La mano visibile dei manager predoni

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La mano visibile dei manager predoni
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La mano visibile dei manager predoni
Antonio Zanotti
Con la crisi è tornato sotto accusa il sistema delle retribuzioni manageriali (in particolare le
stock options). Ma è tutta la governance che va rimessa in discussione
Premessa
Fra le varie cause che hanno determinato la crisi economica che stiamo attraversando da alcuni
anni, non sono mancati studiosi e commentatori che hanno messo in rilievo il ruolo giocato dal
sistema deformante delle retribuzioni dei dirigenti delle imprese.
Avere legato i sistemi retributivi in modo prevalente al valore dei titoli azionari avrebbe
determinato scelte gestionali tese a massimizzare i profitti nel brevissimo periodo a scapito
dell’equilibrio (sopravvivenza) dell’impresa nel lungo periodo.
Con il sopravvenire della crisi è emerso in tutta chiarezza un fatto sino ad allora studiato
marginalmente: i profitti possono aumentare manipolando i risultati di bilancio dell’impresa.
Così, con la crisi, è tornato d’attualità uno studio pubblicato nel 2005 da J. Coffee che
richiamava l’attenzione sulle manipolazioni di bilancio da parte delle imprese americane,
fenomeno in costante crescita durante gli anni 1997-2002 studiati dall’autore, ben oltre agli
scandali aziendali finiti sulla stampa.
La corporate governance
La fiducia sulla onnipotenza del mercato, come strumento che garantisce la trasparenza dei corsi
azionari ha distolto l’attenzione sulla “mano visibile” del management nell’alterazione delle
informazioni aziendali e del bilancio stesso.
Per capire questo fenomeno dobbiamo fare un passo indietro e richiamare alcuni punti centrali
del vasto dibattito sulla
corporate governance, avviato verso la fine degli anni ’80.
Stando alle definizioni più diffuse, la
corporate governance è il sistema con le quali le imprese sono dirette e controllate. Si tratta di
una definizione che potremmo definire “neutra”, semplicemente descrittiva e che sembra
nascondere le questioni reali connesse al potere di dirigere l’impresa stessa e le modalità con
cui si determina la distribuzione del valore aggiunto prodotto dall’impresa fra i soggetti che
hanno partecipato alla produzione stessa.
Il fatto che un’impresa diretta da manager, che non subiscono gli effetti negativi di loro decisioni
errate, non possa essere considerato il miglior sistema per incentivare gli investimenti finanziati
dai proprietari esclusi dalla gestione, era già stato evidenziato da A. Smith quando nel 1776
avvertiva i danni derivanti da una proprietà assenteista, che lasciava la direzione di impresa a
manager professionisti, più intenti a perseguire i propri interessi che quelli degli azionisti.
Dichiarazioni di questo genere si sono susseguite nella storia del pensiero economico, ma
bisogna aspettare il 1932 quando A. Berle e G. Means pubblicarono il loro
Società per azioni e proprietà privata, per capire sino in fondo come il sistema della grande
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impresa si fosse allontanato da quello descritto nei manuali di economia, basati sulla figura del
proprietario imprenditore.
Da allora e sino agli anni ’80 sono state pubblicate diverse ricerche che sottolineano la
debolezza dei consigli di amministrazione come centro decisionale dell’impresa, con la sostanza
del potere detenuta invece dal management. I consigli di Amministrazione sono stati descritti
come club di vecchi amici dove non era opportuno contestare l’amministratore delegato dietro la
cui proposta si era, di fatto, stati eletti (beneficiando anche di compensi non trascurabili).
Il prestigio dei dirigenti era direttamente proporzionale alle dimensioni dell’impresa gestita più
che alla sua redditività; per questo l’espansione dimensionale rappresentava il risultato
principale da perseguire: era in effetti la dimensione dell’impresa che dava prestigio e
rimuneratività al ruolo.
Gli anni ’80 del secolo scorso rappresentano una vera e propria rottura sotto tantissimi aspetti
della vita economica e politica nei paesi occidentali.
A partire da quegli anni si affacciano sul mercato nuovi soggetti (
corporate raiders) che, ritenendo come molte imprese fossero mal dirette da consigli succubi del
management, pensano che fosse possibile “scalarle”, eliminare il management inefficiente,
vendere gli
asset non produttivi ad altri imprenditori più capaci, contribuendo a fare crescere il valore
dell’impresa scalata tagliando costi a destra e a manca, per poi, eventualmente, rivendere
l’impresa “ristrutturata” con un rilevante guadagno.
