Diritti della persona e contratto di lavoro

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Diritti della persona e contratto di lavoro
Diritti della persona e contratto di lavoro
Riccardo Del Punta
Sommario: 1. Il paradosso. 2. Diritto del lavoro e responsabilità civile. 3. Dal diritto al danno
(e ritorno). 4. Salute e sicurezza. 5. Personalità morale. 6. Eguaglianza. 7. Libertà sessuale.
8. Onore e immagine. 9. Libertà di espressione. 10. Riservatezza. 11. Professionalità. 12.
Non di solo lavoro. 13. Diritti della persona e sistema.
1. Il paradosso.
Quando ci si accinge a sviluppare una riflessione complessa, e si è incerti su quale
sia il modo più conveniente di avviarla, è saggia massima di esperienza lasciarsi guidare
da un indizio, meglio se in apparente contrasto con l’esperienza comune, ossia se
evocativo di un paradosso. Quasi sempre, infatti, i paradossi racchiudono qualche
segreto.
Ebbene, il paradosso su cui propongo di soffermarsi è quello per cui la cultura
lavoristica, che per prima è stata capace di far germinare nell’ordinamento giuridico
un’idea dell’uomo non circoscritta all’avere, ma estesa all’essere della persona1, ha
incontrato difficoltà, o ha rivelato, quanto meno, un certo imbarazzo, nel tematizzare la
problematica dei danni alla persona del lavoratore2. Ciò al punto da rimanere quasi
disorientata
di
fronte
alla
realtà,
talvolta
molto
prosaica,
di
un’esperienza
giurisprudenziale che è ormai divenuta, anche per la sua dilagante trasversalità, uno dei
capitoli più importanti del contenzioso.
La chiave risiede forse nell’aggettivo – “apparente” – che spesso, a farci caso,
trovasi abbinato al paradosso. Sarà infatti dato di congetturare che tutti i paradossi, in
qualche misura, sono apparenti, in quanto l’esperienza comune, rispetto alla quale la
proposizione paradossale si pone in contrasto, è in realtà la rappresentazione che, di
essa, ci facciamo; per cui il paradosso potrebbe essere null’altro che un indizio, che ci
chiama ad alzare il livello della comprensione.
E poiché per comprendere occorre prima ipotizzare, a meno di non essere baciati
dalla serendipity, si proverà a formulare, non un’ipotesi, ma un mero auspicio di ricerca:
quello che nell’aureo sintagma “diritto del lavoro e persona” possa esservi ancora
qualcosa di nuovo da scoprire, a dispetto della classicità del tema; classico al punto da
confondersi con l’essenza stessa della materia.
1
Per la sottolineatura della notevole influenza che l’evoluzione del contratto individuale di lavoro ha avuto nel
promuovere la categoria dei diritti della personalità, v. Rescigno 1990, 2.
2
Sulla “refrattarietà” del diritto del lavoro al tema, v. già Pedrazzoli 1995, 27, pur esattamente cogliendo le
“controspinte”, che sono nulla di meno che l’argomento di tutte le riflessioni proposte nel testo.
1
2. Diritto del lavoro e responsabilità civile.
Benché il saggio ambisca ad una sorta di empirismo radicale, ossia a trarre
conclusioni sulla base di una ricognizione trasversale di come la materia si sta
trasformando – relativamente alla (peraltro amplissima) prospettiva tematica oggetto di
indagine - nella “vivente” evoluzione del sistema giuridico, non è possibile prescindere, a
livello di impostazione dell’analisi, da alcune anticipazioni concettuali.
La prima di esse equivale già, in verità, ad un principio di scioglimento del
paradosso che si è scelto come spunto di riflessione. Per metterla semplicemente, la
ragione per cui il diritto del lavoro rivela tuttora una scarsa familiarità con i danni alla
persona del lavoratore3, discende direttamente dalla sua familiarità con i diritti della
persona, che sono, a loro volta, un continuum logico dell’implicazione personale del
lavoratore nel rapporto di lavoro e di ciò che l’ordinamento ha fatto per reagire ad essa4.
L’affermazione, questa volta, è meno paradossale di quanto sembri, ed è
strettamente collegata all’angolatura tematica prescelta – a rispecchiamento del dibattito
dell’ultimo ventennio -, di giungere ai diritti partendo dai danni.
E’ proprio dalla difesa elementare della persona, infatti, che la storia del diritto del
lavoro, o quanto meno della sua branca legislativa, ha preso le mosse5. Il contratto di
locazione d’opere, oltre a sottostare a divieti di ordine pubblico concernenti l’impiego
della forza-lavoro6, è stato il primo contratto a veder codificato, nell’art. 3 della legge n.
80 del 18987, un dovere di protezione dell’integrità fisica del contraente “a rischio”. Tale
disposizione rappresentò, a propria volta, il frutto di un dibattito ventennale, in seno al
quale non erano mancati i fautori della teoria per cui, già in virtù del contratto, il
conduttore d’opere doveva ritenersi tenuto a fornire un ambiente sano di lavoro, e quindi
a proteggere l’incolumità dell’operaio8.
Tuttavia, è proprio con la legge evocata9 che è cominciata, a ben vedere, una lenta
ma costante deviazione del diritto del lavoro, oltre che dal diritto civile in generale, dal
sistema della responsabilità civile. Il principio del rischio professionale, nato nella teoria
V., in generale, Lanotte 1998.
V., per tutti, Smuraglia 1967, 323 ss. Per un importante approfondimento teorico sulla dimensione personale
del contratto di lavoro, peraltro condizionato, a mio giudizio, da una polarizzazione eccessiva fra la “persona”, enclave
dei valori umanistici, e la logica mercantile o neo-mercantile, v. Grandi 1999. Sulla “quadratura del cerchio” insita nella
missione del diritto del lavoro, si tornerà nelle battute finali del saggio.
5
Su come la dinamica della disciplina, tendente verso l’autonomizzazione del contratto di lavoro da schemi
qualificativi desunti dal diritto dei rapporti patrimoniali, sia stata innescata dall’impossibilità di estromettere la persona
dello schema negoziale, v. Grandi 1999, 330 ss.
6
Sulla legislazione sociale delle origini, v. Castelvetri 1994.
7
Che così recitava: “I capi o esercenti delle imprese…debbono adottare le misure prescritte dalle leggi e dai
regolamenti per prevenire gli infortuni e proteggere la vita e l’integrità personale degli operai.”
8
Per l’individuazione del fondamento della teoria contrattuale nell’equità ex art. 1124, ed ammettendo altresì
quel concorso fra responsabilità contrattuale e aquiliana, che si è trascinato sino ai nostri giorni (cfr. infra, § 4), v.
Barassi 1901, 548 ss. (ove anche una completa disamina delle posizioni dell’epoca).
9
Sulla quale cfr. le pragmatiche considerazioni di Barassi 1901, 583 ss.
3
4
2
della responsabilità civile (come tensione verso un’oggettivazione della medesima), si è
inverato, infatti, soltanto nel trapasso nell’assicurazione obbligatoria (come espressione
di un’istanza di socializzazione del rischio)10.
Ciò, ad onta del fatto che il modello assicurativo, mentre ha comunque garantito al
lavoratore un ristoro dei pregiudizi patrimoniali conseguenti ad un infortunio sul lavoro o
ad una malattia professionale, non ha mai sostituito del tutto - ed anzi ha sostituito
sempre di meno11 - quello della responsabilità civile, destinato a “rivivere” (tanto a
beneficio del lavoratore, per i danni “differenziali” eventualmente rivendicabili, quanto
dell’ente
assicuratore
a
titolo
di
regresso)
in
caso
di
responsabilità
penale
dell’imprenditore o di un semplice dipendente di questi12.
Ma quella che, nell’epoca delle origini, nasceva dall’esperienza della difficoltà, per il
lavoratore, di dimostrare in giudizio la responsabilità dell’imprenditore13, è divenuta poi,
nella
fase
della
crescita
e
poi
della
classicità
della
materia,
consapevolezza
dell’insufficienza della tutela risarcitoria in vista di un’effettiva protezione dei diritti del
lavoratore subordinato.
Sarebbe riduttivo, peraltro, pensare che tale posizione fosse soltanto il riflesso
delle obiettive limitazioni che, prima della “rivoluzione” innescata dalla scoperta del
danno biologico, e culminata (per ora) nella rivisitazione “costituzionale” dell’art. 205914,
affliggevano il risarcimento del danno non patrimoniale.
L’estraneità genetica del diritto del lavoro alla tecnica risarcitoria aveva, infatti,
una scaturigine più profonda, da tempo messa in luce dalla dottrina più avvertita15, e
che non era che la proiezione delle specifiche modalità protettive della disciplina.
Il diritto del lavoro è stato, da sempre, un diritto votato alla limitazione
dell’autonomia negoziale, ivi inclusi gli atti datoriali costituenti esercizio del potere
(rectius, di diritti potestativi16) riconosciuto(i) al datore di lavoro come effetto ex lege del
In tal senso, ed anche per un lucido riepilogo critico, Giubboni 2005a, 33 ss. Sulla contrapposta tesi (da cui
dissente Giubboni 2005a, 43 ss.) per cui il principio del rischio professionale sarebbe un “falso storico”, la cui
responsabilità risalirebbe a Carnelutti, v. Castronovo 1997, 411 ss. Per un punto di vista tendenzialmente critico sulle
valenze “pacificatrici” della legge n. 80/1898, e sullo snaturamento del principio del rischio professionale, che ne è
derivato, v. anche Gaeta 1986, 139 ss. Sulla storia del principio in discorso, v. Balandi 1976. Per una
contestualizzazione storica, v. Castelvetri 1994, 95 ss.
11
Su questo insiste particolarmente Castronovo 1997, 406 ss.
12
Sull’evoluzione della responsabilità civile fra diritto comune e diritto speciale, e in particolare sul sostanziale
riassorbimento della regola dell’esonero, ivi inclusa l’azione di regresso dell’Inail, v. Giubboni 2005b.
13
Cfr. Gaeta 1986, 25 ss.
14
V. infra, § 3.
15
V., per tutti, la sofisticata disamina di Ghera 1979. Per un’analisi più recente sulle tecniche di tutela
“lavoristiche”, con diversi punti di coincidenza con le riflessioni presentate nel testo, v. Napoli 2005. Per riferimenti
specifici sulla nullità per violazione di norme imperative, v. Albanese 2003.
16
Per tale distinzione, v. Cerri 1990.
10
3
contratto di lavoro subordinato17 (un potere che è, tuttavia, anche elemento di
fattispecie18).
Tali limiti, veicolati da norme (legali e collettive) dotate, in via generale,
dell’attributo dell’imperatività e dell’inderogabilità19, hanno storicamente condizionato le
scelte della disciplina in ordine alle tecniche sanzionatorie, sbilanciandole sul versante
della nullità, che è un tipo di rimedio contro l’illecito negoziale, il cui presupposto di
operatività non è la trasgressione di un obbligo, bensì la mera difformità di un dato atto o
patto dal modello prefigurato dalla fonte superiore20.
La nullità è prodromica, a propria volta, al ristoro dei danni arrecati dall’atto o
patto illegittimo, in quanto il “riallineamento” autoritativo del corso del rapporto al
prototipo normativo, effetto della declaratoria di nullità, apre la strada all’esperimento,
da parte del lavoratore, di consequenziali azioni di (pur tardivo) adempimento, miranti a
porre nel nulla i pregiudizi patiti. Come si è osservato, “si può quindi parlare di
reintegrazione dei diritti primari, anziché di risarcimento, specifico o per equivalente,
dell’interesse leso dall’inadempimento del datore di lavoro”21.
Ma tanto può darsi, per l’appunto, soltanto nell’ipotesi in cui l’atto o il patto poi
dichiarato nullo, o annullato, sia stato il mezzo col quale il datore di lavoro ha tentato di
eludere l’adempimento di un obbligo a contenuto patrimoniale, nascente dal contratto
(un inadempimento che può anche verificarsi, peraltro, “allo stato puro”). Così anche
nell’azione ex art. 18 St.lav., riconducibile al modello di cui agli artt. 1218 e 1453 c.c.22,
con in più la tensione all’esecuzione in forma specifica per il correlato obbligo di facere23.
Invece,
qualora
difetti
un
inadempimento
sottostante,
le
conseguenze
dell’invalidazione si esauriscono (se ne troveranno esempi nella disamina che seguirà)
nella declaratoria di radicale inefficacia dell’atto illegittimo.
E’ appunto per dare più forza di impatto a tale tutela, nella sua proiezione verso il
futuro (oltre che, con uno sguardo retrospettivo, al fine della rimozione materiale degli
effetti), che un ordinamento lavoristico ormai maturo ha ritenuto necessario dotarsi, a
Sul tema dei limiti ai poteri del datore di lavoro v., in generale, Persiani 1995.
V., da ultimo, Marazza 2001, spec. 33 ss.
19
V., classicamente, De Luca Tamajo 1976.
20
V. Ghera 1979, 310 ss. (e retro, 306-307, per le essenziali premesse dogmatiche).
21
V. Ghera 1979, 317.
22
V. Pagni 2004, 91 ss., qui 95-96. La configurazione della responsabilità del datore che ha licenziato
illegittimamente come responsabilità per inadempimento, con le relative conseguenze, è ormai comune nella
giurisprudenza: nel senso della persistente proponibilità dell’azione risarcitoria ex art. 1218, sempre che ne ricorrano i
presupposti, anche quando il lavoratore è ormai decaduto dall’impugnativa, v. Cass. 2 marzo 1999 n. 1757, LG,
1999,825 ss., con commento di Pizzoferrato.
23
Sul principio di atipicità della tutela specifica, v. la disamina trasversale di Pagni 2004, spec. 85 ss., per
l’analisi del regime del licenziamento illegittimo (per una ripresa, focalizzata sull’ambito lavoristico, cfr. anche Pagni
2005). Per un richiamo alla priorità della tutela specifica, nell’ambito della pronuncia che ha definitivamente imputato
al datore di lavoro l’onere di provare l’inesistenza del requisito dimensionale ex art. 18 St.lav., v., con una motivazione
di ampio respiro sistematico, Cass., Sez. un., 10 gennaio 2006 n. 141.
17
18
4
partire
dall’art.
28
St.
antidiscriminatoria25),di
lav.
pur
24
(poi
circoscritte
imitato,
misure
come
si
inibitorie,
vedrà,
dalla
normativa
che
hanno
arricchito
l’apparato sanzionatorio, con una ricerca di effettività, tutta interna al
micro-sistema
lavoristico26.
Il bilancio risultante, in punto di efficienza dei mezzi di tutela, era alquanto
discontinuo: soddisfacente per la tutela delle posizioni soggettive di natura patrimoniale;
buono per la possibilità di vedere eliminati atti nulli o inibiti pro futuro comportamenti
illegittimi, gli uni e gli altri lesivi di interessi personali, nonché di vedere rimossi ex post ,
purché non ancora esauriti, gli effetti materiali dei medesimi; ma insoddisfacente per il
ristoro dei pregiudizi personali ormai verificatisi, circa i quali l’ordinamento, limitandosi
al “riallineamento”27, rinunciava di fatto ad apprestare rimedi specifici.
Il paradosso si manifestava, qui, in modo vistoso: un diritto votato alla persona,
che, rincorrendo l’illusione di
“battere sul tempo” tutte le possibili degenerazioni
patologiche del rapporto, sino ad affannarsi a riportare indietro l’orologio all’istante
antecedente all’illecito, lasciava prive di risposta (per quanto insoddisfacente potesse
essere28) proprio le compromissioni dei beni personali, finendo sbilanciato sul versante
della patrimonialità; e poco consolando leggere quasi ad ogni pagina che i diritti
“patrimoniali” del lavoratore hanno anche una valenza “personale”29.
All’origine della latitanza della tutela risarcitoria v’erano, quindi, risalenti fattori di
diritto speciale, che sono stati anche all’origine della latitanza della tiepida partecipazione
della cultura lavoristica ai “lavori in corso” nel campo del danno non patrimoniale di
diritto comune: giacché la tutela alla quale si tentava di facilitare l’accesso era proprio
quella risarcitoria, che i lavoristi insistevano a snobbare, forse anche per quella sottile
antipatia verso il valore di scambio, che è tanta parte del loro DNA. E, si sa, la
responsabilità civile è anche una grande “commedia” umana30, nella quale è vano, e
soprattutto ingenuo, ricercare purezze assolute.
Così, nella koinè lavoristica, il risarcimento ha finito con l’essere ingiustamente
accomunato, in un unico giudizio liquidatorio, alle vituperate “monetizzazioni”; pur
24
In argomento v., in generale, Treu 1974, e spec. 127-128: “In particolare, rileva lo spostamento d’accento
della disciplina dal risarcimento del danno, elemento tipico dell’illecito civile e giustificazione fondamentale del
principio generale della colpa,all’effettivo ripristino dello stato di fatto alterato dalla condotta lesiva
dell’imprenditore”; sì che gli effetti da rimuovere non sono tutti quelli che si sono verificati nella sfera patrimoniale del
soggetto leso, ma soltanto quelli che, se mantenuti, realizzerebbero un persistente attentato ai diritti sindacali protetti.
25
V. infra, § 6.
26
Nel senso di Irti 1989, 66 ss.
27
Cfr. Pedrazzoli 1995, 25.
28
Sui profili e problemi funzionali del risarcimento del danno non patrimoniale - non affrontati, al di là delle
intersezioni tematiche, nel saggio -, v. Salvi 1989, 1099 ss.
29
Idea che è all’origine, come è noto, della relativa facilità di accesso, da parte del lavoratore, alla tutela
cautelare d’urgenza.
30
Così Castronovo 1997, 165.
5
essendo, queste ultime, effettivamente praticate, e finanche in forme giuridicamente
incongrue (come nel caso, paradigmatico, dell’indennità sostitutiva di ferie non godute)31,
ma soltanto a livello collettivo32.
In ogni caso, quale che ne fosse la matrice culturale, il senno di poi ci dice che la
singolare e instabile mistura fra una patrimonialità “personalizzata” e un lavoratore “in
carne ed ossa”, del quale la metafisica dell’interesse collettivo non riusciva sempre a
consolare la “solitudine” esistenziale, ha potuto reggere soltanto in virtù di una
precondizione esterna : la focalizzazione dell’ordinamento civile sul risarcimento dei soli
danni patrimoniali.
Sì che, quando il vento generale ha cambiato di direzione, cominciando a soffiare a
favore del danno non patrimoniale, si è messo inesorabilmente in moto, anche nel microsistema lavoristico, un complesso processo di “riscoperta” della responsabilità civile, che
– va chiosato sin d’ora - soltanto la fedeltà ai più datati prototipi antropologici del diritto
del lavoro (quelli di un lavoratore concepito come alternativa quasi virginale all’homo
oeconomicus, e, del quale, come logico sequitur , dovrebbero essere altri e più avvertiti a
selezionare le preferenze) potrebbe indurre a screditare – in blocco - come fenomeno “di
decadenza”, o deriva “nordamericana”33.
Pare plausibile, invece, l’ipotesi che all’origine di tale evoluzione vi siano ragioni
strutturali, che hanno a che fare con un’intrinseca dinamica espansiva della logica
protettiva della materia, ma che sono pure, ad un tempo, il riflesso di tendenze macrosistematiche di lungo periodo.
3. Dal diritto al danno (e ritorno).
Della profonda trasformazione che il sistema della responsabilità civile ha
attraversato nell’ultimo ventennio, non serve, ai nostri fini, ricostruire da vicino i
passaggi. Ma basti il ricordo delle prime, remote, inquietudini, addensatesi attorno a
categorie come quella di danno “alla vita di relazione”34, spia di una diffusa aspirazione
all’ampliamento dell’area dei danni risarcibili, a consentirci di isolare un primo assunto.
Sui meccanismi di compensazione diffusi nel diritto del lavoro, evocando la categoria degli “atti leciti
dannosi” v. Pedrazzoli 1995, 23 (e di rimando Franzoni 1993, 114 ss.). Ma l’indennità per ferie non godute – su cui v.
anche infra, § 12 - doveva ritenersi probabilmente illecita, per contrasto con l’art. 36, comma 3, Cost., già prima
dell’art. 10 del d.lgs. n. 66/2003; e, in ogni caso, è forse più appropriato parlare di dispositivi di “indennizzo”.
