181 Capitolo XXII La mattina dopo appena arrivato in ufficio il

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La mattina dopo appena arrivato in ufficio il
commissario mise al corrente Appiani del colloquio che
aveva avuto il giorno prima con Massaro e degli
sviluppi del-l’inchiesta.
Mentre stavano ancora parlando si sentì un brusio
provenire dal corridoio. Aprì la porta e vide che tutti gli
agenti del commissariato si erano radunati ai lati del
corridoio come per fare ala a qualche cosa o meglio a
qualcuno. Finalmente vi fu l’apparizione, perché tale fu
l’ingresso di Caterina Marsi.
Era un pezzo di figliola da lasciare senza fiato. Il
commissario capì la vittima che per conquistarla era
arrivato a prometterle il matrimonio. Indossava un
vestito che le fasciava tutto il corpo e che si fermava
abbondantemente sopra il ginocchio. Era color
acquamarina e metteva in risalto l’abbronzatura che
esibiva, nonostante fosse dicembre. Sembrava scivolare
sul pavimento, più che camminare. Non si curava dello
scompiglio che s’era creato intorno a lei. Doveva essere
abituata a suscitare un tale vespaio quando si trovava a
contatto con tanti uomini. Anche l’agente Guidi,
richiamata probabilmente dal brusio, si era affacciata.
Nonostante la sua bellezza, nel confronto con Caterina
Marsi risultava perdente. Il commissario le fece un
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cenno col capo per invitarla nella stanza degli
interrogatori. La presenza di un’agente donna avrebbe
messo più a suo agio la signorina.
Si avviarono tutti assieme verso la sala. Loporto era
rimasto come folgorato all’apparizione della ragazza. Il
commissario gli si avvicinò e gli intimò di non fiatare
per nessun motivo. Temeva che per mettersi in mostra
compromettesse il buon esito dell’interrogatorio.
La signorina Marsi si accomodò e accavallò le
gambe. Mettendo in mostra quel tanto che bastava a
stuzzicare la fantasia e lasciando all’immaginazione
tutto quello che restava da scoprire. Si vedeva che era
una donna abituata a sedurre. Il commissario la guardò
intensamente negli occhi. Era seria, forse anche triste.
Non sembrava però molto dispiaciuta per la morte
dell’uomo che doveva sposare. Il commissario non
riuscì a capire se questo derivasse da autocontrollo o
dal fatto che, parafrasando il detto popolare, morto un
“papi” se ne fa un altro.
«Conosceva Niccolò Gherardi? Se sì da quanto
tempo?» attaccò il commissario come per togliersi un
dente.
«Sì. Lo conoscevo. Dovevamo sposarci. Ci eravamo
conosciuti sei mesi fa.»
La voce della ragazza era calda e sensuale come la
sua persona. Il commissario la guardò a lungo
ripensando alla lettera in cui il magistrato rivelava ad
una delle sue amanti d’essere suo padre. Chissà cosa
avrebbe pensato la signorina Marsi se avesse saputo
che aveva rischiato di diventare la matrigna d’una
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donna più grande di lei. Si rese conto che la ragazza lo
guardava con fare interrogativo.
«Quando l’ha visto o sentito per l’ultima volta?»
«Ci eravamo visti sabato. La sera eravamo stati
insieme a casa sua. Ci eravamo sentiti telefonicamente
domenica mattina e ci eravamo dati appuntamento per
mercoledì sera. Da lunedì a mercoledì avevo un
servizio fotografico fuori città» disse la ragazza con fare
civettuolo.
«Dove?» chiese il commissario.
«Sulla spiaggia di San Felice Circeo» rispose la
ragazza.
«Quindi lunedì 8 non ha visto né sentito la vittima?»
«No non ci siamo né sentiti, né visti.»
«Sa quel giorno cosa doveva fare e chi doveva
vedere la vittima?»
«Non mi ha detto nulla» rispose la signorina.
«Sull’agenda nello studio abbiamo trovato scritto:
ore venti appuntamento con C solito posto. Le dice
qualcosa?»