Per realizzare questo progetto occorreva però trovare anche gli strumenti di finanziamento
necessari alle scalate. La liquidità necessaria viene allora fornita da altri protagonisti che si
affacciano in modo rilevante sulla scena più o meno contestualmente, gli investitori istituzionali ed
in primis i fondi pensione e i fondi comuni di investimento. Si tratta di soggetti che amministrano
per conto dei loro sottoscrittori enormi e crescenti masse di liquidità. Questi gestori professionali
del risparmio sono di frequente intenzionati a fare valere la loro voce nelle imprese partecipate.
Si avvia così un’azione di
pressing sulle imprese perché migliorino la redditività e la distribuzione di dividendi. Questa
spinta è stata definita come
shareholder activism, per indicare l’interessamento dei fondi sui sistemi di
governance delle società.
La teoria dell’agenzia
La domanda ricorrente diventa allora: come possono gli azionisti difendersi dai comportamenti
predatori dei dirigenti? La teoria dell’agenzia, a partire dalla seconda metà degli anni ’70,
propone le soluzioni.
Secondo i teorici dell’agenzia il rapporto fra consiglio di amministrazione (in rappresentanza
degli azionisti) e management (alla cui testa siede l’amministratore delegato) è assimilato ad un
contratto di agenzia dove il
principal (l’azionista) affida ad un
agent (l’amministratore delegato) la direzione dell’impresa. Il
principal e l’
agent sono per loro natura soggetti egoisti e perseguono i loro interessi personali: se il primo non
riesce a controllare il secondo, questo perseguirà il proprio interesse anche a danno dello stesso.
Niente di nuovo, se vogliamo, rispetto a quanto aveva già intuito A. Smith.
Come riallineare gli interessi degli uni con gli interessi degli altri? Se l’interesse dell’azionista è
vedere crescere il valore delle azioni detenute (
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shareholder value) allora bisogna retribuire il management con la possibilità di acquistare azioni
a prezzi scontati incentivandolo a ricercarne costantemente l’aumento di valore (
stock options). Ecco compiuto il miracolo.
I codici di
governance che cominciamo ad essere pubblicati dai primi anni ’90 sono tutti basati sulla teoria
dell’agenzia. Riconoscimento della
shareholder value e dell’incentivazione via
stock options sono due presupposti fondamentali di tali codici.
La crescita del valore per gli azionisti diventa quindi il nuovo standard di misurazione del
successo d’impresa. La variabilità del valore delle azioni è data dai profitti dichiarati. Per essere
certi che essi siano reali viene rafforzata l’azione di revisione contabile, a cui si affianca una
nuova standardizzazione dei principi contabili, ora codificati a livello internazionale (principi
contabili Ias/Ifrs).
Anche se il sistema mostra delle crepe legate alla collusione fra controllati e controllori (come ha
dimostrato drammaticamente il caso di Enron e Andersen) si ritiene si tratti di casi isolati e che il
sistema sia fondamentalmente sano.
L’analisi di Coffee
John Coffee, in un articolo pubblicato nel 2005, prima quindi dello scoppio dell’attuale crisi, ha il
merito di avere richiamato l’attenzione sulle modalità di alterazione dei dati di bilancio negli Usa
e in Europa.
J. Coffee ha calcolato come negli Usa nel periodo 1997-2002 ci siano stati ben 1.044 casi di
riesposizione del bilancio (
financial statement restatements), tutti caratterizzati dal trasferimento sul bilancio corrente di
ricavi futuri. L’autore interpreta queste frodi contabili come il risultato del fallimento dei piani di
incentivazione manageriale basati sulle
stock options.
Coffee riconosce come negli Usa il tema delle correzioni contabili dei ricavi sia stato sempre
molto diffuso, ma come la loro natura sia profondamente cambiata a cavallo degli anni ’90.
Antecedentemente infatti l’alterazione degli utili rispondeva alla logica di creare riserve occulte
da far emergere nei momenti di difficoltà (
rainy days reserves), mentre, successivamente, i manager si sono messi ad anticipare utili di
competenza degli esercizi futuri (letteralmente Coffee usa il verbo
to steal, cioè rubare).
Quali le motivazioni alla base di questo cambiamento? “Detto semplicemente, negli Stati Uniti
durante gli anni ’90 le modalità di retribuzione del management hanno subìto una brusca
modificazione, spostandosi da un sistema basato su premi retributivi ad uno basato sulla
distribuzione di azioni. Cosa ancora più importante, questo spostamento non è stato
accompagnato da alcun cambiamento nella
governance aziendale per controllare i prevedibili perversi incentivi che possono crearsi con la
dipendenza dalle
stock options”.
Retribuire gli amministratori con
stock options crea degli incentivi per manipolazioni contabili di breve termine.
