Avere vent`anni a Gaza

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Avere vent`anni a Gaza
Avere vent’anni a Gaza
Storie di ordinaria follia nella Palestina di oggi
Sandra D’Urzo
Gaza, luglio 2001
Ismail e Iyad non si conoscevano. Li ha riuniti una data, il dodici luglio 2001, un boato riecheggiato per tutta la striscia di Gaza e i manifesti che li ritraggono uno a fianco all’altro tappezzando i muri scrostati delle case. Qui a Gaza i muri parlano: più forte delle manifestazioni di piazza, più esatti di una testimonianza oculare, più violenti di qualunque dichiarazione di guerra; è un popolo intero che esprime la sua rabbia sulla pietra e inonda di frustrazione le strade. A Gaza sono i muri che fanno la storia, e la raccontano con scritte vermiformi e chiazze di colore che disegnano autobus esplosi, navi segnate con la stella di Davide che annegano in una linea di spray rossa e la mappa della Palestina circondata a sua volta dalle immagini dei martiri, gli shahid, venerati come santi di una crociata disperata, in cui ormai ogni mezzo è lecito. Kamikaze o suicide­ bombers li chiama invece il resto del mondo quando descrive uomini che decidono di morire fabbricandosi una carica di esplosivo legata stretta stretta al proprio corpo, e si fanno saltare in aria insieme al nemico. Sono loro che, pagando con la propria vita il loro “tributo” alla causa palestinese, si stanno trasformando nell’unica minaccia capace di infliggere perdite nell’esercito israeliano e di terrorizzare l’intera società civile. Lungo queste strade polverose invece ogni bambino conosce per nome il suo shahid, lo considera il suo eroe personale perché magari abitava nel suo quartiere, sa dove vive la sua famiglia e ti mostra fiero la sua “collezione di kamikaze”, come se si trattasse dell’album delle figurine dei calciatori. Ma a Gaza non esiste neppure un fazzoletto di terreno libero, un parco giochi o un’altalena, figuriamoci un campo di calcio. La densità della striscia ha l’onore di essere tra le più alte del mondo, sobborghi ammassati senza nessuna concessione all’estetica, un’unica colata di cemento e armature di ferro che sbucano da palazzi i cui piani raddoppiano ogni anno: una cinquantina di chilometri di terra spalmati lungo la costa, per una decina in larghezza, in cui vivono appiccicate un milione e duecentomila persone. I bambini allora giocano come possono, inventando giocattoli inesistenti o imitando suoni diventati ormai familiari, ra­ta­ta­ta fa la raffica del mitra, e orientano l’estremità del bastone verso un puntino all’orizzonte. Alzando lo sguardo si vede che il puntino è in realtà una postazione militare israeliana, un gabbiotto mimetizzato con fogliame finto, appeso ad una gru piazzata proprio all’ingresso di una colonia israeliana. “Stai alla larga”, mi avverte un ragazzino dal viso brunito e gli occhi a mandorla, “se ti avvicini sparano”. Qui un bambino impara presto il significato di parole usate dai signori della politica, termini asettici come “territori occupati”, “Zona A, B, o C”, sancite da trattati internazionali e bollate a seconda di chi le controlla, perché tradotte nel suo alfabeto diventano elementari regole di sopravvivenza: occupazione non è solo un uomo che ti osserva attraverso la canna del suo fucile, è saper misurare passo passo il proprio territorio, è imparare che in quella strada si può giocare in quell’altra no, quella lì è una duna di sabbia e quell’altra invece nasconde un carro armato. Il check­point dove mi portano si chiama Tufah, è quello dove è avvenuto l’attentato del dodici luglio in cui hanno perso la vita Ismail e Yihad ed un numero imprecisato di soldati israeliani in servizio. Già, quando si è in guerra si minimizzano le perdite militari, si incassa e basta, e ci si prepara al prossimo colpo da sferrare. Ismail e Yihad vivevano a Khan Yunis, non lontano da Tufah, passaggio obbligato per accedere a El Massawi, un’area fertile stretta tra gli insediamenti dei coloni ed il mare: è un’enclave in cui i viveri entrano col contagocce e non esce più nulla che Israele non controlli, come una cella di detenuti speciali nell’immenso carcere che è la striscia di Gaza.
