà imprenditoriali e professionali, porta a mantenere comunque basso il rapporto tra controlli effettuati e soggetti suscettibili di assoggettamento a controllo.
Da questo punto di vista, la necessità per l’Amministrazione finanziaria di strumenti di “innesco di massa”,
come gli studi di settore o come meglio ancora potrà essere il redditometro / spesometro, sono assolutamente fondamentali per garantire un adeguato presidio del rischio “evasione di massa”.
Il redditometro / spesometro, inserito nell’attuale contesto di sviluppo tecnologico e di correlata crescente efficacia delle metodologie di raccolta ed estrazione dei dati da parte dell’anagrafe tributaria, costituisce
però, come tutte le armi particolarmente potenti, qualcosa che deve essere maneggiato con grande attenzione: a differenza delle risultanze degli studi di settore, quelle del redditometro / spesometro saranno
suscettibili di motivare un accertamento di maggiori redditi imponibili ex se.
Sul punto, pur confermando la bontà della scelta che d’altro canto proprio noi commercialisti italiani eravamo stati tra i primi a indicare come percorribile, non possiamo che attendere di vedere se la costruzione e l’utilizzo del redditometro / spesometro sarà conforme a criteri di prudenza tali da consentire
all’Amministrazione finanziaria di scovare e reprimere i casi di evasione conclamata (che, proprio in quanto tali, recano danno al gettito erariale anche per l’ulteriore evasione che inducono in chi vi assiste), senza
scivolare nella tentazione di utilizzarlo come prova inoppugnabilmente certa anche in presenza di numeri
e situazioni a tinte meno forti, rischiando così di cadere in quegli eccessi controproducenti di cui abbiamo
fatto cenno nelle premesse di questo documento.
Le rassicurazioni che, proprio a tale proposito, provengono dall’Agenzia delle entrate inducono a un cauto
ottimismo che dovrà essere comunque confermato dai fatti.
A nostro avviso, tuttavia, proprio per dare ai cittadini il convincimento di trovarsi di fronte a uno strumento non oppressivo e dirigista, ma oggettivo ed equanime, sarebbe opportuno prevedere che il contraddittorio tra ufficio e cittadino sulle risultanze del redditometro, che precede l’eventuale definizione o l’emissione dell’avviso di accertamento vero e proprio, si possa sviluppare, su richiesta del contribuente e con
spese a suo carico, alla presenza di un mediatore terzo, la cui individuazione dovrebbe avere luogo con
l’accordo dell’ufficio ed il cui compito, in caso di mancata definizione dell’accertamento e ricorso del contribuente avanti le Commissioni tributarie, sarebbe quello di stilare una relazione dalla quale si evincano
le ragioni della mancata definizione e il comportamento tenuto dalle parti.
Siamo inoltre convinti che l’efficacia dei controlli debba essere sempre e comunque valutata in un’ottica
di “costi – benefici” per il sistema Paese, non potendosi considerare efficaci metodologie di controllo che,
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Relazione del Presidente
per quanto produttive di una determinata utilità ai fini dell’accertamento, impongono ai contribuenti adempimenti e correlati oneri ridondanti rispetto all’utilità prodotta.
Attualmente, esiste un numero spropositato di adempimenti nella forma di comunicazioni telematiche
che, in modo speciale per i soggetti che operano con l’estero, ma non solo, devono essere veicolate
all’Agenzia delle entrate.
Nella misura in cui l’Agenzia delle entrate ritenga imprescindibile la conoscibilità di tali dati ai fini di una
efficace azione di controllo, è necessario che essa si attrezzi in modo tale da poterli elaborare in piena
autonomia, lasciando in capo ai contribuenti esclusivamente l’onere di inviare telematicamente le fatture
di vendita o i corrispettivi e le fatture di acquisto, di pari passo con la loro emissione e registrazione.
Il patto tra Amministrazione finanziaria e contribuenti, nel nome di una sempre maggiore efficacia dei controlli che non scarichi sui contribuenti oneri assurdi rispetto ai loro doveri di cittadini, deve dunque essere
il seguente:
• sul contribuente grava il compito di rendere conoscibili all’Amministrazione finanziaria tutti i dati potenzialmente rilevanti (presentando le dichiarazioni annuali di imposta, effettuando le registrazioni contabili delle proprie operazioni attive e passive, emettendo e registrando le fatture di vendita, i corrispettivi e le fatture d’acquisto);
• sull’Amministrazione finanziaria grava il compito di effettuare in modo autonomo ogni ulteriore elaborazione degli stessi che dovesse ritenere necessaria ai fini della sua attività di accertamento.
Già da qualche anno il livello raggiunto dalla information technology potrebbe assicurare all’Agenzia delle
entrate di disporre di ancora più dati di quelli di cui dispone attualmente, chiedendo ai contribuenti adempimenti in numero nettamente inferiore a quelli richiesti attualmente.
Ecco perché questa proposta non la riteniamo semplicemente una proposta di semplificazione, ma prima
ancora una proposta volta ad accrescere l’efficacia dei controlli.