32
Ove sono più pericolose, anche perché sovente poco trasparenti: con riguardo alla tutela dell’ambiente di
lavoro, v. i rilievi critici di Montuschi 1986, 165 ss.
33
Il che non significa abbassare la guardia sugli usi strumentali che, dei risarcimenti, sono sempre stati, sono, e
sempre saranno fatti (ciò ha a che fare, soprattutto, sul controllo delle tecniche di quantificazione): ma – sarà solo una
questione di parole -, da liberale anti-paternalista, non ritengo che possa parlarsi, con riferimento alle nuove propensioni
risarcitorie, di “auto-mercificazione” della persona. E’ pertinente, nondimeno, quanto osservato da Mazzotta 2004,440,
sul rischio di perdita della capacità di orientamento del diritto nei confronti dei consociati.
34
V. per tutti le precorritrici intuizioni di Scognamiglio 1957, spec. 286-287 (ove fini rilievi sul danno “alla vita
di relazione”), e 292-293, con la proposta di assegnare piena rilevanza giuridica, in luogo dell’equivoco danno “non
31
6
Il dibattito sui danni risarcibili è stato anche, e forse soprattutto (quanto meno nel
diritto civile), un dibattito sui diritti. E’ ovvio, infatti, che i concetti di diritto, e poi a
seguire di illecito, e poi ancora di danno, appartengano all’acqua dello stesso fiume.
Diritti “vecchi”, o comunque ormai riconosciuti (pur non senza fatica35), come il
diritto alla salute, ma la lesione dei quali è stata di fatto rimossa, sin quando la
giurisprudenza36 non ha superato il dogma per cui le possibilità di risarcimento dovevano
comunque passare dalla porta stretta, oltre che storta37, del danno patrimoniale38. Il
fiume non riusciva a scorrere, con tutta la sua portata, verso la foce.
Ma altresì, risalendo la corrente all’inverso, diritti “nuovi”, riconosciuti proprio nel
momento di risarcirli, per quanto asserito dalla teorica dottrinale, e poi esperito dalla
prassi giurisprudenziale (anche lavoristica39), del “danno esistenziale”, che ha incarnato il
tentativo più agguerrito di superare la concezione “bipolare”, inseguendo ad un tempo
un’idea di tutela “a tutto tondo” della persona, nell’a completa gamma delle prerogative e
possibilità esistenziali40.
Come è noto, il dibattito fra gli “esistenzialisti” e i difensori del sistema “bipolare”,
più o meno coretto, è stato composto dalle pronunce della Corte di Cassazione41, poi
patrimoniale”, al “danno personale”: non occorre, scriveva l’Autore, “che un siffatto danno si manifesti in specifiche
conseguenze di ordine patrimoniale; si assume invece che il danno si realizza e si estrinseca proprio, ed innanzi tutto,
nella lesione dei beni della persona e come tale già deve essere riparato”. E ove si badi poi al fatto che i beni allora
presi in considerazione erano la vita, la salute, la libertà, l’onore e la riservatezza, si ha il senso quasi toccante di un
discorso giuridico e umanistico che risale a ritroso nel tempo.
35
Per il superamento delle vecchie interpretazioni che svuotavano la portata innovativa dell’art. 32 Cost.,
assegnandogli un rilievo meramente programmatico, e la sottolineatura dello stretto collegamento esistente fra il diritto
alla salute e i principi fondamentali della Costituzione, v., per tutti, Mortati 1961. In argomento, v. anche Alpa 1986, e
Montuschi 1986. Per la prospettiva privatistica, v. già Busnelli e Breccia 1978 e 1979.
36
Per la giurisprudenza costituzionale v. soprattutto, in successione, Corte Cost. 26 luglio 1979 nn.87 e 88, FI,
1979, I, 2542-3; Corte Cost. 14 luglio 1986 n. 184, FI, 1986,I,2033; Corte Cost. 27 ottobre 1994 n. 372, FI,
1994,I,3307. Per quella ordinaria, su tutte, Cass., Sez. un., 8 ottobre 1979 n. 3172, FI, 1979,I,2304. Per le prime
recezioni da parte della giurisprudenza lavoristica, v. Cass. 26 novembre 1984 n. 6134, RGL, 1985,II, 689, con nota di
Poletti, e Cass. 25 maggio 1985 n. 3212, RGL, 1986,II, 199, con nota di Poletti. Per un completo riepilogo del dibattito,
v. Busnelli 2001. Nella dottrina lavoristica, v. Zoppoli 2001; Pedrazzoli 2004, spec. XX ss..
37
Per le iniquità che ne derivavano: per un viaggio nella memoria, nel vecchio mondo del danno alla persona, v.
Gentile 1962.
38
Come è noto, pur essendo stata poi superata, è stata sostenuta anche la tesi per cui il danno biologico doveva
essere ricondotto al danno patrimoniale, sotto l’ombrello dell’art. 2043: ove si è rivelato che ad essere messa in
questione dal dibattito era la distinzione stessa fra i concetti di “patrimoniale” e “non patrimoniale”, in quanto la
suddetta proposta presupponeva una lettura restrittiva del concetto di danno non patrimoniale, inteso come danno
insuscettibile di un valutazione in denaro, ed una estensiva di quello di danno patrimoniale, inteso come danno
suscettibile di una valutazione in denaro, anche se derivante dalla lesione di un interesse non patrimoniale (cfr.
Busnelli 2001, ad es., 3 ss.). Per la piena riconduzione anche del danno biologico all’art. 2059, piuttosto che all’art.
2043, v. invece l’obiter dictum di Cass. n. 8828/2003, su cui più ampiamente infra.
39
Sulla vicenda del mobbing, v. infra, § 5.
40
V., per tutti, Cendon 2001; Cendon-Ziviz 2002; Monateri 1999 e 2000. In giurisprudenza, v. Cass. 7 giugno
2000 n. 7713. Per una critica, ma non decisiva, al danno esistenziale (del quale i critici più decisi, come è noto, sono
stati gli appartenenti a quella stessa scuola che aveva scoperto il danno biologico, che però – al di là di allarmarci con
la, effettivamente sconvolgente, maxitabella cendoniana dei “nuovi danni” - non sono mai riusciti a spiegare in modo
risolutivo perché ciò che era stato possibile per il danno biologico, non dovesse esserlo per altre voci di danno), v.
Ponzanelli 2003a.
41
V. Cass., sez.III, 31 maggio 2003 n. 8828 e 31 maggio 2003 n. 8827, FI, 2003,I, 2272-3; per un commento alle
quali, e per completi riferimenti, v. Navarretta 2003b. Cfr. anche, adesivamente, Mazzamuto 2004a, 36 ss.
7
“benedette” dalla Corte Costituzionale42, che hanno potentemente rilanciato la bipolarità,
ma sul presupposto di una rilettura dell’art. 2059
43,
e dunque di una concezione
allargata di danno non patrimoniale, non più circoscritto al danno morale soggettivo44,
ma inclusivo anche del danno biologico45 e del danno da lesione di interessi
costituzionalmente rilevanti46.
Sarebbe quanto meno azzardato, peraltro, ritenere che il “ritorno all’art. 2059”
abbia steso un velo di pace perpetua su uno dei dibattiti più accesi che la civilistica
ricordi.
Un’incertezza di non poco momento permane, in particolare, con riguardo alla
ricostruzione degli illeciti in discorso. Posto che la Cassazione non pare spingersi ad
attribuire all’art. 2059 la natura di norma di fattispecie, configurandola pur sempre come
norma di mera selezione dell’accesso alla tutela risarcitoria, restano da individuare le
norme primarie, la violazione delle quali, eventualmente per il tramite della fattispecie
generale di illecito di cui all’art. 204347, è suscettiva di produrre conseguenze
risarcitorie48.
Nella giurisprudenza in esame si lascia cogliere, al riguardo, un’oscillazione fra
due percorsi argomentativi.
Il primo è di tipo strettamente esegetico: premesso che l’art. 2059 limita il
risarcimento del danno non patrimoniale alle ipotesi previste dalla legge, ebbene, si
afferma, la prima legge è ovviamente la Costituzione, per cui la lesione degli interessi
della persona costituzionalmente protetti (ed a loro volta assurti, in virtù di tale
protezione, a diritti), consente tale risarcimento49.
V. Corte Cost. 11 luglio 2003 n. 233, FI, 2003,I, 2201, su cui Navarretta 2003a, e Scalisi 2004. In argomento,
v. anche Franzoni 2003.
43
Sulla quale v. già le aperture di Ponzanelli 2003b, proprio al fine di bloccare l’avanzata del danno esistenziale.
Sulla “detronizzazione” dell’art. 2043, cfr. Pedrazzoli 2004, spec. XXIII ss.
44
Svincolato, a sua volta, dalla commissione di un reato: v. Cass. n. 8827/2003, cit.
45
In realtà, a ben vedere, la asserita tripartizione del nuovo danno non patrimoniale è una bipartizione, giacché il
danno biologico non è altro che la specie più conosciuta di danno da lesione di interessi costituzionalmente rilevanti.
46
V. in specie Cass. n. 8827/2003, cit.
47
Secondo Cass. n. 8828/2003, cit., “il risarcimento del danno non patrimoniale postula ... la verifica della
sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale delineato dall’art. 2043…L’art. 2059
non delinea una distinta figura di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma, nel presupposto della sussistenza
di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, consente, nei casi determinati dalla legge (anche
costituzionale, n.d.a.), anche la riparazione di danni non patrimoniali (eventualmente in aggiunta a quelli patrimoniali
nel caso di congiunta lesione di interessi di natura economica e non economica”. Cfr. però, sul punto, Navarretta
2003b.
48
Per condivisibili considerazioni sulla responsabilità che ne viene all’interprete, a proposito della selezione dei
beni, da limitarsi ai diritti inviolabili (concetto più ristretto di quello di “ingiustizia” del danno ex art. 2043), del
bilanciamento, e della soglia di offesa, v. Navarretta 2003b.
49
V. Cass. n. 8827/2003, cit.: “D’altra parte, il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno
non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge
fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili attinenti alla persona non aventi
natura economica implicitamente,ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato
dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.”
42
8
Ove, a dimenticarsi per un momento del superiore rango della Costituzione nel
sistema, ci troveremmo di fronte ad un’innovazione esegetica. Infatti, che si “interpreti” il
rinvio di tale disposizione ad altre fonti legislative come postulante, non necessariamente
un rinvio a norme secondarie dalle quali sia esplicitamente prevista la risarcibilità dei
danni non patrimoniali (che pure, ormai, sono numerose), bensì anche un rimando a
norme primarie, come quelle fondative di diritti a livello costituzionale, introduce un
ulteriore varco interpretativo. In esso potrebbe infiltrarsi il principio per cui, onde
ritenere soddisfatta la condizione richiesta dall’art. 2059, è sufficiente la mera esistenza
di norme legislative primarie, qualora poste (anche se non in via necessariamente
esclusiva) a protezione di beni di natura non patrimoniale, sì da rendere ancora più
continua la catena logico-giuridica che dal bene, passando per il diritto e l’illecito, può
condurre sino al danno50.
Il secondo e parallelo (nonché, alla fine, dotato di vera forza motrice51) percorso
argomentativo52 si gioca, invece, sulla primazia delle norme costituzionali, che induce a
ritenere illegittima una lettura dell’art. 2059, che non contempli, fra le ipotesi di possibile
risarcimento del danno non patrimoniale, quella della lesione di beni costituzionalmente
protetti53.
Si trascende, in tal modo, il piano esegetico, per proiettarsi decisamente in una
prospettiva in cui, oscillando fra il fare ormai a meno del tramite dell’art. 2043, e una
lettura di tale articolo combinata con le norme costituzionali54, i diritti da esse attribuiti
sono “tutelabili”, giacché dette norme rilevano direttamente nei rapporti interprivati55.
Col quale richiamo al compimento della Drittwirkung si completa il percorso di “ritorno”
dal danno al diritto; e non è un caso che la sentenze in discorso abbiano definitivamente
Lo spunto sarà ripreso infra, in questo stesso paragrafo.
Cfr., mi sembra, Navarretta 2003b.
52
Desumibile anche dalle numerose interpretative di rigetto che hanno costellato il percorso della giurisprudenza
costituzionale sull’art. 2059, delle quali l’ultimo esempio, e per quanto da un’angolatura particolare, è appunto Corte
Cost. n. 233/2003, cit.
53
V. Cass. n. 8828/2003, cit.: “Una lettura della norma (l’art. 2059, n.d.a.) costituzionalmente orientata impone
di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato valori costituzionalmente garantiti. Occorre
considerare, infatti, che nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto la riparazione
mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una
tutela minima non è assoggettabile a specifici limiti, perché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi”.
54
Il che sdrammatizzerebbe la contrapposizione fra i fautori dell’art. 2059 e quelli dell’art. 2043 (inteso come
prototipo di illecito), riducendola al dissenso sulla casella giuridica in cui collocare il danno non patrimoniale, se
nell’art. 2059 (“svolta” del 2003) o nell’art. 2043 (indirizzo già sostenuto, in dottrina, dalla scuola “pisana”, e recepito
da Corte Cost. n. 184/1986, cit., con la combinazione fra art. 2043 e art. 32 Cost., poi riproposta, rispetto all’art. 2 Cost.,
da Cass. n. 7713 del 2000, cit.). Infatti, entrambi gli orientamenti sembrano accomunati dall’accettazione del principio
del risarcimento del danno non patrimoniale, e dal riferimento alla Costituzione come criterio di selezione dei beni, la
cui lesione è risarcibile.
55
La letteratura in argomento è,notoriamente, sterminata, tanto da indurci a ripiegare su un mero rimando alle
recenti variazioni “lavoristiche” di Aimo 2003, 13 ss., Nogler 2002 e 2006, e Tursi 2003. Definisce ancora “irrisolta” la
questione dogmatica, Mazzotta 2004, 445.
50
51
9
ribadito il rigetto dell’equivoca categoria del danno-evento56, inteso come disvalore
immanente alla violazione di un diritto57, in virtù della quale si era predicato del danno
ciò che (l’antigiuridicità) può essere predicato soltanto dell’illecito58.
Ma col ritorno al diritto si ripropongono, altresì, tutti gli interrogativi dogmatici che
da sempre gravano sulla categoria dei diritti della persona (o della personalità59), sulla
tradizionale elaborazione civilistica della quale60 la Costituzione ha agito come un potente
additivo61, lasciando però l’interprete in una condizione di rimarchevole solitudine, di
fronte alla difficoltà di stabilire i criteri atti a determinare il valore giuridico della
persona62.
Ove non si pone soltanto la questione, pur preliminare e tutt’altro che agevole, di
un’appagante ricognizione dei diritti costituzionali della persona e della loro gerarchia.63
Gli è, più al fondo, che lo stesso medium normativo (costituzionale o ordinario che sia)
tende a proporsi, nella materia, con modalità peculiari, che fuoriescono dallo schema
fatto-effetto, sul quale si basa il consueto modello di norma giuridica64, essendo il fatto,
qui, la mera esistenza della persona.
Ne
segue
che
tutte
le
tensioni
problematiche
si
scaricano
sul
piano
dell’imputazione di valore, ove però l’ordinamento giuridico, quasi “intimidito” dalla
difficoltà di fissare quel valore, così cangiante come valore sociale, una volta per tutte,
sceglie di solito di limitarsi all’impiego di espressioni aperte e indeterminate (norme di
principio, clausole generali, concetti-valvola, etc.), che finiscono col “calamitare” i più
indifferenziati apporti esterni, causando così incertezza e solitudine interpretativa,
vieppiù accresciute dalla difficoltà di stabilire chiari rapporti di priorità fra i valori65.
Come è noto, uno dei più critici punti di incontro fra diritto e società è
rappresentato dalla norma-stipite proclamata dall’art. 2 Cost., della quale si tende a
predicare
il
carattere
tendenzialmente
“aperto”,
o
comunque
ampiamente
Peraltro, senza affatto risolvere (come non potrà risolverlo, probabilmente, neppure Cass., Sez. un., 24 marzo
2006 n. 6572, che ha confermato il rigetto di tale categoria a proposito del danno “professionale” – v. infra, § 11 -, oltre
che, ancora, “esistenziale”) il quasi irresolubile dilemma di come rendere accessibile la prova del danno-conseguenza,
ove l’illecito abbia investito un bene (“invisibile”) della persona.
57
Per la quale v. Corte Cost. n. 184/1986, cit. Per un incisivo riepilogo, v. Pedrazzoli 2004, XXIV ss.
58
Riproducendo, in certo senso, l’errore di riferire l’”ingiustizia” all’evento di danno, piuttosto che al “fatto” (o
all’”atto”) lesivo,nell’art. 2043. Per il rilievo che “danno ingiusto” è sinonimo di lesione di un interesse meritevole di
tutela, v. Franzoni 1993, 103.
59
Sul senso di tale alternativa lessicale, v. infra, § 12.
60
V. tradizionalmente De Cupis 1982.
61
Come esempio di un più moderno approccio al tema, in un orizzonte costituzionale, v. Rescigno 1990.
62
V. , nell’ambito di una brillante trattazione teorica del tema, Messinetti 1983.
63
V. Mazzotta 2004, 445.
64
In quanto basato di solito sul modello del diritto soggettivo, concepito come potere di azione in vista della
realizzazione di un interesse: v. ancora Messinetti 1983, 359-360.
65
Ove uno dei più importanti congegni normativi, inventati per “procedimentalizzare” sul piano istituzionale
l’individuazione di tali nessi di priorità, attorno al concetto-faro di “contenuto essenziale” del diritto di matrice
costituzionale, è indubbiamente la legge n. 146 del 1990.
56
10
interpretabile66, e della quale fioriscono, infatti, le utilizzazioni dirette67. Non meno
“esplosivo” (con riguardo all’incidenza potenzialmente dannosa delle attività economiche
su tutti i cittadini, e in primis sui lavoratori) è ormai il precetto dell’art. 41, comma 268,
ove un tempo si leggeva una riserva di legge implicita, ed il cui riferimento alla “dignità
umana” può anch’esso aspirare, oggi, all’alta classifica dei richiami giurisprudenziali69.
Ma pressoché tutte le norme costituzionali “di principio” , non soltanto tollerano,
bensì richiedono, letture ampiamente “evolutive”, rivolte a garantire il costante
adeguamento del diritto ai mutevoli equilibri delle società pluraliste contemporanee70.
Sì che, pur non potendosi ancora dire sino a che punto il “nuovo” danno non
patrimoniale riuscirà a catalizzare tutte le svariate tipologie di pregiudizi già fatti valere
dalla giurisprudenza tramite la categoria del danno esistenziale o altre equipollenti, non
sembra azzardato prevedere che, grazie alle risorse dell’interpretazione, nella nuova
sistemazione concettuale riusciranno a trovare ospitalità le situazioni più rilevanti di
pregiudizio alle chance di vita della vittima dell’illecito; a cominciare dall’interesse
all’intangibilità degli affetti familiari ed all’inviolabilità della libera e piena esplicazione
della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla
famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.)71.
Se l’ipotesi sarà confermata, vorrà dire che, fra le due “squadre” che hanno
entrambe cantato vittoria di fronte alla svolta del 200372,i più titolati a farlo erano forse
gli “esistenzialisti”. Più che non “esistere” più73, infatti, il danno esistenziale avrebbe
soprattutto
cambiato
nome,
tanto
da
dare
all’operazione
una
coloritura
quasi
“gattopardesca” (e, come tale, non priva di fascino). Alla luce di ciò, non stupisce troppo
che nella giurisprudenza della Sezione lavoro della Cassazione (la quale non ha brillato,
nella circostanza, per capacità di dialogo con la III Sezione civile) il danno esistenziale sia
Per la concezione dell’art. 2 come clausola aperta, v. Barbera 1975, 84 ss.; per quella che ammette, al
massimo, interpretazioni ampie o estensive dei diritti di libertà espressamente enunciati, ma restando nell’esclusivo
ambito della Costituzione, v. Baldassarre 1989, e Barile 1984, 53 ss. Per un prezioso studio sul tema, v. poi Grossi
1972, e, per approfondimenti teorico-filosofici sui diritti fondamentali (termine il cui impiego tende a prevalere sul più
giusnaturalistico “inviolabili”), Ferrajoli 2001; Peces-Barba 1993. Per un quadro generale, v. Caretti 2002. Nella
dottrina lavoristica, per recenti riprese, v. Aimo 2003, 1 ss., e soprattutto Avio 2001, 11 ss.