Ismail da lì passava ogni giorno, per caricare insieme a suo padre e suo cognato la frutta e verdura proveniente da El Massawi, diretta poi al mercato di Khan Yunis: ogni mattina alle cinque si ritrovavano davanti al posto di blocco e, quando alle prime luci dell’alba arrivava il camion dal lato opposto, si poteva iniziare la manovra di trasbordo della merce, una cassetta per volta, sotto il controllo dei militari israeliani. Ismail si avvicina per primo, allunga il suo documento al soldato di guardia, si riconoscono appena ma quel giorno non scambiano una parola. “Back to back!” è l’ordine che scandisce il megafono: in termini militari significa disporre le code dei camion una contro l’altra in attesa di poter scaricare la merce. Ismail esegue l’ordine, fa manovra e scende. Conosce quel percorso a memoria, ogni tappa della meticolosa procedura di controllo, cammina lento perché sa che la minima esitazione farebbe saltare tutto il piano. Lucidità e sangue freddo. Ora è il turno del metal detector, un gabbiotto di lamiera posto alla fine della gimcana che serve a smistare la folla, anche se di gente quella mattina ce n’era pochissima, perché nelle ultime settimane c’è stato un’ulteriore giro di vite sugli spostamenti, in nome delle contrastate misure di sicurezza imposte nei territori. Iyad si avvicina alle spalle di Ismail, si ferma ad una trentina di metri di distanza e allunga il documento attraverso la fessura del bunker, solo il tempo di fissare il suo nemico dritto negli occhi. Poi Ismail preme sul detonatore ed un lampo, una deflagrazione scaraventa tutto in aria, gabbiotti, sbarre d’acciaio e brandelli di corpi dilaniati. La micidiale bomba legata al suo corpo crea il panico generale e trasforma l’aria in piombo fuso. I soldati rimasti illesi nel bunker si precipitano fuori.ma ora è il turno di Iyad che lancia loro addosso l’arsenale bellico che teneva in tasca: tira all’impazzata, reso cieco dall’odio e dalla follia che consumerà la sua vita in dieci secondi e una manciata di granate, sputate una dietro l’altra, prima di ritrovarsi anche lui a terra con ventotto colpi di mitra in corpo. Si è chiusa così un’altra puntata della lunga serie di episodi di violenza che si susseguono da dieci mesi nei territori occupati, da quando cioè è ricominciata la seconda Intifada ed i rapporti tra Palestinesi e Israeliani si sono degradati ogni giorno di più, al punto di dubitare se è possibile che la pace riemerga da tante rovine. Storie come quella di Ismail e Iyad vengono ormai liquidate con un minuto di commento dei telegiornali di tutto il mondo, mentre da queste parti si trasformano in lutti collettivi consumati a funerali densi di rabbia e di orgoglio, in cui le bare ondeggiano su folle oceaniche e le gigantografie dei martiri, immortalati con l’arma in pugno sullo sfondo di fiori primaverili e di tramonti, vengono poi affisse nelle aule delle scuole (“ I bambini di oggi sono i martiri di domani” è la scritta che si legge fuori da molti edifici scolastici battezzati col nome di un martire ). La scuola e la televisione sono diventati i migliori vettori di diffusione del culto dei martiri: i programmi scolastici vertono tutti attorno all’esaltazione dei movimenti di liberazione della Palestina, con tanto di cori patriottici cantati nei cortili, la seconda diffonde senza sosta immagini di bambini intenti a lanciare pietre montandole in sequenza a immagini di agonia e di sofferenza; così i giovani palestinesi alimentano fin da piccoli il fuoco di un’esistenza imprigionata, in un posto dove la morte è così presente da gettare la sua sinistra ombra su ogni gesto, segna intere generazioni e fa crescere i figli con l’edera della paura avvinghiata al corpo. “ Siamo sicuri che moriremo comunque­ mi spiega Mohamed, un ragazzo appena laureato in chimica il cui sogno, come molti, è