Riteniamo inoltre che sia assolutamente lecito chiedere al contribuente una collaborazione ulteriore, rispetto a quella che emerge dal patto precedentemente indicato, ma riteniamo anche che essa, proprio perché ultronea rispetto a ciò che è lecito aspettarsi dal cittadino, debba essere informata a criteri di facoltatività e premialità, piuttosto che a criteri di obbligatorietà e sanzione.
Riteniamo ad esempio che, anche al fine di incrementare la base dati utile ai fini degli accertamenti redditometrici / spesometrici, potrebbe essere opportuno prevedere, in sostituzione dell’attuale e odioso
obbligo di identificazione dell’acquirente mediante codice fiscale per acquisti superiori a 3.600 euro, la
mera facoltà per l’acquirente di identificarsi con codice fiscale (per acquisti anche di importo inferiore) e
di ottenere su base annua per via telematica dall’Agenzia delle entrate la quantificazione della detrazione
di imposta (c.d. “contrasto di interessi”) che gli compete nella propria dichiarazione dei redditi a fronte
degli acquisti così effettuati, subordinatamente alla comunicazione volontaria per via telematica, da parte
del contribuente all’Agenzia delle entrate, dei dati concernenti la fattura, ricevuta o scontrino fiscale che
attesta l’acquisto.
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Assemblea 2011
Naturalmente il legislatore può scegliere di adottare questa impostazione solo con riguardo a quelle tipologie di spese relativamente alle quali ritiene che maggiore possa essere il contributo alla lotta all’evasione derivante dall’implementazione di un siffatto “contrasto di interessi”, ma quello che conta è anzitutto
avere ben chiaro l’approccio di attenzione alla minimizzazione degli adempimenti con cui esso deve essere costruito.
Siamo anche convinti che sia opportuno spingere verso una sempre più ampia diffusione dell’utilizzo di
mezzi di pagamento tracciabili e una corrispondente diminuzione dell’utilizzo del denaro contante.
Nel recente passato, questa ipotesi ci ha visti contrari perché introdotta in modo discriminatorio ed incomprensibile solo con riferimento ai pagamenti effettuati nei confronti di liberi professionisti.
Se fatti con riguardo alla generalità dei soggetti, ulteriori ragionamenti sulla tracciabilità dei pagamenti, in
aggiunta ai più stringenti limiti da poco introdotti, ci paiono sicuramente opportuni, tanto più se ci si ponesse nell’ottica di una più condivisibile premialità, in luogo della obbligatorietà.
Siamo infine convinti che la problematica rappresentata dalla difficoltà di giungere a soglie probabilistiche
di accertamento sul singolo contribuente che siano soddisfacenti in termini di disincentivo all’evasione
fiscale, a causa della elevata numerosità dei soggetti potenzialmente accertabili, non vada risolta cercando
di porre un inopinato freno alla possibilità di avviare micro-attività imprenditoriali e professionali che, come
anche la recente crisi economica ha insegnato, costituiscono sotto molti punti di vista un vero e proprio
punto di forza del tessuto economico del Paese.
Allo stesso tempo, per le ragioni illustrate in precedenza, diffidiamo fortemente dell’ipotesi di prevedere
regimi speciali, forfetari o derogatori per tali tipologie di soggetti, ai fini delle imposte sul reddito e/o
dell’IVA, perché è ormai palese che ciascuno di questi regimi, per quanto sorto sotto le migliori intenzioni,
finisce puntualmente per prestare il fianco ad utilizzi assolutamente distorti, sia dal punto di vista dell’applicazione della normativa fiscale, sia dal punto di vista del corretto inquadramento dei rapporti di lavoro.
Pensiamo che il problema debba essere risolto affidando un ruolo di supporto all’Amministrazione finanziaria e di interfaccia tra essa ed i contribuenti ai liberi professionisti che, come i dottori commercialisti e
gli esperti contabili, svolgono la propria attività con competenze in materia fiscale espressamente riconosciute dalla legge e obblighi deontologici di attendere al proprio compito nell’interesse del proprio cliente,
ma nel rispetto dell’interesse pubblico.
Così come è stato giusto “ripescare” e dare nuova vita al redditometro, dopo la deludente esperienza dei
primi anni ’90, in un contesto tecnologico e culturale completamente diverso, al pari riteniamo giusto “ripescare” e dare nuova vita a istituti quali la certificazione tributaria che furono tentati alla fine degli anni ’90
senza però trovare concreta applicazione a causa della sostanziale mancanza di volontà politica nel renderli concretamente appetibili.
La recente esperienza del “visto di conformità sui crediti IVA” ha dimostrato che, laddove chiamati a svolgere una funzione nell’interesse dell’Erario con previsione di correlate responsabilità, i liberi professionisti
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Relazione del Presidente
aventi le caratteristiche in precedenza ricordate hanno consentito, con la loro azione di “controllo interno”,
il recupero di circa 6,6 miliardi di minori compensazioni indebite di crediti IVA inesistenti (dato comunicato dall’Agenzia delle entrate).
