instrumenta04_21_segnalazioni (33.258

Transcript

instrumenta04_21_segnalazioni (33.258
SEGNALAZIONI
Le football, symbole des vertus allemandes
Albrecht Sonntag in Le Monde diplomatique, novembre 1997, p. 28
Chissà come Benito Jacovitti
avrebbe immaginato una vignetta di
commento all'articolo di Albrecht
Sonntag, docente presso la normanna
Ecole supérieure de commerce Le HavreCaen?
Forse, ispirandosi alle ricorrenti
polemiche sull'inno di Mameli, quasi
mai cantato dai calciatori italiani
prima dell'inizio degli incontri della
Nazionale azzurra, avrebbe disegnato,
tra lische e salami, tre omini nasuti, in
calzoncini da football ed in posa compunta, tutti con la mano destra sul
cuore. Il primo che scandisce la Marsigliese, il secondo il Lied der Deutschen
germanico, il terzo, con la casacca blu
Savoia e con un enorme punto interrogativo all'interno del proprio fumetto.
Per quanto possa apparire frivolo
cercare contenuti "colti" in attività
ritenute sbrigativamente e riduttivamente "popolari", piace comunque
accostare in modo del tutto ipotetico
la sapida verve naive evocativa delle
virtù e dei vizi italici, tipica dell'artista
termolese di recente scomparso, all'analisi di alcuni significati sociali simbolici del gioco del calcio.
Probabilmente, come rilevato
d'altronde dallo stesso Sonntag a proposito delle celebrazioni tedesche del
centenario della nascita di Sepp Herberger (mitico allenatore della squadra
vincitrice della Coppa Rimet nel
1954), è infatti proprio in ambiti a
prima vista "secondari" (quali il calcio
e, aggiungeremmo, anche il fumetto a
larga diffusione di massa) che risulta
più facile rilevare "l'immagine stereotipata, radicata e durevole, che una collettività fornisce di se stessa, all'interno e all'esterno".
Riguardo al football, in special
modo, alcuni studi, come quello di
Desmond Morris sulla "tribù del calcio", appaiono, in tal senso, chiaramente significativi. Nelle società postmoderne, a forte qualificazione repressiva delle manifestazioni di aggressività
espresse da gruppi più o meno organizzati, gli stadi rimangono ormai tra i
pochi luoghi in cui è possibile in qualche modo dare sfogo consistente agli
istinti di confronto conflittuale tra unità
composte da elementi legati tra loro da
profondi processi identificativi di appartenenza a comuni retaggi simbolici.
387
SEGNALAZIONI
Ove sublimati, i valori su cui si
fondano tali koiné sociali assurgono ad
investiture di nobiltà culturale affatto
insospettabili. Con molta originalità
ed acutezza d'indagine, Sonntag ne
prende in esame uno in particolare, al
giorno d'oggi, in ben diverse sedi, adeguatamente considerato e temuto:
l'orgoglio nazionale tedesco, solleticato e confortato, stavolta, dai successi
agonistici del wunderteam domestico.
Sostiene l'autore che, "come rilevato dallo storico Christiane Eisenberg" nel saggio Fussball, soccer, calcio,
edito lo scorso anno a Monaco di
Baviera, "il calcio germanico si è
distinto, sin dalle origini d'inizio secolo, rispetto agli omologhi europei
inglese, francese e italiano, per il suo
marcato orientamento verso la squadra
nazionale piuttosto che per i clubs e le
formazioni locali ".
Tale fenomeno si è accentuato
successivamente al secondo conflitto
mondiale. Grazie alla vittoria del '54,
infatti, "nove anni dopo la fine della
guerra, i Tedeschi tornavano di nuovo
ad essere qualcuno ... Numerosi commentatori videro nella Coppa del
mondo la vera iniziazione della giovane Repubblica federale, capace di soddisfare una sorta di penuria psicosocia-
388
le del Tedesco medio del dopoguerra,
costituita dall'aspirazione alla redenzione ... rispetto alle colpe del passato.
