Riccardo II

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Riccardo II
^ William ^
Riccardo ii
Ho gettato via il tempo,
ed ora il tempo
getta via me.
CD
Cura e introduzione
di Gabriele Baldini
Con un testo
di Harold Bloom
Estratto della pubblicazione
^ William ^
Opere
Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico
letterario e cinematografico, è stato direttore dell’Istituto Italiano di
Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma.
La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici
in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilievo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John
Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di
una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare,
in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate
(Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro
inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizione letteraria dell’Inghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –,
le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Manualetto shakespeariano.
Estratto della pubblicazione
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DI'ABRIELE"ALDINI
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Estratto della pubblicazione
WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE
15 – Riccardo II
Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera
© 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano
via Solferino 28, 20121 Milano
Sede Legale via Rizzoli 8, 20132 Milano
Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli
ISBN 9788861261525
9788
Proprietà letteraria riservata
© 1953-2012 RCS Libri S.p.A., Milano
Titolo originale dell’opera:
The Tragedy of King Richard the Second
Traduzione e note di Gabriele Baldini
Per il testo di Harold Bloom tratto da Shakespeare. L’invenzione dell’uomo
© 2001 RCS Libri S.p.A.
Titolo originale dell’opera:
Shakespeare: the Invention of the Human
© 1998 by Harold Bloom
Traduzione di Roberta Zuppet
Prima edizione digitale 2012 da edizione WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE 2012
Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Estratto della pubblicazione
PRESENTAZIONE
di Harold Bloom
Questo dramma lirico forma un trio con Romeo e Giulietta, una tragedia lirica, e con Il sogno di una notte di
mezza estate, la più lirica tra le commedie. Benché sia la
meno popolare fra le opere citate, Riccardo II è eterogenea
ma superba ed è il migliore tra tutti i drammi storici di
Shakespeare, fatta eccezione per la Falstaffiade, composta
dalle due parti di Enrico IV. Gli studiosi hanno denominato Enriade la tetralogia formata da Riccardo II, dalle due
parti di Enrico IV e da Enrico V, ma al termine di Riccardo
II Hal viene definito un buono a nulla dal padre, l’usurpatore Bolingbroke, e nelle due parti di Enrico IV il principe
svolge un ruolo secondario rispetto al titanico Falstaff. A
mio parere l’Enriade comprende soltanto Enrico V, perché in quell’opera il vivace Falstaff rimane lontano dalla
scena, anche se il discorso più vivido del testo è il racconto della morte del cavaliere da parte di Mistress Quickly.
Anche in Riccardo II si sente la mancanza di Falstaff, la
cui assenza priva il dramma del principale punto di forza
shakespeariano, l’invenzione comica dell’umano. L’autore,
che amava sperimentare nuovi metodi, scrisse Riccardo II
come una lirica metafisica allargata, concetto che parrebbe
impossibile applicare a un dramma storico. Ma per Shakespeare tutto è possibile.
Riccardo II è un re cattivo e un interessante poeta metafisico; i due ruoli sono antitetici, tant’è vero che la sua sovranità diminuisce man mano che la sua poesia migliora. Alla fine,
è un re morto, prima costretto ad abdicare e quindi assassinato, ma quel che ci riecheggia nelle orecchie è il suo finto
Estratto della pubblicazione
lirismo metafisico. Sovrano sciocco e inetto, vittimizzato sia
dalla propria psiche e dal proprio straordinario linguaggio
sia da Bolingbroke, Riccardo non conquista tanto la nostra
comprensione quanto la nostra riluttante ammirazione estetica per il tramonto della sua musica cognitiva. È insieme
un politico incompetente e un maestro della metafora. Se
Riccardo II non è convincente come tragedia (a parere del
dottor Johnson), ciò accade perché l’opera studia il declino
e la caduta di un eccellente poeta, che, guarda caso, è anche
un essere umano inetto e un pessimo re. È meglio considerare Riccardo II più una cronaca che una tragedia e vedere il
protagonista non come un cattivo o un eroe, bensì come una
vittima, soprattutto della propria indulgenza verso se stesso,
ma anche del potere della propria immaginazione.