67
Sin da Cass. n. 7713 del 2000, cit.
68
Sui limiti costituzionali alla libertà di iniziativa economica privata, tali da rendere impossibile l’attribuzione
alla medesima della portata di diritto fondamentale, v. classicamente Baldassarre 1971, spec. 599 ss. Sulla consonanza
fra art. 2 e art. 41 cpv., v. Messinetti 1983, 382.
69
Per la rigorosa dimostrazione dell’erroneità della risalente tesi di cui al testo, v. già Baldassarre 1971, 606607.
70
E’ d’obbligo il rinvio a Zagrebelsky 1992, 147 ss.
71
Cfr. Cass. n. 8828/2003, cit., in un caso relativo al danno non patrimoniale da uccisione di congiunto.
72
Per i “bipolaristi”, v. Navarretta 2003a; per gli esistenzialisti, Ziviz 2003.
73
Così, esplicitamente, Cass. , sez. III, 15 luglio 2005 n. 15022.
66
11
stato riproposto74, fra l’altro con una qualche sovrapposizione concettuale fra il profilo
del danno e quello del diritto75.
Con questo, non si intende escludere la probabilità, e pure l’auspicio (ove si
incarna, forse, il senso pratico della riconversione interpretativa in commento), che la
chiamata in campo della Costituzione possa avere un positivo effetto di restraint76,
rispetto
all’abbrivio
bagatellare
che
aveva
preso,
negli
ultimi
tempi,
il
danno
esistenziale77.
Dopo di che, per cominciare a piegare l’analisi verso il diritto del lavoro, sarà
anzitutto facile notare come entrambi i percorsi interpretativi che si è ritenuto di scorgere
nella ricostruzione della
Cassazione presentino, per la materia, una pertinenza
particolare. La disciplina è infatti infarcita, ovviamente più di quella di ogni altro
contratto tipico, di norme legislative rivolte alla protezione di beni personali del
lavoratore; e, nella misura in cui esse vengono considerate tutte “coperte” dal capiente
ombrello costituzionale, il richiamo alla fonte superiore è piuttosto un rafforzativo. Là
dove non riesca ad arrivare il diritto primario può soccorrere, infine, la Drittwirkung, o
“linea diretta” con la Carta.
Quale che sia l’angolatura interpretativa prescelta, pertanto, si può comprendere
perché le sollecitazioni della giurisprudenza civile siano state raccolte quasi “in tempo
reale”, e con un certo entusiasmo “elettivo”, da quella lavoristica, che non dispone (anche
per le ragioni già evidenziate78) di un “proprio” sistema di risarcimento del danno, e che
non aveva mai “lavorato” troppo sulla specificità del danno contrattuale79, sì da ritenerlo
proiettabile anche sul versante non patrimoniale, come riflesso della omologa natura dei
beni protetti; operando, insomma, come se l’art. 2059 avesse una valenza generale.
Sì che, quando hanno cominciato a giungere segnali diversi, la giurisprudenza non
si è soffermata troppo a dubitare della possibilità di trasporre, in campo contrattuale80,
principi extra-contrattuali81. Anzi, nel recente intervento delle Sezioni unite essa è
V. Cass., Sez. un., 24 marzo 2006 n. 6572.
Il “danno esistenziale” è stata infatti costruito, come locuzione, a immagine e somiglianza del “danno
biologico” – formula sintetica per designare il danno da lesione del bene salute, protetto dall’art. 32 Cost. -, ma senza
un’identificazione altrettanto affidabile della posizione soggettiva primaria.
76
Cfr. Cass. n. 8827/2003, cit.
77
Così Pedrazzoli 2004, XXVI-XXVII.
78
V. retro, § 2.
79
V., ad es., Di Majo 2005, 253 ss.
80
Essendo il problema sdrammatizzato, peraltro, dalla corrente adesione della giurisprudenza alla tesi del
possibile cumulo delle azioni di responsabilità, in specie nell’area dell’art. 2087: v. a più riprese infra, nel testo.
81
V. infatti Cass. 26 maggio 2004 n. 10157, D&L, 2004, 343, in tema di risarcimento del danno professionale:
“Questi principi…possono essere agevolmente applicati anche in tema di inadempimento contrattuale, per la
liquidazione dei danni conseguenti all’accertata responsabilità contrattuale del datore di lavoro.” Nel senso che l’art.
2059 non poteva comunque esercitare un’incidenza paralizzante, nei casi in cui il dovere di protezione della persona
fosse inserito in un contratto, v. Cacace 2003, 161.
74
75
12
persino andata oltre, adombrando un’autosufficienza dell’art. 2087 ai fini fondativi della
responsabilità de qua82.
Sospesa com’è fra la tradizione dei diritti e la fluidità del nuovo sistema dei danni,
la delineazione di uno statuto giuridico della persona nell’epoca del danno alla persona si
presenta, dunque, difficile e problematica. Essa può essere tentata a condizione di
disporre di un materiale analitico omogeneo, teso alla ricerca di ciò che è comune alle
varie fattispecie di illecito personale e alla valorizzazione dei nessi di sistema, a
cominciare dal coordinamento dei vari diritti con il sistema della responsabilità: è
l’indagine cui ci si accinge a dedicarsi.
L’analisi presuppone una classificazione. Quella presentata nelle pagine che
seguono, circoscritta alle situazioni giuridiche comunemente considerate83 (ma senza
escludere, con ciò, ulteriori sviluppi “creativi” discendenti dalla Costituzione), si incentra
sui beni protetti, onde ordinare attorno ad essi i diritti che, di quella protezione, sono lo
strumento.
Come ogni classificazione, anche questa potrà suonare, talora, artificiale, sia
perché tale è, entro certi limiti, la distinzione fra i diversi beni della vita, molti dei quali
non sono che specie del portante ed inclusivo concetto di “dignità” umana84; sia perché
le fattispecie che saranno esaminate (oltre a presiedere, spesso, alla protezione di più
d’uno dei beni in discorso) rivestono forme giuridiche anche molto diverse, ciascuna delle
quali propone propri problemi di inquadramento85.
L’ostinazione classificatoria non deve far dimenticare, peraltro, che la realtà non è
solita appassionarsi troppo alle distinzioni, tanto da rendere normale, nelle aule di
giustizia, la dimensione del concorso – in relazione ad un medesimo fatto storico – fra più
illeciti, e quindi, potenzialmente, fra più voci di danno86.
4. Salute e sicurezza.
V. Cass., Sez. un., 24 marzo 2006 n. 6572.
Essa aspira, come tale, alla completezza, ma senza pretendersi, con ciò (anche per quanto concerne i diritti
positivamente riconosciuti), esaustiva: ne è rimasto trascurato, ad esempio, il campo della tutela delle creazioni
intellettuali nel rapporto di lavoro, con particolare riguardo al diritto morale d’autore. In argomento, v. le complete
ricognizioni di Martone 2002, e Pellacani 1999, spec. 185 ss.
84
Inteso (v. ad es. Rescigno 1990, 3-4) come riassuntivo delle attribuzioni di valore dell’essere umano : non è un
caso che nella Carta europea dei diritti fondamentali del 7 dicembre 2000, è stata giustamente anteposta (art. 1) allo
stesso diritto alla vita.
85
E’ il caso, ad esempio, delle molteplici proiezioni della normativa a protezione della salute e della sicurezza,
sulle quali v. infra, § 4.
86
Del fenomeno segnalato nel testo, la giurisprudenza (v., ad es., Cass. 23 maggio 2005 n. 6326) è solita fare
esperienza nel frequente (e quasi sempre confuso, e concettualmente accavallato) concorso fra illeciti “personali”
(esempio paradigmatico: lesione della salute, demansionamento e mobbing), ove ad essere sacrificata è quasi sempre la
pulizia concettuale, e in qualche misura anche l’equità risarcitoria. Ma tanto meno pare superfluo il richiamo ad
esercitare maggiormente l’arte della distinzione, pur non di gran moda, quanto più si consideri che il danno non
patrimoniale è destinato ad avere una crescente risonanza nella prassi giudiziaria, con probabili infiltrazioni anche in un
dispositivo sanzionatorio precostituito e “tarato” sui soli danni patrimoniali (oltretutto, nelle piccole imprese,
strettamente predeterminati), come quello del licenziamento illegittimo. Per la sollecitazione ad evitare duplicazioni
risarcitorie, v. comunque Cass. n. 8827/2003, cit.
82
83
13
La tutela della sicurezza87 e della salute del lavoratore può legittimamente
aspirare, e in prospettiva storica e in quella più recente dei danni alla persona,
ad
un’assoluta primazia nella tematica dei diritti della persona88.
Ai primordi di quel dibattito, si è già avuto modo di accennare, trattando delle
origini stesse della “missione” del diritto del lavoro89. La protezione dell’incolumità fisica
dell’operaio è stato, in effetti, il principale motivo ispiratore di tutta la prima ondata della
legislazione sociale, della quale possiamo considerare un’epitome il R.D.L. n. 692 del
1923, che dettò limiti di ordine pubblico alla durata massima della prestazione
lavorativa90.
Lo sviluppo della legislazione speciale è poi proseguito nel secondo dopoguerra91,
potendo contare anche sul supporto sistematico delle due disposizioni, l’art. 2087 e l’art.
2110, che hanno rappresentato il tramite della penetrazione del valore salute all’interno
della nuova e “unificata” disciplina del rapporto di lavoro subordinato; un valore poi
consacrato dalla Costituzione mediante un fascio coordinato di principi, a cominciare dal
legame, comunemente rilevato dalla dottrina92, fra l’art. 32 e la “sicurezza” ex art. 41,
comma 2.
Siamo di fronte, come si vede, ad una fondamentale bipartizione di ricadute
giuridiche del diritto alla salute nel rapporto di lavoro: si profilano, da un lato, una
pluralità di diritti concernenti le modalità esecutive e temporali della prestazione
lavorativa; dall’altro, il diritto di astenersi, data l’esistenza di condizioni di inabilità
lavorativa determinate da una malattia o da un infortunio occorsi al dipendente93, dal
rendere la prestazione lavorativa94.
Concetto assunto qui nella sua tradizionale accezione di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, e
dunque in un senso più ristretto di quello proposto dall’interessante lettura di Loi 2000.
88
Alla letteratura già citata, sul rilievo della salute nell’ambito dei diritti della personalità, adde Perlingieri 1982,
e Scalisi 1990.
89
V. retro, § 2.
90
Nella prospettiva delle limitazioni all’impiego del lavoro, sono altresì da ricordare le prime leggi a protezione
dei minori e delle lavoratrici madri, e la legge n. 370 del 1934, sul riposo domenicale e settimanale.
91
Sono variamente dedicate - o contengono norme variamente dedicate - alla protezione della salute e sicurezza,
alla rinfusa: la legge 17 ottobre 1967 n. 977, come modificata dal d.lgs. 4 agosto 1999 n. 345, sul lavoro dei minori; la
legge 12 marzo 1999 n. 68, sul lavoro dei disabili; il d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151, che ha riordinato la normativa sulle
lavoratrici madri; e, last but not least, il d.lgs. 8 aprile 2003 n. 66, che ha rinnovato e accorpato la disciplina dell’orario
e dei riposi.
92
V. Baldassarre 1971, loc.cit.
93
Come interessante esempio di intersezione fra i campi di operatività dell’art. 2087 e dell’art. 2110, si segnala
l’ormai costante principio giurisprudenziale, per cui se si accerta che la malattia è stata causata dalla violazione
dell’obbligo di protezione (sia fisico che morale) ex art. 2087, anche in relazione alle scelte del datore di lavoro in
ordine all’assegnazione delle mansioni, a prescindere dal risarcimento del danno biologico detta malattia non è
computabile ai fini del comporto (v. Cass. 23 aprile 2004 n. 7730; Cass. 7 aprile 2003 n. 5413). Tale principio, peraltro,
non pare ben coordinato con la nozione di malattia professionale (tale essendo qualificabile la malattia in discorso), nel
caso della quale, più che aversi uno scomputo dal comporto, si ha l’applicazione di un particolare regime di comporto,
ove contrattualmente previsto.
94
La problematica della malattia, che propone una problematica prospettiva di bilanciamento fra il diritto alla
salute e l’interesse datoriale all’adempimento, non sarà qui specificamente affrontata (al di là dei collegamenti con le
87
14
Nel quadro della prima tipologia, che si insinua nel rapporto, in gran parte,
tramite limitazioni imperative alle possibilità di impiego del prestatore, campeggia pur
sempre, per rilievo sistematico (ed al di là dell’ormai vastissima normativa di
“specificazione”), l’obbligo “di sicurezza” previsto dall’art. 208795.
Ma già dire “obbligo” è cominciare il racconto dalla fine. Infatti, malgrado l’idea
dell’esistenza di un dovere contrattuale dell’imprenditore di proteggere l’incolumità del
lavoratore vantasse ormai una certa tradizione96, e l’art. 2087 (a dispetto della sua
collocazione,
nel
codice,
nella
sezione
dedicata
all’imprenditore),
si
candidasse
naturalmente ad esserne la matura espressione normativa, è accaduto che le medesime
resistenze che, nella prima fase postcostituzionale, si sono frapposte ad un pieno
riconoscimento del diritto alla salute nei rapporti interprivati hanno trovato riscontro in
interpretazioni variamente riduttive del comando contenuto nella disposizione. Forse ha
altresì giocato, in tale direzione, il convincimento, più o meno subliminale, che i problemi
della salute dei lavoratori dovessero pur sempre risolversi nel quadro del meccanismo
assicurativo, con il quale l’art. 2087 non si era minimamente coordinato97.
Peraltro, accanto a posizioni palesemente conservatrici98, almeno una delle tesi
dell’epoca (quella per cui non poteva darsi un obbligo di sicurezza, non essendovi, a
monte, un diritto del lavoratore allo svolgimento effettivo della prestazione di lavoro99) era
la spia di un’oggettiva difficoltà teorica: quella di dove collocare una posizione soggettiva
passiva, a contenuto non patrimoniale, proprio là dove si era abituati a configurare,
esclusivamente, un credito (al facere della prestazione di lavoro), e non un debito.
Poteva soccorrere la categoria dei “doveri (contrattuali) di protezione”, proposta da
Luigi Mengoni traendo argomento dal dovere di solidarietà ex art. 2 Cost. e dall’art. 1175
c.c., ed anche con uno specifico riferimento all’art. 2087100, e successivamente affinata
da Carlo Castronovo101. Ma anch’essa fu oggetto di forti critiche102: il dovere di protezione
altre ipotesi sospensive, sulle quali infra, § 12), per eccedenza rispetto alla direttrice tematica del saggio: cfr. comunque
Del Punta 1992 (e, per un aggiornamento, 2006), e Pandolfo 1991.
95
Sulle valenze personalistiche del quale, v. Grandi 1999, 333-334.
96
Nel senso che la novità dell’art. 2087 è stata quella di operare una piena “contrattualizzazione” della regola già
posta dall’art. 3 della legge n. 80/1898, v. Castronovo 1997, 421. Per la dottrina anteriore al codice civile, sull’esistenza
di un obbligo (accessorio) di tutela dell’incolumità ed igiene dei lavoratori, v. Greco 1939, 315 ss.
97
Cfr. Castronovo 1997, 421.
98
Come quella che ricavava dalla valenza pubblicistica della normativa in materia la conseguenza per cui la
sicurezza costituiva oggetto di un mero interesse legittimo del lavoratore: D’Eufemia 1969, 259. Sul carattere
“bifrontale” dell’obbligo di sicurezza, operante contemporaneamente sul piano pubblicistico e privatistico, v. invece, sin
dai primi anni ’60, Smuraglia 1974, 58 ss., e spec. 70 e 78; cui adde Smuraglia 1967, spec. 375-376, nel quadro di uno
studio ad ampio raggio sulle valenze personalistiche del contratto di lavoro subordinato. Cfr. anche Suppiej 1982, 163165.
99
V. Pera 1967, 868 ss. Per una critica, v. Montuschi 1986, 61 ss.
100
V. Mengoni 1954, spec. 368.
101
V. Castronovo 1990, anche per l’inclusione nella categoria dell’art. 2087 (ribadita in Castronovo 1997, 421
nt.79). Per un’accettazione dell’impiego di tale categoria, v. anche Mazzamuto 2004a, 19 ss.
102
V. Montuschi 1986, 66 ss.
15
non piaceva, paventandosi che potesse risolversi nella “ghettizzazione” dell’obbligo de quo
in un’area marginale del rapporto obbligatorio, che ne vanificasse la “pericolosità”
giudiziaria, e con essa la capacità di incidenza reale sull’organizzazione del lavoro.
E’ da chiedersi, in verità, se tali timori – o quanto meno i sospetti sulle
valenze
“ideologiche” della teorica in esame - non fossero eccessivi103. Quella dei doveri di
protezione
è
semplicemente
una
categoria
dogmatica
atta
a
razionalizzare
la
trasposizione dell’istanza di non-lesione di diritti assoluti, in ogni caso rilevante ex art.
2043, in seno al contratto (sì da svolgere il dovere di astensione in un obbligo
“preventivo”, e dai contenuti anche positivi, come si conviene in presenza di un
complesso scenario di rischi104).
E se, in effetti, l’idea della non azionabilità autonoma dei doveri di protezione era
presente nella dottrina germanica, quella italiana ha dimostrato come soltanto una
visione ingiustificatamente ristretta del sinallagma contrattuale possa giustificare tale
conclusione, dal che segue che il dovere di protezione deve ritenersi autonomamente
azionabile, ove leso, in via di tutela, così come di autotutela105 (sì da legittimare il rifiuto
della prestazione “principale” qualora la protezione non sia stata assicurata106).
Tuttavia, nella dottrina maggioritaria degli anni ’60 e ’70, il desiderio di accedere al
sancta sanctorum del contratto era più forte di qualsiasi categoria, tanto da imporre la
tesi per cui, a titolo di integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di
lavoro subordinato, il dipendente vanta un diritto soggettivo a rendere la propria
prestazione in condizioni di (massima) sicurezza, che egli è titolato a far valere in giudizio
in via (comunemente detta) “preventiva”107; in polemica contrapposizione alla tesi di chi
prospettava, in caso di violazione dell’obbligo in discorso, un rimedio esclusivamente
risarcitorio108.
Non è il caso di attardarsi oltre a stabilire se questo risultato sia poi così diverso
da quello ottenibile accettando l’inquadramento dogmatico come dovere di protezione; o a
sottolineare, col senno di poi, che l’insistenza sull’azionabilità individuale (in realtà, una
normale azione di adempimento ex art. 1453 c.c., ergo un corollario della qualificazione
della posizione soggettiva in termini di diritto) non ha mantenuto le attese, data la quasi
totale assenza di seguito nella prassi giudiziaria (che si è piuttosto incaricata di
103
Per una ripresa della configurazione dell’obbligo di sicurezza come obbligo “principale”, v. comunque (anche
in riferimento a Napoli 1980, 206), Napoli 2005, 1225-1226.
104
Per la sottolineatura di tale aspetto, v. Mazzamuto 2004a, 29.
105
V. Castronovo 1990, 6-7.
106
E ciò, nello specifico, al di là dell’ipotesi di pericolo grave ed immediato, di cui all’art. 14, comma 1, del d.lgs.
n. 626/1994: cfr. Lai 2006, 22 ss. In generale sull’autotutela nel diritto del lavoro, con peculiare sensibilità dogmatica,
v. Ferrante 2004, spec. 181 ss.
107
V., oltre a Smuraglia 1974, loc.cit., Montuschi 1986, 49 ss., anche per un ampio riepilogo critico del dibattito;
Spagnuolo Vigorita 1971.
108
Tesi sostenuta da Riva Sanseverino 1982, 315 ss., sulla quale v. ancora la netta critica di Montuschi 1986, 5960.