«Poteva avere un appuntamento con la moglie. Si
chiama Claudia. Da quando l’aveva lasciato non gli
dava pace, voleva la casa. Il tribunale aveva sentenziato
che la casa restasse a Niccolò. Forse dovevano
discutere di questo. Non mi stupirei se durante la
discussione, lei abbia perso la testa e l’abbia ucciso.
L’odiava.»
Calcò la voce su quest’ultima parola. Il commissario
ebbe una fitta allo stomaco. Tirò fuori le pasticche di
magnesia, ne prese una e cominciò a succhiarla.
«Sa se la vittima fosse dedita al gioco?»
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«Beh ogni tanto mi ha portato alle corse e ha fatto
delle puntate. Credo che fosse una cosa che avvenisse
ogni tanto.»
Il commissario pensò che il magistrato non l’avesse
messa a parte delle sue cose. Era solo la sua amante.
«L’ha visto preoccupato o più nervoso del solito nei
giorni precedenti l’omicidio?»
«No, era sempre del solito umore. Cioè molto
allegro.»
«Lei ha le chiavi di casa della vittima. Apriva con
quelle quando l’andava a trovare?»
«Quasi mai. Suonavo e mi facevo aprire. Me le
aveva date perché quando ci davamo appuntamento a
casa sua, se tardava, io intanto entravo.»
Probabilmente era vero quello che gli aveva riferito
la signora Gori. Il magistrato aveva dato le chiavi alla
ragazza per tenerla buona.
«Sa se la vittima avesse dei nemici? Le ha mai
confidato qualcosa?»
«No. Si confidava poco con me. Quando ci
vedevamo non parlavamo molto.»
Dovevano essere pochi gli argomenti di
conversazione con una donna così, pensò il
commissario.
«Conosce Corinne Baldi?»
«Chi, la moglie dell’industriale?»
«Sì.»
Il tono lasciava intendere che non aveva una grande
considerazione per quella donna. Forse la percepiva
come una potenziale concorrente. Nonostante la sua
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disinvoltura,
doveva
essere
una
persona
particolarmente ingenua.
«Ci siamo incrociate a qualche party, niente di più.»
«Bene. Lei vive vicino casa della vittima?»
«No vivo fuori città. Ho sempre amato la
campagna.»
Per un attimo la ragazza abbandonò il suo aspetto
altezzoso.
«Non ha paura, come molte donne, di tutti quegli
animaletti: ragni, gechi, topi. Ce ne sono di topi a casa
sua?»
«Sì ci sono anche topi, oltre a tutta la fauna della
campagna. Una volta mi sono trovata addirittura un
rospo in casa» disse ridendo la ragazza.
«È coraggiosa!»
«Sono nata in campagna commissario, ci sono
abituata.»
Il commissario la guardò e vide che sotto la
maschera della donna fatale si nascondeva una ragazza
come tante.
«Sul tavolino del salotto sono stati trovati due
bicchieri di liquore. Uno pieno di curaçao e uno di
whisky. Su ambedue i bicchieri sono state rilevate le sue
impronte. Che mi dice in proposito?»
Ora che la ragazza si era rilassata il commissario
decise di stringere i tempi dell’interrogatorio.
«Saranno rimasti lì da sabato» disse la ragazza senza
convinzione.
«Non è possibile. Lunedì mattina, nonostante fosse
l’Immacolata, la signora Pardi, su richiesta di Gherardi,
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è andata a fare le pulizie. Quei bicchieri sono stati
messi dopo.»
Osservò attentamente la signorina Marsi che,
nonostante sembrasse di ghiaccio, cominciava a dare
leggeri segnali di nervosismo.
«Non so cosa dirle.»
«L’aiuterò io. Lei si è recata a casa Gherardi le sera
di lunedì 8 e ha preparato quel cocktail.»
«Perché avrei dovuto voler avvelenare Niccolò che
mi stava per sposare?» protestò la ragazza.
«Chi le ha detto che nel liquore c’era del veleno?»
Il commissario aspettò che dicesse qualcosa, ma
visto che taceva proseguì: «Lo poteva sapere solo chi ce
l’aveva messo. Forse le erano arrivate all’orecchio voci
che il matrimonio non era più nei piani di Gherardi?