Nel dramma non troviamo alcun brano in prosa, in parte perché non vi è un Falstaff a recitarlo. Benché Gaunt e
altri personaggi pronuncino discorsi pregevoli, Shakespeare
si concentra quasi esclusivamente su Riccardo. Bolingbroke,
l’usurpatore, non possiede quasi alcuna interiorità e marcia
inesorabile dalla politica al potere senza destare il nostro interesse. Sono d’accordo con Graham Bradshaw nell’affermare
che il personaggio shakespeariano dipende dai legami e dai
contrasti stabiliti all’interno di determinati drammi, perché, nei suoi momenti di maggior forza, la rappresentazione
shakespeariana è in grado di spezzare tutti i legami e offuscare
tutti i contrasti. Riccardo non è poi una rappresentazione
tanto forte, motivo per cui rientra in quella che potremmo
chiamare legge di Bradshaw: Bolingbroke è il contrasto necessario senza il quale Riccardo non sarebbe Riccardo, l’autodistruttore lirico.
Lo stesso protagonista ribadisce più volte quest’idea mediante potenti metafore. L’orizzonte trascendentale oltre il
quale la legge di Bradshaw non potrebbe funzionare non esiste in Riccardo II che, a differenza del Sogno di una notte di
mezza estate e Romeo e Giulietta, non contiene alcun elemento
trascendentale paragonabile al sogno di Bottom e alla generosità di Giulietta. L’immaginazione del sovrano è intrappolata
nella prigione solipsistica del suo irascibile io, anche quando,
in veste di re consacrato, il protagonista invoca la sacralità
del proprio ruolo. Nonostante l’opinione di molti studiosi,
Shakespeare non dedica la sua arte a un profondo riconoscimento della sovranità come fattore trascendentale. L’idea
dei due corpi del re, uno naturale, l’altro quasi sacramentale,
viene espressa più volte da Riccardo, ma la sua testimonianza
è a dir poco equivoca. Anche le celebrazioni della sovranità
contenute in Enrico V ed Enrico VIII presentano le loro sottili
ironie. È impossibile attribuire a Shakespeare una posizione
precisa, sia essa politica, religiosa o filosofica. Nei drammi vi è
sempre qualcosa che preannuncia la spiegazione nietzschiana
della metafora: il desiderio di essere diversi, il desiderio di
trovarsi altrove.
Per i lettori e gli spettatori moderni, una caratteristica curiosa di Riccardo II è il suo straordinario formalismo. Forse
perché la sua unica azione è un’abdicazione rimandata, cui
segue l’assassinio del re, questo dramma è l’opera shakespeariana più convenzionale prima di Enrico VIII e dei Due
nobili congiunti. Talvolta il formalismo funziona perfettamente, come accade nella scena dell’abdicazione, ma in altri
casi ci lascia perplessi. Ecco Riccardo e la Regina che si dicono addio per sempre:
Regina. E dobbiamo essere divisi? Dobbiamo separarci?
Riccardo. Sì, amor mio: la mano dalla mano, il cuore dal
cuore.
Regina. Esiliateci entrambi, e mandate il re insieme con me.
Northumberland. Sarebbe in un certo senso amore, ma
cattiva olitica.
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Regina. Allora lasciate che vada anch’io dov’egli va.
Riccardo. Così due, piangendo insieme, fanno un solo
dolore.
Tu va a piangere per me in Francia. Io piangerò per te qui.
Estratto della pubblicazione
Meglio lontani che vicini quando la felicità resta più che
mai lont
ana.
Va’; tu misura i tuoi passi con i sospiri, io i miei con i
lamenti.
Regina. Così il viaggio più lungo avrà i più lunghi
lamenti.
Riccardo. Gemerò due volte ad ogni passo perché il mio
viaggio è più breve,
e col cuore grave lo renderò più lungo.