16
rivalutare, ma dopo l’invenzione del danno biologico, la via risarcitoria), ed al di là degli
importanti sviluppi normativi intervenuti nel frattempo sul terreno della prevenzione109.
Presenta un maggiore interesse sistematico, invece, osservare che l’opzione teorica
che ha prevalso110, venendo poi recepita dalla giurisprudenza, ha innescato un
sotterraneo dinamismo della posizione soggettiva implicata, che è sfociato, più tardi,
nella configurazione della prestazione lavorativa come oggetto di un diritto, oltre che
(come d’ordinario) di un obbligo111; essendo tale sviluppo logicamente implicato dalla
affermazione di un obbligo di far lavorare in condizioni di sicurezza, eccedente rispetto ad
un mero onere di cooperazione creditoria112. E’ soltanto un primo esempio delle
numerose influenze sistematiche che percorrono, in lungo e in largo, la macro-area dei
diritti della persona.
La genesi aquiliana del diritto qui discusso113 (mai obliata dalla giurisprudenza114)
consente altresì di non rimanere spiazzati di fronte a quella sorta di precessione del
concetto (sperimentata soprattutto in tema di mobbing, ma operante anche per l’altro
corno della protezione), in virtù della quale si è soliti trarre dall’art. 2087, non soltanto
un obbligo di “adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure .. necessarie a tutelare
l’integrità fisica…dei prestatori di lavoro”, ossia di difendere i lavoratori dai rischi
dell’attività d’impresa, ma anche, per un’implicazione a fortiori115, un divieto (o obbligo
negativo) di porre in essere direttamente, o tramite preposti, atti o comportamenti lesivi
dell’integrità fisica (e psichica) dei dipendenti.
In questa ulteriore proiezione semantica e giuridica non pare dubbio che l’art.
2087 non operi come fonte di un dovere di protezione in senso proprio, a meno di non
ritenere che l’imprenditore abbia il dovere giuridico di proteggere il lavoratore.. da se
stesso. Il rigetto dottrinale della categoria ha così avuto, quanto meno, il merito di tenere
assieme i due (non coincidenti, anche se legati) significati estraibili dalla disposizione.
La continuità logica fra essi, a suggello dell’unità della fattispecie, si riverbera
nella prospettiva della responsabilità ex art. 1218116, che la giurisprudenza ha
abbracciato senza esitazioni, come conseguenza della qualificazione giuridica accolta,
109
Per un inquadramento della rinnovata (dal d.lgs. n.626/1994) normativa prevenzionistica, v. Galantino 1996;
Montuschi 1997; più di recente, Lai 2006.
110
Sul tema, v. anche Albi 2003 e 2004.
111
V. infra, § 11.
112
V. già, infatti, Montuschi 1986, 73, che parlava di una cooperazione creditoria ormai “doverosa”.
113
Che può tornare a rivivere pienamente, peraltro, in quei casi nei quali non si ravvisi l’applicabilità dell’art.
2087 c.c., come nell’ipotesi dei lavoratori volontari, prestanti attività a favore di organizzazioni di volontariato, alle
quali la legge n. 266 del 1991 addossa soltanto un obbligo assicurativo, e non protettivo. Per quanto concerne i
lavoratori “a progetto”, operanti nei luoghi di lavoro del committente, v. comunque l’art. 66, comma 4, del d.lgs. n.
276/2003.
114
Data la ricorrente affermazione del concorso fra le due azioni di responsabilità, su cui infra.
115
Così Smuraglia 1967, 351, pur discutendo della “personalità morale”.
116
Per buone ricognizioni del tema discusso nel testo, proiettate nella prospettiva della responsabilità, v. già
Franco 1995 e Marino 1990.
17
pur mai rinunciando (ma con ridotte utilizzazioni pratiche) alla “via di fuga” della
responsabilità aquiliana117.
Di base, il lavoratore che abbia subito una lesione del bene della salute, e intenda
evocare in giudizio il datore di lavoro per la richiesta di risarcimento del danno
biologico118 deve allegare e provare l’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di
“proteggere” (nell’ampia portata semantica messa in luce) la propria salute119: id est, il
nesso di causalità materiale
120
fra la lesione subita e un fattore di insicurezza o di
nocività presente nell’ambiente di lavoro, e qualificabile nei termini dell’inadempimento
de quo121.
Che questo equivalga a ritenere necessaria la prova della “colpa” del datore di
lavoro - in vigilando o in eligendo122, o per altre negligenze -, è una ricorrente (anche se
non immancabile) affermazione giurisprudenziale123, nella quale si coglie tutto il riverbero
problematico del più classico fra i dibattiti della civilistica, in merito alla natura – per
colpa o no - della responsabilità contrattuale124.
Anche nella meno sospetta dottrina lavoristica, è frequente l’affermazione che, pur
nella massima valorizzazione possibile del diritto costituzionale alla sicurezza, la
responsabilità ex art. 2087 deve ritenersi una responsabilità per colpa, come se
l’escludere che si tratti di una responsabilità tecnicamente oggettiva (come quella dell’art.
2050) conduca per forza a tale, contrapposta, conclusione125; dopo di che, peraltro, si
registra il riavvicinamento, di fatto, ad un’”oggettivazione” della responsabilità, in virtù
dell’affermazione per cui l’unica possibilità di esimersi da essa risiede, per il datore di
lavoro, nella prova che l’evento si è verificato per un’impossibilità non imputabile, di
Nel senso del concorso fra le due responsabilità (del quale si sono rievocate, in esordio, le nobili ascendenze
“barassiane”), v., fra le tante, Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763; Cass. , Sez. un., 14 maggio 1987 n. 4441. Per una
decisa critica alla possibilità del cumulo di azioni, ritenuta priva di basi dogmatiche, v. Mazzamuto 2004a, 39 ss. V.
anche, con rilievi pertinenti, Mazzotta 2004, 448 ss. In netta controtendenza, v. però Pedrazzoli 2004, XLIX-L.
118
Nei limiti di quanto ecceda, dopo l’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, le prestazioni riconosciute dall’Inail.
119
In generale sulla ripartizione degli oneri probatori nella responsabilità contrattuale, v. la messa a punto di
Cass., Sez. un., 30 ottobre 2001 n. 13533.
120
Da tenersi distinto dal nesso di causalità giuridica con le conseguenze dannose dell’evento: per la distinzione
fra le due “causalità” nell’illecito extra-contrattuale, v. in generale Franzoni 1993, 84 ss., cui adde , per la recezione
lavoristica, Pedrazzoli 1995, 28 ss.
121
V., ad es., Cass. 25 agosto 2003 n. 12467; Cass. 3 luglio 2003 n. 10548.
122
V. ad es. Cass. 26 febbraio 2002 n. 9304.
123
V. ad es. Cass. 26 maggio 2004 n. 10175; Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763. Per l’interessante affermazione
che la prova della colpa è comunque necessaria, non applicandosi la “presunzione legale” di cui all’art. 1218 a
fattispecie che presuppongono la responsabilità penale del datore di lavoro, qualora si rivendichi il risarcimento del
danno morale da infortunio sul lavoro, v. Cass. 25 ottobre 2002 n. 15133.
124
Limitandosi ai riferimenti classici, v. Visintini 1987. In giurisprudenza, sulla presunzione di colpevolezza
dell’inadempimento ex art. 1218, v. ad es. Cass., sez. III, 18 marzo 2005 n. 5960.
125
V. Montuschi 2006, spec. 8 ss.
117
18
solito identificata in un comportamento del dipendente, del tutto imprevedibile ed
estraneo alla prestazione lavorativa126.
Ebbene, appare forse necessario provare ad uscire dall’eterna prospettazione di
una divaricazione fra il modello e la prassi, di volta in volta variamente giudicata dai
commentatori. Così, pare che, focalizzando l’analisi su come la giurisprudenza applica lo
schema di responsabilità ex art. 1218, si finisca con lo scaricare su esso una
“responsabilità” eccessiva. Di massima, quello schema appare correttamente impiegato, e
di esso non fa parte la prova diretta della colpa, nell’accezione tecnica di elemento
soggettivo di un illecito127, se non nei limiti in cui essa è “oggettivata” nel fatto
dell’inadempimento; restando poi da stabilire – ciò attenendo, comunque, ad una
sequenza successiva della fattispecie - se la prova dell’esimente positivamente
configurata dall’art. 1218 equivalga a quella della diligenza o assenza di colpa, o non sia
invece più prossima al caso fortuito ex art. 2050128.
La vera questione non è la responsabilità, ma l’obbligo: è la latitudine sostanziale
ad esso assegnata da dottrina e giurisprudenza, in chiave di “massima sicurezza
tecnologicamente fattibile”129, con le specificazioni e ramificazioni di cui al d.lgs. n. 626
del 1994130 ed alle discipline di settore ma anche al di là di esse131, che dà l’impressione
ottica (oltre alla sensazione tangibile) di un’”oggettivazione” della responsabilità, quasi in
nome di un “rischio professionale” post litteram. Ma si tratta, nondimeno, di una
ordinaria responsabilità ex art. 1218, comunque la si voglia qualificare da un punto di
vista dogmatico.
Di ciò si ha un puntuale riscontro, in specie, nella tipica ipotesi dell’infortunio sul
lavoro, ove il fatto che l’infortunio si sia materialmente verificato equivale quasi ad una
prova (indiziaria) dell’inadempimento, nella misura in cui l’obbligo, così come interpretato,
126
Il che comporta, per semplificare, che ricadono nella sfera della responsabilità datoriale i comportamenti
“imprudenti” del lavoratore (v. ad es. Cass. 8 aprile 2002 n. 5024), restandone esclusi i soli atti “inconsulti” (v. Cass. 26
giugno 2002 n. 9304). Sulla necessità che il comportamento del lavoratore, per far escludere l’inadempimento datoriale,
abbia avuto il carattere dell’abnormità, v. Cass. 28 luglio 2004 n. 14270.
127
V. in generale Franzoni 1993, 126 ss.
128
Per quanto in esso si parli, alla lettera meno rigorosamente, della prova di aver adottato “tutte le misure idonee
ad evitare il danno”.
129
V. ad es., e pur badando a ribadire la natura non oggettiva della responsabilità in discorso, Cass. 12 luglio
2004 n. 12863; Cass. 25 agosto 2003 n. 12467; Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763. Per maggiori riferimenti, v. Lai 2005,
11 ss.
130
Il quale non ha ancora manifestato un’apprezzabile incidenza, oltre che (purtroppo) nella prevenzione degli
infortuni, nella direzione di una maggiore responsabilizzazione del lavoratore (giuridicamente consacrata dall’obbligo
di cui all’art. 5, comma 1, del decreto, su cui v., anche per il persuasivo inquadramento nella categoria dogmatica degli
“obblighi senza prestazione”, Corrias 2005, spec. 108 ss.) , pur incoraggiato a comportarsi da “attore” della sicurezza (e
fatto oggetto di inedite posizioni attive – artt,. 21 e 22 - per ciò che concerne l’informazione e la formazione).
131
Sulle ricorrenti preoccupazioni inerenti all’indeterminatezza dei doveri previsti a carico del datore, in specie
sotto il profilo dei requisiti di tassatività delle fattispecie penali, v. l’appello al restringimento della discrezionalità
dell’interprete, di Corte Cost. 25 luglio 1996 n. 312, RIDL, 1997, II, 15, su cui le allarmate considerazioni di Marino
1997, e la diversa valutazione di Montuschi 2006.
19
avrebbe comportato che il datore di lavoro, per adempiervi, conformasse l’organizzazione
in modo tale da escludere il verificarsi dell’evento lesivo.
I termini del problema non sono diversi nella vicenda della malattia professionale,
salvo che, mancando un evento traumatico verificatosi nel luogo di lavoro (o, più
problematicamente, in itinere), la prova dell’inadempimento è più difficile, comportando (a
prescindere dall’ausilio tuttora offerto dal sistema tabellare) quella dell’eziologia
professionale dell’evento morboso132.
Ma le proiezioni applicative della fattispecie tendono sempre più ad espandersi al
di
là
di
quelle
classiche,
ove
si
ponga
mente
a
quella
variegata
casistica
giurisprudenziale, nella quale al datore vengono imputate le più svariate lesioni
“ambientali” al bene salute.
Una fenomenologia ormai abbastanza ricorrente è quella dello stress, o addirittura
dell’infarto, derivante da un protratto superlavoro al di là dei limiti di orario o di criteri di
ragionevolezza (legati anche alle condizioni disagiate, ad es. notturne, della prestazione
lavorativa)133: ove si scorge chiaramente come la violazione di altre norme, poste pur esse
a protezione della salute (come quelle in tema di orario o di riposi), possa concretare, ad
un tempo, una violazione dell’art. 2087134.
Sempre più consueti sono, poi, i casi nei quali il lavoratore lamenta un danno alla
salute come conseguenza, più o meno immediata e diretta, di atti o comportamenti
gestionali dell’imprenditore o di suoi preposti, come un demansionamento, una molestia
o addirittura una persecuzione morale, una o più sanzioni disciplinari, un trasferimento,
un licenziamento, etc.
In queste situazioni, la prova dell’inadempimento del dovere di protezione (o di
astensione) è, concettualmente, meno afferrabile. Quand’è, ad esempio, che un
lavoratore, che ha “vissuto male” un trasferimento in una lontana località, può vantare
un danno risarcibile? E se il lavoratore si è “fatto una malattia” di una mancata
promozione, per ciò solo il datore ne è responsabile?
Sono interrogativi delicati, che la giurisprudenza tende saggiamente ad affrontare,
per ciò che concerne il criterio di qualificazione dell’inadempimento, in una logica che
sembra mutuata (limitatamente a tale aspetto) dal giudizio di responsabilità ex art. 2043,
V., ad es., Cass. 25 agosto 2003 n. 12467, in un caso nel quale si è cercato di porre un limite all’estensione
dell’obbligo, confermandosi la pronuncia di merito che aveva escluso la derivazione causale delle patologie denunciate
dal lavoratore dalle modalità di svolgimento, pur in sé usuranti, della prestazione lavorativa.
133
V., ad es., Cass. 26 giugno 2004 n. 19932, RIDL, 2005, II, 109, con nota di Brun; Cass. 26 maggio 2004 n.
10175.
134
Peraltro con la tendenza a “monetizzare” il pregiudizio: ad es., nel caso del dirigente, escluso dall’applicazione
dei limiti massimi di orario, la giurisprudenza tende a recuperare le conseguenze economiche della disciplina del lavoro
straordinario, qualora la durata della prestazione abbia ecceduto i limiti della ragionevolezza: v. Cass. 23 luglio 2004 n .
13882; Cass. 15 maggio 2003 n. 7577.
132
20
ossia assumendo,a parametro dell’”ingiustizia” del danno alla salute subito dal
lavoratore135, la lesione di altri diritti, ma questa volta contrattuali.
Da qui la possibilità di evitare quel “corto-circuito” fra antigiuridicità e danno, che
è il cuore problematico del prototipo “extra-contrattuale” del danno non patrimoniale136,
ma anche – e con il concreto rischio di qualche automatismo di troppo137 - l’effetto “a
cascata”, così tipico di queste vicende giudiziarie. Infatti, una volta che gli inadempimenti
“a monte” siano stati giudizialmente acclarati, la negazione dell’inadempimento “a valle”,
o comunque la prova liberatoria, si riveleranno particolarmente difficili per il datore di
lavoro, se non, ironicamente, “impossibili”. Viceversa, difettando gli inadempimenti
“reggenti”, nessuna responsabilità sarà configurabile, pur in presenza di lesioni anche
gravi al bene della salute.
5. Personalità morale.
Secondo l’aspro giudizio di Ugo Natoli, a paragone della dizione dell’art. 41, comma
2, della Costituzione, il richiamo alla protezione della “personalità morale” del prestatore
di lavoro, contenuto nell’art. 2087 del codice civile, era angusto e manipolativo138. Gli
stessi primi commentatori, d’altra parte, si mostrarono molto incerti sulla portata da
attribuire ad esso, lasciando ben presto cadere in un meritato oblio quelle timide
suggestioni paternalistiche, secondo le quali l’imprenditore avrebbe dovuto occuparsi, in
positivo, di arricchire la personalità morale dei propri dipendenti, con non meglio
precisate iniziative educative, ricreative, etc.139
Mai rivincita interpretativa è stata più clamorosa. O, piuttosto, raramente come in
questa occasione si è confermato quanto l’interpretazione normativa non possa
disgiungersi, come ha insegnato Hans Georg Gadamer, dalla mediazione fra la storia di
un testo e la sua attualizzazione nel presente140: siamo stati in grado di elaborare una
nuova lettura dell’art. 2087 proprio perché conoscevamo (anche se per mera intuizione)
quella originaria, e abbiamo potuto misurare la distanza interpretativa che ci separa,
come uomini della nostra epoca, da essa. Il testo, d’altra parte, si è rivelato dotato di una
disponibilità pressoché illimitata a recepire valori culturali nuovi, ispirati non ad etiche
Sull’”ingiustizia” del danno, v. in generale Franzoni 1993, 173 ss.
V. l’acuto rilievo di Tursi 2003, 293.
137
Questo genere di giudizi non verte quasi mai, nel corso dell’istruttoria, sulle lamentate lesioni della salute:
queste comportano soltanto un’addizione risarcitoria finale, previa valutazione peritale, nel caso in cui una
responsabilità datoriale sia stata rinvenuta aliunde.
138
V. Natoli 1956.
139
V., criticamente, Smuraglia 1967, 341.
140
V. Gadamer 1988, 376 ss., ove anche le famose critiche ad Emilio Betti.
135
136
21
contenutistiche
fuori
del
tempo,
ma
semplicemente
ad
un’etica
umanistica
di
riconoscimento e rispetto, sempre più pieni, del valore dell’Altro141.
Così, quando ha cominciato a diffondersi il fenomeno per molti versi straordinario
del mobbing142, non originale tanto per gli abusi143, di solito a dimensione individuale144,
che ha semplicemente dischiuso, e che pure attendevano di essere oggetto di una
specifica riflessione sociologica, psicologica e medica145, quanto per il fatto di averne
promosso il riconoscimento normativo, segnando un’avanzata netta del giuridico là dove
esso non era mai riuscito a penetrare, l’art. 2087 ha rappresentato (sia pure sullo sfondo
dell’art. 2043146) un ideale e non troppo esigente ancoraggio normativo147.
E’ questo, fra l’altro, un caso in cui la trasposizione nel contratto ha forse
consentito di attingere ad un quid pluris (rispetto ad una tutela extra-contrattuale pur
costituzionalmente orientata) quanto ad intensità della protezione sostanziale, giacché il
mobbing , come tipica patologia dell’organizzazioni, può essere “trattato” soltanto da
normative mirate sulle organizzazioni e sui fattori di rischio ad esse inerenti, quale, bene
o male, è l’art. 2087 nella lettura affinata da una giurisprudenza di decenni148.
Così, purché si convenisse su tale riferimento normativo, piuttosto che interrogarsi
sul mobbing149, il giurista avrebbe dovuto chiedersi, avendo come bussola soltanto
l’individuazione normativa del bene protetto (come nell’art. 28 St.lav.), e non una
tipizzazione della condotta, come intendere il concetto, a dir poco sfuggente, di lesione
della personalità morale150. Ove si sottintende (com’è implicito, del resto, nella
classificazione qui proposta), che la possibilità che il mobbing dia luogo ad una lesione
V. ad es. Sparti 2003.
Sull’argomento, v. in generale Mazzamuto 2004a e 2004b; Monateri-Bona-Oliva 2000; Proia 2005;
Scognamiglio 2004; Tosi 2004; Tullini 2000; Vallebona 2006; Zoli 2003. Per un completo riepilogo della problematica,
v. Amato-Casciano-Lazzeroni-Loffredo 2002. Per una rassegna critica della giurisprudenza, v. Cumani 2004.
143
O le “angherie e inurbanità”, per dirla con il lessico volutamente non à la page – ironico contrappeso, sul filo
di un richiamo alla memoria, all’anglicismo del mobbing – di Pera 2001.
144
E, soprattutto, impiegatizia e dirigenziale. Per il rilievo che l’emersione del mobbing è in qualche modo la spia
di un indebolimento del ruolo sindacale, v. Monateri 2004, 85.