Se sino agli anni ’80 la tendenza del management era stata quella di puntare sulla crescita delle
imprese, perché questo implicava retribuzioni maggiori per i dirigenti, negli anni ’90, anche
grazie a stimoli fiscali, il raggio d’azione si sposta successivamente verso il principio della
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creazione del valore per gli azionisti e alla compensazione dei dirigenti via
equity, senza tener conto che “un uso aggressivo di questi incentivi incoraggiava l’uso di
tecniche di manipolazione per massimizzare il prezzo delle azioni nel breve periodo”.
Il sistema che sembrava quindi il toccasana per riconciliare gli interessi fra
principal ed
agent ha portato invece all’alterazione dei sistemi contabili e dei sistemi di controllo,
aumentando quanto mai le frodi contabili.
Ma l’Europa è differente
L’interpretazione esposta è ritagliata ad hoc sulle imprese americane e inglesi, caratterizzate da
una proprietà diffusa e senza azionisti di riferimento, ancorché, come aveva a suo tempo intuito
M. Jensen, l’azione degli investitori istituzionali avrebbe potuto mutare il quadro di riferimento.
Ma questo modello è valido anche per l’Europa continentale dove le imprese hanno spesso un
azionista se non di controllo, almeno di riferimento e spesso su basi “familiari”? Le imprese
europee sono allora meno immuni dal rischio di alterazioni contabili?
La risposta di Coffee è negativa, nel senso che le frodi contabili in Europa hanno assunto forme
diverse, perché diverso è il regime proprietario, ma con risultati finali parimenti negativi.
In Europa la questione della
governance è concentrata più sull’estrazione di rendite che l’azionista di maggioranza pratica a
danno degli azionisti di minoranza che sul rapporto azionisti-management.
La frode non passa quindi necessariamente attraverso le manipolazioni dei corsi azionari, perché
l’azionista di maggioranza, diversamente dai manager con
stock options in portafoglio, non ha alcun progetto di vendere le proprie azioni, i cui corsi sono
quindi più stabili. Semmai l’azionista di comando è più portato ad allungare la catena del
controllo, ricorrendo a scatole cinesi, col solo scopo di diminuire il proprio impegno finanziario, ma
preservando le leve del comando.
La manipolazione avviene in un altro modo, cioè attraverso rapporti con parti correlate.
Operazioni di acquisto e di vendita di beni e servizi avvengono con triangolazioni
economicamente inutili con società terze, ma che attraverso commissioni o differenze artificiose
di prezzo prelevano liquidità dalla società, depositandola in altra società, di proprietà del solo
azionista di maggioranza (spesso collocata in un paradiso fiscale, per minimizzare anche
l’impatto
. In questo
fiscale)
modo
[1] in Europa i casi di
financial statement restatements sono assai più rari, senza che questo implichi assenza di
manipolazioni a favore di un soggetto a danno di un altro.
Conclusioni
Pratiche predatorie sono state alla base della crescita dei valori azionari, alimentati da sistemi
che avrebbero dovuto garantire il riallineamento degli interessi fra azionisti e management, ma
che non hanno retto alla prova dei fatti, anzi hanno alimentato un boom speculativo che una volta
sgonfiato ha trascinato tutti i soggetti economici nella più grave crisi economica dal dopoguerra
ad oggi, con l’eccezione degli alti dirigenti le cui retribuzioni si sono ulteriormente moltiplicate
rispetto il livello medio dei lavoratori.
Se il sistema delle retribuzioni manageriali (in particolare le
stock options) sono stati oggetti di qualche (timida) critica, nessuno sembra avere ancora sentito
la necessità di mettere in discussione i codici di
governance e le loro discutibili premesse.
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Bibliografia essenziale
Berle jr Adolf A., Means Gardiner C.,
Società per azioni e proprietà privata, 1966, Einaudi
Cadbury Adrian,
Corporate governance. Cosa è, 2007, Luiss University Press
Coffee John jr., «A theory of corporate scandals: Why the U.S. and Europe differ», 2005,
The
Center
for Law and Economic Studies, WP no. 274
Jensen Michael C
., «Eclipse of the Public Corporation», 1989,
Harvard Business Review - September-October
Lazonick William, O’Sullivan Mary, «Maximizing shareholder value: a new ideology for corporate
governance», 2000, in
Economy and Society vol. 29 Nr. 1
Power Michael,
La società dei controlli, 2002, Edizioni di Comunità
[1] In Italia il caso più noto di operazioni fra parti correlate finito nelle aule giudiziarie è quello di
Mediatrade-Mediaset: perché Mediaset per acquistare i diritti sui film americani doveva passare
attraverso Mediatrade?
Sì
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