A tale proposto, la nostra proposta si differenzia tra contribuenti sui quali grava l’obbligo di assoggettamento a revisione legale (ai sensi del D.lgs. 39/2010) e contribuenti non gravati da questo obbligo.
Per quanto riguarda i contribuenti gravati dall’obbligo di assoggettarsi a revisione legale (tutte le società di
capitali, fatta eccezione per la srl di minori dimensioni), proponiamo che il soggetto incaricato della revisione legale sia tenuto a integrare le procedure di controllo previste dai principi in materia di revisione legale con eventuali ulteriori procedure, individuate congiuntamente all’Agenzia delle entrate e finalizzate in
modo specifico a verificare il corretto adempimento formale e sostanziale della normativa fiscale.
Per quanto riguarda i contribuenti non gravati dall’obbligo di assoggettarsi a revisione legale (srl di minori
dimensioni, società di persone, ditte individuali, altre tipologie di contribuenti), proponiamo che, su base
assolutamente volontaria, il contribuente possa farsi apporre, da uno dei professionisti abilitati a rilasciare
anche il visto di conformità sul credito IVA, una certificazione con la quale il professionista, sotto propria
responsabilità, dichiara di aver effettuato tutti i controlli risultanti dalle apposite procedure rilasciate
dall’Agenzia delle entrate e di non aver riscontrato difformità o irregolarità rispetto alle risultanze della
dichiarazione.
In entrambi i casi, come testimonia l’esperienza maturata sulla compensabilità dei crediti IVA, i risultati in
termini di contrasto dell’evasione fiscale potrebbero essere estremamente significativi.
Naturalmente una simile proposta può funzionare solo nella misura in cui venga previsto un adeguato vantaggio anche a favore del contribuente, posto che senza un vantaggio tangibile la disposizione sarebbe
destinata a rimanere lettera morta per i contribuenti non soggetti a revisione legale (come, abbiamo ricordato, già accadde in passato con il c.d. “visto pesante”), non producendo così nessuna utilità nemmeno
per l’Erario, ma sarebbe destinata anche ad essere avvertita come l’ennesimo insostenibile obbligo oppressivo da parte dei contribuenti soggetti a revisione legale.
A nostro avviso, i vantaggi concreti per il contribuente, di essere “certificato ai fini fiscali” dall’incaricato della
revisione legale o, per chi non vi è soggetto, da un libero professionista all’uopo incaricato, andrebbero
costruiti sul fronte della riscossione delle imposte: in caso di ricorso del contribuente “certificato”, nessuna riscossione frazionata e nessun provvedimento cautelare fino alla sentenza di primo grado.
… agire sulla certezza delle regole…
Al crescere dell’aspettativa che sopravvengano condoni e sanatorie, cresce la propensione ad evadere.
Da questo punto di vista, la storia degli ultimi trent’anni del nostro Paese ha insegnato ai contribuenti italiani che l’effetto sinergico, tra la bassa probabilità di essere assoggettati ad accertamento individuale e la
tutto sommato alta possibilità che sopraggiunga un condono o una sanatoria con cui sistemare “a prezzi
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Assemblea 2011
di saldo” il pregresso, è un fattore di valutazione che a tutto può spingere, meno che ad adempiere spontaneamente.
Serve un cambio di passo che testimoni in modo chiaro ed univoco la volontà di voltare definitivamente
pagina e dare al rapporto tributario i crismi della certezza e della ineluttabilità sia per quel che attiene i
doveri del contribuente, sia per quel che attiene, per evidenti necessità di simmetria, i suoi diritti.
Nell’ultimo Documento Economico Finanziario presentato dal Ministro dell’Economia Giulio Tremonti,
insieme al Primo Ministro Silvio Berlusconi, è stata dichiarata la volontà di proporre l’inserimento nella
Costituzione di un espresso richiamo al vincolo del rispetto delle coperture di bilancio, al fine di dare un
segnale chiaro di definitivo abbandono della “politica del deficit” che ha caratterizzato il passato, fino a
quello più recente.
È un segnale non solo formale, perché con l’innalzamento di un principio al rango costituzionale la maggioranza politica di turno si spossessa della possibilità di tornare sui suoi convincimenti per mere ragioni
di opportunismo elettorale a breve termine, avendo a quel punto bisogno di convergenze parlamentari
assai più ampie sulla necessità di derogare a tali principi.
Ci troviamo assolutamente d’accordo con questa impostazione e, non a caso, già in occasione del nostro
Congresso nazionale di Napoli, lo scorso ottobre 2010, abbiamo avanzato una proposta di legge che parte
dai medesimi convincimenti anche se per l’appunto declinata con riguardo non già alle politiche di bilancio, ma con riguardo al rapporto tributario tra Stato e cittadini.
Abbiamo infatti proposto, e in questa sede ne ribadiamo l’opportunità, che venga elevato al rango di norma
costituzionale lo statuto che fissa i diritti del contribuente (oggetto di infinite deroghe in questi suoi dieci
anni di vigenza sotto forma di legge ordinaria dello Stato) e che al contempo venga prevista la possibilità
di varare norme aventi natura di condono fiscale solo ed esclusivamente con le maggioranze necessarie
per l’approvazione di leggi costituzionali.