Vieni, su, siamo brevi nel corteggiare il dolore
giacché sarà tanto lungo il dolore che sposeremo.
Un bacio ci chiuderà la bocca e ci separeremo in silenzio:
così ti do il mio cuore, e così mi prendo il tuo.
Regina. Restituiscimi il mio cuore; non sarebbe bene
che m’impegnassi a tenermi il tuo per ucciderlo.
Ecco, ora che ho di nuovo il mio, va’,
perché io possa tentare di ucciderlo con un gemito.
Riccardo. Facciamo del dolore un gioco frivolo
indugiando in queste tenerezze.
[V.i.81-102]
Il brano citato qui sopra è dotato di grande eleganza formale,
e le sue frasi solenni possono essere lette come espressioni di
riserbo e nobile dignità, caratteristiche che accomunano la
coppia reale. Vi sono inoltre alcune convenzioni letterarie che
Shakespeare rispetta per l’intero passo, sfruttandole, quando
è necessario, per ottenere un esito a volte ironico grazie alle
variazioni di tono. A differenza di Romeo e Giulietta, in cui
l’effetto è travolgente, Riccardo II cerca di distanziarci il più
possibile dal pathos. Ci stupiamo di Riccardo, ammiriamo il
suo linguaggio, ma non soffriamo mai insieme a lui, nemmeno quando viene deposto e in seguito ucciso. Questo è il più
controllato e stilizzato tra i drammi storici. Si tratta essenzialmente di un’opera sperimentale, che cerca i limiti del lirismo
metafisico e si rivela molto efficace se ne accettiamo i termini
piuttosto rigorosi.
2
Ignorando bellamente il Riccardo degli atti I e II, Walter Pater elogia il regale masochista degli atti III, IV e V definendolo un «poeta squisito». Non dobbiamo mai sottovalutare
le ironie di Pater; il grande critico dell’Aesthetic Movement
non era affatto interessato ai moralismi e sapeva bene che
Riccardo era un uomo vuoto, ma intendeva giudicare un poeta solo in quanto poeta. Come disse lui stesso con insolito
vigore: «No! I re di Shakespeare non sono, e non sono nati,
per essere grandi uomini». Vari critici illustri affermano che
Riccardo II non è e non è nato per essere un grande e nemmeno un buon poeta. A.P. Rossiter pensa che il sovrano sia «un
poeta davvero mediocre», e Stephen Booth afferma che non
è in grado di distinguere la manipolazione delle parole dalla
manipolazione delle cose. Riccardo II è ricco di ironie sintattiche e metaforiche, e Shakespeare sembra volerci mettere in
difficoltà di fronte a ogni frase pronunciata dai personaggi
del dramma. Almeno da questo punto di vista, l’opera è un
preludio ad Amleto. Infatti, solo di rado il principe danese
vuol dire quel che dice e dice quel che vuol dire; come ho
osservato in precedenza, Amleto preannuncia l’affermazione
di Nietzsche, secondo cui troviamo le parole solo per ciò che è
già morto nel nostro cuore e nell’atto del parlare vi è dunque
sempre una sorta di disprezzo. Quando, nell’atto V, Riccardo
comincia ad assomigliare a una parodia prolettica di Amleto,
diffidiamo più che mai del re, ma ci accorgiamo anche che
il protagonista tenta di abbagliarci sin dall’atto III, scena ii,
anche se con uno splendore esclusivamente verbale. Da quel
momento in avanti, le iperboli di Riccardo sono così complesse che a volte mi domando se Shakespeare avesse letto
alcune delle poesie giovanili di Donne, che rimasero inedite fino alla pubblicazione di Canzoni e sonetti, avvenuta nel
1633, due anni dopo la morte di Donne. Ciò è, ahimè, molto
improbabile; Riccardo II fu scritto nel 1595, e, anche se di
Estratto della pubblicazione
certo Shakespeare lesse qualche componimento di Donne,
messo in circolazione gratuitamente sotto forma di manoscritto, è più verosimile che siano state le Elegie ovidiane a
trasformarsi in Canzoni e sonetti. Non ha alcuna importanza,
poiché Shakespeare inventa la poesia metafisica nei pianti e
nei soliloqui del sovrano; forse Donne assistette a una rappresentazione di Riccardo II, e l’influenza (o la parodia) andò
così nell’altra direzione. In un modo o nell’altro, i due metodi
hanno molto in comune, sebbene Donne sia il vero poeta
metafisico e Riccardo sia un rapsodo noioso e problematico
del martirio regale. I suoi paragoni tra se stesso e Gesù sono intollerabili, anche se, sul piano tecnico, non appaiono
blasfemi, poiché il re non crede di condividere qualcosa con
Cristo se non il fatto di essere l’eletto di Dio.