Marciamo un po' più diritto, titolava",
in proposito, "la Suddeutsche Zeitung, sintetizzando l'impatto della vittoria sportiva nei confronti dell'emancipazione avviata con la creazione della
Repubblica federale del 1949".
"Venti anni più tardi, la Coppa
del mondo del 1974 consacrò il riconoscimento internazionale". Se, in
effetti, nel '54, la vittoria si era manifestata come "metafora sportiva" del
miracolo economico e della ricostruzione, quella casalinga di Monaco di
Baviera "segna il punto finale dell'integrazione germanica nel consesso
internazionale. L'ammissione nel seno
delle Nazioni Unite del novembre
1973 era stata" infatti "preceduta da
due premi Nobel particolarmente simbolici: quello per la pace, nel 1971", a
Willy Brandt, e "quello per la letteratura, nel 1972", a Heinrich Boll.
Ancora più significativo, se possibile, il successo romano del '90. È
l'anno, infatti, sia del terzo mondiale,
sia della riunificazione nazionale.
"Eppure, i due avvenimenti vengono
festeggiati in maniera molto differente. Mentre la celebrazione ufficiale del-
SEGNALAZIONI
l'unificazione del 3 ottobre", pur
dando "luogo a una importante mobilitazione a Berlino", appare tuttavia,
nella sostanza, abbastanza "contenuta,
... la vittoria sportiva dell'8 luglio
viene festeggiata dalla folla nelle strade, con la massiccia ostentazione, per
la prima volta, della bandiera nerorosso-oro, sventolata in parate automobilistiche «all'italiana», che durano
sino a tarda notte".
Come dimostrato da ultimo in
occasione della vittoria del '96 ai campionati europei in Gran Bretagna, la
Repubblica federale, secondo Sonntag,
appare vivere nei successi ottenuti
dalla propria squadra di calcio, ancor
più che negli stessi avvenimenti politici, una profonda "simbiosi tra football
e identità nazionale".
"Disorientata
dalla
morte
annunciata del solo, vero simbolo
nazionale, il deutschemark, irritata dal
ruolo ambiguo che le viene attribuito
in Europa («motore indispensabile»
ma anche, al contempo, «soggetto
proteso verso l'egemonia»), la Germania", come per le occasioni precedenti,
"ha riscoperto in un evento sportivo i
valori collettivi all'origine del decollo
post-bellico."
La vittoria finale della squadra di
Vogst, "seguita in televisione da almeno 33 milioni di tedeschi, è stata salutata per primo dal cancelliere Kohl,
che si è sentito in dovere di "evocare le
antiche virtù guerresche germaniche,
grazie alle quali" il team tedesco, pur
con gran fatica, resa "necessaria dalle
avversità d'occasione, con una bella
prestazione di solidarietà di gruppo,
ha finito per imporsi".
Certo, tenendo sempre a mente
le origini nazionali di Chauvin e riflettendo anche sulla chiusa del pezzo di
Sonntag ("Bisogna forse scorgere nelle
parole del Cancelliere un parallelo
voluto "tra il ruolo della squadra di
calcio e quello "che lui stesso intende
svolgere nella costruzione dell'Unione
europea? La parola tedesca che designa
il campione d'Europa - Meister - significa non solo campione, ma anche
«maestro» ..."), potrebbe a ragion
veduta supporsi, nell'analisi dell'autore, un pizzico di inconfessata, generalizzata aspirazione gallica all'emulazione, naturalmente riferita ai felici esiti
sportivi germanici.
Non si spiegherebbe altrimenti,
ad esempio, la costruzione alla periferia di Parigi di una gigantesca arena
sportiva, tanto velocemente allestita
per ospitare l'incontro di finale dei
389
SEGNALAZIONI
campionati di Francia '98, quanto,
con altrettanto rapida, sorprendentemente minuscola originalità, denominata Etade de France.