Per questo ha deciso d’ucciderlo?»
Nella sala era calato un tale silenzio, che si sarebbe
sentito il rumore d’una piuma cadere. Appiani aveva lo
sguardo che passava dalla ragazza al suo capo. Guidi
guardava il commissario estasiata dal modo in cui
conduceva l’interrogatorio. Loporto era l’unico che
non stava capendo niente, tutto perso a tentare
d’indovi-nare il colore delle mutandine della signorina
Marsi.
«Sta pensando che ho avvelenato Niccolò? Se i
giornali hanno riportato che gli hanno sparato» disse la
ragazza ormai alle strette
«Sa benissimo quello che intendo dire. Lei lunedì 8
era in quella casa» tagliò corto il commissario.
Improvvisamente la maschera che la signorina Marsi
aveva indossato fino ad allora crollò. Tutti videro il suo
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vero volto. Quello d’una ragazza spaurita e sola chiusa
nella torre d’avorio della sua bellezza. Guardò il
commissario, poi si guardò intorno come per chiedere
aiuto.
«Sì, commissario. Ha ragione. Io lunedì 8 ero a casa
di Niccolò. Ma non l’ho ucciso io» riuscì a dire la
ragazza prima di cominciare a singhiozzare.
«Mi racconti esattamente cosa è successo» disse il
commissario con tono paterno. Avvicinò la sua sedia,
come per raccogliere una confessione e dare la sua
assoluzione. Nella sala un incantesimo aveva bloccato
ogni cosa.
«Una mia amica, nel club che frequentiamo, aveva
sentito Niccolò vantarsi per avermi conquistata e a
qualcuno che gli chiedeva del matrimonio, dire che era
un modo per farmi stare buona. Non aveva nessuna
intenzione di sposarmi. Quando ho saputo questa cosa
è montata in me la rabbia. Io mi ero veramente
innamorata di Niccolò, lui aveva voluto solo usarmi.
Ho cominciato ad odiarlo e a pensare di vendicarmi.
Ho deciso quindi d’avvelenarlo. Lunedì sera non mi
aspettava. Verso le undici sono andata a casa sua. Ho
aperto con le chiavi e ho preparato il bicchiere con il
liquore avvelenato. Poi sono andata a cercare Niccolò.
Quando ho aperto la porta dello studio l’ho visto steso
sul pavimento. Era morto e mi guardava con gli occhi
spalancati. Accanto al corpo ho notato una fotografia.
Mi crede commissario?»
Più che una domanda quell’ultima frase sembrava
un’implorazione.
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Il commissario la guardò. Era molto diversa dalla
donna che una mezz’ora prima era entrata in
commissariato, mettendolo in subbuglio. Ora era una
bambina spaurita. Aveva perso quell’altezzosità che le
faceva guardare gli altri dall’alto in basso. Il
commissario pensò d’avere un quadro abbastanza
chiaro della situazione. Mancava da fare un’ultima
domanda.
«Per salire e per scendere da casa di Gherardi, ha
preso l’ascensore?»
La ragazza lo guardò stranita. Non capiva il senso di
quella domanda. Anche tutti gli altri presenti nella sala
si voltarono verso di lui.
«Sì, ho preso l’ascensore. Come al solito.»
«Bene, allora le credo.»
Sul volto della ragazza riapparve il sorriso che le
illuminò il volto. Diverso fu l’atteggiamento degli altri
presenti. Appiani era tutto concentrato nello sforzo di
capire quale passaggio si era perso. Guidi avrebbe
baciato il commissario per come aveva condotto
l’inter-rogatorio. Loporto stava scoppiando tentando in
tutti i modi d’attirare l’attenzione di Quintavalla, il
quale l’i-gnorava di proposito.
Finito l’interrogatorio, il commissario congedò la
signorina Marsi e ammirò ancora una volta le forme
perfette della modella che si allontanava. Loporto
emise un sospiro che valeva più di mille parole, poi si
mise all’inseguimento di Quintavalla che era sparito
dentro un altro ufficio e che lo liquidò con un laconico:
«Non mi rompere ho da fare, parliamo un’altra
volta.»