Dal momento che non possiamo amare Riccardo e nessuno riuscirebbe ad amare l’usurpatore Bolingbroke, Shakespeare non ha difficoltà a distanziarci dalle uniche due azioni
del dramma, l’abdicazione e l’assassinio. A prescindere dal
giudizio dei critici sul talento poetico del re, gli ultimi tre
atti dipendono quasi del tutto dall’originalità e dal vigore del
suo linguaggio. Forse potremmo dire che Riccardo possiede
l’eloquenza di un grande poeta ma è carente dal punto di vista
della varietà, poiché l’unico argomento sono le sue sofferenze,
soprattutto le umiliazioni che è costretto a subire pur essendo
il sovrano legittimo. La sua condotta regale è esemplificata,
alla fine dell’atto I, dalla reazione di fronte alla malattia mortale dello zio, Giovanni di Gaunt, padre di Bolingbroke, che
ora tornerà dall’esilio per deporre Riccardo. Il vero Giovanni
di Gaunt era solo uno dei tanti aristocratici avidi, magari un
po’ più onesto degli altri, ma Shakespeare, avendo bisogno di
un oracolo per il dramma, gli assegnò il ruolo di profeta patriottico. L’atto I si conclude con l’insensibilità di Riccardo:
Ora, Dio, ispira al suo medico l’idea
di aiutarlo a scendere presto nella tomba.
Estratto della pubblicazione
La fodera dei suoi forzieri servirà a fare le giubbe
dei nostri soldati che andranno a fare la guerra in Irlanda.
Venite, signori, andiamo a fargli visita.
Preghiamo Dio di farci arrivare troppo tardi pur facendo in
fretta.
[I.iv.59-64]
Si tratta di uno splendido prologo antitetico alla famosa profezia pronunciata da Gaunt sul letto di morte, e la sua palese
malvagità fa da contrappunto alla spontaneità del nobile:
Mi pare d’essere un profeta illuminato da una nuova
ispirazione,
ed ecco il presagio che spirando faccio su di lui:
la sua sfrenata, furiosa fiammata di dissolutezza non potrà
durare
perché gl’incendi violenti si consumano presto;
le pioggerelle minute durano a lungo, ma i temporali
improvvisi hanno breve durata;
si stanca presto chi presto dà troppo di sprone;
il cibo troppo avidamente ingozzato soffoca il mangiatore
ingordo;
la follia sconsiderata, cormorano insaziato,
consumando i propri mezzi, divora rapidamente se stessa.
Questo superbo trono regale, quest’isola scettrata,
questa terra maestosa, questo seggio di Marte,
questo secondo Eden, questo mezzo paradiso;
questa fortezza che la natura s’è costruita
per difendersi dal contagio e dalla mano della guerra;
questa felice razza d’uomini, questo piccolo mondo;
questa gemma incastonata nell’argenteo mare,
il quale la protegge dall’invidia di nazioni meno felici
come una muraglia
o come il fossato d’un castello;
quest’angolo benedetto, questa terra, questo regno,
quest’Inghilterra,
questa nutrice, questo fecondo grembo di principi regali,
temuti per la loro stirpe, famosi per nascita,
celebrati per le loro imprese
al servizio della fede cristiana e della vera cavalleria,
compiute fin nella lontana caparbia Giudea,
Estratto della pubblicazione
dov’è il sepolcro del redentore del mondo, il figlio di Maria;
questa patria di tali anime generose, questa cara, cara terra,
cara per la reputazione che gode in tutto il mondo,
è ora ceduta in affitto – ne muoio a dirlo –
come un podere qualunque, come una comune cascina.