di proseguire gli studi all’estero­ se non domani tra un mese, se non con per un colpo di mortaio per un missile che ti finisce in testa o per una raffica che ti coglie per caso. Il malessere che sentiamo è quello provocato dalla precarietà della nostra stessa vita. Quando sai che morirai lo stesso è molto più facile ucciderti, credimi.” Se finora si pensava di poter ricostruire il profilo­tipo dei kamikaze identificandoli con giovani non sposati, spinti da fanatismo religioso e senza un alto livello di istruzione, ci si accorge adesso che sempre più spesso invece si tratta di studenti universitari appartenenti a classi sociali agiate, lavoratori o padri di famiglia. Ancora più sorprendente è che alcuni portavoce dei gruppi che rivendicano gli attentati suicidi (Hamas e la Jihad islamica) affermino che sono sommersi da candidature di giovani donne, come se
la febbre da martirio abbia contagiato ormai indiscriminatamente. Ma cosa spinge un persona a svegliarsi la mattina, baciare la moglie e abbracciare i figli e uscire dalla porta di casa sapendo che non tornerà più indietro? “ Decine di migliaia di giovani vengono da me”­ afferma lo sceicco Ahmad Yassine, leader spirituale di Hamas­“a chiedere il mio benestare dicendo di essere pronti a farsi saltare in aria per causare il massimo danno al nemico. Questo perché riteniamo che sia il metodo più efficace per far capire all’invasore israeliano che il persistere della spoliazione delle nostre terre e l’estensione delle colonie non saranno mai accettate da alcun Palestinese e che siamo pronti anche a sacrificare la nostra vita perché finisca”. “Non sono d’accordo con gli attentati suicidi” afferma invece Mohammed Ayaub Abuhadrous, uno scrittore originario della zona di Haifa, vissuto a lungo nei campi profughi intorno a Gaza e ora professore a Khan Yunis, ”il rispetto della vita è uno dei princìpi sui quali si fonda non solo la religione islamica ma qualsiasi società civile. Dobbiamo combattere l’occupazione israeliana, è vero, ma non istigando un’intera generazione­ i nostri giovani tra i venti e i trent’anni­ a togliersi la vita. Ci servono vivi, non morti. Ci servono le loro braccia ma soprattutto le loro menti.” Mohammed mi porta a trovare la famiglia di Iyad, che vive quasi di fronte a lui. La sua stanza è rimasta com’era, spoglia, con un computer sul tavolo, il corano accanto al letto e delle strane chiazze nere sui muri. “Non sospettavamo di nulla” mi assicura Youssef, fratello maggiore di Iyad, “studiava moltissimo e andava alla moschea ogni giorno. Stava chiuso in camera per molte ore e parlavamo poco. Quando gli ho chiesto cosa stesse facendo mi ha risposto che preparava l’ultimo lavoro per i suoi studi di ingegneria elettronica: stava fabbricando un congegno e, quattro giorni prima di morire, mi disse che non appena finito avrebbe anche terminato i suoi studi. Un giorno tutta la famiglia era andata in campagna, mio padre, mia madre ed i miei quattro altri fratellini, ma Iyad era voluto restare a casa. Quando siamo tornati c’era puzza di bruciato fuori e dentro casa, Iyad ci disse che era scoppiata la bombola del gas che stava usando”. Non era vero. La bomba artigianale che Iyad stava assemblando gli era improvvisamente scoppiata tra le mani e lui cercò di ripulire al più presto le prove dell’esplosione avvenuta proprio nella sua stanza nascondendo il suo segreto fino all’ultimo. La sua famiglia ora si stringe compatta intorno alla sua memoria perché la pressione sociale e la beatificazione dello statuto del martire impone loro di fare prova di stoicismo e di non far trasparire alcun dolore. “I giorni più belli della mia vita sono stati quelli del mio matrimonio e del funerale di mio fratello” risponde serio Youssif, quando chiedo se sente qualche rimorso per non essere riuscito a impedire la sua morte. La