145
Ci risparmiamo citazioni alla vastissima e inter-disciplinare letteratura ormai esistente sul tema, salvo i
riferimenti a Ege 1996, e Hirigoyen 2000.
146
Per il rilievo che l’illiceità del mobbing è già tutta nell’art. 2043, v. peraltro Monateri 2004, 83. Non
sorprende, pertanto, che si sia manifestata anche in questa materia la tendenza ad ammettere il concorso fra le due
azioni di responsabilità: v. ad es. Trib. Forlì D&L, 2001, 411.
147
Ciò sin dalla prima giurisprudenza in materia: v. Trib. Torino 16 novembre 1999, RIDL, 2000,II,102; Trib.
Torino 11 dicembre 1999, FI, 2000, I, 1555; Trib. Milano 20 maggio 2000, OGL, 2000, 959. In dottrina, v., fra i tanti,
Carinci 2004, 93; Mazzamuto 2004a, 43 ss.; Scognamiglio 2004, 498.
148
E che, una volta restituito a nuova vita, sembra promettere altro: per un’interessante applicazione “positiva”,
nonché di bilanciamento col diritto alla riservatezza, in un caso in cui dall’esistenza di un obbligo di proteggere il
benessere morale dei dipendenti si è tratta la facoltà del datore di lavoro di consegnare ad alcuni lavoratori scritti
autografi e non, di natura riservata, di un collega, sospettato di aver inviato pesanti lettere anonime, per far svolgere una
comparazione grafologica, v. App. Milano 31 maggio 2005, ADL, 2006,236, con nota di Gragnoli.
149
Sui rischi di confusione argomentativa indotti dall’uso del termine, v. Proia 2005, spec. 831 ss.
150
Cfr. Nisticò 2003.
141
142
22
della salute (art. 2087, prima parte), ergo ad una malattia professionale151, non esclude
che esso integri, in primis e tipicamente, una lesione della dignità morale (art. 2087,
seconda parte).
Ma quanto il concreto contenuto delle fattispecie si rivelava difficile da afferrare,
pur con il riferimento orientativo (e, in sé, restrittivo della nozione dell’art. 2087) ai
concetti di persecuzione o vessazione psicologica152, tanto lineare ne emergeva la
fisionomia strutturale: la protezione del bene si è subito incanalata, infatti, in uno
schema logico-giuridico che, più di quanto non sia accaduto nel campo della salute e
sicurezza, ha fatto emergere la doppia valenza dell’art. 2087, come esemplificata dalla
pur descrittiva bipartizione fra mobbing “verticale” e “orizzontale”153.
Si è reso chiaro, infatti, che, in virtù del comando della disposizione, il datore di
lavoro è tenuto: a) (per implicito, operando qui la già rilevata precessione del concetto) a
non lederlo o metterlo in pericolo direttamente, o tramite preposti154; b) (per esplicito) ad
adottare tutte le misure necessarie, “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la
tecnica”, affinché esso non venga leso da altri lavoratori (violando, questi ultimi, a loro
volta, l’obbligo di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 626 del 1994) nell’esercizio
dell’attività d’impresa.
Un passo in avanti, questa volta anche in termini di delineazione della condotta
vietata, è stato consentito da disposizioni di legge successive, che, sia pure con
finalizzazioni specifiche, hanno introdotto nell’ordinamento una prima definizione di
“molestia morale”, per tale intendendosi “quei comportamenti indesiderati…,aventi lo scopo
o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile,
degradante, umiliante o offensivo”. Allo stato, peraltro, la legge punisce tali molestie,
qualificandole come discriminazioni, soltanto qualora siano poste in essere per ragioni
connesse al genere155, alla razza o all’origine etnica156, alla religione, alle convinzioni
personali, all’ handicap, all’età o all’orientamento sessuale157.
Al riguardo, sia sufficiente notare che, anche a limitare l’applicazione di tali
disposti ai casi da essi considerati, nulla osta ad utilizzare la relativa definizione –
V. la circolare INAIL 17 dicembre 2003 n. 71, peraltro annullata da TAR Lazio 4 luglio 2005 m. 5454.
Tale definizione generale è ripresa, con differenti sfumature, sia dalla dottrina (v., per tutti, Scognamiglio
2004, 506) che dalla giurisprudenza (per un pur laconico accenno, v. anche Cass., Sez. un., 4 maggio 2004 n. 8438,
NGL, 2004, 290).
153
Cfr. anche Vallebona 2006, 10.
154
Si veda il già citato Smuraglia 1967, 351, che merita qui riportare per intero: il datore di lavoro, in quanto
tenuto a tutelare la personalità morale del prestatore, “non può, per logica coerenza, incidere lui stesso, in modo
negativo,sulla personalità morale dei medesimi. Se in ogni obbligo di comportamento attivo si ritiene insito anche
l’aspetto contrario, consistente nel divieto di tenere un contegno con esso contrastante, ci sembra evidente che sarebbe
altrettanto contraddittorio consentire la menomazione della personalità morale dell’altro contraente da parte di chi è
tenuto a tutelarla e garantirla positivamente.”
155
Art. 4, comma 2-bis, legge n. 125/1991, come novellato dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n.145/2005.
156
Art. 2, comma 3, d.lgs. n.215/2003.
157
Art. 2, comma 3, d.lgs. n. 216/2003.
151
152
23
identica nelle tre disposizioni – come espressione generale di ciò che, nell’ordinamento, si
intende per molestia morale, o atto lesivo della personalità morale, o (ove ancora si
voglia, ma limitatamente a quello “verticale”158) mobbing. Non sembra arbitrario,
pertanto, concludere che nelle disposizioni menzionate si rinvenga, al momento159, la più
specifica nozione legislativa di mobbing160.
Ma, ammesso che tale sia – si potrebbe obiettare -, esso trovasi contestualmente
ridislocato, a livello di fattispecie (e non soltanto di trattamento), nella normativa
antidiscriminatoria161. Tuttavia, quanto meno nelle ipotesi in esame162, l’assorbimento da
parte di tale normativa non pare realizzarsi completamente, nella misura in cui è
prospettabile una contemporanea lesione, e del bene dell’eguaglianza (protetto dalla
normativa antidiscriminatoria), e di quello della personalità morale (protetto dall’art.
2087).
Sembra innegabile, infatti, che siano autonomamente illeciti, anche a prescindere
dall’essersi basati su un fattore vietato, comportamenti molesti come quelli contemplati.
In altre parole, a differenza che nelle altre ipotesi di discriminazione, nelle quali un
trattamento altrimenti lecito diviene illecito in quanto causato dal fattore protetto, nelle
ipotesi in esame un trattamento già altrimenti illecito vede aggravarsi la propria illiceità,
per il fatto di fondarsi su un fattore proscritto dall’ordinamento.
Ma, se così è, emerge un parallelismo di illiceità, che non pare comportare
un’emarginazione dell’art. 2087, nella misura in cui tale disposizione incarna un’istanza
generale di difesa dalle molestie morali. Di guisa che il rapporto fra l’art. 2087 e le
disposizioni qui discusse sembra essere analogo a quello – da genus a species – esistente
nei confronti delle specificazioni dell’obbligo di sicurezza, contenute nel d.lgs. n.
626/1994, le quali non hanno soppiantato la norma che rimane pur sempre la “reggente”
del sistema. A maggior ragione, l’art. 2087 trova applicazione nei confronti delle tipologie
di molestia morale positivamente non contemplate.
Le disposizioni in esame ci danno anche indicazioni importanti dal punto di vista
dei contenuti della fattispecie, che si focalizzano su quei “comportamenti” (concetto da
ritenersi inclusivo di quello di “atti”, mentre non è vera la reciproca) che abbiamo come
“effetto” la lesione della dignità del lavoratore, e che si caratterizzino, per tale ragione,
come molesti o vessatori.
Lo fa ritenere, se non altro, la chiamata in causa della tutela antidiscriminatoria.
Essendo stato bloccato, nel frattempo, il tentativo della legislazione regionale di dettare, sia pure a fini limitati,
una definizione giuridica del fenomeno: v. Corte Cost. 19 dicembre 2003 n. 359, in relazione alla legge n. 16 del 2002
della Regione Lazio n. 16 del 2002.
160
Cfr. Trib. Forlì 28 gennaio 2005, D&L, 2005,462.
161
Come si vedrà meglio infra, § 6-7, proprio da tale inclusione (emersa nel diritto comunitario) è stata ricavata
l’ipotesi che la nozione di discriminazione tenda a sganciarsi dalla necessità di un tertium comparationis.
162
V., invece quanto si osserverà criticamente infra, § 7, con riguardo alle molestie sessuali.
158
159
24
Il riferimento all’effetto sembra mettere fuori gioco la possibilità di far penetrare
nella fattispecie il dolo, tanto generico quanto, a maggior ragione, specifico163; e ciò a
prescindere dal dato fenomenico che la maggior parte degli eventi di mobbing sono il
prodotto di strategie preordinate (ad es., ad indurre il dipendente a dimettersi)164.
Il parallelo richiamo al carattere “indesiderato” dei comportamenti in discorso non
deve
far
ricadere,
peraltro,
nell’eccesso
opposto
di
attribuire
rilievo
alle
sole
rappresentazioni soggettive della vittima, inoltrandosi senza controllo su un terreno nel
quale, non soltanto l’istruttoria processuale, ma finanche la valutazione giuridica finale
potrebbe ritrovarsi in balia dell’oceano dei vissuti psicologici165. Nella prefigurazione
normativa, il comportamento ha pur sempre un’oggettività, che si misura sull’essersi
verificato, o no, un effetto lesivo della dignità del lavoratore, da misurare a prescindere
dalle ripercussioni che ha prodotto sullo stato psicologico, e in ultima analisi sulla
“felicità”166, della vittima.
Le disposizioni speciali richiamate (ma anche una corretta lettura dell’art. 2087)
inducono altresì ad escludere che la frequenza e la ripetitività nel tempo delle condotte
siano indispensabili al verificarsi della fattispecie illecita. Ciò implica l’idoneità lesiva, ai
fini, anche di un singolo atto o comportamento, laddove di rilevante gravità; aprendosi
con ciò uno iato, che non deve stupire né tanto meno indurre a doglianze di “infedeltà”,
con l’accezione psicologica o sociologica di mobbing167.
Fra l’altro, la stessa congiuntiva che lega la prima e la seconda parte delle
disposizioni in discorso appare un fuor d’opera, essendo da ritenere che i comportamenti
molesti siano illeciti anche a prescindere dalla creazione di un clima intimidatorio, ostile,
etc., tramite la quale si realizza la cosiddetta molestia ambientale: un’ipotesi, peraltro, di
ancor maggiore elusività, ergo di fragile autonomia sul terreno precettivo.
163
Per una netta affermazione della tesi “oggettiva”, v., per tutti, Scognamiglio 2004, 503-505. Per la rilevanza
dell’elemento soggettivo, come componente unificante del coacervo di fatti che danno vita alla fattispecie, v. però
Carinci 2004, 92; Mazzamuto 2004a, 31-32; Viscomi 2002, 33. Sull’alternativa fra le due concezioni, v. in generale
Tullini 2000, 256 ss.
164
Né può ascriversi ad un revirement della teoria “soggettiva” la circostanza che nella nuova nozione di
“molestia discriminatoria” (art. 4, comma 2-bis, legge n. 125/1991; art. 2, comma 3, d.lgs. n. 215/2003; art. 2, comma 3,
d.lgs. n. 216/2003) siano state prese in considerazione, onde equipararle a discriminazioni, le molestie aventi “lo scopo
o l’effetto” di violare la dignità di una persona etc. Da un lato, infatti, la presenza della disgiuntiva “o” attesta che è
sufficiente che si sia prodotto l’effetto de quo; dall’altro, si potrebbe anche pensare che la menzione separata dello
“scopo” implichi un ampliamento della tutela, consentendo di perseguire le molestie in discorso anche a prescindere
dall’effettivo conseguimento del risultato avuto di mira.
Ciò nonostante, il grande merito della giurisprudenza sul mobbing è proprio quello di completare e
perfezionare il processo di riconoscimento del lavoratore come soggetto psichico, cominciato con l’equiparazione della
malattia, e poi della disabilità, psichiche a quelle fisiche.
166
Per l’ironica osservazione, ripresa da Enzo Roppo, che il fatto che nella Costituzione degli Stati Uniti sia
iscritto il diritto alla (ricerca della) felicità non autorizza a pensare che qualunque lesione di quel diritto generi
automaticamente pretese risarcitorie, v. , in una colta disamina, Agrifoglio 2004, qui 162.
167
Senza che ciò implichi negare l’utilità (ma anche i limiti) dell’apertura extra-sistematica: v. al riguardo infra,
nel testo.
165
25
Quanto esposto non è da intendersi come critica della tendenza, chiaramente
emersa nel diritto vivente168, a concepire il mobbing come un illecito a fattispecie
complessa, da un lato, ed a geometria variabile, dall’altro, non essendone predeterminati
gli elementi che la compongono.
La ragione ultima di tale propensione risiede nella difficoltà dell’indagine
sull’illecito, un modo pragmatico di alleviare la quale si è appunto rivelato quello,
echeggiante categorie penalistiche, di presupporre la necessità di una persecuzione o
vessazione “continuata”: ove la continuazione funge da pietra di paragone della rilevanza
dell’offesa al bene tutelato. Il referente definitorio è così ampio e vago, nelle nozioni legali
in circolazione (e tale probabilmente rimarrà anche nell’evenienza, meno cruciale di
quanto spesso si pensi, di una normativa legislativa “generale”), da rendere legittime
operazioni giurisprudenziali del tipo, che però non autorizzano a trasportare con ogni
crisma nella fattispecie quelli che debbono rimanere meri criteri empirici di indagine.
Incombe all’interprete, pertanto, di costruirsi criteri e modelli di ragionamento,
idonei a ridurre il più possibile l’incertezza valutativa. Il più invalso nell’uso è quello, già
riscontrato a proposito delle lesioni della salute, di ancorare la valutazione di illiceità
all’accertata commissione di altri illeciti (ad es., classicamente, una lesione della
professionalità)169. I rischi di corto circuito sono, qui, particolarmente seri, per cui
occorre insistere sul fatto che nelle molestie morali v’è una portata oggettiva dell’illecito
che eccede, per gravità, quella di altri inadempimenti a danno del lavoratore. Ne segue
che, proprio in nome dell’autonomia dell’illecito, è da accettare che la giurisprudenza
abbia reputato illeciti, in quanto vessatori, atti datoriali isolatamente legittimi, come una
sottoposizione troppo insistita del lavoratore in malattia, e pur all’interno di un
medesimo periodo di prognosi, a visite mediche domiciliari170.
I progressi dell’ordinamento sul terreno della nozione non fanno venir meno, in
definitiva, la necessità di quella innaturale somma algebrica fra atti o comportamenti
illegittimi, neutri, o persino (se pur in casi eccezionali) legittimi, grazie alla quale il diritto
vivente ha “scoperto” e sin qui disciplinato – con apprezzabile moderazione - il mobbing;
una sommatoria nella quale si insinua, altresì, un’istanza di bilanciamento con la libertà
imprenditoriale, e la posizione di potere che ne è il succedaneo giuridico, in una logica
sostanzialmente
protesa
alla
repressione
dei
comportamenti
“abusivi”,
o,
più
classicamente, contrari a buona fede171.
E proprio l’assenza di bussole affidabili riapre inevitabilmente lo spazio, com’è
giusto che sia specie in materia di diritti della persona, per la penetrazione di influssi
168
169
170
171
V. ad es. Trib. Forlì 28 gennaio 2005, cit.; Trib. Milano 7 gennaio 2005, D&L, 2005, 461.
Cfr. Mazzamuto 2004a, 46.
V. ad es. Cass. 19 gennaio 1999 n. 475, in OGL, 1999,295.
V. Mazzamuto 2004a,45.
26
extra-sistematici. Non è quindi ai soli (e pur indispensabili) fini cognitivi – ossia di una
comprensione non superficiale, dal punto di vista psicologico e sociologico, dei fatti
dedotti in giudizio, come precondizione della valutazione giuridica – che saperi “altri”172
(talvolta, inevitabilmente, anche “privati”) possono essere utilizzati dall’interprete, bensì
anche allo scopo di individuare la soglia giuridicamente rilevante di offesa al bene della
dignità del lavoratore. Ma rimane essenziale che tali saperi non vengano trasportati come
tali nella dimensione giuridica173, e che l’ultima parola venga assunta, sempre e
comunque, dall’interprete174, alla cui sensibilità ermeneutica è richiesto un apporto
notevole175.
L’operata ricostruzione della fattispecie illecita consente, infine, un’agevole
riconduzione della responsabilità all’interno del modello dell’art. 1218176, sia a titolo di
responsabilità indiretta per violazione del dovere di protezione in senso proprio177 (il che
sollecita il datore di lavoro ad orientare l’organizzazione, anche con riguardo a queste
delicate tematiche organizzative ed umane, al paradigma della prevenzione, ad esempio
con l’adozione di codici di condotta; e restando tutto da affinare, in questa tematica,
l’ambito della prova liberatoria), che per responsabilità diretta, nel caso (relativamente
più frequente, pur in un coacervo giudiziario nel quale non è facile sceverare vessazioni
autentiche, strumentali, immaginarie, etc.) di un mobbing innestato nel rapporto
gerarchico.
6. Eguaglianza.
L’inclusione del diritto a non essere discriminato, nei limiti in cui esso è
riconosciuto dall’ordinamento178 (giacché è soltanto da una scelta normativa, comunque
compiuta, che può discendere l’attitudine di un dato fattore “di rischio” a connotare di
illiceità una diversificazione di trattamento), aspira ovviamente ad un posto d’onore fra i
diritti fondamentali della persona.
Sin dal classico Ege 1996.
E’ divenuta emblematica di questo “vizio” la pur importante e generosa sentenza di Trib. Forlì 15 marzo 2001,
cit. Si deve riconoscere, peraltro, che la recezione di apporti non giuridici è avvenuta, nella giurisprudenza, più che altro
per restringere l’impiego alla nozione di mobbing.
174
Così, con riferimento alla famosa questione della soglia semestrale del mobbing, Scognamiglio 2004, 507.
175
Per fini considerazioni al riguardo, soprattutto nella prospettiva (non affrontata nel testo), del danno, v. Tosi
2004.
176
Per un’adesione alla prospettiva della responsabilità contrattuale, sia pur con una motivazione non del tutto
esaustiva, v. Cass. n. 8438/2004, cit.
177
Per uno dei pochi casi di responsabilità per mobbing “orizzontale”, per non aver l’azienda impedito che un
dipendente sordomuto venisse fatto oggetto di angherie e dileggi, v. Trib. La Spezia 7 gennaio 2003, ined. Appare
invece più problematico, nella circostanza, il ricorso all’art. 2049, quantomeno nel caso in cui i fatti commessi dai
dipendenti siano stati di natura dolosa, con possibile interruzione del nesso di occasionalità necessaria con le mansioni
di adibizione. Per un caso di ritenuta applicabilità (ma “ancillare” all’art. 2087) dell’art. 2049, v. comunque Trib.
Milano 7 gennaio 2005, cit.
178
Sulla tematica antidiscriminatoria, v. in generale Ballestrero 1996 e 2004, Barbera 1991 e 2003, De Simone
2001 e 2004, Gottardi 2003, Isemburg 1984, Izzi 2005, Pessi 1986.
172
173
27
Ciò, sia ad adottare una concezione formale o strutturale dei diritti fondamentali,
basata sull’universalità della loro imputazione soggettiva (che fa di essi, di conseguenza,
la base dell’eguaglianza giuridica)179, che a scendere sul terreno dell’ordinamento positivo
costituzionale (a maggior ragione se integrato con le fonti comunitarie e internazionali),
ove è facile rilevare la derivazione del diritto de quo da un principio più che
fondamentale, come quello di eguaglianza formale180, pur inteso in senso “valutativo”181.
Ove l’eguaglianza182 si intreccia con la dignità183, la quale si sostanzia, nella circostanza,
proprio nel diritto di ciascuno ad essere trattato egualmente rispetto ad altri, dai quali si
distingue soltanto in considerazione di un certo fattore.