L’Inghilterra, cinta dal mare trionfante,
la cui costa rocciosa respinge l’invido assedio
dell’acquoso Nettuno, è ora assediata dalla vergogna,
da carte macchiate d’inchiostro e da ipoteche scritte su
cartapecora marcia.
Quell’Inghilterra ch’era usa a sconfiggere gli altri,
ha inflitto a se stessa un’ignominiosa disfatta.
[II.i.31-66]
Questa splendida tirata patriottica, insieme a una declamazione analoga pronunciata da Enrico V nell’omonimo dramma, ebbe la sua eco più sonora nella Londra del 1940-1941,
quando l’Inghilterra si oppose da sola a Hitler. Entrambi i
discorsi sono ammirevoli dal punto di vista dell’eloquenza,
ma sono difficili da analizzare. Shakespeare ci stupisce dicendo che questo nuovo paradiso sarà il seggio di Marte, una
divinità che di solito non viene associata all’Eden. Giovanni
di Gaunt pronuncia inoltre un’involontaria profezia ironica
(quella riguardante le crociate regali «al servizio della fede cristiana e della vera cavalleria»), poiché, alla fine del dramma,
suo figlio Bolingbroke, salito al trono con il nome di Enrico
IV dopo aver assassinato Riccardo II, giurerà di espiare l’omicidio guidando una crociata:
Farò un viaggio in Terrasanta
per lavare la mia mano colpevole di questo sangue.
La «caparbia Giudea», già devastata dai re inglesi a York e a
Gerusalemme, non aveva nulla da temere da Enrico IV, la
cui crociata si limiterà alla sua stessa morte nella sala Gerusalemme del palazzo. Il fervore dei crociati sarà ereditato da
Enrico V, che non lo sfogherà contro gli ebrei bensì contro i
francesi, come il pubblico ben sapeva. Proviamo meno simpatia per Giovanni di Gaunt nei suoi momenti profetici che
nei momenti in cui rimprovera Riccardo per i suoi saccheggi
commerciali: «Ora tu sei il padrone dell’Inghilterra, non il
re». Una volta morto Gaunt, Riccardo ne confisca senza scrupoli «il vasellame, le monete, i redditi e tutti i beni mobili».
La vendetta arriva nei panni di Bolingbroke, che giunge in
Inghilterra accompagnato da un esercito e riceve il benvenuto
di molti aristocratici. Al termine dell’atto II cominciamo a
comprendere il linguaggio della politica utilizzato nel dramma. Insieme ai suoi sostenitori, Bolingbroke afferma di essere
tornato solo per l’eredità, per diventare duca di Lancaster, titolo che un tempo era di suo padre, Giovanni di Gaunt. Tutti
sanno però che il futuro Enrico IV è tornato per la corona,
e Shakespeare tratterà approfonditamente tale ipocrisia con
magistrale abilità fino al momento dell’abdicazione forzata.
Così, mentre Riccardo è impegnato nella guerra in Irlanda,
Bolingbroke giustizia, a nome di Riccardo, tutti gli amici del
re che riesce ad acciuffare e invia messaggi affettuosi alla regina di Riccardo, il che significa che la donna è ormai prigioniera. Shakespeare ci ha preparati per uno dei maggiori colpi
di scena dell’opera, quando Riccardo, di ritorno dall’Irlanda,
sbarca sulla costa gallese, ignaro di essere già stato deposto.
3
L’autodistruzione di Riccardo II, già in fase avanzata prima
del ritorno del re, viene sancita dai discorsi e dai gesti del
suo rientro. Il suo saluto alla terra gallese, con cui implora
quest’ultima di sollevarsi contro Bolingbroke, e le parole pronunciate in difesa della propria iperbole sono infatti patetici:
Non c’è niente da ridere nella mia invocazione a cose
insensibili, signori.