Se tutto ciò fosse vero, non si
commetterebbe allora gran peccato
nell'auspicare, per il prossimo luglio, il
tricolore (italico) sul pennone più alto,
al termine delle gare "mondiali".
Dopo aver letto l'articolo di Sonntag,
vien voglia infatti di considerare che,
per un'occasione del genere, varrebbe
forse la pena di prepararsi a ripetere
l'inno di Mameli. Per bene, parola per
parola.
P.L.
La burocrazia e la storia d'Italia.
Un tentativo di insegnare storia ai futuri dirigenti dello Stato
Guido Melis e Stefano Sepe in Le Carte e la Storia, 2/1997, pp. 63-68
È ben nota la severità della pena
comminata dall'art. 56 del nostro codice penale per il delitto tentato: da un
minimo di un terzo a un massimo di
due terzi della previsione edittale
disposta per il corrispondente reato
consumato.
Viceversa, se un giorno dovesse
pensarsi alla redazione di un "codice
premiale", con cui gratificare in concreto azioni a connotazione unanimemente qualificabili di benemerenza
sociale, un riconoscimento di rilievo
spetterebbe di certo a Guido Melis e a
Stefano Sepe per questo tentativo, ben
pensato e progettato, di introdurre à
vif la storia contemporanea - e, in par-
390
ticolare, quella delle amministrazioni
pubbliche - negli ambiti di insegnamento di base del corso di formazione
dirigenziale gestito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione.
Perché la storia? Con tautologia
scontata d'ambiente è sin troppo facile
rispondere: perché "ogni storia è storia
del presente". Un presente, altrettanto,
in gran parte sconosciuto, ove si dia credito a quanto sostenuto da Melis e Sepe.
Affermano, infatti, i due autori
che le "prove di ammissione" (al primo
corso-concorso di accesso diretto alla
dirigenza, bandito dalla Scuola superiore nel 1995 per 118 posti, con 24 mila
domande iniziali e, al termine, con soli
SEGNALAZIONI
102 vincitori) "hanno ampiamente confermato quello che chiunque viva nella
scuola o nell'Università sa per esperienza pratica: che i candidati non conoscono la storia, e in particolare quella contemporanea; che spesso soffrono di
lacune anche vistose persino sul piano
dell'informazione corrente; che difficilmente sono in grado di collocare i fenomeni della contemporaneità nell'àmbito
di adeguate conoscenze di base".
Si tratta di rilievi, peraltro, assolutamente in linea con le risposte,
tanto originali quanto sconcertanti per
distanza dall'esattezza reale, riportate
qualche tempo fa nelle prime pagine
dei quotidiani e fornite ai ricercatori
dell'università di Urbino dai frequentatori dei corsi universitari italiani, intervistati sulle vicende storiche degli ultimi anni del nostro Paese.
Se, però, l'incuria per la conoscenza della storia all'università può far
preoccupare, la medesima ignoranza di
settore, riferita ai dirigenti pubblici,
deve destare allarme generalizzato.
Nello scorso numero, segnalando
il saggio di Mario Rusciano "Formazione e professionalità della dirigenza
amministrativa" (cfr., Instrumenta,
3/1997, pp. 1255-1260), si era già
avuto modo di sottolineare come se
può essere possibile discutere circa la
capacità di un dirigente "colto" di
gestire anche situazioni pratiche, sia
altrettanto indiscutibile che situazioni
pratiche, specie se collegate all'interesse
generale e incidenti sulla convivenza
civile, non possano essere gestite da
dirigenti privi di cultura.
Ebbene, ove si intenda per cultura, più che la ciceroniana cultura animi,
piuttosto la maturazione di una consapevolezza profonda di collocazione in
una dimensione caratterizzata dalla
vicenda storica del gruppo sociale cui si
appartiene, appare immediatamente
giustificata la caratura di necessità della
conoscenza della storia per ciascun
dirigente pubblico.