Lo riteniamo infatti un tassello fondamentale per far capire ai cittadini che un certo modo di fare fisco, ora
derogando ai diritti e ora derogando agli obblighi, sempre sulla base di mera logica di convenienza di brevissimo periodo, è tramontato per sempre e viene ad essere sostituito da una logica tanto semplice quanto rivoluzionaria, in forza della quale i diritti non si toccano, ma le imposte prima o poi si pagano.
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Relazione del Presidente
… LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA…
Tanto più efficace è la lotta all’evasione che lo Stato vuol mettere in campo e tanto più pervasivi sono i
poteri attribuiti ai soggetti deputati alla riscossione delle imposte, tanto maggiore deve essere l’attenzione
riposta sul fronte dell’amministrazione della giustizia tributaria.
È una equivalenza imprescindibile, se si vuole davvero garantire un rapporto tra fisco e contribuente basato sul diritto e non sulla riscossione, come è lecito presumere che invece si abbia in animo di fare, nell’istante in cui si introduce una norma, come quella sui c.d. “accertamenti esecutivi” che accelera significativamente i tempi della riscossione, senza minimamente preoccuparsi di mettere in campo misure utili ad
accelerare del pari i tempi della giustizia tributaria.
La norma che sancisce l’esecutività diretta degli accertamenti, eliminando i bizantinismi procedurali derivanti dal passaggio per l’iscrizione delle somme a ruolo e della notifica della cartella di pagamento, non è
certo improponibile di per se stessa; anzi.
Tende però a diventarlo in un sistema che non assicura alla giustizia tributaria le risorse necessarie per
tenere il passo con l’accelerazione dei tempi della riscossione, in tutti quei casi in cui il contribuente presenta ricorso.
L’Amministrazione finanziaria lavora bene, ma, come già abbiamo avuto modo di ricordare, è comunque
soggetta a vincoli di risultato che la portano talvolta ad avere un atteggiamento opposto al principio garantista secondo cui “in dubio pro reo”.
È comprensibile e per certi versi inevitabile che ciò accada, ma proprio per questo esiste una giustizia tributaria “terza” tra Amministrazione finanziaria e cittadino.
Le statistiche del 2010, recentemente presentate dal Presidente del Consiglio Superiore della Giustizia
Tributaria, Daniela Gobbi, in occasione della giornata celebrativa della giustizia tributaria, ci dicono che il
41% dei ricorsi presentati dai contribuenti si sono conclusi con il riconoscimento delle loro ragioni e dell’infondatezza della pretesa erariale.
In valori assoluti, gli importi relativamente ai quali è stata data ragione ai contribuenti sono ammontati,
sempre secondo la recente relazione del Presidente del Consiglio Superiore della Giustizia Tributaria a 5,7
miliardi di euro.
In un simile contesto, o si mette la giustizia tributaria nelle condizioni di non arrivare sistematicamente
dopo la scadenza dei termini entro cui si deve pagare il 50% anche in caso di ricorso, o si gettano le basi
perché il sistema privato delle imprese e dei cittadini finanzi ulteriormente il settore pubblico, che già finanzia con attese di anni prima di ricevere i dovuti pagamenti, con oltre 2 miliardi di euro all’anno di versamenti di imposte che si riveleranno poi non dovute, secondo il più classico e deprecabile solve et repete
che peraltro, nell’ottica delle imprese italiane che lavorano abitualmente con la Pubblica amministrazione,
va ad assommarsi a quei circa 2 miliardi di maggiori oneri che lo Stato trasla su di loro in dipendenza della
sua condotta di “cattivo pagatore” dei propri debiti commerciali.
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Assemblea 2011
Come abbiamo ricordato, il Decreto Sviluppo è intervenuto sul punto, attenuando il problema.
Attenuarlo, però, non significa averlo risolto ed il problema infatti rimane: quante saranno le istanze di
sospensione giudiziale della riscossione, su cui le Commissioni tributarie si pronunceranno oltre il termine
di 120 giorni individuato dal Decreto Sviluppo, lasciando così intatto quel solve et repete che il legislatore
stesso riconosce essere tale, chiamandolo per nome e cognome nel testo stesso del Decreto?
E, comunque, anche laddove l’istanza di sospensione giudiziale fosse tempestivamente esaminata, non
dimentichiamoci che, in assenza di un grave pregiudizio reale per il contribuente, la sospensione non viene
comunque concessa.
Così come già a fine 2010 ci era chiaro quel rischio di percezione di “oppressione fiscale” che sembra oggi
da tutti condiviso, possiamo assicurare che ci è altrettanto chiaro il rischio di un “chi troppo vuole, nulla
stringe” che sconteremo nel rapporto tra fisco e contribuenti degli anni a venire e che, alla fine, si rifletterà pure in negativo sul livello di evasione fiscale nel Paese, perché alimenterà a dismisura la percezione di
un fisco non equo ed efficiente, ma iniquo e feroce.