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«Come parliamo un’altra volta. Ora mi spieghi cosa
è successo.»
«Perché tu non c’eri? Hai le stesse informazioni che
ho io. Tira le tue conclusioni.»
«Quali conclusioni! Quando c’era da metterla sotto
torchio, perché potrebbe essere lei l’assassina, le hai
chiesto dell’ascensore. Poi le hai detto che le credi e
l’hai lasciata andare via.»
«Ti ricordi quali erano i patti. Tu assistevi ai miei
interrogatori. Poi ognuno traeva le sue conclusioni.
Tira le tue. E non mi rompere più i coglioni» detto
questo il commissario voltò le spalle a Loporto per
fargli capire che il colloquio era finito.
«Sai che ti dico Quintavalla, vaffanculo» disse con
rabbia Loporto e se ne andò sbattendo la porta.
A pranzo il commissario mangiò un panino al bar e
tornò subito in commissariato. Questa indagine gli
stava prendendo tempo. Il resto dell’attività del
commissariato ne risentiva.
Mentre stava lavorando, si ricordò che Conti gli
aveva comunicato d’avere i risultati delle ricerche sul
tizio che gli era stato segnalato dalla figlia. Erano
particolarmente interessanti, quindi prese il telefono e
la chiamò per mettersi d’accordo su quando vedersi.
«Pronto bella di papà, poi di’ che non ti penso. Ho
le informazioni su quel tizio. Buon sangue non mente.
Avevi subodorato giusto. È stato più volte denunciato
e condannato per truffa. Adesso vedo d’organizzare
qualcosa per incastrarlo. Tu non fare niente e aspetta
mie istruzioni. Ci vediamo stasera a cena, così ne
parliamo.»
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«Grazie papà. Già avevo avuto conferma. Peccato
era un bell’uomo. Mi faceva pure la corte.»
Il commissario ebbe un sussulto. Sua figlia non
sapeva scegliere tra gli uomini. Rischiava di buttarsi
sempre in storie sbagliate.
«Grazie che ti faceva la corte, voleva fregarti. Tu ci
devi andare con i piedi di piombo. Esistono certi
mascalzoni in giro tra gli uomini…»
«Papà, papà, fai pace con te stesso! Un giorno mi
dici che devo andare a caccia di uomini altrimenti resto
zitella. Il giorno dopo mi dici di starne alla larga, perché
sono tutti mascalzoni. Sbagliare fa parte della vita.»
«Io ho sempre torto. Hai sempre ragione tu. Come
al solito. Comunque da chi avevi già avuto conferma?»
«Adesso non ti mettere a fare la vittima. La
conferma comunque l’ho avuta dai carabinieri.»
Il commissario fece un salto sulla sedia. Sua figlia gli
aveva fatto questo. Si era rivolta ai carabinieri.
«Ti sei rivolta ai carabinieri?»
«Sì. Mi sono rivolta ai carabinieri. Ogni volta che ti
chiedo una cosa tu ci metti una vita. Mi sono rivolta ai
carabinieri. Ti ho tradito. Ho tramato col diavolo.
Scherzo! Sono venuti a trovarci. Hanno detto che era
un truffatore che tenevano d’occhio da un po’ di
tempo. Ci hanno chiesto di collaborare per tendergli
una trappola.»
«Tu gli avrai risposto di no ovviamente. Ti rendi
conto del rischio che corri?» disse il commissario che si
fidava molto poco degli uomini dell’arma. A suo avviso
erano meno preparati della polizia.
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«Vedi come sei fazioso. Poco fa eri tu che mi stavi
proponendo la stessa cosa. Ora siccome sono i
carabinieri…»
«Perché so come…»
«Basta, non voglio più starti a sentire.»
«Fammi sapere almeno chi comanda l’operazione.
Ci vediamo a cena stasera.»
«Ciao papà. Non ho più bisogno della balia. A
proposito dove ci vediamo?» chiese Luisa con l’aria più
serafica del mondo sapendo già la risposta.
«Alla solita trattoria.»