Essa, in tal senso, soprattutto per
ciò che concerne la nouvelle vague di
young managers che ci si attende provenga dal corso-concorso della Scuola
superiore, meno che mai può ritenersi
surrogabile dalla cultura legalistica,
sinora incontrastata dominante in
ambito amministrativo.
Da un punto di vista concettuale, infatti, cultura legalistica quale cultura degli atti e cultura storica quale
cultura dei fatti non possono che confliggere.
Non a caso, come ricordato da
391
SEGNALAZIONI
Melis e Sepe, "trascurata o espulsa la
storia nei concorsi per l'accesso all'amministrazione statale già agli inizi del
secolo", man mano "è come se l'amministrazione italiana avesse operato ...
un gigantesco processo di rimozione:
invece di coltivare la propria memoria,
di conservare e curare le proprie fonti
storiche, di addestrare i propri funzionari inducendoli a riflettere sull'esperienza del proprio passato, l'amministrazione ha in genere preferito ignorare totalmente e premeditatamente ogni
sia pur minimo riferimento alla storia
amministrativa".
Senza memoria e senza consapevolezza di sé (cioè senza cultura) si
perde, come purtroppo spesso sino ad
oggi avvenuto, il senso dell'orientamento.
Per recuperarlo - o, almeno, per
iniziare - Melis e Sepe propongono due
moduli d'intervento. Il primo consiste
in un corso annuale di allineamento di
base sulle tematiche di storia politica e
costituzionale, dall'Unità alle politiche
governative degli ultimi anni. Il secondo, anch'esso della durata di un anno
e, quindi, sviluppato sino al termine
dell'attività didattica dei futuri dirigenti presso la Scuola superiore, prevede lo
specifico approfondimento della storia
392
della pubblica Amministrazione.
Pur non ponendo l'accento - probabilmente, per ovvie esigenze di concisione dettate dal menabò de Le Carte e
la Storia - su alcuni presupposti di grande interesse (una domanda, per tutte: in
quale contesto formativo generale
andrà ad inserirsi, ad integrarsi e ad
interagire il progetto di storia?), la proposta di Melis e Sepe evidenzia almeno
due, notevolissimi punti di forza.
Scorrendo il programma, balza
all'occhio l'intento degli estensori di
contrastare il già ricordato "gigantesco
processo di rimozione" attraverso l'attivazione di meccanismi di analisi e comprensione delle ragioni politico-istituzionali che hanno determinato gli eventi amministrativi. Storia amministrativa, in altri termini, intesa, in primis,
quale storia istituzionale (economica,
politica, sociale) nazionale. Un compito
didattico tanto impegnativo quanto stimolante attende, in tal senso, i docenti
cosiddetti "esterni": storici "puri" e storici, appunto, delle istituzioni, quali
Raffaele Romanelli, Giorgio Rochat,
Claudio Pavone, Piero Craveri.
Di specifica significatività, infine,
appare l'attenzione riservata alle "cesure" riformatrici della storia amministrativa italiana (la riforma "De Stefa-
SEGNALAZIONI
ni", l'attività dell'Ufficio per la riforma
burocratica, il "Rapporto Giannini", le
riforme amministrative in itinere). In
una vicenda, come appunto quella
della riforma amministrativa, assai
spesso clamorosamente, di recente,
all'ordine del giorno - ma, forse, altrettanto poco conosciuta per ciò che concerne il suo antico sviluppo - chi ci
considera il Paese dei Gattopardi troverebbe molto materiale di studio.
Con il progetto segnalato, dunque, culturale prima ancora che didat-
tico, gran merito di Melis e Sepe (e qui
non si può non scorgere il segno dell'insegnamento, rispettivamente, di
Roberto Ruffilli e Giovanni Marongiu)
è quello di invitare tutti i lettori a considerare più e meglio la storia amministrativa. Forse solo per questo ai due
autori dovrebbe essere indirizzato l'augurio che, almeno stavolta, a partire
dai dirigenti destinatari dell'iniziativa,
il termine tentativo non significhi cogitare, agere, sed non perficere.
P.L.
393