Estratto della pubblicazione
Deve pure avere sensibilità questo suolo, e queste pietre
comportarsi come guerrieri armati che il sovrano della
terra natia
vacilli sotto i colpi vibrati dalle armi della turpe ribellione.
[III.ii.23-26]
Il pathos aumenta quando Riccardo paragona se stesso al sole
nascente, l’immagine meno adatta per un uomo su cui il sole
è già tramontato:
Così, quando questo ladro, questo predone, Bolingbroke,
che in tutto questo tempo s’è sfrenato di notte
mentre noi viaggiavamo agli antipodi con altri uomini,
ci vedrà sorgere all’oriente sul nostro trono,
le sue fellonie appariranno nel rossore della sua faccia,
ed egli, incapace di reggere lo sguardo del giorno,
tremerà atterrito da se stesso per il proprio peccato.
Nemmeno tutta l’acqua del mare rude e violento
può portar via il crisma d’un re consacrato.
La voce di creature terrene non può deporre
il vicario eletto dal Signore.
Per ogni uomo che Bolingbroke ha costretto
a levare il suo acciaio acuminato contro la nostra aurea
corona,
Dio per il suo Riccardo mantiene al suo soldo celeste
un angelo sfolgorante. E se gli angeli combatteranno,
gli uomini impotenti dovranno soccombere, perché
sempre il Cielo protegge il diritto.
[III.ii.47-62]
La visione delle schiere di angeli armati tradisce la curiosità di
Riccardo sulla posizione dell’esercito gallese, che si è sciolto
il giorno precedente, dopo aver udito voci sulla morte del
sovrano. Quando si accorge di essere stato abbandonato da
tutti, il protagonista si lascia andare a un’eccessiva disperazione, espressa da Shakespeare con tanta ricchezza da superare
in eloquenza i drammi precedenti:
Estratto della pubblicazione
Non importa dove sia. Nessuno dica parole di conforto.
Parliamo di tombe, di vermi, di epitaffi;
facciamo della polvere la nostra carta e con occhi che
piovon lagrime
iscriviamo il dolore sul seno della terra.
Scegliamo gli esecutori testamentari e dettiamo le nostre
ultime volontà.
E nemmeno questo, perché quale eredità possiamo
trasmettere
se non i nostri corpi distesi alla terra?
I nostri possedimenti, le nostre vite, tutto è di
Bolingbroke,
e noi non possiamo più dir nulla nostro tranne la morte,
e quel pugno di sterile terra che servirà di pasta
e involucro per il calco delle nostre ossa.
Per amor di Dio, sediamoci sul terreno
e raccontiamo tristi storie di come muoiono i re:
come alcuni siano stati deposti, altri uccisi in guerra,
altri perseguitati dagli spettri di coloro che essi avevano
deposto,
o avvelenati dalle proprie mogli, uccisi nel sonno,
assassinati tutti; perché nel cavo della corona
che cinge le tempia mortali d’un re,
la morte tiene la sua corte; lì siede quella buffona,
ne schernisce la maestà e ne irride la pompa,
concedendogli un breve respiro, una piccola parte sulla
scena,
perché tiranneggi, sia temuto e uccida con gli sguardi;
gonfiandolo di fatuo orgoglio e vane fisime,
come se questa carne, che cinge la nostra vita
come una muraglia, fosse di bronzo inespugnabile. E,
dopo averlo così illuso,
arriva alla fine e con uno spillino
perfora il muro del suo castello, e addio re!
Copritevi il capo, e non beffate la carne e il sangue
con solenne ossequio; gettate via il rispetto,
le tradizioni, le forme, la cerimoniosa riverenza,
perché in tutto questo tempo non avete fatto che
scambiarmi per quello che non sono.