Non fateci dire “l’avevamo detto, noi”, perché quello che ci interessa non è piantare inutili e autoreferenziali bandierine, bensì poter essere utili al Paese; e l’utilità al Paese si determina solo quando c’è la possibilità di dire “l’abbiamo fatto, insieme”.
Ciò premesso, appare chiaro che l’intervento di riforma della giustizia tributaria, proprio per le ragioni stesse che lo rendono opportuno, non dovrebbe indirizzarsi verso logiche di diminuzione dei gradi di giudizio
attualmente previsti, ma piuttosto verso un miglioramento della qualità e della capacità operativa del sistema di tutele giurisdizionali oggi esistente.
In una fase storica in cui, giustamente, si aumentano i poteri e l’efficacia dell’azione dell’Amministrazione
finanziaria, sarebbe davvero assurdo depotenziare le tutele giurisdizionali, dovendo semmai queste ultime
essere del pari potenziate, prevedendo organici adeguati e livelli di competenza e specializzazione crescenti che soltanto una magistratura tributaria professionalizzata, nel vincolo della composizione multidisciplinare tra togati e laici di estrazione formativa sia giuridica che economica, può garantire.
La previsione di una fase di mediazione obbligatoria ci convince appieno, ma soltanto se concepita come
fase prodromica al processo tributario e non come fase sostitutiva di uno dei due attuali gradi di giudizio
di merito.
Dal nostro punto di vista, non è il primo grado di giudizio a doversi trasformare in mediazione, ma la fase
pre-contenziosa dell’accertamento con adesione: la centralità di questo istituto meriterebbe infatti che esso
si svolgesse alla presenza di un mediatore, terzo sia rispetto al contribuente e chi lo assiste, sia rispetto
all’Agenzia delle entrate.
Quello che oggi manca alla giustizia tributaria, per poter fare il salto di qualità necessario al fine di mantenersi al passo con il sistema dell’accertamento fiscale e della riscossione coattiva dei tributi, è anzitutto una
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Relazione del Presidente
dotazione finanziaria adeguata, tenuto anche conto di quanto lo Stato investe per fare accertamento e
riscossione, rispetto a quanto investe per fare giustizia.
Basti soltanto pensare che nel bilancio previsionale dello Stato per l’anno finanziario 2010:
• le somme stanziate per fare accertamento, ossia per far fronte agli oneri di gestione dell’Agenzia delle entrate, ammontano a circa 2.865 milioni di euro;
le
• somme stanziate per fare riscossione, ossia per compensi ad Equitalia, ammontano a circa 325 milioni
di euro;
• le somme stanziate per fare giustizia, ossia per compensi ai giudici tributari e per il funzionamento delle commissioni, ammontano a circa 70 milioni di euro.
Una dotazione finanziaria adeguata a favore del sistema della giustizia tributaria è indispensabile anzitutto
per consentire la formazione di una magistratura tributaria professionale, intendendo per tale non una
magistratura formata esclusivamente da togati, bensì una categoria di giudici tributari formata da persone
con riconosciute competenze specifiche in materia che svolgono l’attività di giudice tributario in modo, se
non esclusivo, quanto meno prevalente e comunque mai residuale.
La multidisciplinarietà sottostante a larga parte dei contenziosi di natura tributaria rende infatti auspicabile
che i collegi mantengano una composizione mista tra togati e liberi professionisti, garantendo il giusto mix
di competenze giuridico-economiche.
La formazione di una magistratura tributaria professionale, intesa non nel senso della forma del tipo di rapporto di lavoro, ma nel senso della sostanza del livello di competenza, passa anche attraverso:
• l’apertura ai giudici non togati dei percorsi di carriera per l’accesso alle cariche direttive e semi-direttive di presidente di commissione e presidente di sezione;
il
• reclutamento dei giudici tributari mediante criteri di selezione meno improntati al criterio dell'anzianità per
i titoli di servizio e volti ad una maggiore valorizzazione dei titoli accademici, di studio e di aggiornamento
professionale, attribuendo, sia per i giudici togati che non, valore abilitante ai soli titoli comprovanti una competenza specifica nella materia tributaria, anziché, come accade attualmente, nelle materie giuridiche in generale;
la
• rimozione dell’obbligo, per il giudice tributario, di stabilire la residenza nella regione nella quale ha sede
la commissione tributaria;
• l’attenuazione del regime di incompatibilità per chi si limita a svolgere attività di consulenza tributaria che si
esplica esclusivamente nella redazione di pareri su specifiche questioni sottoposte alla sua valutazione e non
si estende all’assistenza dei contribuenti nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria o nelle controversie
di carattere tributario;
• l’introduzione dell’obbligo di formazione continua per tutti i giudici tributari.
