Gaza: lo scacco della politica

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Gaza: lo scacco della politica
del dialogo non portano che alla guerra», ha voluto incoraggiare «le iniziative e gli sforzi di quanti, avendo a cuore
la pace, stanno cercando di aiutare
israeliani e palestinesi ad accettare di
sedersi attorno a un tavolo e di parlare.
Iddio sostenga l’impegno di questi coraggiosi “costruttori di pace”!».
Solo il negoziato
può garantire la sicurezza
L’udienza tradizionalmente riservata dal pontefice al corpo diplomati-
co accreditato in Vaticano per gli auguri per il nuovo anno, poi, non poteva mancare l’occasione di ricordare la
«recrudescenza di violenza che provoca danni e immense sofferenze alle
popolazioni civili» e levare un forte
appello a rilanciare la via diplomatica:
«Questa situazione complica ancora
la ricerca di una via d’uscita dal conflitto tra israeliani e palestinesi, vivamente desiderata da molti di essi e dal
mondo intero. Una volta di più, vorrei
ripetere che l’opzione militare non è
una soluzione e che la violenza, da
qualunque parte essa provenga e qualsiasi forma assuma, va condannata
fermamente. Auspico che, con l’impegno determinante della comunità internazionale, la tregua nella Striscia di
Gaza sia rimessa in vigore – ciò che è
indispensabile per ridare condizioni di
vita accettabili alla popolazione – e
che siano rilanciati i negoziati di pace
rinunciando all’odio, alle provocazio-
Gaza: lo scacco della politica
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opo più di venti giorni dall’inizio dell’attacco israeliano,
dai bunker della città giungono messaggi come questo:
«Gaza non è morta e neppure è viva». Anche rispetto
ad Hamas sarà molto arduo arrivare al giorno in cui si potrà dichiararne il decesso politico e organizzativo. Se non giungerà
quella data si avrà sempre a che fare con un organismo tanto
debilitato quanto difficile da sopprimere e quindi, per definizione, sempre più inquietante.
Nel 2005 l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon
compì due operazioni di grande ardimento: impose lo sgombero unilaterale dei coloni israeliani dalla Striscia e scombinò il
sistema politico interno, basato fino ad allora sulla polarità Laburisti-Likud (più raggruppamenti minori), creando un nuovo
partito: Kadima. Il ritiro da Gaza e il muro in via di costruzione
che ridefiniva i confini con la Cisgiordania dovevano garantire,
unilateralmente, la sicurezza e l’ebraicità d’Israele. Nel complesso le misure allora adottate avevano lo scopo sia di conseguire una stabilità politica nella riottosa democrazia parlamentare israeliana, sia di fronteggiare la minaccia demografica, l’insidia da sempre più forte rispetto alla definizione ebraica dello stato. Allo scadere del 2005 la ricollocazione della presenza
ebraica solo in contesti maggioritari non era completa: i coloni avevano lasciato Gaza, ma altri stavano ancora dentro diversi territori amministrati dall’Autorità nazionale palestinese
(ANP). Inoltre, pure dopo l’esaurimento della seconda intifada
e il passaggio dell’onda di piena degli attentatori suicidi, il tema della sicurezza non era risolto in modo assoluto; restava,
per esempio, il problema dei confini Nord e di quelli con la Siria. Kadima non aveva ancora concorso alle elezioni e fino alla
chiusura delle urne non si può essere mai sicuri. Tuttavia, in
quel frangente, era possibile individuare una linea politica sufficientemente precisa (cf. Regno-att. 16,2005,523).
Nel gennaio del 2006, a poche settimane dalle elezioni,
Sharon fu colpito da emorragia cerebrale. Da allora la sua persona e i suoi disegni politici non sono né vivi, né morti: si ripropone la metafora del «semivivo».
Nelle elezioni del 2006 Kadima vinse, ma in maniera tutt’altro che travolgente, mentre il suo leader, il ministro Ehud Ol-
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mert, non ha mai convinto. Egli, ben prima che gli scandali imponessero le sue dimissioni e la conseguente fissazione di elezioni anticipate, è stato sempre tallonato dalla fama di essere
personaggio incolore ed estraneo a quel mondo militare da cui
sono provenuti molti dei leader politici israeliani dell’una e
dell’altra parte. La guerra del Libano contro gli hezbollah filoiraniani del 2006, che avrebbe dovuto dargli autorevolezza, ebbe un effetto boomerang. Il suo esito precario contribuì a indebolire ulteriormente la leadership israeliana. L’inquietante
vicino a Nord non fu fiaccato. Il prestigio dell’esercito precipitò in una caduta libera a motivo dell’inefficacia sul piano militare e delle vittime civili che caratterizzarono l’operazione.
