L`altra faccia dell`ICT

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L`altra faccia dell`ICT
Scriveva Simone de Beauvoir: «Signore si nasce, non si diventa». Forse, è vero anche per chi vuole fare il mestiere del
manager o dell’amministratore delegato. Che si portino i pantaloni o i tacchi alti, la sostanza rimane la stessa: le vittorie si
conquistano sul campo e i meriti, quando ci sono, vengono riconosciuti.
Fuori e dentro l’impresa, un esercito di “donne nuove” ha dato vita a una rivoluzione silenziosa, oltre i luoghi comuni e lontano
dai dati ufficiali sulla condizione femminile
di Giuseppe Mariggiò
Foto di Lorenzo Ceva Valla
Le donne nella storia dell’Ict sono sempre state l’altra faccia della Luna, quella che c’è, ma non si vede. A volte invisibili, a
volte dimenticate e solo per abitudine, oggi come ieri, relegate in categorie domestiche o addomesticate. Lo sviluppo della
tecnologia ha reso le donne protagoniste in prima persona, non però automaticamente vincenti a causa proprio di stereotipi
culturali persistenti che storicamente ne hanno ostacolato l’accesso a ruoli di comando. Eppure, l’altra faccia dell’industria Ict
sono proprio le donne, le cosiddette silicon lady (donne di silicio) che in più di una occasione sono venute in aiuto di aziende
hi–tech in difficoltà. Basti pensare a Carly Fiorina che quando era alla guida della Hewlett-Packard, la rivista Fortune l’aveva
definita «la signora più potente del decennio» o a Patricia Russo, capo di Alcatel-Lucent, colosso franco-americano per le
telecomunicazioni da 25 miliardi di dollari, oppure a Anne M. Mulcahy, chairman e Ceo di Xerox Corporation. In Italia, invece,
sembra che le uniche “silicon lady” a fare notizia siano quelle che affollano le pagine dei rotocalchi rosa.
Oltre le cifre delle indagini ufficiali, qualcosa lentamente sta cambiando fuori e dentro le imprese. Siamo andati a vedere di che
cosa si tratta e soprattutto chi sono le protagoniste di questa rivoluzione silenziosa, in più di una occasione, scontrandoci con il
pudore di apparire e il timore di esporsi troppo. Le donne che si affacciano a ruoli di responsabilità hanno spesso preferito o si
sono a volte accontentate di soluzioni sfumate, territori meno battuti e proprio per questo più innovativi. In queste zone
nuove, assai più che nel proscenio illuminato della nomenclatura ufficiale, troviamo il segno attivo di una straordinaria e
fantasiosa attività.
Non si tratta di una assenza e o di un vuoto storico che le donne di oggi, più libere di scegliere, sono chiamate a colmare, ma
si tratta soprattutto di riscoprire il loro contributo effettivo anche se troppo spesso dietro le quinte. La storia è piena di donne
che in ogni campo del sapere e in ogni epoca hanno lasciato una traccia significativa, tanto che ci vorrebbe una enciclopedia
per contenerle tutte. Se la storiografi a ufficiale ha trascurato o cancellato questo contributo è accaduto soprattutto per
incapacità o pigrizia interpretativa, perché gli schemi consueti mal si adattano a dare pienamente conto della realtà. Basti
pensare a quante donne avrebbero meritato il Nobel e non lo hanno ricevuto, alle donne che sono state alla guida di popoli
interi, da Golda Meir fino alla signora Thatcher e all’attuale cancelliere tedesco Angela Merkel, solo per fare qualche nome,
restando alla storia recente.
Forse molti lo ignorano, ma nel 1945 furono sei donne a “programmare” lo storico calcolatore Eniac. E al principio della
rivoluzione informatica, come non ricordare Marisa Bellisario, la donna manager più famosa d’Italia? All’inizio della sua carriera
alla divisione elettronica dell’Olivetti, si trovò di fronte niente meno che Franco Tatò che le propose di lanciarsi nel nuovo
mondo dei computer. Furono gli anni della fusione dell’Olivetti con la Bull e della cessione successiva alla General Electric. Poi
l’incarico alla Italtel. Quanto fossero però ancora pesanti i pregiudizi contro una donna lo avrebbe dimostrato di lì a poco
l’affare Telit, il grande polo italiano delle telecomunicazioni che doveva nascere dalla fusione dell’Italtel, ente pubblico, con
Telettra azienda del gruppo Fiat. A distanza di tanti anni è possibile ancora credere che l’accordo saltò solo per l’ostinazione
della Fiat nel negare a una donna l’incarico di amministratore delegato? O non fu, forse, perché Marisa Bellisario, in qualità di
manager, prima ancora che di donna, aveva dimostrato di ubbidire solo alle proprie convinzioni?