Per quanto concerne invece la questione della revisione dei modelli remunerativi dei giudici tributari,
secondo criteri idonei a valorizzarne la maggiore professionalità e competenza specifica cui anche le predette proposte di riforma sono funzionali, si condivide lo spirito delle proposte che emergono dall’apposito “Progetto Finanziario di Rimodulazione Compensi dei Giudici Tributari”, approvato dal Consiglio di
Presidenza della Giustizia Tributaria nella seduta del 15 febbraio 2011.
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Assemblea 2011
In particolare, di tale documento si condivide:
• sia la logica dell’incremento delle remunerazioni dei giudici tributari attraverso un consistente adeguamento della componente fissa e attraverso una modulazione della componente variabile che valorizzi maggiormente lo specifico impegno profuso da ciascun componente del collegio nella predisposizione dei singoli provvedimenti;
sia
• la logica di concorso alla copertura delle maggiori spese per il bilancio dello Stato attraverso la previsione di un contributo unificato sostitutivo delle imposte di bollo e dei diritti di segreteria, modulato in funzione del valore della causa oggetto di trattazione.
Inoltre, al fine di accelerare la definizione delle liti di minore importo e di recuperare risorse, anche in termini finanziari, che potrebbero essere utilizzate per migliorare anche l'efficacia della giustizia tributaria, si
propone l'introduzione del "giudice unico" per le controversie in primo grado di importo non superiore a
2.000 euro.
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Relazione del Presidente
… LA MEDIAZIONE CIVILE …
Dalla giustizia tributaria, il passo alla giustizia civile è breve quanto naturale.
Quanto la mediazione civile obbligatoria possa essere davvero una riforma innovativa e strutturale del sistema della giustizia italiana, lo dimostrano le incredibili resistenze che stanno ancora oggi accompagnando
uno strumento in cui, invece, i commercialisti italiani hanno creduto fin dall’inizio, sostenendolo con forza
in ogni fase delicata – e sono state molte e continueranno probabilmente ad essercene - del dibattito che
lo ha riguardato.
Al di là di tutto, una cosa dobbiamo riconoscerla: il Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha sempre
tenuto un comportamento propositivo, in cui la doverosa ricerca di una sintesi non ha mai ceduto il passo
alla tentazione di fare una riforma che non fosse una riforma, come invece accade sovente in questo
Paese, dove la regola d’oro è cambiare tutto per non cambiare niente.
Sono molte le cose che si potrebbero dire sulla strumentalità delle proteste che hanno accompagnato e
stanno accompagnando l’istituto della mediazione civile obbligatoria.
Si pensi ad esempio alle richieste di rinvio e sospensione, perché non si era pronti.
I commercialisti italiani hanno impiegato proficuamente l’anno di tempo che, appositamente, era stato previsto dalla legge introduttiva prima che l’istituto entrasse in vigore lo scorso marzo 2011.
Non si sono attardati in battaglie di retroguardia su chi può fare che cosa, nella segreta convinzione che
tanto, alla mal parata, il Ministro avrebbe all’ultimo momento rinviato l’entrata in vigore della mediazione.
Il Consiglio nazionale e gli Ordini territoriali hanno lavorato alacremente per farsi trovare pronti e, grazie alla
risposta di tutti gli iscritti, la categoria si è fatta trovare pronta.
Da un sondaggio compiuto alla fine di marzo 2011 dall’Istituto di Ricerca dei dottori commercialisti e degli
esperti contabili, cui hanno risposto circa 3.000 colleghi, è emerso come:
• l’89,5% dei commercialisti intervistati è “favorevole” o “molto favorevole” alla mediazione civile obbligatoria;
• il 69,3% dei commercialisti intervistati la ritiene anche una concreta opportunità professionale;
• il 27,0% dei commercialisti intervistati abbia già acquisito la qualifica di mediatore.
Probabilmente è una questione di forma mentis ed è indubbio che il commercialista ha nel suo Dna professionale la logica della composizione di interessi tra loro contrapposti, piuttosto che l’esasperazione delle
loro contrapposizioni.
Se tutti gli attori diretti ed indiretti dello scenario mediazione civile avessero accolto questo tentativo concreto di cambiare una situazione ormai insostenibile del sistema giustizia con la stessa positività dei commercialisti italiani, lo scenario sarebbe ben diverso e le possibilità di successo sarebbero enormemente
maggiori.
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Assemblea 2011
I commercialisti italiani hanno prontamente costituito un ente nazionale, la Fondazione ADR
Commercialisti, accreditato dal Ministero della Giustizia quale organismo di mediazione.
Ad oggi, sono arrivate circa 40 domande di accreditamento, quali organismi di mediazione, da parte degli
Ordini territoriali dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e sono comunque oltre 80 gli Ordini
che hanno già dichiarato di voler costituire l’organismo di mediazione.
Sono stati formati oltre 7.000 commercialisti quali mediatori, ma il numero è in continua crescita perché
quotidianamente si tengono corsi di formazione.
Il risultato, già oggi, è che, su 300 organismi di mediazione accreditati, sono circa 100 quelli in cui risultano coinvolti i commercialisti italiani.
Non tutti, come detto, hanno approcciato questa novità con la stessa positività.
