La musica popolare ha un`allegria triste che si adatta al jazz ritratti

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La musica popolare ha un`allegria triste che si adatta al jazz ritratti
Martin Magntorn / cortesia Act
ritratti
La musica popolare
ha un’allegria triste
che si adatta al jazz
JAN LUNDGREN: IL PIANISTA SVEDESE SI È
FATTO CONOSCERE DA NOI ATTRAVERSO UNA FELICE
ASSOCIAZIONE CON FRESU E GALLIANO, MA HA NELL’ARCO
TANTE ALTRE FRECCE CON CUI FARE CENTRO
di Michael Alberga
di Michael Alberga
v
orrei iniziare, Jan, parlando
dell’album «Mare nostrum» che hai
inciso con Fresu e Galliano, perché è
quello con cui ho avuto modo di conoscerti e che forse ti ha anche permesso di essere più noto pure in Italia.
Come è nato questo lavoro?
L’album è nato quasi per caso. L’occasione ci è stata data da un festival in
Giappone in cui suonavamo sia io sia
Richard. Io naturalmente conoscevo
Richard ma ci siamo incontrati per la
prima volta in quella occasione. Al promoter del festival venne lì per lì l’idea
di farci suonare insieme, cosa che non
era per niente programmata, e quasi
come in una jam session abbiamo iniziato a suonare qualche standard. Siamo
partiti, me lo ricordo bene, con Autumn
Leaves! Ci siamo trovati subito a nostro
agio e grazie a questa esperienza siamo
rimasti in contatto con email e quant’altro. Naturalmente raccontai tutto al mio
manager che in quel periodo aveva iniziato a parlarmi di un fantastico trombettista italiano – Paolo Fresu appunto
– e della sua grande musicalità. Lì per
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lì non nacque nulla, ma dopo circa un
anno René, il mio manager, mi disse di
aver avuto un’intuizione, quella di mettere insieme me, Paolo e Richard. Presi
i vari contatti, non avevamo in mente
nulla in particolare e allora iniziammo a
organizzare qualche data per suonare
insieme: la grande sorpresa fu quella di
trovarci subito molto bene assieme, ma
non solo musicalmente, anche a livello
umano. Reputo molto importante questo punto e penso che sia stato altrettanto determinante nel portare avanti il
progetto.
Quanto dici è molto vero anche perché
tutti noi sappiamo quanto sia cruciale nel jazz la relazione tra i musicisti,
aspetto di vitale importanza per la
buona riuscita di un gruppo e per dare
quel quid unico a una certa musica.
Ciò che è emerso infatti è stata la grande
possibilità di comunicare tra noi, di costruire insieme la musica. Mano a mano
che suonavamo questa dimensione è
cresciuta al punto che è nata l’esigenza
di incidere un disco. Non è venuto prima
il disco e poi il palco, bensì il contrario:
questo progetto è nato dopo esserci
trovati molto bene insieme, cioè proprio
perché ci siamo trovati bene. Grazie a
René poi abbiamo avuto modo di incidere per la Act: quando Loch ascoltò una
nostra registrazione live, la apprezzò al
punto da dare il suo assenso per un progetto per l’etichetta.
Nell’album sono presenti molte composizioni originali e brani delle diverse
tradizioni musicali. Come mai questa
scelta?
Proprio a partire da questa comune intesa sul modo di suonare abbiamo deciso
di scrivere delle musiche apposta per
questa formazione: ciascuno avrebbe
scritto alcuni brani che sarebbero entrati
nel disco. Inoltre volevamo portare anche
un pezzo della musica del nostro paese
d’origine: così io e Richard abbiamo portato rispettivamente una folk song svedese da me riarrangiata e Ma mère l’oye di
Ravel arrangiata da lui, oppure la canzone di Trénet Que reste-t-il de nos amours.
Ho apprezzato molto l’idea che nel
disco siano esplicitate le radici della
propria tradizione. Come nasce questo
tipo di rapporto tra jazz e tradizione?
Per quanto mi riguarda, non posso togliermi di dosso la musica che ho ascoltato da bambino, a scuola, in casa, anche la
musica tradizionale: fa parte del proprio
bagaglio culturale. Per esempio le folk
songs del mio Paese le ho cantate in classe, in famiglia, fanno parte di me, del resto era anche obbligatorio cantarle! [ride]
In qualche modo tutto ciò emerge quando scrivo musica, del resto amo sempre
riarrangiare brani della tradizione svedese. Ma devo dire che mentre componevo
ho voluto tener presente che stavo scrivendo per Paolo e Richard: sapevo che
sarebbero stati loro a suonare quei brani.
C’è un elemento che accomuna tutte le
nostre tradizioni musicali, quella francese, italiana e svedese: una grande vena
melodica, presente anche nella musica
popolare stessa. La musica svedese ha
una fortissima tradizione melodica, ma
del resto anche l’Italia e la Francia! Nel
mio ultimo album non a caso ho scelto
la grande canzone napoletana Reginella.
Martin Magntorn / cortesia Act
Dicevo che amo la musica del mio paese
e la descriverei in questo modo: la musica
tradizionale svedese è una musica in minore, ma è una musica che esprime una
triste allegria.
Una definizione molto suggestiva che
rimanda a tante altre tradizioni popolari: basti pensare alla saudade, che
non a caso è portata nel disco da un
brano di Jobim e Vinícius De Moraes, o
alla musica del fado che ha appunto un
misto di tristezza e allegria. Il titolo del
disco è giustamente evocativo, «Mare
nostrum», quasi a voler sottolineare
questo legame tra le diverse culture che emerge nella musica che avete
composto e suonato.