TUTTO CAMBIA
Tutto cambia, anche l’atteggiamento verso il lavoro. «Le donne e il potere? Una storia antica come il mondo. Oggi, sono
cambiati gli equilibri». Ne è convinta Lina Sotis, giornalista e scrittrice esperta di costume e per sua stessa ironica ammissione,
«le prime belle gambe a entrare al Corriere della Sera». Per la giornalista «le donne sono più libere di essere finalmente quello
che vogliono, non si dividono più in belle e stupide e brutte e intelligenti.
Le donne hanno compreso che senza un marito si può esistere e resistere, senza un lavoro no. La generazione femminile
prima di questa andava a lavorare solo se c’era bisogno, era insomma una sconfitta più che un traguardo. Adesso si sentono
sconfitte quelle che restano in casa».
A Margherita Hack, astrofisica di fama internazionale e prima donna in Italia a dirigere un osservatorio astronomico, i discorsi
sul femminismo (vecchio o nuovo che sia) non interessano affatto. «Se questo è il migliore degli universi possibili – ci dice al
telefono – è evidente che le cose debbano fare il loro corso. Certo le donne che hanno tempo a perdere si fanno domande
legittime, ma a me non interessa trovare una risposta. Che ci sia differenza tra uomini è donne è un dato di fatto. Chi ha il
potere cerca di mantenerlo, lasciando fuori chiunque altro. Non è una questione che abbia a che fare con l’essere maschi o
femmine, ma con una brutta abitudine del genere umano e basta. Quanto alla mia esperienza posso dire che quando diventai
direttore dell’Osservatorio di astronomia di Trieste, le resistenze del mio predecessore furono davvero pesanti. Aveva una
mentalità tra l’asburgico e il paternalistico, non certo favorevoli alla libera iniziativa necessaria al lavoro scientifico. In un
primo tempo cercò di tenere lui le redini del comando, nonostante il mio incarico fosse ufficiale, ma dopo qualche mese di non
facile convivenza, fu lui a liberare la scrivania». Per il Premio Nobel, Rita Levi Montalcini «la storia della civiltà si divide in
categorie, vincitori e vinti, ricchi e poveri, forti e deboli. Alla categoria dei deboli si è creduto, per troppo tempo, che facessero
parte in blocco le donne. Nelle democrazie avanzate lo sviluppo scientifico e tecnologico ha permesso di aprire nuove
prospettive, maggiore libertà e anche nuove responsabilità per la donna. E’ in atto una evoluzione naturale dei ruoli maschili e
femminili in quanto sono i ruoli stessi a rinnovarsi.
Le donne hanno atteso con pazienza infinita che questo momento arrivasse. Ogni resistenza non solo è anacronistica, ma del
tutto inutile».
Per la senatrice Franca Rame «le donne sono di fatto obbligate a scegliere tra la famiglia e la carriera. Per gli uomini non è
così, solo perché dietro c’è una figura femminile, madre o moglie, che, come si usa dire, toglie loro le castagne dal fuoco. La
questione non è essere donne e agire da uomini, ma è una questione di pari opportunità che mancano». Ma le opportunità, in
quanto tali, possono essere però create per le donne contro gli uomini? E siamo sicuri che quella dei ercorsi di carriera, degli
“aiuti” all’imprenditoria femminile, delle cosiddette “quote rosa” più che essere «un male necessario» come dichiarano chi
difende queste misure, non rappresentino, nella realtà, una sorta di pregiudizio rovesciato destinato a perpetuare un
complesso di inferiorità nelle donne piuttosto che a renderle consapevoli del loro valore? Quarant’anni fa, Mary Quant
inventava la minigonna. Si tratta di una innovazione di enorme portata, milioni di donne decidono di acquistarla e indossarla,
attribuendole il valore simbolico dell’emancipazione femminile. Deve far riflettere però il fatto che solo vent’anni prima, nel
1945, il nostro Paese riconosceva alle donne il diritto di voto. Questo significa che i cambiamenti anche quando accadono
rapidamente hanno bisogno di molto più tempo per essere assimilati. Secondo i numeri di Federmanager, le donne
costituiscono solo il 5% dei dirigenti italiani. Il 95% dei posti di “comando” è nelle mani dei colleghi uomini. Nell’immaginario
collettivo sembra, infatti, fortemente radicata la figura di tre principali modelli di donne. Il primo è rappresentato dalla madre
di famiglia, dedita alla casa e alla cura della prole. Il secondo è identificata nella donna impiegata, spesso di livello sociale
medio-basso, costretta a lavorare per aiutare il bilancio familiare. Il terzo modello è quello della donna di potere o in carriera,
quasi un’amazzone che ha messo il lavoro al centro dei propri obiettivi di vita.