Io vivo di pane come voi, sento le necessità,
Estratto della pubblicazione
provo il dolore, ho bisogno di amici come voi: se sono
come voi soggetto a tutto questo,
come potete dirmi che sono re?
[III.ii.144-177]
Per capire ciò che questo discorso non vuole essere, pensate
al «Pompa regale, ecco la tua medicina!» di Lear. Nel riconoscimento della mortalità umana da parte del grande Lear, vi è
un’apertura verso tutti gli altri, verso i poveri nudi miserabili,
ovunque essi siano, che subiscono l’impietosa tempesta insieme a lui. Riccardo si apre solo a Riccardo e a tutti i sovrani
uccisi prima di lui. Si apre però anche alla più nobile poesia,
con un’intensità vernacolare che ci lascia di stucco:
Per amor di Dio, sediamoci sul terreno
e raccontiamo tristi storie di come muoiono i re.
Ancor più efficace è quel «e con uno spillino», un tocco di nuova grandezza poetica. Il tono masochista del lungo discorso si
illumina quando Riccardo apprende che anche il duca di York,
suo reggente, si è schierato dalla parte di Bolingbroke, tanto che
i sostenitori del re sono ormai ridotti a un misero gruppetto:
[Ad Aumerle] Ti colga un malanno, cugino, che m’hai
distolto
dal dolce sentiero sul quale m’ero avviato verso la
disperazione.
[III.ii.204-205]
A questo punto, la disperazione di Riccardo si accresce, inventando forse quella che è diventata un’ulteriore caratteristica dell’umano, la nostra tendenza a parlare come se le cose
non potessero andare peggio, e, dopo aver origliato il nostro
stesso discorso, a peggiorarle. Riccardo si trasforma nell’antitesi di Edgar, l’anti-Riccardo di Re Lear, che ci commuove
con il suo grande discorso all’inizio dell’atto IV:
Estratto della pubblicazione
Però è meglio così, sapere che si è disprezzati
piuttosto che essere disprezzati e adulati a un tempo.
L’essere il peggio, la cosa più infima e infamata dalla sorte
fa pur sempre sperare, e non temere.
I cambiamenti davvero lamentevoli sono dal meglio;
dal peggio si ritorna alla risata. Sii dunque benvenuta,
aria senza sostanza che ora abbraccio!
Il disgraziato che hai sospinto al peggio
nulla deve alle tue raffiche.
[Re Lear, IV.i.1-9]
Qui e altrove, il lettore si chiede se i contrasti tra Riccardo
II e re Lear non siano voluti. Riccardo non riesce a credere
che «dal peggio si ritorna alla risata» più di quanto riesca
a imitare le sgomente preoccupazioni di Lear per gli altri
esseri umani. Edgar si pone su un piano ancor più sublime rispetto a Riccardo quando guarda il padre accecato: «Il
peggio non è peggio finché si può ancor dire “Questo è il
peggio”». Tuttavia, Riccardo non smette mai di assecondare
il gioco di Bolingbroke, cedendo un regno mentre costruisce litanie metafisiche:
Che deve fare il re adesso? Deve fare atto di sottomissione?
Il re lo farà? Deve essere deposto?
Il re si rassegnerà. Deve perdere
il nome di re? In nome di Dio vada anche quello.
Darò i miei gioielli per una corona del rosario,
il mio sontuoso palazzo per una cella d’anacoreta,
i miei sgargianti vestiti per un saio di mendicante,
i miei calici cesellati per una ciotola di legno,
il mio scettro per un bordone di palmiere,
i miei sudditi per un paio di santi scolpiti
e il mio vasto regno per una piccola tomba,
una tomba piccina piccina, una tomba oscura;
oppure mi farò seppellire in una fossa scavata sotto
una delle vie maestre del mio regno,
una via battuta da tutti, dove i piedi dei sudditi
possano ad ogni ora calpestare la testa del loro sovrano;
Estratto della pubblicazione
giacché ora che son vivo calpestano il mio cuore.
Aumerle, tu piangi, cugino dal tenero cuore!