«Ti potevi sbagliare? Non ti allontanare mai troppo
dal commissariato. Ti dovessi perdere e non riuscire
più a tornarci? Come farai quando andrai in pensione?
Ti accamperai con una tenda là davanti? Ciao.»
Aveva proprio ragione. Non sapeva immaginarsi
lontano dal lavoro. Pensare a quando sarebbe andato in
pensione gli dava una leggera vertigine. Non se la sentì
di dirle che stava tentando di cambiare le sue abitudini.
Aveva deciso, almeno la sera, d’andare a mangiare in
posti diversi. Voleva però che, alla cena con la figlia,
fosse presente Conti per presentarglielo. Allora non
potevano vedersi che vicino al commissariato.
«Conti, Conti!»
«Eccomi, commissario.»
«Stasera vieni a cena con me. Porta tutto il materiale
che hai raccolto su quella persona. Io più tardi vado a
Regina Coeli a sentire il Canali. Torno per le otto.
Andiamo qui vicino.»
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L’ispettore si mise a disposizione, senza opporre
obiezioni. Anche se andare a cena col capo non era il
massimo.
Quando Conti fu uscito, il commissario si rimise a
pensare alla figlia. Lo angustiava non sapere proprio
come comportarsi. Lei giustamente voleva gestirsi da
sola e prendere autonomamente le sue decisioni. Il
fatto era che lui la sentiva ancora fragile, ingenua. Era
un dato che sua figlia era ancora una bambina. O era
lui che voleva continuare a vederla così per non
perdere l’unico legame che gli era rimasto con la
famiglia e non sentirsi definitivamente solo?
Era tutto preso da questi pensieri, quando entrò
Appiani e lo riportò alla realtà. Gli comunicò che erano
arrivati sia gli elenchi dei permessi concessi da
Gherardi, sia le informazioni relative ai movimenti
bancari.
«Cominciamo con lo spulciare l’elenco dei permessi,
per vedere se il signorino concedeva favori agli uomini
di Massaro» disse il commissario. Prese la lista e
cominciò ad evidenziare i nomi riconducibili a Massaro
che avevano ottenuto benefici.
«Hai capito il giudice come si pagava i debiti di
gioco! Guarda questi nomi sono tutti legati in un modo
o nell’altro al gioco d’azzardo. A tutti sono state
concesse licenze premio o ricoveri ospedalieri, chissà
quanto necessari. Questo conferma quanto già
sospettavamo» disse il commissario, mostrando ad
Appiani i nomi sulla lista che aveva evidenziato.
«Da sei mesi a questa parte il giochetto si era
interrotto. Probabilmente qualcuno aveva scoperto la
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cosa ed era intervenuto. Da quel momento i debiti di
gioco sono cominciati a salire e la vittima ha dovuto
metter mano al portafoglio. Vediamo l’estratto della
banca se ci aiuta a capire.»
Prese il tabulato della banca e si immerse nei
numeri, anche se questi gli mettevano una certa
angoscia. La matematica era stata sempre la sua bestia
nera.
«Negli ultimi tempi ha praticamente prosciugato il
conto. Guarda gli assegni emessi: ventimila,
cinquantamila, trentamila, quarantamila, ventimila.
Negli ultimi sei mesi ha perso centosessantamila euro.
Sul conto gli sono rimasti settemila euro. Lo strano è
che non ci sono prelievi nell’ultima settimana. Da dove
venivano i diecimila euro che erano nel portafoglio? E i
quarantamila che ha dato a Massaro?»
Appiani non provò neanche a rispondere al
commissario per non interrompere il filo dei suoi
pensieri. Sapeva che quelle erano domande retoriche. Si
andavano formando nel corso del suo ragionamento e
non richiedevano una risposta. Le formulava a se
stesso, come tracce che l’avrebbero aiutato a trovare le
risposte. Si era ormai abituato al fatto che il suo capo
era un cacciatore solitario. Mal sopportava altre
presenze nel suo territorio. Ad un certo punto il
commissario guardò l’orologio, poi prese il cappotto e
uscì per andare a sentire cosa il barbone aveva da dirgli.
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