Se però alcune reazioni di chiara matrice corporativa sono assolutamente comprensibili, seppur non condivisibili per una categoria che mette l’utilità al Paese al centro del proprio agire strategico-relazionale, ciò
che stupisce maggiormente sono le reazioni di una parte del mondo politico, secondo cui con la mediazione civile obbligatoria si andrebbe a privatizzare la giustizia.
Semmai, proprio le reazioni di fortissima opposizione e ben delineata provenienza a questa innovazione
sono la prova più inconfutabile che la giustizia viene concepita da alcuni come un fatto di proprietà privata e misure come questa portano semmai al risultato di privatizzarla.
Nel recente colloquio avuto con il Ministro Alfano, da lui richiesto per conoscere l’opinione dei commercialisti italiani sull’evoluzione delle vicende in materia di mediazione civile obbligatoria, questo Consiglio
nazionale ha espresso il suo “no” più fermo a qualsivoglia ipotesi di sospensione dell’istituto e a qualsivoglia ipotesi di abbandono della sua natura obbligatoria.
Abbiamo espresso anche le nostre perplessità sull’ipotesi che possa essere introdotto l’obbligo di assistenza legale nell’ambito della procedura di mediazione.
Se avessimo ragionato esclusivamente come liberi professionisti interessati a difendere i propri interessi di
parte, avremmo anche potuto limitarci ad esprimere i due “no” cui abbiamo fatto cenno, perché è chiaro
che, se vedessimo l’intera questione della mediazione esclusivamente in un’ottica di nuove opportunità
professionali, è la sua operatività e la sua obbligatorietà che dobbiamo difendere.
Poiché, però, come abbiamo sempre rivendicato con orgoglio in questi anni, i commercialisti italiani sanno
porsi nell’ottica dei cittadini, prima ancora che di liberi professionisti, quando interloquiscono con il Paese
su cosa ritengono giusto o sbagliato, utile o dannoso, abbiamo ritenuto doveroso porre l’accento sul fatto
che una simile previsione traslerebbe sul cittadino la percezione di una moltiplicazione degli oneri imposti per avere giustizia, anziché la possibilità di una loro diminuzione.
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Relazione del Presidente
I commercialisti italiani non dubitano affatto che un numero rilevante di mediazioni avvengono e avverranno in ogni caso con l’assistenza tecnica di legali.
Viene da pensare che ne dubitino proprio coloro che vedono come indispensabile una obbligatorietà che,
in una fase pregiudiziale quale è quella della mediazione, non ha davvero nulla a che vedere con la tutela dei diritti di difesa del cittadino.
Così ragionando, bisognerebbe allora concludere che, ogni qual volta un cittadino negozia un suo diritto
disponibile, deve essere necessariamente assistito da un legale.
Ci rendiamo conto che una simile logica è meno lontana di quanto sarebbe opportuno nel modo di pensare di alcuni pochi, ma qual è il vantaggio per gli altri molti dall’assecondare simili pretese prive di qualsivoglia ragionevolezza e attenzione per il bene comune?
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Assemblea 2011
… UN ACCENNO ALLA QUESTIONE DELLA REVISIONE LEGALE…
Dalla mediazione civile obbligatoria alla revisione legale il passo può sembrare meno breve e immediato
di quello che abbiamo fatto per passare dal tema della giustizia tributaria a quello della mediazione, ma
in realtà è un’illusione ottica, perché è vero semmai il contrario.
Soprattutto ciò che concerne gli aspetti organizzativi e strutturali della formazione obbligatoria cui sono
chiamati gli iscritti al Registro dei revisori legali e del percorso di accesso per essere iscritti in tale registro,
sono questioni che attengono prettamente alla giustizia.
Perché si darebbe luogo a una vera e propria ingiustizia qualora si ritenesse che il percorso di accesso alla
professione di dottore commercialista ed esperto contabile, svolto sotto l’egida di un commercialista iscritto anche al Registro dei revisori legali, nonché la formazione continua valida ai fini del nostro Albo, non
valesse anche ai fini dell’accesso al Registro dei revisori legali e all’espletamento dei relativi obblighi formativi.
Il D.lgs. 39/2010 ha rinviato moltissimi aspetti cruciali per la nostra Professione a decreti attuativi di cui
ancora si hanno informazioni frammentarie e talvolta contraddittorie.
Circa un anno fa, di questi tempi, in occasione della nostra precedente assemblea annuale, avevamo sottolineato come autorevoli esponenti del MEF (cui compete ora la vigilanza sul registro, in luogo del
Ministero della Giustizia) avevano detto chiaramente, sollecitati dal sottoscritto in occasione di pubblici
dibattiti anche televisivi, che non vi era alcuna intenzione di sottrarre la tenuta del registro alla nostra professione, non fosse altro perché essa ha operato in questi anni con efficienza ed economicità.