madre, restata in disparte fino a quel momento, parla lenta ma decisa, con gli occhi annacquati che galleggiano sopra al velo nero. Chissà se si apre uno spiraglio nel silenzio delle donne della famiglia. “Nel futuro? Spero che gli altri miei cinque figli facciano la stessa cosa, inshallah”, dice senza esitare, fissando lo screensaver del computer, con la foto di quello che era il suo secondogenito. L’unica voce fuori dal coro è quella del padre di Ismail, un uomo dall’espressione dura e gli occhi profondi in cui è facile riconoscere il figlio. Si strofina la barba lentamente, cercando l’ombra sul terrazzo di casa, mentre il caldo imputridisce l’aria. Non ha voglia di parlare, Nadher, e soprattutto non vuole ricordare per l’ennesima volta la scena dell’esplosione in cui è morto suo figlio. “L’ho sentita dal terrazzo di casa, stavo riposando, poi è accorsa gente dicendomi che Ismail si era fatto saltare con la dinamite.” Il giorno del funerale, mentre da un lato della città la morte di Iyad veniva celebrata tra applausi e botti multicolori, lui si avvolse nella sua tunica bianca, mise la kefiah in spalla e proibì fermamente a tutti gli esponenti della Jihad di avvicinarsi al corteo funebre, accusandoli di essere i mandanti, e quindi gli assassini di suo figlio. Niente festeggiamenti, nessun incappucciato col mitra in spalla (si riconoscono i membri della falange armata di Hamas, chiamata Azzedine al Qassam, perché compaiono come fantasmi per qualche minuto, solo in occasione dei funerali, e si diluiscono nella folla subito dopo), niente cori inneggianti alla liberazione della Palestina. Adesso Nadher è comunque costretto a convivere quotidianamente con il ricordo, perché non può fermare le tipografie che stampano
migliaia di poster di suo figlio e rivestono le case del suo quartiere o impedire di ritrovarselo affisso nei negozi e nei bar di Khan Yunis. Qualche settimana dopo la morte di Ismail e Iyad sono invece arrivate le ricompense abituali, considerate il “risarcimento” alle famiglie degli shahid: un generoso assegno con la cifra tonda di diecimila dollari da parte di Saddam Hussein, il presidente iracheno, che dimostra così la sua solidarietà con gli attori della seconda Intifada, duemilacinquecento di Hamas e circa lo stesso importo da parte dell’Autorità palestinese. La vita da queste parti si liquida in dollari, signori. Le ricompense quindi arrivano anche da dietro le quinte, dai gruppi che rivendicano le azioni dopo mesi di addestramento dei candidati­suicidi, i cui membri rimangono appostati vicino al luogo dove avverrà l’attentato in modo da filmare la sequenza in diretta e mandare poi la videocassetta chiusa nella busta dei risarcimenti. Il rituale prevede che nel video il martire dichiari le sue ultime volontà leggendo, nella pura tradizione profetica della wasiya, le raccomandazioni ai suoi dando loro appuntamento in paradiso­ si dice che i martiri vengano attesi da numerose vergini e che possano garantire a settantadue familiari il posto nell’aldilà­, poi mostri le armi che impugnerà qualche ora dopo ed infine, negli ultimi minuti del nastro, venga montata, nuda e cruda, la scena dell’esplosione. Il check point di Tufah è più desolato del solito, oggi, solo qualche vecchietta cammina con un carico di verdura che le incurva la schiena, ma i soldati israeliani non mettono comunque più un piede fuori dal bunker, per precauzione, e ti osservano attraverso una fessura non più larga di venti centimetri. I kamikaze sono in agguato, lo sanno benissimo, e possono colpire alla prima distrazione. Il soldato più fortunato sta proprio lassù, rinchiuso nel gabbiotto appeso alla gru, perché scavalcando con lo sguardo le dune di sabbia vede il mare, e da lì forse si può ascoltare meglio il rumore della vita, tra troppa gente resa ormai sorda dalle esplosioni e dalla dinamite.