Hamas contro Fatah
Il 2006 fu anno elettorale anche nell’ambito dell’ANP. Nelle elezioni – le prime svoltesi dopo la morte di Arafat e l’avvento alla presidenza di Mahmud Abbas (Abu Mazen) – Hamas
(movimento cresciuto anche con l’aiuto d’Israele in funzione
anti-Fatah) conseguì la maggioranza assoluta dei seggi. Il risultato fu non l’instaurazione di una normale dialettica tra maggioranza e opposizione, ma uno scontro aperto tra le due
componenti. Nel 2007 l’organizzazione islamista politico-militare-assistenziale di Hamas ha espulso manu militari Fatah da
Gaza; nel contempo i funzionari eletti di Hamas furono allontanati dalle loro posizioni (o a volte persino eliminati) dall’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania e i loro posti furono assegnati ai rivali di Fatah o a membri indipendenti. Inoltre
il presidente palestinese Mahmud Abbas (Fatah) emise un decreto che poneva fuorilegge le milizie di Hamas.
Nel corso del 2008, nonostante la proclamazione di una
tregua, dalla Striscia di Gaza governata da Hamas continuarono a piovere sulla parte Sud del territorio israeliano missili,
che, per quanto di scarsa gittata ed efficienza, costituivano
una sfida lanciata alla sovranità di uno stato da parte di un’entità non statuale. Da questo punto di vista la data di scadenza
della tregua, il 19 dicembre, non ha segnato un gran mutamento. Né si può immaginare che l’operazione «Piombo fuso», preparata da mesi, sia stata effettivamente motivata dall’intensi-
ni e all’uso delle armi. È molto importante che, in occasione delle scadenze
elettorali cruciali che interesseranno
molti abitanti della regione nei prossimi mesi, emergano dirigenti capaci di
far avanzare con determinazione questo processo e di guidare i loro popoli
verso la difficile ma indispensabile riconciliazione. A questa non si potrà
giungere senza adottare un approccio
globale ai problemi di quei paesi, nel
rispetto delle aspirazioni e degli inte-
ressi legittimi di tutte le popolazioni
coinvolte» (8.1.2009). Questo richiamo del papa alla comunità internazionale è stato anche tradotto dall’osservatore permanente della Santa Sede
presso le Nazioni Unite a Ginevra,
mons. Silvano M. Tomasi, in una richiesta d’intervento diretto dell’ONU,
il 9 gennaio, nel corso della IX Sessione speciale del Consiglio per i diritti
umani.
«È evidente che le parti in guerra
ficazione dei lanci nei giorni immediatamente successivi alla
tregua. Il governo israeliano, da tempo potenziato con l’ingresso del laburista (ex militare ed ex premier) Barak alla difesa, l’aveva già decisa in precedenza. I motivi per l’attacco si erano via
via addensati: portare a compimento a Sud, contro una forza
militare ben più debole di quella degli hezbollah, l’operazione
mal riuscita a Nord, sfruttare la transizione di potere negli Stati Uniti, invertire la tendenza elettorale che dava per vincente
il Likud di Netanyahu, mostrare che uno stato può scegliere gli
interlocutori non statali con cui discutere optando per Fatah
(in passato si era giocata la carta di Hamas contro Fatah: adesso si invertono i fattori). Restava più incerto che cosa significasse questa operazione in rapporto agli stati arabi. Era chiaro
che nessuno di essi sarebbe intervenuto nella guerra, ma a chi
sarebbe toccata la posizione principale nel momento in cui si
sarebbe inevitabilmente giunti a trattare una tregua?
Operazione «Piombo fuso»
L’esperienza libanese del 2007 ha ulteriormente confermato che le guerre non si possono vincere solo dal cielo: la vecchia terra è ancora un elemento indispensabile; dall’alto si possono arrecare distruzioni, non controllare territori. L’operazione «Piombo fuso» ha dunque comportato anche l’uso dei
tank. Entrare con bombe al fosforo e artiglieria pesante in una
delle aree più densamente popolate del pianeta (circa un milione e mezzo di persone per 378 km2) significa mettere in
conto l’uccisione di un gran numero di civili, creare profughi,
colpire ospedali e sedi ONU. Le atrocità pesano. L’attenzione,
proporzionalmente elevatissima, dedicata dai media agli eventi mediorientali diffonde immagini strazianti a livello globale.
