Omelia nell`Eucarestia esequiale di don Mario Gazzola “Sorella
Transcript
Omelia nell`Eucarestia esequiale di don Mario Gazzola “Sorella
Omelia nell’Eucarestia esequiale di don Mario Gazzola Treviso, Tempio di S. Nicolò, 11 marzo 2015 “Sorella morte” ha visitato ancora una volta il nostro presbiterio, che dall’inizio dell’anno registra ben otto decessi di sacerdoti. Sono eventi che questa chiesa di Treviso accoglie nella fede, scorgendo in essi quella “chiamata ultima” del Signore che conduce – così noi crediamo e per questo noi preghiamo – all’incontro con Colui che ha su ogni creatura un progetto di amore. Anche don Mario Gazzola, sacerdote di Cristo, dopo una lunga esistenza – 95 anni di vita e quasi 69 anni di sacerdozio – è giunto alla mèta. Noi in questa Eucarestia, mistero pasquale di morte e risurrezione, lo affidiamo a quel Signore che egli ha a lungo amato, servito, annunciato. Abbiamo ascoltato le parole di Gesù: «Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato» (Gv 17,24). Ci colpisce questa volontà del Signore: il Padre ha consegnato i suoi figli a Cristo, e Cristo li vuole, li porta con sé: «siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria». Noi siamo qui per questo: a chiedere che, purificato da ogni peccato, il nostro don Mario sia là dove è Cristo; dove la sua gloria – il suo amore, la sua donazione – può essere finalmente contemplata, assaporata, accolta in tutta la sua pienezza, in tutta la sua bellezza. Don Mario è stato uomo di fede. Noi vogliamo credere che, giunto all’incontro definitivo con Cristo, egli possa esclamare, facendo sue le parole di Isaia: «Questi è il Signore in cui ho sperato» (cf. Is 25,9). Don Mario è stato anche uomo per gli altri. Tutto il suo impegno era dettato, come si può leggere nelle sue lettere, dal “bene delle anime”: una vecchia formula, se vogliamo, ma che esprime bene un vero animo sacerdotale; l’atteggiamento di chi, avendo incontrato il Signore e avendone accolto con entusiasmo la chiamata, sente che la sua vita deve lasciarsi plasmare dalla donazione propria di Cristo. «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli [Cristo] ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,16). Noi vogliamo credere che queste parole di Giovanni, ascoltate nella seconda lettura, abbiano costituito la ragione di fondo di tutto l’impegno di don Mario. Come dicevo, una lunga vita quella di don Mario; ma anche una vita complessa e difficile da raccogliere, tante e così diverse essendo state le iniziative e le imprese, per molti aspetti coraggiose, nelle quali egli si impegnò via via, con encomiabile entusiasmo e buona fede, ma con esiti non sempre positivi, esponendosi anche, nel mondo ecclesiastico e in quello civile, a dubbi, critiche ed opposizioni. E se la sua è – come si è detto – un’esistenza difficile da raccontare, quanto più deve essere stato per lui difficile viverla, soprattutto in alcuni passaggi inevitabilmente dolorosi. Rileggendo molte sue lettere, si ha netta la sensazione di una nobilissima intenzionalità pastorale, indirizzata soprattutto ai giovani. Mi pare giusto, in questo momento, sottolineare questa sua nitida volontà di fare del bene, sulla quale credo che nessuno possa dubitare. Certo, si deve riconoscere che, insieme alla generosità e alla dedizione, non è mancata una certa ingenuità – forse era l’ingenuità che sovente accompagna l’impegno dei buoni – che ha portato a sottovalutare la dimensione istituzionale e gestionale delle opere avviate. E così si sono verificate situazioni nelle quali egli è stato ingannato da persone, collaboratori o soci, a cui si era affidato. Sorprende, in ogni caso, la tempestività con cui egli colse i tempi nuovi, quelli che aprivano ai giovani la prospettiva e l’esercizio degli sport, grazie al crescere del tempo libero, fino agli inizi degli anni ’60 sconosciuto ad una società che era ancora sostanzialmente agricola. E insieme con il tempo libero si andava via via affermando anche il turismo, il diffondersi delle ferie estive, non più solo privilegio di alcuni ceti sociali, ma opportunità offerta a tutti. Su queste nuove realtà don Mario costruì il suo progetto di ferie per i giovani delle associazioni cattoliche, ACLI e Azione Cattolica, in due strutture alberghiere “Albergo Juventus” e “Casa della Gioventù” ad Auronzo di Cadore, rinomato centro turistico dolomitico. Per lo sport giovanile, sempre tra gli anni ’50 e ’60, rilevò dal demanio, attraverso una