La triade dei grandi riferimenti di principio è completata, infine, dal richiamo ai
diritti di libertà, considerato che numerosi dei fattori di discriminazione banditi
dall’ordinamento corrispondono, non soltanto a meri modi di essere della persona (come
il genere, la razza, l’origine etnica, l’età), ma all’esercizio di libertà costituzionalmente
garantite (che non sarebbero tali, quanto meno all’interno della formazione sociale
“impresa”, se fosse lecita una discriminazione sulla base di tale esercizio), come la libertà
associativa (art. 18 Cost.) e sindacale (art. 39, comma 1), la libertà religiosa (artt. 8 e 19)
e la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21, comma 1)184.
Eppure, il prepotente (pur se compensativo, in qualche modo, di altri squilibri
sistemici) sviluppo del diritto antidiscriminatorio del lavoro – che ha persino fatto parlare
di un’”età dell’oro”185 - non si era riversato, sinora (ma è lecito formulare, per il futuro,
una prognosi diversa), nel campo del danno. Ciò per ragioni, il cui respiro sistematico è
stato già illustrato186, e che hanno qui trovato il più puntuale dei riscontri.
Si allude alla scelta primigenia (operata nell’art. 4 della legge n. 604/1966, e poi, a
cascata, nell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori e nella legge n. 903/1977) nel senso
V. Ferrajoli 2001, 6.
V. per tutti De Simone 2001, 1 ss.
181
Cfr. Barbera 1991, 19 ss.
182
Le cui declinazioni non sono esaurite, comunque, dalla normativa esaminata nel testo, che rappresenta il
campo tradizionale della tutela antidiscriminatoria. La crescente diffusione di forme di lavoro subordinato “atipico” ha
dato luogo, infatti, all’emersione di divieti di discriminazione (alias, regole di pari trattamento) rivolti a tali categorie di
lavoratori (fatto salvo, ovviamente, l’elemento di differenziazione correlato all’identità del sotto-tipo): su questa
evoluzione, nel contesto dei percorsi dell’eguaglianza, v. Del Punta 2002. Per una ricognizione critica mirata sulla
legislazione di riforma del mercato del lavoro, v. Ballestrero-Balandi 2005.
183
Osserva Barbera 2003, 404, commentando le direttive comunitarie di seconda generazione (che sono
all’origine dei recenti provvedimenti italiani in materia), che esse si basano “su un’assunzione radicale del punto di
vista dei diritti umani, che bandisce,in quanto discriminatorio,qualsiasi pregiudizio o svantaggio che derivi dal
possesso di qualità costitutive dell’identità della persona,e che perciò si ponga come lesivo della sua dignità”.
184
C’è una discriminazione “dimenticata” nell’ordinamento, al di là dell’evocazione dello storico “caso Santhià”,
ed è quella politica: eppure, la politica è sufficientemente infiltrata in tutti i reticoli della società italiana, dal Brennero
sino a Pantelleria, per aspettarsi qualche caso emblematico al riguardo, anche se di “nuova generazione”. Resta da
stabilire se possa invocare una discriminazione politica la vittima di turno (magari in esito ad uno sfavorevole risultato
delle elezioni amministrative) dello spoil system occulto che inquina il paese, e che, grazie allo spoil system, aveva
goduto di precedenti opportunità professionali.
185
V. Barbera 2003.
186
V. retro, § 2.
179
180
28
dell’esclusivo ricorso ad una sanzione di tipo negoziale (ovviamente, dato il rilievo dei
beni protetti, la nullità), a propria volta condizionata dalla diffusa identificazione –
esplicitata dall’art. 15 - della condotta illecita con “atti” negoziali187 (in genere espressivi
di poteri, come il licenziamento188) o con “patti”. L’inclusione anche dei semplici
“comportamenti” nella sfera della normativa si è realizzata soltanto nella legge n.
903/1977 (v., ad es., l’art. 15), ed è stata poi consacrata col rinnovamento della nozione
di discriminazione, operato dall’art. 4, comma 1, della legge n. 125/1991189.
Peraltro, giacché ai meri comportamenti discriminatori (a maggior ragione se
omissivi190) il rimedio della nullità non poteva attagliarsi191, ciò ha avviato, ad un tempo,
un arricchimento dell’apparato di tutela192, che ha tuttavia imboccato, non la strada di
un ritorno all’illecito civile “comune”, bensì quella (già aperta dall’art. 28 St. lav.193) di
un’accentuazione della pressione a ripristinare lo status quo ante194, grazie alla
tipizzazione di un provvedimento giudiziario rivolto alla “rimozione degli effetti” dell’atto o
comportamento discriminatorio195.
Là dove la palpabile tensione verso una tutela che fosse, chiovendianamente, la
più “specifica” conseguibile, lasciava trasparire una contraddizione: pur essendo posta,
la normativa discriminatoria, a protezione di valori “immateriali” della persona196, la
reazione dell’ordinamento finiva col potersi dispiegare quasi esclusivamente nei confronti
dei pregiudizi di carattere patrimoniale (neutralizzati attraverso le misure restitutorie,
V, ad es., Isemburg 1984, p. 165.
Sull’evoluzione del divieto di licenziamento discriminatorio, v. De Simone 2001, 104 ss.
189
V. Barbera 1994, p. 54 ss. ; Pessi 1996, 45 ss. Ma v’erano già state anticipazioni giurisprudenziali: v. ad es.
Cass. 1° febbraio 1988 n. 868, GC, 1988,I,1533, con nota di Mammone.
190
Cfr. Treu 1974, 51 ss.
191
Tanto che, in altre situazioni legislative, nelle quali la nullità era stata riferita a fattispecie che potevano essere
concretate tanto da atti, quando da condotte materiali, essa è stata considerata sinonimo di una generica illiceità: v., ad
es., il caso delle intese anticoncorrenziali, di cui all’art. 33 della legge n. 287/1990 (cfr. Antonioli 2001, 260 ss).
192
Ciò non significa, beninteso, che sia stata abbandonata la prospettiva della nullità: anzi, essa si è consolidata,
con riguardo al licenziamento, grazie all’art. 3 della legge n. 108/1990, e poi con le integrazioni all’art. 15 St. lav.,
recate dall’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 216/2003, onde includere i nuovi fattori di discriminazione, proscritti da tale
decreto. Il d.lgs. n. 145/2005 (art. 2, comma 1, che ha introdotto un comma 2-quater nell’art. 4 della legge n. 125/1991)
ha aggiunto una nuova prescrizione di nullità anche a proposito delle discriminazioni di genere, sancendo la nullità
degli atti, patti o provvedimenti concernenti il rapporto dei lavoratori o delle lavoratrici vittime di molestie di genere o
di molestie sessuali, ove essi siano stati adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti
medesimi.
193
Sui caratteri distintivi dell’illecito ex art. 28 St.lav., rispetto alla normale struttura dell’illecito civile, proiettata
verso il risarcimento del danno, v. Ghera 1979, 340 ss.; Scognamiglio 1971; Treu 1974, 127.
194
Cfr. Ghera 1979, 348 ss.
195
L’ordine di rimozione degli effetti (oltre che di cessazione del comportamento illegittimo) è apparso
nell’azione individuale ex art. 15 legge n. 903/1977, e si è consolidato nelle azioni affidate alla consigliera di parità
avverso le discriminazioni individuali (art. 4, comma 10, legge n. 125/1991) e collettive (art. 4, commi 7-9) di genere (si
vedano anche i più tardi art. 44, comma 1, del d.lgs. n. 286/1998; art. 4, comma 4, d.lgs. n. 215/2003; art. 4, comma 5,
d.lgs. n. 216/2003), per poi tracimare nell’attribuzione al giudice dell’originale potere-dovere di predisporre “un piano
di rimozione delle discriminazioni” (si vedano anche l’art. 44, comma 10, d.lgs. n. 286/1998; l’ art. 4, comma 4, del
d.lgs. n. 215/2003; l’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 216/2003).
196
Tanto che Ferrajoli 2001, 9 ss., costruisce la propria teoria dei diritti fondamentali, a loro volta collegati
primariamente allo status di persona (oltre che, in alternativa – ma non è il caso dei diritti qui discussi –, alla capacità di
agire o alla cittadinanza), in esplicita contrapposizione con la categoria dei diritti patrimoniali.
187
188
29
conseguente alla declaratoria di nullità), o comunque dei soli effetti pregiudizievoli (anche
non patrimoniali) suscettibili di essere rimossi, perché tangibili e non ancora esauriti.
Ma la “lunga marcia” del ricompattamento sistematico è stata inesorabile, e prima
che la dottrina si affaticasse a scoprire l’ovvio, ossia che gli “interessi costituzionalmente
rilevanti”, dei quali si è sancita la piena risarcibilità, sono di casa nella normativa
antidiscriminatoria, il legislatore del 2003 e del 2005 – ma, ancor prima, del 1998197 - ha
generalizzato il potere-dovere del giudice di provvedere, se richiesto, anche al
risarcimento del danno non patrimoniale198, che è così entrato formalmente nell’universo
lavoristico, imponendo, a cascata, di rivisitare la responsabilità, ed ancor più a monte
l’illecito.
Un primo sguardo d’insieme sulle fattispecie fa anzitutto risaltare la cifra sempre
più unitaria della normativa antidiscriminatoria, pur se frutto di stagioni diverse. Pur
permanendo differenze interne (in specie fra la discriminazione-prototipo e le altre), sono
ormai soverchianti le corrispondenze, spesso pedisseque, fra i diversi nuclei normativi199.
In occasione del d.lgs. n. 145/2005, è persino accaduto che le discriminazioni di seconda
generazione abbiano influenzato la più “nobile” discriminazione di genere200.
Così, la proliferazione (già da prima della normativa del 2003201) dei fattori “di
rischio” – che fa supporre che, a meno di ulteriori evoluzioni interne, magari innescate
197
La prima disposizione a prevedere che, con la decisione che definisce il giudizio (in tema di discriminazioni
determinate dall’appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa o ad una
cittadinanza), il magistrato può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, è
stata in realtà quella di cui all’art. 43, comma 7, del d.lgs. n. 286/1998. Tale disposizione, peraltro, è stata
espressamente esclusa dalla formula di salvezza di cui agli artt. 4, comma 1, d.lgs. n. 215/2003, e 4, comma 2, d.lgs.
n.216/2003, sì che se ne potrebbe anche sostenere (ma forse non per l’origine linguistica e la cittadinanza, trascurate
dalla normativa del 2003), l’implicita abrogazione.
198
Per le discriminazioni di genere, sulle quali ha inciso il d.lgs. n. 145/2005, v. i nuovi testi dell’art. 15 della
legge n. 903/1977, per l’azione individuale (ove, a proposito del risarcimento, figura anche la dicitura “nei limiti della
prova fornita”), e degli artt. 4, commi 9 e 10, per le azioni della consigliera di parità, legate, rispettivamente, a
discriminazioni collettive ed individuali (per queste ultime “nei limiti della prova fornita”); per le discriminazioni
causate dalla razza o dall’origine etnica, v. l’art. 4, comma 4, del d.lgs. n. 215/2003; per le discriminazioni causate dalla
religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età o dall’orientamento sessuale, v. l’art. 4, comma 4, del
d.lgs. n. 216/2003.
199
Cfr. Izzi 2005, 351 ss.
200
Sulla valenza di modello della tutela antidiscriminatoria per ragioni di genere, v. De Simone 2001, 50 ss.; Izzi,
25 ss. Relativamente all’argomento, è da avvertire che non si è potuto tener conto del Testo unico approvato, in materia,
dal Consiglio dei ministri del 6 aprile 2006.
201
Ma essa era cominciata, in verità, con l’art. 13 della legge n. 903/1977, che aveva aggiunto, al nucleo
originario dell’art. 15 St.lav., circoscritto alle discriminazioni per ragioni sindacali, politiche e religiose, le
discriminazioni causate dalla razza, dalla lingua e dal sesso; era continuata con l’art. 5, comma 5, della legge
n.135/1990, sul divieto di discriminare il lavoratore infetto da HIV; e aveva acquistato velocità con l’art. 43, comma 2,
lett. b), del d.lgs. n. 286/1998, in tema di discriminazioni determinate dall’appartenenza ad una razza, gruppo etnico o
linguistico, confessione religiosa o cittadinanza. Ne segue che il d.lgs. n. 215/2003, riproponendo la razza e l’origine
etnica come fattori protetti, è stato sostanzialmente ripetitivo (ma v. l’art. 2, comma 2, di esplicita salvezza dell’art. 43,
commi 1 e 2, d.lgs. n. 286/1998), e che parzialmente tale (per la confessione religiosa, fra l’altro presa in considerazione
– v. supra - sin dall’esordio statutario) è stato anche il d.lgs. n. 216/2003 (ove pure è fatto salvo – v. art. 2, comma 2 –
l’art. 43, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 286/1998).
30
dal “formante” comunitario202, l’immanenza del principio di eguaglianza nell’ordinamento
rimarrà affidata, nel prossimo futuro, ai divieti di discriminazione, e non
all’abortito
principio di parità di trattamento, che pure aveva tratto alimento dal “terribile” diritto alla
dignità ex art. 41 cpv.203 – non si è accompagnata (soprattutto a motivo dell’identica
matrice comunitaria) ad una disarticolazione della normativa, ma ha dato corpo ad un
micro-sistema tanto coeso da sembrare, per più di un tratto, didascalico.
E’ dunque lecito parlare, al singolare, dell’illecito “di discriminazione”, il cui
basilare elemento costitutivo è rappresentato dall’essere stato praticato nei confronti di
un lavoratore, tramite atti, patti o comportamenti, un trattamento differenziato basato su
uno dei fattori “vietati” dall’ordinamento.
Secondo questa classica accezione, da sempre accolta dalla dottrina e confermata
anche dai dati positivi, la comparazione con il trattamento fatto a terzi non “marchiati”
dal fattore de quo, è un connotato imprescindibile dell’illecito204. Ciò, pur prendendosi
atto205 della tendenza a sfumare tale confronto in mere operazioni logiche, promanante
dalle indicazioni di una giurisprudenza comunitaria che, a partire da Dekker206, ha
iniziato a reputare sufficiente, date certe condizioni, la prospettazione di una
comparazione puramente virtuale (o comparabilità)207.
Per quanto già osservato in ordine all’incrocio fra i cerchi della discriminazione e
della molestia morale208, sembra quindi compatibile con tale, classica, struttura
dell’illecito (se non necessaria), la configurazione come discriminazioni, prima nei decreti
del 2003209, e poi in quello del 2005210, delle “molestie”, ovvero “di quei comportamenti
indesiderati, posti in essere (per ragioni connesse al fattore “vietato”), aventi lo scopo o
l’effetto di violare la dignità di una persona211, e di creare un clima intimidatorio, ostile,
degradante, umiliante o offensivo”212.
Per l’affermazione di un principio generale di parità di trattamento, come sviluppo del divieto di
discriminazione per età, v. però, in motivazione, CGCE 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold.
203
Sull’effimera (per ora) stagione della parità di trattamento nel rapporto di lavoro, sia consentito rinviare a Del
Punta 1998. Nel senso ormai pacifico dell’inesistenza, nel nostro ordinamento, del principio in discorso, v. Cass. 26
novembre 2002 n. 16709.
204
Per l’impostazione concettuale del problema, v. per tutti Barbera 1991, 214 ss. (ma con un’impegnata
rimeditazione, alla luce dell’evoluzione del diritto comunitario, in Barbera 2003, 409 ss.). Più di recente Izzi 2005, 41
ss. Sul punto, v. ancora infra, § 7, discutendo di molestie sessuali.
205
Come ha fatto la normativa nazionale: cfr. il nuovo art. 4, comma 1, legge n. 125/1991, ove il riferimento al
carattere più favorevole di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore “in situazione analoga”.
206
V. CGCE 8 novembre 1990, causa 177/88.
207
Cfr. Izzi 2005, 44 ss.
208
V. retro, § 5.
209
V. l’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 215/2003, e l’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 216/2003: “Sono, altresì
considerate quali discriminazioni…”.
210
V. l’art. 4, comma 2-bis, della legge n. 125/1991, aggiunto dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 145/2005.
211
Ovvero, nella discriminazione di genere, di un “lavoratore” o di una “lavoratrice”.
212
Su tale nozione v. già retro, § 5, anche a proposito della correttezza dell’uso della disgiuntiva nella locuzione
“lo scopo o l’effetto”, e della criticabilità, viceversa, dell’impiego della congiuntiva nel passaggio alla seconda parte del
precetto.
202
31
Se tale è la fisionomia basilare dell’illecito, è da chiedersi sino a che punto la sua
unitarietà risulti contraddetta dalla tradizionale distinzione fra discriminazione “diretta”
e “indiretta”, nel frattempo propagatasi a tutte le fattispecie discriminatorie213. Pur nella
coscienza della problematicità del tema, e dell’esistenza di un “clima” comunitario e
internazionale di segno opposto, si potrebbe infatti ipotizzare che a tale distinzione non
corrisponda una diversità di struttura214, nel momento in cui la fattispecie si focalizza, a
valle, sull’”effetto”, o risultato, discriminatorio: potrebbe anche non fare una sostanziale
differenza, che tale effetto sia prodotto da un trattamento direttamente diseguale, ovvero
da un atto o un comportamento apparentemente neutri, ma tali da (o potenzialmente
capace di) mettere i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso, gli appartenenti ad una
determinata razza, gruppo etnico o linguistico, o cittadinanza, coloro che professano una
determinata religione o ideologia di altra natura, i portatori di handicap, i lavoratori di
una particolare età od orientamento sessuale, in una posizione di “particolare
svantaggio”215 rispetto ai lavoratori non connotati dal fattore in considerazione.
Il proprium della discriminazione indiretta consisterebbe, in sostanza, nella
“copertura” dell’effetto dal velo dell’”apparente” neutralità dell’atto o del comportamento,
purtuttavia “smascherata” dalla dimostrazione del disparate impact, ossia della ricaduta
svantaggiosa su un lavoratore o una classe di lavoratori identificata da uno dei fattori di
cui sopra. Si può dubitare che questo basti, al di là della tradizionale problematicità della
distinzione fra le due “eguaglianze” dell’art. 3, a ritenere la discriminazione diretta
un’espressione di eguaglianza formale, e l’indiretta una concretizzazione dell’istanza di
eguagliamento recata dal principio di eguaglianza sostanziale216; se non nel senso, questo
sì indubbio, che ciò che contribuisce all’eguaglianza formale, specie con riguardo alla
213
Per la discriminazione di genere, v. l’art. 4, comma 2, della legge n. 125/1991, come novellato dall’art. 2,
comma 1, del d.lgs. n. 145/2005; per quella collegata all’appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico,
ad una data confessione religiosa o cittadinanza, v. l’art. 43, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 286/1998; ancora per quella
collegata alla razza o all’origine etnica, v. l’art. 2, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 215/2003; infine, per quella causata
dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età o dall’orientamento sessuale, v. l’art. 2, comma 1,
lett. b), del d.lgs. n. 216/2003. Tirando le somme, e considerato che la discriminazione “politica” è stata recuperata
attraverso il concetto di “convinzioni personali” (arg. anche dal riferimento all’”ideologia”, di cui all’art. 2, comma 1,
lett. b), d.lgs. n. 216/2003), l’unica forma discriminazione rimasta tagliata fuori dall’avvento della discriminazione
indiretta, è, paradossalmente, quella che ha rappresentato, a livello legislativo, il vero capostipite della categoria (pur
poi venendo soppiantata, come prototipo, dalla discriminazione di genere): la discriminazione per ragioni sindacali.
214
Tanto che la formulazione concettualmente più esatta sembra ancora quella dell’art. 4, comma 1, legge n.
125/1991(che ha avuto anche il merito di lasciarsi alle spalle l’ambiguità dell’art. 1, comma 2, della legge n. 903/1977):
“Costituisce discriminazione…qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole
discriminando anche in via indiretta le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso.” Cfr., in termini, anche l’art.
43, comma 2, lett. e), d.lgs. n. 286/1998.