Abbiamo scoperto insieme una comune
visione della musica e del modo di suonare che con questa idea ha svelato la
connessione fra tre diverse tradizioni jazzistiche europee. Del resto il titolo «Mare
nostrum» sta proprio a indicare la condividisione di uno stesso habitat, le comune
radici. Il mare connette paesi, persone, ti
permette di fare degli incontri, di scoprire
dei legami. Così è stato sia per noi sia per
questa musica, come una scoperta che
lentamente è sorta dal nostro suonare
insieme e che è cresciuta nel tempo.
Luciano Rossetti / Phocus
Infatti potremmo dire che vi accomuna
proprio questa costante ricerca della
melodia. Inoltre, parlando della tua musica, tanto le tue composizioni quanto il
tuo modo di suonare sono molto essenziali e allo stesso tempo trasparenti,
chiare. Qual è il tuo percorso musicale?
Come nasce il tuo modo di suonare e
comporre?
Il trio del pianista
Jan Lundgren: da
sinistra, il
batterista Zoltan
Csörsz Jr, il
leader e il
contrabbassista
Mattias Svensson
(nello stesso ordine
sono nella pagina
seguente).
mi esprimo nel jazz
-perché
improvvisando è
difficile nascondersi -
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ritratti
Martin Magntorn / cortesia Act
Innanzi tutto non so spiegarti perché io
suoni così. Posso solo dire che per me suonare vuol dire mettermi a nudo cercare di
esprimermi il più possibile; nel jazz, proprio
perché si improvvisa, è molto più difficile
nascondersi. Forse è questo il senso della
«trasparente» che dicevi. Inoltre devo dire
che la musica è come uno specchio di me,
se suono in questo modo è perché effettivamente ho una certa personalità che mi
permette di esprimermi così. Per quanto
riguarda la mia formazione, ho iniziato ad
ascoltare jazz a quindici anni: avevo una
maestra di pianoforte che mi ha insegnato
la musica classica (è questa la mia iniziale
formazione), ma quando rimase incinta fu
sostituita da un altro insegnante, di origine
tedesca, che mi disse che avremmo fatto
cose diverse. Mi diede come primo compito quello di andarmi a comprare un disco
di Oscar Peterson e di ascoltarlo; lui amava Peterson. Era qualcosa di completamente diverso da quanto avessi ascoltato
fino a quel momento, ma devo dire che me
ne innamorai subito: il suono, il ritmo. Da
allora volli sapere sempre di più di jazz e
iniziai ad ascoltare tutti i grandi: Bill Evans,
Bud Powell, McCoy Tyner, Errol Garner.
All’inizio, com’è ovvio, cercavo soprattutto
di imitarli tentando di suonare come loro
piuttosto che trascriverne gli assoli. Questa è stata la mia educazione jazzistica,
parallelamente allo studio del pianoforte
classico che ho portato avanti negli anni e
in virtù del quale ho anche intrapreso una
carriera di concertista classico. In seguito
con degli amici fondai un trio jazz; suonavamo standard e devo dire che avevamo
anche un certo successo locale.
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Quando è avvenuto il salto nel professionismo?
Intorno ai 24 anni, cioè verso il 1990.
Suonavo sempre con il mio trio: con il
mio attuale bassista Svensson suono
infatti da una vita e lavoriamo molto insieme. A quei tempi quindi avevamo un
trio e quando i jazz club organizzavano
concerti con i grandi solisti statunitensi
chiamavano noi se avevano bisogno di
una sezione ritmica. Così andò la prima volta, quando mi chiesero se volevo
accompagnare Johnny Griffin. Mi dissi:
«Proviamoci!». Così capitò anche con
Benny Golson e con altri ancora. Tutto
ciò ha coinciso con la scelta di diventare
professionista: ho anche avuto il modo
di suonare con dei grandi.
Fino a ora abbiamo parlato del progetto con Fresu e Galliano, ma hai accennato a un tuo trio: puoi raccontarmi
qualcosa?
Il primo album a mio nome, per ritornare a quanto dicevamo precedentemente riguardo al legame con la tradizione
svedese, era intitolato «Swedish Standards» e conteneva appunto brani della
tradizione folklorica svedese riarrangiati per trio jazz. Con quel disco ho avuto
modo di confrontarmi, come già accennavo, con la mia musica nativa, con la
tradizione e con le radici nazionali. Inoltre è stato un album che ha riscosso un
grandissimo successo in Svezia, tanto
da aprirmi molte porte nella mia carriera, con premi, quale miglior album jazz,
nomination Grammy, presenza anche
nella classifica pop. Il passo successivo
è stato quello di cercare nella musica
europea dei brani che avessero questa
dimensione melodica e da qui è nato il
progetto «European Standards», con
canzoni provenienti da tutto il vecchio
continente e di diversa derivazione: canzoni popolari ungheresi – anche perché
il mio batterista Zoltan è di origine ungherese – nonché tedesche, polacche,
spagnole, francesi, svizzere, austriache
e naturalmente italiane. Ho scelto infatti
la canzone napoletana Reginella. La preferenza cade, come ho già accennato, su
canzoni che abbiano una vena melodica,
per questo ho scelto anche Here, There
And Everywhere di Lennon e McCartney:
l’idea è quella di prendere queste canzoni e cambiarle, ricrearle insieme in trio,
rendendole qualcosa di nostro. L’atmosfera e il modo di suonare questi brani
sono molto diversi da quelli più delicati
di «Mare nostrum».
Altri progetti per il futuro? Desideri
suonare con qualcuno in particolare?
Sono aperto a tutto, non ho particolari
progetti per il momento: preferisco vivere il presente.
Michael Alberga
Usiamo canzoni di ogni
-parte
d’europa: anche la
napoletana reginella -
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