MAGNOLIE D’ACCIAIO
Il ruolo della donna, dunque, cambia e si evolve. Aumenta il numero di donne che riescono a occupare posizioni dirigenziali.
Ma centinaia di articoli e indagini sociologiche confermano che le donne con ruoli di responsabilità sono considerate da
opinione pubblica e media, troppo spesso, una specie da proteggere o un’eccezione che conferma la regola. Ma come è
possibile parlare di queste donne senza banalizzare talento e competenze, e soprattutto senza correre il rischio di riproporre
paradossalmente i soliti luoghi comuni sulla condizione femminile? Non si può non provare un certo disagio a parlare ancora
delle donne nella società contemporanea, come se fossero un blocco omogeneo di individui, votate a una sola causa, a una
sola idea, a una sola volontà. E questo disagio continua soprattutto quando a tracciare il profilo di queste donne è un uomo. Il
conflitto di interesse salta subito agli occhi. Per commettere meno errori possibili, ho raggiunto telefonicamente a Berlino,
Chiara Saraceno, professore ordinario di sociologia all’Università di Torino e mi sono fatto dare qualche dritta di
carattere metodologico. «Mi fa piacere – risponde – che qualche volta i giornalisti si pongano problemi di metodo.
Ciò che importa è imparare ad ascoltare, a “prendere la posizione dell’altro”. E non mi farei un problema del fatto di essere un
“giovanotto” che fa un servizio sulle donne. Come faremmo altrimenti a capirci e a costruire un linguaggio e un sistema di
riferimento comune?». Questioni di metodo a parte, per la professoressa Saraceno la proverbiale pazienza femminile
sembrerebbe però proprio agli sgoccioli: «Sono, come si capisce dalla voce, vecchia e forse – dico forse – un po’ più
diplomatica nelle parole, ma più radicale nel pensiero, perché davvero la pazienza è fi nita. E’ tempo di segnali forti soprattutto
dalle istituzioni e questo in Italia significa più donne alla guida di università, nei consigli di amministrazione delle aziende
pubbliche e delle istituzioni. Basta con le parole, ci vogliono i fatti». Chiarito il metodo, a questo punto non resta che entrare
nel merito per tentare di dare una risposta alla domanda centrale: «Chi sono insomma queste donne»? Veniamo al mondo
attraverso di loro, ma rappresentano per la maggior parte degli uomini un mistero insondabile. Per mancanza di esperienza
sull’argomento, chiedere lumi mi tornerebbe utile. Per questo giro la domanda a un grande maestro di giornalismo e di vita,
Enzo Biagi che, al telefono, con voce stanca mi dice: «È un po’ difficile dare delle definizioni. Ci sono grandi donne, alcune
quasi sante altre molto meno... La questione della parità tra i sessi è una questione mal posta. Se le donne sono destinate a
diventare come gli uomini, siamo spacciati. Ho sempre trovato ridicoli certi cortei di femministe quando sfi lavano gridando di
voler bruciare il reggiseno, anche perché certe ne avevano certamente bisogno». C’è da dire che in questi ultimi anni la donna
ha fatto grandi conquiste. La scienza e la tecnica l’hanno resa sicuramente più libera.
«Eppure – fa notare ancora Chiara Saraceno – le donne a tutti i livelli, agiscono in un mercato del lavoro e delle professioni
“gendered” e in larga misura asimmetrico a loro sfavore. Questo è un dato di fatto storico indiscutibile». Che si chieda quindi
alle donne e non agli uomini quanto pesino le responsabilità familiari, in parte è un luogo comune, in parte è necessario, dato
che è sulle donne che queste pesano di più, ma in parte dipende dal fatto che quando si intervistano gli uomini si hanno i
paraocchi. Non si ritiene che per loro la famiglia sia importante, salvo che come incentivo a stare nel mercato del lavoro.
Stando così le cose, sarebbe interessante allora cercare di vedere se gli uomini manager sono aiutati dalle loro mogli e se nella
loro carriera, avere una moglie casalinga piuttosto che lavoratrice, in uno status professionale inferiore, alla pari o superiore,
sia per loro un vincolo o una risorsa. Ovvero, sarebbe bello che anche gli uomini venissero studiati come persone che non sono
solo sul mercato del lavoro, ma che hanno legami e responsabilità familiari. Ma questo sarebbe già materiale per un’altra
inchiesta.