215
Nella previsione dell’art. 43, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 286/1998, è sopravvissuta la locuzione
“proporzionalmente maggiore”, come attributo dello “svantaggio”, che figurava, prima della novella del 2005, anche
nel testo dell’art. 4, comma 2, legge n. 125/1991.
216
V. Ballestrero 1996, 306, in apparente contraddizione con l’esatto rilievo per cui, “diversamente dal
trattamento diseguale, il trattamento eguale (quello che viene in gioco in una discriminazione indiretta, n.d.a.) può
risolversi in discriminazione solo se si può contestare proprio il fatto che sia effettivamente eguale”.
32
condizione
svantaggiata
di
classi
di
soggetti,
cospira
ad
un
tempo
in
favore
dell’eguaglianza sostanziale.
Se quanto ipotizzato ha una plausibilità, il rilievo della discriminazione indiretta si
coglie soprattutto nell’offrire la “sponda” sostanziale all’impiego, da parte del giudice, di
una tecnica di ragionamento di tipo presuntivo217, in virtù della quale l’allegazione, da
parte del lavoratore che si pretenda vittima di una discriminazione, di elementi di fatto –
desunti anche da dati di carattere statistico – idonei a fondare, in termini (gravi218,)
precisi e concordanti , la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti
discriminatori,
comporta
che
si
trasferisca
sul
convenuto
l’onere
di
provare
l’insussistenza della discriminazione219.
Ed è pur vero che la legge non distingue, al fine, fra discriminazione diretta e
indiretta, in qualche modo a riprova dell’unitarietà della nozione; tant’è che, nella prassi,
qualsiasi giudizio di discriminazione (anche la più “diretta”) si risolve sempre sul terreno
indiziario, ergo presuntivo220.
Nondimeno,
l’”arricchimento”
della
nozione
sostanziale,
realizzato
con
l’introduzione del concetto di discriminazione indiretta, non soltanto abilita, ma sollecita
il giudice ad un ampliamento del novero degli indizi da prendere in considerazione onde
accertare la commissione di una discriminazione, individuale o (soprattutto, ma non
necessariamente221) collettiva. I rilievi svolti in merito all’unitarietà della nozione non
debbono intendersi, quindi, come svalutativi della novità della discriminazione indiretta,
essendosi proposti soltanto di analizzarne l’effettivo impatto sostanziale.
Ma, se di presunzione semplice si tratta, è altresì logico ed inevitabile che la
denuncia di una discriminazione indiretta lasci spazio per provare, ex adverso, che il
trattamento apparentemente neutro, ma portatore di esiti svantaggiosi per il lavoratore o
la classe di lavoratori protetta, è stato viceversa assistito da una giustificazione obiettiva,
e non può, di conseguenza, essere bollato come discriminatorio222.
Che la legge ha ripetutamente qualificato, peraltro, come presunzione semplice ex art. 2729, comma 1, c.c., e
non legale iuris tantum. Sul punto, v. però le critiche di Taruffo 1992. Cfr. anche Pizzoferrato 2000, 122-123.
218
Il riferimento alla “gravità” dell’indizio, presente nella normativa sulle “altre” discriminazioni (attraverso il
citato richiamo all’art. 2729), è invece assente per quelle di genere (art. 4, comma 6, legge n. 125/1991), essendosi
quindi previsto un regime probatorio meno difficoltoso per il lavoratore.
219
Per la discriminazione di genere, v. l’art. 4, comma 6, legge n. 125/1991; per quella causata dall’appartenenza
ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza, v. l’art. 44, comma 9,
del d.lgs. n. 286/1998; per quella collegata alla razza o all’origine etnica, l’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 215/2003; per
quella causata dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età o dall’orientamento sessuale, l’art.
4, comma 1, d.lgs. n. 216/2003.
220
Cfr., ad es., Cass. 18 novembre 1997, n. 11464, ove il richiamo alla necessità di fornire elementi che vadano al
di là di una mera contestualità temporale fra due fatti (il licenziamento e la pendenza di un precedente giudizio inter
partes); Pret. Roma 20 novembre 1998.
221
Nel senso che anche la discriminazione indiretta può focalizzarsi sulla situazione del singolo individuo, v.
Barbera 2003, 411.
222
Ove, al di là delle discussioni sull’ambito obiettivo delle varie fattispecie di giustificazione, il problema più
irrisolto mi appare quello delle “organizzazioni di tendenza” (sulla nozione, v. Cass. 15 aprile 2005 n. 7837), e di
217
33
E tuttavia, ad ulteriore indizio unitario, non v’è nulla, nella struttura intrinseca del
giudizio di discriminazione, che impedisca che, anche nella discriminazione diretta,
l’ordinamento possa conferire rilievo esimente all’esistenza di giustificazioni obiettive223.
Persino nella discriminazione-prototipo, quella di genere, e sia pure tramite la
peculiare tecnica precettiva di cui al 5° comma dell’art. 1 della legge n. 903/1977,
esistono ipotesi, pur eccezionali, di discriminazioni dirette “giustificate”224. A maggior
ragione, a fronte di denunce di discriminazione indiretta, è possibile fornire la prova che
gli atti o i comportamenti apparentemente neutri, ma in realtà comparativamente
svantaggiosi, “riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché
l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e
necessari” (art. 4, comma 2, della legge n. 125/1991, novellato dall’art. 2, comma 1, del
d.lgs. n. 145/2005)225.
Nelle
“altre”
discriminazioni,
è
invece
prevista
una
clausola
generale
di
giustificazione della discriminazione “diretta”, incentrata sulla prova, della quale
è
ovviamente onerato il datore di lavoro, che le differenze di trattamento “incriminate” sono
dovute a caratteristiche che, pur essendo collegate ad uno dei fattori “vietati”,
costituiscono, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene
espletata (nonché nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza), “un
requisito essenziale e determinante” ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa226; e, in
secondo luogo, un’ampia clausola liberatoria, assai ampia, per le differenze di
trattamento apparentemente neutre, ma
indirettamente discriminatorie, le quali sono
restituite a liceità “qualora siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite
attraverso mezzi appropriati e necessari”227.
quanto in esse sia costretta ad “arretrare” la tutela antidiscriminatoria (in generale, v. Santoni 1983 e Pedrazzoli 1987).
Non si è ancora consolidato neppure il condivisibile e pur problematico principio dell’irrilevanza, rispetto alla tendenza,
dello svolgimento di mansioni “neutre” (v. Cass. 6 novembre 2001 n. 13721).
223
Né sembra producente, al fine, distinguere fra “deroghe” (alle discriminazioni dirette) e “giustificazioni” (delle
discriminazioni indirette (Barbera 2003, 410), trattandosi di tecniche diverse di prefigurazione di fatti qualificati
dall’ordinamento come estintivi del preteso inadempimento (o comunque rivolti a negare l’”ingiustizia” del danno
addotto dal lavoratore che si assume discriminato).
224
All’ipotesi menzionata nel testo, per cui non è discriminazione condizionare all’appartenenza ad un
determinato sesso l’assunzione in attività della moda, dell’arte e dello spettacolo, purché “ciò sia essenziale alla natura
del lavoro o della prestazione”, adde quella di cui al 4° comma della medesima disposizione, che ammette
l’introduzione di deroghe al divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro “per mansioni di lavoro particolarmente
pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva”. In argomento, v. Izzi 2005, 131 ss.
225
Sui numerosi snodi interpretativi di tale formula, nonché sui problemi, altrettanto delicati, di compatibilità con
il diritto comunitario, v. per tutti Izzi 2005, 145 ss.
226
Per le discriminazioni collegate alla razza o all’origine etnica, v. l’art. 3, comma 3, d.lgs. n. 215/2003, ove
però una scelta diversa da quella compiuta nel d.lgs. n. 286/1998, nel quale non v’è spazio per giustificazioni di sorta.
Per quelle connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale, l’art. 3,
comma 3, d.lgs. n. 216/2003 (cui adde il comma 5).
227
V. rispettivamente l’art. 3, comma 4, d.lgs. n. 215/2005, e l’art. 3, comma 6, d.lgs. n. 216/2005. Nel d.lgs. n.
286/1998 (art. 43, comma 2, lett.e) figura invece, come criterio di giustificazione della discriminazione indiretta, quello
dell’inerenza a requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.
34
Se
questa
è,
de
iure
posito,
la
struttura
minimale
comune
dell’illecito
discriminatorio, non vale la pena di scomodare oltre la querelle sulla natura “soggettiva”
o “oggettiva” della discriminazione, tanto essa appare risolta dalle chiare prese di
posizione della legge, sin da quando l’art. 4, comma 1, della legge n. 125/1991 (poi
seguito dalle normative del 1998 e 2003228 e dalla stessa novella del 2005, che pure ha
riscritto la disposizione) optò senza esitazioni per la teoria “oggettiva”229, a maggior
ragione in considerazione dell’inclusione del concetto di discriminazione indiretta230.
E non sarà superfluo ricordare che, allorché operò tale scelta, il legislatore accolse
il
suggerimento
di
quella
dottrina
post-statutaria
che,
ricostruendo
l’illecito
discriminatorio in stretta contiguità con l’illecito antisindacale, ne aveva identificato il
connotato strutturale, semplicemente, nell’obiettiva idoneità a ledere la situazione
protetta231, a prescindere dal rilievo del dolo o della colpa, e a maggior ragione
dell’animus nocendi232, preparando così il terreno a quella che si è delineata, col tempo,
come una vera e propria koinè dell’illecito lavoristico.
Ciò consente un’osservazione conclusiva sul modello di responsabilità.
Avendo
ragionato all’interno di un apparato sanzionatorio che prescindeva - o riteneva di poter
prescindere – da una comunicazione diretta col sistema della responsabilità civile, la
dottrina ha quasi sempre trascurato il problema233; forse anche per l’imbarazzo derivante
dal fatto che i divieti di discriminazione, ponendosi come comandi di non lesione di beni
assoluti o universali234, evocano i paradigmi della responsabilità extra-contrattuale.
E, tuttavia, la ricostruzione positiva conferma per l’ennesima volta che, una volta
trasposto in un ambiente contrattuale, l’illecito subisce una torsione concettuale, che ne
favorisce una tendenziale “oggettivazione”, fatta salva la possibilità della prova
liberatoria, nei limiti in cui essa è consentita, per ciascuna fattispecie discriminatoria, da
parte dell’ordinamento.
Ne segue che il fatto che l’onere della prova della discriminazione ricada
pacificamente sul lavoratore, fatta salva l’operatività di dispositivi presuntivi, non
allontana la correlata fattispecie di responsabilità dal modello dell’art. 1218, ma, al
228
Nel senso che l’opzione di cui al testo non è contraddetta dal “ritorno di fiamma” dello “scopo”, in alternativa
all’”effetto”, v. retro, § 7. E’ ancor più scontato osservare che l’irrilevanza dell’elemento soggettivo non è contraddetta
dal fatto che i d.lgs. nn. 215 (art. 2, comma 4) e 216 (art. 2, comma 4) abbiano equiparato ad una discriminazione
“l’ordine di discriminare persone” a causa di uno dei fattori protetti.
229
V. Barbera 1991, 218 ss., e 1994, 54 ss.; Izzi 2005, 35 ss.; Pessi 1996, 35 ss., con ampi riferimenti al dibattito
precedente.
230
V. Barbera 1994, 55.
231
V. Treu 1974, 120 ss.
232
V. Treu 1974, 125 ss.
233
V. però Ballestrero 1996, 307, per il rilievo che il medesimo processo di oggettivazione, che ha caratterizzato
l’evoluzione della tutela antidiscriminatoria, si è verificato anche nella zona della responsabilità contrattuale.
234
Non è stato ancora valorizzato a sufficienza, fra l’altro, il fatto che la disciplina del d.lgs. n. 216/2003 (come
già, del resto, quella del d.lgs. n. 286/1998) abbia trattato nel medesimo contesto, accanto a quelle sul lavoro, anche
altre discriminazioni collegate alla razza o all’origine etnica.
35
contrario, ce la inserisce quasi di giustezza235. Per cui l’esplicita opzione del legislatore in
favore del risarcimento del danno, patrimoniale e no, lungi dall’apparire una concessione
allo spirito del tempo, ha colmato una lacuna sistematica, chiudendo un cerchio che si
era aperto sin dalle prime, “scandalose”, apparizioni della tutela antidiscriminatoria.
E sarebbe malinconicamente ironico, se fosse proprio il danno a far decollare una
volta per tutte la tutela antidiscriminatoria.
7. Libertà sessuale.
Il tema delle molestie sessuali sul lavoro236 si pone esemplarmente “a cavallo” fra
gli ultimi due presi in esame.
L’inquadramento giuridico del fenomeno ha infatti ripercorso, ragionevolmente, i
medesimi binari concettuali e giuridici del mobbing237. Alla luce dei primi, pionieristici,
indirizzi giurisprudenziali, l’art. 2087 si è mostrato in grado di accogliere entrambe le
proiezioni della responsabilità: quella indiretta
nelle molestie che per assonanza
chiameremo “orizzontali”238 (talora con impiego ancillare dell’art. 2049239), e quella diretta
nelle molestie “verticali” (talora con concorso con l’art. 2043)240.
Data la vaghezza del concetto di protezione della “personalità morale”, non si è
peraltro risolto, con ciò, il problema della nozione, la cui soluzione teorica, una volta
ovviamente scartato (ad ennesima conferma di quanto acquisito con riguardo agli altri
istituti “di area”) ogni riferimento allo stato soggettivo dell’autore della molestia, ha
oscillato fra la nozione comunitaria241, tutta incentrata, all’opposto, sul carattere
“indesiderato” della molestia, ergo sull’“oggettivazione” dello stato soggettivo della vittima,
e l’influsso della giurisprudenza nordamericana, incline a temperare il riferimento alla
235
Cfr., nel medesimo ordine di idee, Izzi 2005, 39-40, ove l’ulteriore notazione che, quand’anche si versi al di
fuori di una relazione contrattuale (come nella fase di selezione del personale), la giurisprudenza comunitaria impone
ormai di prescindere dalla dimostrazione della ricorrenza di qualsiasi elemento soggettivo (e segue infatti la critica ad
un obiter dictum di Cass. 25 settembre 2002 n. 13942, GC, 2003,I,1034).
236
Sul quale v., per tutti, Pizzoferrato 2000 (e, se vuoi, la recensione di Del Punta 2001).
237
Anzi, li ha leggermente anticipati: infatti, la pur non copiosa giurisprudenza in materia ha cominciato a
svilupparsi sin dagli anni ’90, a cominciare da Pret. Frosinone 11 agosto 1989, RIDL, 1990,II,705, con nota di Ghinoy,
pur relativa ad un caso di licenziamento per false accuse di molestie.
238
V. ad es. Cass. 17 luglio 1995 n. 7768; Trib. Milano 28 dicembre 2001, RCDL, 2002, 371; Trib. Pisa 12
ottobre 2001, LG, 2002, 456, con nota di Nunin.
239
V., ad es., Pret. Milano 14 agosto 1991, RIDL, 1992,II,403, con nota di Poso (conf. da Trib. Milano 19 giugno
1993, RCDL, 1994, 130), non riconoscendosi alla ricorrente, peraltro, anche il danno morale ex art. 2049, ritenendosi
che la molestia dolosa commessa da un dipendente spezzi il vincolo che impegna il datore a rispondere degli illeciti
commessi nell’esercizio delle incombenze alle quali sono adibiti i suoi “domestici”. Con riguardo alle molestie, nel
complesso, le resistenze all’utilizzazione dell’art. 2049 (peraltro ora sdrammatizzate, nel senso della risarcibilità del
danno morale anche ex art. 2087, dai nuovi orientamenti della giurisprudenza costituzionale e di legittimità) sono state
frequenti (v., ad es. Trib. Venezia 15 gennaio 2002, Foro pad., 2002,I,404).
240
Cfr. Cass. Cass. 8 gennaio 2000 n. 143; Cass. 17 luglio 1995 n. 7768, cit.supra, che scolpisce la “doppia”
valenza dell’art. 2087.
241
V. la raccomandazione 92/131/CEE della Commissione delle Comunità Europee del 27 novembre 1991, e
quindi l’art. 2, par. 2, della direttiva 76/207/CEE del Consiglio del 9 febbraio 1976, come modificata dalla direttiva
2002/73/CE del 23 settembre 2002.
36
vittima mediante il concetto di “ragionevolezza”, riferito ad una persona-tipo dello stesso
sesso242.
Il problema si è ulteriormente complicato, e in qualche misura intorbidato, per
l’insistente manifestarsi di pressioni (poi consacrate dalla direttiva 2002/73/CE) a far
confluire la molestia sessuale nel più ampio alveo della tutela antidiscriminatoria di
genere243. L’esito ne è stato l’art. 4, comma 2-bis, della legge n. 125/1991244, che, a ruota
delle molestie di genere, ha stabilito che sono considerate discriminazioni anche le
molestie sessuali, ovvero “quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale,
espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità
di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante e offensivo”.
Tale nozione conferma, anzitutto, il riferimento privilegiato al punto di vista della
vittima245. Ma è dubbio che esso possa ritenersi esaustivo, evincendosi anche la necessità
di una valutazione obiettiva della portata lesiva dei fatti allegati e provati, anche tramite
presunzioni, dalla predetta. Fra l’altro, al di là di un “minimo materiale” identificabile
nell’intrusione, comunque posta in essere, nella sfera privata e sessuale di una/un
dipendente, le particolari modalità delle relazioni fra i sessi (che fioriscono ovviamente,
nella vasta gamma della loro fenomenologia, anche nei luoghi di lavoro) – condizionate da
“asimmetrie informative” di partenza, fra i due soggetti e fra ciascuno e se stesso, nonché
costellate da giochi tattici e simulatori - possono rendere particolarmente difficile la
valutazione in discorso, in specie con riguardo a mere, iniziali, attenzioni a sfondo
sessuale246; ferma restando la non accoglibilità, nella fattispecie, dell’elemento della
“continuazione”247, già controverso nel mobbing248. Non meno “difficile”, come già
rilevato249, è il prolungamento della nozione, realizzato dal concetto di molestia
“ambientale”.
Se quelli rapidamente evocati sono i problemi reali, con i quali dovrà continuare a
misurarsi la giurisprudenza, il nodo teoricamente più interessante è la configurazione
legislativa della molestia come discriminazione, che certo sembra alludere (anche per la
V. Pizzoferrato 2000, 69 ss.
V. Pizzoferrato 2000, 97 ss., peraltro non sottacendo alcune perplessità (v. anche infra).
244
Recato dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n.145/2005.
245
E senza che il riferimento allo “scopo”, in alternativa all’”effetto”, possa – per la ragione già spiegata –
assumere il significato di un improvvido (qui più che mai) ritorno di rilevanza dello stato soggettivo dell’autore della
molestia.
246
Alcuni codici di condotta precisano, infatti, che tali attenzioni trascendono in molestie, quando sono ripetute
nonostante che la destinataria abbia mostrato di ritenerle sgradite.
247
V., però, Pret. Milano 20 febbraio 1995, FI, 1995,I,1985, che, nel caso di un dipendente che aveva compiuto
un atto esibizionistico, ha dato rilievo esimente (sì da giudicare sproporzionato il conseguente licenziamento) al fatto
che era rimasto isolato. Per una valutazione di segno opposto, nel caso di una lavoratrice che era stata attirata con uno
stratagemma in un magazzino a fini sessuali, v. Pret. Torino 26 gennaio 1991, RIDL, 1991, II, 431, con nota di Pera.
248
V. retro, § 5.
249
V. ancora retro, § 5.
242
243
37
collocazione della norma) ad un’integrazione della fattispecie e non ad una mera
equiparazione di effetti250.
La novità è stata salutata con interesse, da parte di chi si è spinto ad ipotizzare –
anche in connessione con l’apertura della giurisprudenza comunitaria alla prospettiva
della “comparabilità” - lo sganciamento della discriminazione dall’esigenza di una
valutazione comparativa251.
Sembra invece, a chi scrive, che i costi, teorici e pratici, di tale operazione – della
quale, pure, è doveroso prendere atto – siano stati superiori ai benefici252.