Parallelamente, ci eravamo detti assolutamente convinti che, nell’ambito degli appositi regolamenti attuativi, sarebbero senza dubbio stati contemplati, tra i casi di equipollenza per l’accesso al registro e la formazione, l’esame di Stato per l’abilitazione dell’esercizio alla professione del dottore commercialista e
dell’esperto contabile, nonché i relativi obblighi di formazione continua regolarmente adempiuti dagli
iscritti.
A distanza di un anno, però, siamo ancora in un limbo che crea sempre maggiori perplessità e alimenta
inevitabilmente qualche preoccupazione.
Pur nella notevole importanza di entrambi gli aspetti, se quello concernente la tenuta del registro ha una
valenza più formale, quello che attiene i percorsi di accesso e la formazione ha una valenza assolutamente sostanziale.
Fino a quando dovremo attendere per avere quelle risposte che da oltre un anno andiamo sollecitando?
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Relazione del Presidente
… CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
I tanti temi trattati sono solo una minima parte delle molteplici questioni che vedono impegnata in prima
fila la nostra categoria e, per suo conto, questo Consiglio nazionale.
Come in ogni occasione in cui la categoria si apre al resto del Paese, abbiamo preferito porre l’accento
sulle questioni che non riguardano noi soltanto, ma rispetto alle quali la competenza e professionalità dei
commercialisti italiani possono giocare un ruolo importante per la collettività, oltre che per i commercialisti stessi.
Abbiamo fatto una piccola eccezione per le questioni da ultimo affrontate, connesse all’accesso al Registro
dei revisori legali, la sua tenuta e la formazione continua obbligatoria degli iscritti, ma proprio questa eccezionalità serve a far capire alla politica, che oggi ci ascolta, quanto queste problematiche siano sentite dalla
nostra Professione.
Una Professione che accomuna oggi 112.164 cittadini di questo Paese: questo è infatti il numero degli
iscritti all’Albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili su base nazionale alla data del 31 dicembre 2010, quale risultante dal Rapporto Annuale 2011 predisposto dal nostro Istituto di Ricerca.
Nel pomeriggio, dedicato come di consueto al dibattito interno, non mancherà occasione di approfondirle ulteriormente, così come affrontare altre problematiche squisitamente proprie del nostro ordinamento
professionale e della dialettica interna che sempre caratterizza una comunità viva e vitale quale la nostra
può a pieno titolo fregiarsi di essere.
Prima di concludere questa relazione, ritengo però doveroso tornare al tema del video con cui abbiamo
scelto di aprire questa nostra Assemblea: i centocinquanta anni di storie dell’Unità d’Italia.
Centocinquanta anni di storie e non di storia, perché la storia è il passato, ma le storie continuano a fluire.
Dobbiamo essere orgogliosi del nostro passato e dobbiamo celebrarlo per ricordare a noi stessi il dovere
di costruire un futuro che possa un giorno essere celebrato, con ancora maggiore orgoglio e convinzione,
dai nostri figli.
L’unità è sempre un valore che merita di essere difeso e sostenuto per quanto ciò possa essere ovviamente possibile: l’unità di una famiglia, come quella di una nazione, o di una comunità di individui quale può
essere anche una comunità professionale, come quella rappresentata dai dottori commercialisti e dagli
esperti contabili.
Una comunità professionale che, come si legge tra i numeri del Rapporto Annuale 2011 già precedentemente richiamato, conosce anch’essa le difficoltà proprie di un ciclo economico negativo e vede in particolar modo soffrire il Meridione ed i giovani.
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Assemblea 2011
Una comunità che però non rinuncia per questo al suo approccio aperto e al desiderio di coltivare anzi
progetti importanti di solidarietà, come del resto testimoniato dalla recente costituzione di Communitas,
l’Associazione per il cui tramite ambiamo a dare forma ed impulso alla grande attenzione che i dottori commercialisti e gli esperti contabili italiani ripongono da sempre nel sociale.
Per la nostra comunità professionale, l’unità è un germoglio che ha appena iniziato a mettere radici e
necessita quindi di grandi cure ed attenzioni, in special modo fino a quando non sarà concluso un periodo transitorio che, nelle norme del nostro ordinamento professionale, possiamo a posteriori dire essere
stato previsto con tempi assai più lunghi di quelli che la capacità dei singoli ha dimostrato che sarebbero
stati sufficienti.
Tra le tante storie dell’Unità d’Italia e di unità italiana, tuttavia, anche quella della nostra Professione, nel
suo piccolissimo, è lì per testimoniare come se dividi un intero ottieni due metà, ma se unisci due elementi distinti puoi ottenere più della loro mera sommatoria.
È qualcosa di cui dobbiamo essere tutti orgogliosi e consapevoli.
Un orgoglio e una consapevolezza di successo nell’unità che, come sempre cerchiamo di fare, ma a maggior ragione in questo caso, possiamo dunque declinare sia come cittadini che come liberi professionisti
di questo Paese.
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“Italia significa Verdi, Puccini, Tiziano, Antonello da Messina.
Io non penso che Tiziano sia nato lassù e Antonello da Messina sia nato laggiù:
per me sono due italiani”
Riccardo Muti
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