OLTRE LA “MISTICA DELLA CALZA”
Il lavoro di giornalista mi porta ogni giorno a contatto con il mondo dell’impresa. Non è affatto raro trovarsi di fronte donne
che sono a capo di aziende e manager che, come si usa dire, ce l’hanno fatta. Eppure, nel corso di questa inchiesta abbiamo
verificato che c’è un esercito di donne – spero non me ne vogliano (non c’è niente di più terrorizzante di un esercito di donne
arrabbiate che ti aspetta fuori dalla porta) – che rifiuta di raccontarsi perché la loro esperienza non ricalca il dato delle indagini
ufficiali e forse perché, crediamo noi, non sa bene cosa vuole e soprattutto cosa le imprese vogliono da loro. In una fase di
trasformazione sociale è normale che sia così e siamo tutti egualmente coinvolti, anche se, ammettiamo, un po’confusi.
Molte donne si chiedono ancora quale sia il ruolo della donna, moglie–madre–casalinga, collaboratrice al bilancio familiare,
individuo destinato a far carriera o lavoratrice per il bene dell’umanità. Molte donne non riescono a decidere pur essendo libere
per la prima volta nella storia di farlo. Il punto però non riguarda le donne soltanto e la mancanza di capacità non c’entra. Il
problema così come è posto dalla società è insolubile perché i ruoli si accavallano, configurando modelli che generano conflitto.
È naturale chiedersi allora: «Questa “donna nuova” esiste davvero oppure è solo una idea riciclata da un’esperta di pubbliche
relazioni?». Quando credevamo che la nostra inchiesta non avrebbe dato i frutti sperati, la tenacia ci ha premiato. Abbiamo
incontrato quattordici donne che hanno accettato di raccontarsi, mettendosi in gioco, senza la paura di esporsi o di attirare i
giudizi da parte di colleghi e colleghe. Sono imprenditrici, amministratori delegati, direttori generali, dirigenti, direttori
marketing e della comunicazione di aziende It, feudo tradizionalmente maschile. Ci è piaciuto come queste donne vivono il loro
successo nella normalità del lavoro. Non vorremmo, però che fossero considerate delle “mosche bianche”, oppure casi
straordinari, nel senso di fuori dall’ordinario. Si tratta di una testimonianza importante sul mondo dell’impresa che sta
cambiando, dove le donne sono una risorsa importante in grado di dare vita a storie di eccellenza possibile. Forse è qui che sta
il punto critico della questione. Finché si continuerà a considerare le donne manager alla guida di aziende un fatto
“straordinario”, il mondo dell’impresa non sarà disposto ad accettarlo, come un fatto semplicemente normale, dove ciò che fa
la differenza è il merito della persona al servizio dell’azienda. Queste donne coraggiose solo alcuni decenni fa sarebbero state
giudicate improbabili, ma hanno dato ascolto al proprio desiderio di crescita e hanno scelto di rispondere ai bisogni profondi
della loro azienda. Abbiamo incontrato donne sicure di sé, delle proprie aspettative e delle proprie capacità, donne che credono
nella loro professionalità, pretendono adeguati riconoscimenti in termini di carriera, prestigio e trattamento economico e non
sono disposte a rinunciare al ruolo di mogli e madri, anche se consapevoli che questo comporta grande impegno. Abbiamo
verificato se le protagoniste della nostra inchiesta hanno sperimentato forme di discriminazione o mancato riconoscimento. E
abbiamo cercato di comprendere come e attraverso quali scelte hanno avuto successo. Siamo andati alla ricerca di questa
“donna nuova” e alla fine l’abbiamo incontrata ottenendo la conferma che qualcosa sta veramente cambiando in Italia. Si
tratta di una rivoluzione silenziosa che qualche volta deve ancora confrontarsi con stereotipi duri a morire in un contesto
sociale che sotto la retorica delle pari opportunità rileva una inadeguatezza a cogliere le sfi de dell’innovazione.
Per Linda Gilli presidente del Consiglio d’Amministrazione e azionista di riferimento di Inaz, imprenditrice dell’anno e
Cavaliere del Lavoro, «perché qualcosa cambi davvero occorre uno sforzo in più. Occorre rompere vecchie abitudini dei ruoli
femminili e maschili attraverso percorsi di confronto tra generazioni diverse di donne e uomini».
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DataManager Ottobre 2007