L’opinione pubblica mondiale coglie la «sproporzione della ritorsione» (ma l’operazione non può qualificarsi affatto come
una ritorsione) e stenta a comprendere il pericolo costituito
da Hamas – tema, quest’ultimo, lasciato in monopolio, in modo sprovveduto, alla destra antislamica.
Per quanto, con ogni probabilità, fosse stato messo in conto, Israele sta pagando prezzi umanamente e moralmente
inaccettabili. Tuttavia nella sfera politica questo rischio potrebbe anche avere un senso se ci fossero all’orizzonte degli
sbocchi. La domanda cruciale sta perciò nel chiedersi che cosa Israele pensi di ricavare politicamente dall’uso della forza.
Attraverso l’operazione «Piombo fuso» lo stato ebraico ha colpito qualche alto dirigente di Hamas – primo fra tutti il «mini-
non sono in grado di uscire da questo
circolo vizioso di violenza senza l’aiuto
della comunità internazionale». Quest’ultima deve dunque «assumersi le
proprie responsabilità, intervenire attivamente per fermare lo spargimento
di sangue, favorire l’accesso per l’assistenza umanitaria d’emergenza e porre fine a ogni forma di scontro». Nello
stesso tempo essa non può sottrarsi al
dovere di partecipare a «rimuovere le
cause che sono alla radice del conflitto,
stro degli Interni» Said Siam –, ma non è riuscito a impedire
che i membri del movimento sconfitto alzassero le dita in segno di vittoria. Non hanno torto: finché sussistono, anche se
«semivivi», lo possono fare. Hamas rientra nell’ambito di quei
movimenti che non si tirano mai indietro nel creare situazioni
che facciano aumentare il numero delle vittime; anzi, queste
ultime sono la loro forza, per loro l’odio è un inestinguibile bacino di consenso. A seguito dell’operazione israeliana il ritorno
a Gaza di Fatah, con un Abu Mazen completamente screditato e incapace d’impedire la strage del suo popolo, è assai più
lontano di prima. Per Hamas la stessa ufficializzazione di una
tregua costituirà, se mediata da stati, un riconoscimento internazionale di alto profilo. Forse perciò Israele sarà costretto
un’altra volta a far ricorso a una decisione unilaterale. La strategia politica di lungo termine resta incerta e confusa. Il XXI
secolo, iniziato all’insegna di guerre messe in campo in luogo
della politica, sembra non voler desistere dal percorrere questo cammino perverso.
Nei mesi della transizione statunitense le mediazioni internazionali si sono dimostrate poco efficaci. L’Europa, lungi dal
cogliere l’occasione lasciata da quel vuoto, si è presentata divisa e legata a personalismi. Nell’area del Vicino Oriente cresce
la polarizzazione tra l’Egitto e la Siria. Nel campo del primo si
trovano altri alleati degli USA come la Giordania e l’Arabia Saudita, mentre dietro la Siria ci sono il Qatar, lo Yemen, l’Algeria
e, soprattutto, il non arabo Iran. Se si giungerà a una tregua attraverso la mediazione dell’uno o dell’altro, il massimo vantaggio politico dall’opzione militare israeliana toccherebbe a stati rimasti a guardare, dal di fuori, le operazioni belliche. Dentro
Gaza invece ci saranno più morti, più mutilati, più bimbi traumatizzati, più odio che, come è stato scritto, è capace di ricordo più di quanto non lo sia l’amore. Nelle prossime elezioni
israeliane, il laburista Barak e la leader di Kadima Livni dovrebbero conquistare la maggioranza parlamentare. Con ogni probabilità, pure loro si conformeranno, tuttavia, alla regola tipica
della democrazia malata dei nostri anni; vale a dire, anche per
loro sarà più facile vincere che governare. A meno che, dall’altra parte dell’Atlantico, non sia apparso, per davvero, un presidente che, dopo essere stato capace di vincere, dimostri di essere in grado di dare una rinnovata dignità al governare.
16 gennaio 2009.
Piero Stefani
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