convenzione sottoscritta dalla Diocesi, l’ex chiesa di S. Margherita in Treviso, con l’intero compendio, facendone una importante sede di attività sportive giovanili denominata “Gymnasium”. Nel contempo, in quegli stessi anni, era presente nelle scuole superiori cittadine come insegnante di religione, con documentate testimonianze di apprezzamento. Fin dall’inizio del ministero sacerdotale don Mario fu spinto dalla ricerca di forme di apostolato che non coincidevano con la consueta tradizione dei giovani preti della sua generazione: una spinta, insieme, di generosità e di inquietudine che lo portavano a passare da una prospettiva apostolica ad un’altra, proponendosi per questa o quella mansione. Già nel 1947, dopo un anno di ordinazione, di propria iniziativa don Mario si propone a Roma come cappellano degli emigrati italiani in Europa, venendo dissuaso dai superiori. Nel 1948, allora cappellano di Fagarè, chiede e ottiene di entrare nel Collegio dei Sacerdoti Oblati diocesani, con questa motivazione: «Nel vivo desiderio di consacrare tutta la mia vita di sacerdote al servizio della diocesi in forma più generosa e nella larga speranza di trovare un mezzo di maggior perfezione interiore e apostolica…». Nel 1955 frequenta, come altri sacerdoti diocesani, la Scuola biennale di Scienze Sociali presso l’Università Cattolica. Erano già vivi nel mondo cattolico quei fermenti che troveranno esito nel Concilio Vaticano II. Questo spirito buono don Mario lo conservò sempre, anche nel mezzo di problemi che investirono le sue opere e la sua persona. Con i superiori mantenne una continua, accorata corrispondenza, accettando disposizioni anche dolorose che egli accolse con obbedienza, se pur con grande e, talora, quasi insopportabile sofferenza. Colpisce una sua lettera del 1970 al Vescovo, nella quale egli rilegge la sua vita come una serie di incomprensioni nei confronti della sua persona e delle sue iniziative: rivendica la qualità dell’avviata attività sportiva giovanile del “Gymnasium” e dell’attività pastorale al servizio del turismo. La lettera assume toni di dolente confessione: «Tutto ciò – scrive – ha portato il mio animo ad uno stato di crisi….», e conclude consegnando al Vescovo le ultime cose che gli restano: la direzione della palestra “Gymnasium” e l’insegnamento di religione nelle scuole cittadine. Per la verità, dopo laboriose trattative, a don Mario fu concesso di rimanere responsabile del “Gymnasium” per un altro lungo periodo, dato che la riconsegna al demanio statale avvenne, per scadenza della convenzione, nel 1996. In quell’anno egli scrive al Vescovo manifestando ancora una volta con schiettezza le sue obiezioni rispetto alla decisione presa dai Superiori, ma conclude affermando: «Comunque accetto con serenità quanto è accaduto, vedendo in ciò, per quanto mi riguarda, la volontà di Dio». Vengono alla mente le parole con cui la Lettera agli Ebrei legge, in estrema sintesi, la difficile missione di Gesù: «Imparò l’obbedienza da ciò che patì» (Eb 5,8). E da quel momento, e in pochi anni, don Mario, figura pubblica in continua evidenza, si ritrae in una vita raccolta e quasi scompare. Ci viene da pensare che proprio in quella “crisi” che egli descrive stia l’inizio di un suo cammino di interiorizzazione e purificazione. Segno, quasi simbolo, di questo periodo è il confessionale, qui nel tempio di San Nicolò, dove egli donò ore ed ore, ogni giorno, alle anime che si accostavano al sacramento della riconciliazione. Offriva loro un intatto entusiasmo sacerdotale e la ricchezza di un’esperienza che lo aveva reso sapiente. Forse aveva fatto sue, attraverso le difficili vicende attraversate, le parole del Salmo 27: «Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?» (Sal 27,1). A completare questa sua dedizione, nell’eloquente e misterioso messaggio del perdono, egli volle donare al tempio di San Nicolò una pregevole pala, opera di un valente pittore, ispirata dalla celeberrima Ultima Cena di Leonardo. Perché, spiegava don Mario evocando la rigorosa disciplina della chiesa, la confessione prepara alla comunione perfetta con Gesù nell’Eucarestia. In questo luogo, nella sua lunga vecchiaia, don Mario ha trovato la sua pace. E ora, per l’eternità egli è commensale di Gesù, come suo “sacerdote in eterno”. È quanto noi, da credenti, per lui speriamo e desideriamo; e per questo preghiamo, mentre ringraziamo il Signore per averci donato questo sacerdote ricco di fede, di bontà, di generosità.