Faremo il cattivo tempo con le nostre lagrime disprezzate;
i nostri sospiri e le nostre lagrime faranno coricare il
grano estivo
e porteranno la carestia a questa terra in rivolta.
O ci baloccheremo con i nostri dolori
e faremo una bella gara a chi versa più lagrime?
Per farle cadere tutte in un posto
e così scavarci due tombe per esserci sepolti:
«Qui giacciono due congiunti
che si scavarono la tomba con le lagrime dei loro occhi!»
Un tal pianto non farebbe colpo? Bene, bene, m’accorgo
che parlo a vanvera e tu ridi di me…
Potentissimo principe, mio signore Northumberland,
che cosa dice re Bolingbroke? Vorrà Sua Maestà
dare a Riccardo licenza di vivere finché Riccardo non morrà?
Se gli fate un inchino voi, Bolingbroke dirà di sì.
[III.iii.143-175]
Quando comincia, Riccardo non riesce più a fermarsi, come
accade in «una piccola tomba, una tomba piccina piccina,
una tomba oscura». Questa ossessiva autocommiserazione
offende i critici moraleggianti, ma emozionò Yeats, il grande
poeta irlandese che riconobbe in Riccardo un’immaginazione
apocalittica. La brillante fantasia che produce le lacrime di
Riccardo possiede un’ironia visionaria nuova in Shakespeare
e anticipatrice di Donne. Il primo dialogo tra Riccardo, il re
che si è autodistrutto, e il vincitore Bolingbroke conferisce a
tale capacità ironica una complessità teatrale anch’essa nuova
per la produzione shakespeariana:
Bolingbroke. Fate largo tutti
e rendete omaggio a Sua Maestà. (Inginocchiandosi)
Mio grazioso signore.
Riccardo. Buon cugino, voi umiliate il vostro principesco
ginocchio
lasciando che la vile terra s’inorgoglisca baciandolo.
Preferirei che il mio cuore sentisse il vostro affetto
Estratto della pubblicazione
e non che il mio occhio vedesse, senza compiacersene, la
vostra gen
uflessione.
Su, cugino, alzatevi. Il vostro cuore è su, lo so,
tanto su almeno, sebbene il vostro ginocchio sia in basso.
Bolingbroke. Mio grazioso signore, vengo soltanto a
chiedere ciò ch’è mio.
Riccardo. È il vostro, sono vostro io, è vostro tutto.
Bolingbroke. Siate mio, veneratissimo signore,
in proporzione all’affetto che i miei lealissimi servizi
meriteranno da voi.
Riccardo. E lo meritate bene; meritano bene di avere
coloro che conoscono il modo più forte e più sicuro di
ottenere.
(A York) Zio, datemi le vostre mani; no, asciugatevi gli occhi;
le lagrime dimostrano il loro amore ma difettano dei
rimedi.
(A Bolingbroke) Cugino, sono troppo giovane per essere
vostro adre,
p
sebbene abbiate l’età per essere mio erede.
Quello che vorrete, io darò, e volentieri anche,
perché dobbiamo fare ciò che la forza vuole che noi
facciamo:
partire per Londra. Cugino, non è deciso così?
Bolingbroke. Sì, mio buon signore.
Riccardo.
Allora non debbo dire di no.
(Fanfara. Escono)
[III.iii.187-209]
Ci si potrebbe chiedere: «Ma che cos’altro potrebbe fare Riccardo?». La risposta è: «Niente, se non semplificare ancor
più le cose a Bolingbroke». Qui Riccardo si compiace delle
proprie ironie, ma queste ultime si riveleranno fatali per lui,
anche se, sul piano estetico, sono molto appaganti per Shakespeare e per noi.
Il delicato interludio che segue (atto III, scena iv) dà modo
alla Regina di parlare della catastrofe che si è abbattuta sul
marito definendola «una seconda caduta dell’uomo dannato», ma tale dichiarazione non è più convincente dei tentativi
di Riccardo di paragonare la propria prova a quella di Cristo.
Estratto della pubblicazione