Costi teorici, perché si è minata la tenuta concettuale della nozione di
discriminazione, sospingendola verso una terra di nessuno, nella quale, privata del
proprio connotato distintivo, essa rischia di degradare a mero equivalente semantico
dell’illiceità, inducendo confusione fra la struttura della fattispecie e la qualificazione
giuridica dell’ordinamento; e, specularmente, perché si rischia di dimenticare – e far
dimenticare - che la molestia sessuale, in quanto concretante un’offesa diretta ai beni
della dignità e della libertà sessuale (piuttosto che un peccato contro l’eguaglianza, come
avviene nelle discriminazioni, ed anche nelle molestie “discriminatorie”), non può non
conservare, in seno al contratto, quella qualificazione di illiceità come tale che si merita
ex art. 2043, e che non necessita, per farsi valere, ed a meno di sprofondare in veri e
propri paradossi logici (ogni illecito extra-contrattuale è forse una discriminazione?), del
sostegno di un’altra figura di illecito.
E pratici, potendone persino derivare una deminutio di tutela, ove ne scaturiscano
inclinazioni a limitare la medesima ai casi in cui le molestie siano una componente di
una più complessa fattispecie discriminatoria253 (il che, come è noto, accade spesso254,
ma deve dar luogo ad un cumulo di tutele, e non ad un improvvido sincretismo fra le
medesime).
Quella legislativo-comunitaria appare, quindi, come una sorta di nozionebandiera, nella quale il messaggio politico-culturale tende a prevalere sulla tenuta
giuridica.
A ciò si aggiunga che la scelta di inserire la fattispecie nell’apparato della legge n.
125/1991 (limitandola, quindi, alle sole molestie dette “verticali”) ha rimosso il problema
V. invece il distinguo di Izzi 2005, 57.
V. Barbera 2003, 409 ss., su cui le osservazioni critiche di Ballestrero 2004, 515-516; De Simone 2004, 535;
Izzi 2005, 42 ss. (peraltro in qualche misura “dimenticate” ivi, 188 ss.).
252
L’unico beneficio della configurazione come discriminazione di genere potrebbe essere rappresentato dalla
non necessità che gli elementi indiziari, in casi del tipo, siano anche “gravi”, oltre che “precisi e concordanti” (cfr. art.
4, comma 6, legge n.125/1991); pur riproponendosi, per il resto, l’ordinario modello presuntivo.
253
V., infatti, le preoccupazioni di Pizzoferrato 2000, 95,128 e 139.
254
V., ad es., Pret. Milano 15 maggio 1996, OGL, 1996,649, e soprattutto il caso esemplare deciso da Pret.
Trento 22 febbraio 1993, RIDL, 1994,II,172, con nota di Poso, peraltro non confermata da Cass. 8 agosto 1997 n. 7380,
RIDL, 1998,II,795, con nota di Pizzoferrato, proprio sul punto della qualificazione come molestie delle condotte
datoriali, che poi erano trascese in atti gestionali illegittimi e ritorsivi.
250
251
38
del collegamento sistematico con l’art. 2087, e l’istanza di protezione da esso veicolata.
Un problema risolubile, peraltro, sul terreno interpretativo, considerando quella dell’art.
4, comma 2-bis, come la nuova nozione generale di molestia sessuale sul lavoro, e come
tale esprimente, non soltanto ciò che il datore di lavoro deve astenersi dal fare, ma anche
ciò da cui (come specificazione del dovere di protezione della personalità morale ex art.
2087) deve proteggere i dipendenti affidati alla propria responsabilità.
Si pone, a tale riguardo, l’esigenza di pervenire ad un’applicazione appropriata
dell’obbligo in questione, esente da una trasposizione meccanica della concezione aperta
ed elastica dell’art. 2087, invalsa nel campo della salute e sicurezza, sì da scongiurare lo
spettro dell’avvento di una “massima correttezza organizzativamente fattibile”255. Ove
esso si profilasse, fra l’altro, il datore di lavoro potrebbe trovarsi indotto, onde adempiere
il più puntualmente possibile all’obbligo e pararsi da conseguenze patrimoniali
spiacevoli, a ingerirsi nella sfera privata dei dipendenti, e magari a inoltrarsi sulla strada
di un paternalismo soffocante e forse ancor più offensivo della loro dignità.
Ciò non toglie, naturalmente, che se il datore sapeva o doveva ragionevolmente
sapere, e non è intervenuto per far cessare le condotte moleste (per quanto allo stato
nascente), anche facendo ricorso senza esitazioni allo strumento disciplinare256, non
possa esimersi da responsabilità257; la quale, data la natura dei beni lesi, procederà
spedita verso le mete, pur spesso confuse, del danno non patrimoniale258. Anzi,
l’operazione di inserimento della molestia sessuale nella normativa antidiscriminatoria è
stata resa possibile soltanto dalla coeva previsione della riconoscibilità del danno non
patrimoniale: se c’è un’ipotesi, infatti, nella quale l’arma della nullità è “spuntata”, e
anche l’ordine di rimozione degli effetti serve a poco, per cui occorre ripiegare su altri
rimedi (l’inibitoria e il risarcimento del danno),è quella di cui si è discusso.
8. Onore e immagine.
Per una lettura molto estensiva dell’obbligo, sia pure filtrata attraverso i codici di condotta, v. invece
Pizzoferrato 2000, 345 ss.
256
Per l’ovvio inquadramento delle molestie sessuali verso una dipendente come giusta causa di licenziamento (a
prescindere dall’intervenuta assoluzione penale), v. ad es. Cass. 2 dicembre 1996 n. 10752, RIDL, 1997,II,594, con nota
di Magro; Pret. Modena 29 luglio 1999, LG, 1999, 599, con nota di Lanotte. Ciò anche nel caso in cui le molestie siano
state commesse nei confronti di un terzo (la figlia minore di un utente), con riflessi sull’immagine del datore di lavoro:
v. Cass. 28 aprile 1995 n. 4735, RIDL, 1996,II,866, con nota di Vettor. Per un caso di ritenuta sproporzione del
licenziamento, v. peraltro Cass. 2 maggio 2005 n. 9068. Nel senso, coerente col principio corrente, che deve andare
esente da misure disciplinari la lavoratrice che abbia reagito a molestie: Cass. 19 dicembre 1998 n. 12717.
257
Per un caso in cui la responsabilità datoriale ex art. 2087 (oltre che ex art. 2049) è stata ravvisata in quanto la
società, posta a conoscenza della condotta molesta del preposto, non aveva adottato alcun provvedimento per farla
cessare, v. Pret. Milano 31 gennaio 1997, RCDL, 1997, 619. Per il rilievo che la sussistenza di una responsabilità diretta
del datore di lavoro ex art. 2087 esige che la condotta illecita del dipendente sia prevedibile e prevenibile, v. Pret.
Modena 29 luglio 1999, cit.
258
Cfr. Pizzoferrato 2000, 266 ss. e 409 ss., enfatizzando la tendenziale trasformazione del risarcimento in
sanzione affittiva, collegata all’”immaterialità” dei nuovi beni tutelati.
255
39
L’onore (o reputazione), come è risaputo, è uno dei più classici diritti della
personalità, definibile come il riflesso che la dignità personale, ossia il sentimento del
proprio intimo valore morale, ha nella positiva considerazione dei terzi259. Le sue basi
costituzionali, al di là del suo incarnare un antichissimo valore etico, non sono davvero
ardue da rinvenire (artt.2, 3 comma 1)260.
Nel rapporto di lavoro subordinato il diritto all’onore non si è presentato, a dir il
vero, in una veste diversa dal solito: esso vi ha mantenuto, né più né meno, la propria
consueta fisionomia di diritto assoluto, la cui lesione è risarcibile ex art. 2043 c.c.261 Non
si sono verificati, nell’occasione, anche per la relativa esiguità della casistica, tentativi
particolarmente “agguerriti” di penetrazione nel contratto.
Il discorso rimanda, soprattutto, all’ipotesi del licenziamento “ingiurioso” o
offensivo262, che la giurisprudenza ha sempre tenuto distinta, per l’esistenza di uno
specifico profilo di illiceità, da quella del licenziamento semplicemente ingiustificato263.
L’autonomia nei confronti della regola di giustificazione dovrebbe implicare che non
soltanto un licenziamento ingiustificato non sia per ciò solo ingiurioso, ma che possa
essere ingiurioso (sia pure in casi eccezionali), anche un licenziamento giustificato.
Infatti, gli elementi valutati ai fini del riconoscimento di tale illiceità – che, pur
essendo inizialmente il riflesso di quella penale264, ha poi acquisito un’ampia autonomia
anche da essa, lungo una direttrice che dell’onore tout court discende sino alla tutela
dell’onore nel campo lavorativo (e più ampiamente economico) - possono essere di varia
natura, e non concernono soltanto la causale, ma anche le modalità, ampiamente intese,
del licenziamento. Il più importante di tali elementi rimane legato, ovviamente,
all’intrinseco carattere disonorevole dei fatti contestati, di massima sub specie di giusta
causa di recesso265. Ma possono assumere rilievo anche le modalità con le quali il
provvedimento è stato irrogato266, la sua forma267, il momento prescelto per comunicare
V. classicamente De Cupis 1982, 250 ss.
V. De Cupis 1982, 256 ss.
261
V. Pret. Ferrara 25 novembre 1993, RIDL, 1994,II, 561, con nota di Tullini. Per l’esplicito richiamo al
concetto di “danno ingiusto”, v. Cass. 7 febbraio 1994 n. 1219. Per la possibilità di un concorso fra le due azioni di
responsabilità, v. però Pret. Roma 3 ottobre 1991, RCDL 1992, 390, con nota di Muggia.
262
Per una rassegna critica della giurisprudenza, cui si debbono molte delle citazioni che seguono, v. Pasquini
2004, cui adde Paladini 2000 (con prefazione di G. Pera).
263
V. Cass. 14 maggio 2003 n. 7479; Cass. 1° luglio 1997 n. 5850; Cass. 7 febbraio 1994 n. 1219.
264
Cfr. De Cupis 1982, 268 ss.
265
Per il caso di una dipendente licenziata da una base Nato in Italia perché ingiustamente accusata di frode sui
giustificativi delle spese, v. Cass. 15 aprile 2005 n. 7837. Per quello di un dirigente licenziato per asserita (ma poi
risultata pretestuosa) incapacità professionale, v. Pret. Parma 13 novembre 1995, LG, 1996, 476, con nota di Mannacio.
266
Per un caso (istruttivo, per l’assegnazione di rilevanza ad un elemento che difficilmente potrebbe pesare, se
non ai fini della valutazione dell’elemento soggettivo, in sede di controllo sulla giustificazione) in cui si è valutato, ai
fini, il carattere inatteso del licenziamento, in quanto preceduto da un atteggiamento comprensivo da parte del datore di
lavoro, con il quale il dipendente aveva da anni un rapporto di stretta collaborazione, v. Pret. Ferrara 25 novembre 1993,
cit.
259
260
40
la decisione al lavoratore268, l’indebita pubblicità data al licenziamento269, l’attitudine del
licenziamento (per il tipo di causale che lo ha determinato) a pregiudicare le possibilità di
ricollocazione del lavoratore nel mercato270.
La figura del licenziamento ingiurioso è di elaborazione ormai remota271, anche
perché è stata la prima in grado di eludere le limitazioni alla risarcibilità del danno
morale. Ciò grazie alla “linea diretta” con l’art. 185 c.p., oltre che all’emersione di profili
di danno patrimoniale indiretto, il risarcimento del quale non ha mai incontrato
obiezioni272.
Più di recente, la spinta risarcitoria ha guadagnato nuovo impulso per via della
confluenza con l’evoluzione del danno non patrimoniale (ma anche qui con una carica
pionieristica, ad esempio in virtù del diretto ricorso alla “dignità” costituzionale273),
cominciando persino ad esercitare una pressione destrutturante sul sistema legale di
tutela “patrimoniale” contro il licenziamento illegittimo: in virtù della sua elasticità, il
concetto di licenziamento ingiurioso può infatti spingersi, teoricamente, là dove non può
arrivare l’art. 8 della legge n. 604/1966.
Più di recente, una tendenza simile, con riguardo all’onore lavorativo, o (come oggi
si tende a dire) alla lesione dell’immagine professionale274, si è manifestata
anche in
relazione a fatti di demansionamento, e quindi (al di là della sua riconducibilità al –
distinto – concetto qui trattato) come uno dei frutti della rigogliosa fioritura
giurisprudenziale dell’art. 2103 c.c.275. E anche lì il danno risarcito tende ad avere una
E’ l’ipotesi del licenziamento intimato ad horas, impedendo al direttore di un giornale di firmare l’ultimo
numero del giornale da lui diretto e di fornire ai lettori la propria versione del fatto causativo del licenziamento: v. Cass.
5 novembre 1979 n. 5713, GI, 1980,I,1, 1520, con nota di Zanelli.
268
Come quando tale momento sia molto ravvicinato ad un grave evento luttuoso che abbia colpito il lavoratore:
v. ancora Pret. Ferrara 25 novembre 1993, cit. Per un caso in qualche modo simile, v. Trib. Milano 30 giugno 2003,
RCDL, 2003,997.
269
Come nel caso in cui un’azienda della grande distribuzione, dopo aver licenziato alcuni lavoratori per asserito
furto di cibi o bevande, affigga un comunicato alla clientela per ribadire tali accuse, pur in pendenza del giudizio di
impugnativa dei recessi. Per un caso di azione ex art. 28 St.lav. suscitato da una contestazione disciplinare contro alcuni
dipendenti che si era rifiutati di svolgere un servizio di reperibilità durante un’azione sindacale, che era stata affissa
nella bacheca sindacale, affermando il giudice che tale modalità è lesiva dell’immagine professionale, oltre che della
personalità morale ex art. 2087, v. Trib. Milano 9 gennaio 2004, RCDL, 2004, 304, con nota di Beretta.
270
Come nel caso di un licenziamento per giusta causa determinato da fatti infamanti, o nei confronti di
dipendenti (come i dirigenti), particolarmente esposti sul versante fiduciario, per i quali la giusta causa può
rappresentare una definitiva “palla al piede”.
271
V. già Simi 1952.
272
Cfr., per riferimenti, De Cupis 1982, 268-269.
273
V. Pret. Bologna 20 novembre 1990, GI, 1991,I,2,84, con nota di Zilio Grandi.
274
La tematica cui si fa riferimento nel testo deve essere tenuta distinta (al di là delle connessioni concettuali)
dalle vicende giuridiche di quel classico diritto della personalità, noto appunto come diritto all’immagine (cfr. De Cupis
1982, 283 ss.), ovverosia alla protezione ed eventualmente all’utilizzazione della propria immegine pubblica. Su alcuni
riflessi lavoristici del tema (qui non trattato), relativi alla specifica situazione del lavoro sportivo, v. Martone 2002,
spec. 213 ss.
275
Sull’argomento, v. più ampiamente infra, § 11. Per varia casistica, v. Cass. 10 giugno 2004, n. 11045; Cass. 26
maggio 2004 n. 10157, OGL, 2004,I,331; Cass. sez. trib. 17 febbraio 2004 n. 3082; Cass. 22 febbraio 2003 n. 2763;
Trib. Roma 15 febbraio 2005, FI, 2005,I,1233, relativa al caso Santoro/Rai-Tv.
267
41
natura ancipite, patrimoniale per il pregiudizio di carriera, e non patrimoniale per la
componente “morale” della lesione della reputazione professionale276.
Nel complesso, il governo di questi vari elementi è tutt’altro che facile per il
giudice. Di solito le difficoltà tendono a scaricarsi sul danno, dibattendosi se sia
necessaria un’autonoma prova del medesimo277 (di certo necessaria con riguardo alla
lesione della reputazione professionale), o se essa sia in re ipsa278, ma esse coinvolgono, a
monte, lo stesso evento, eternamente in bilico fra percezione soggettiva della persona
offesa e valutazione ab externo della obiettiva idoneità lesiva279.
9. Libertà di espressione.
Il tema della penetrazione nel rapporto delle libertà fondamentali, insite nello
status di cittadinanza prefigurato dalla Carta Costituzionale, conosce varie possibili
declinazioni. Una di esse (che ha, peraltro, molti punti di contatto con quella che si va a
trattare280)
è
stata
già
esaminata,
con
riguardo
alla
protezione
contro
le
discriminazioni281: ma essa varrebbe a poco, se non poggiasse, a monte, su un’opzione
chiara in merito al pieno riconoscimento delle libertà all’interno dei luoghi di lavoro. E’
per questo che il legislatore del 1970 tenne a mettere in risalto tale principio,
conferendogli l’onore dell’incipit282.
Già all’epoca, naturalmente, ed a maggior ragione oggi, la riflessione sui diritti
costituzionali era evoluta al punto da rendere un “di più” la formalizzazione, in una
disposizione di legge ordinaria, di un principio comunque ricavabile, in linea diretta,
dalla Carta (oltre che da note fonti internazionali). Ma ciò nulla toglie all’importanza
giuridica e simbolica della scelta allora compiuta.
L’art. 1 ha un rilievo centrale, per altro verso, perché la complessa vicenda del suo
iter parlamentare, e la formulazione che ne è risultata283, scandiscono tuttora i termini
essenziali del problema cui continua a trovarsi di fronte la giurisprudenza, allorché
esamina fattispecie, nelle quali l’esercizio concreto della libertà di manifestazione del
V., ad es., Trib. Roma 15 febbraio 2005, cit.
V. Cass. 13 giugno 2005 n. 12642; Cass. 14 maggio 2003 n. 7479; Cass. 1° luglio 1997 n. 5850; Cass. 7
febbraio 1994 n. 1219.
278
V. Cass. 1° aprile 1999 n. 3147, relativa ad un caso in cui la lavoratrice era stata ingiustamente accusata di
aver falsificato il contratto di lavoro, e sia pure con la limitazione di cui al testo. Si richiama all’orientamento
maggioritario (v. nota precedente), ma con la precisazione che se la allegata giusta causa di licenziamento consiste
nell’asserita commissione di un reato, la verificata insussistenza della stessa rende il licenziamento ingiurioso ex se,
Cass. 15 aprile 2005 n. 7837.
279
Nel senso che l’ingiuriosità deve essere rigorosamente dimostrata, con riguardo tanto alla sua sussistenza,
quanto al pregiudizio subito, v. Cass. 13 giugno 2005 n. 12642.
280
E che concerne estrinsecazioni ulteriori (rispetto a quelle già protette dalla normativa antidiscriminatoria)
della libertà di manifestazione del pensiero.
281
V. retro, § 6.
282
Sull’art. 1 St.lav. v., per tutti, Romagnoli 1979a.
283
Cfr. Aimo 2003, 173 ss., spec. 179-181.
276
277
42
pensiero, ampiamente intesa, da parte di un lavoratore, entra in contrasto con l’interesse
dell’imprenditore. Ove si tratta di stabilire, non già se tale esercizio possa costituire una
sorta di “causa di giustificazione”, rispetto ad una responsabilità contrattuale altrimenti
sussistente, bensì, più radicalmente, l’estensione da assegnare alle posizioni soggettive
passive del lavoratore subordinato, tenuto conto della libertà di manifestazione del
pensiero, della quale egli continua a godere anche nel momento e nello spazio in cui
presta la propria opera.
Il problema sorge, in particolare, perché fra tali obblighi è compreso quello di non
divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o di
non farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio (art. 2105 c.c.)284. Vi sono poi,
senza voler ripescare dall’oblio una stretta accezione di “obbligo di fedeltà”285, i principi di
correttezza e buona fede, che la giurisprudenza impiega come fonte di doveri contrattuali
sostanzialmente integrativi286. Là dove finisce la libertà, in tali ipotesi, comincia
l’inadempimento contrattuale, sub specie di reazione disciplinare alla condotta del
lavoratore, e viceversa.
Il livello del potenziale contrasto con l’interesse dell’imprenditore può, a propria
volta, variare di intensità. Esso è soltanto indiretto, nella misura in cui l’esercizio della
libertà determina un semplice ostacolo materiale all’adempimento della prestazione, da
parte dello stesso interessato, o di altri lavoratori: è il problema che lo Statuto ha risolto
con la disposizione dell’art. 26, comma 1, la quale ha riprodotto la formula dell’”intralcio
alle attività aziendali”, originariamente contenuta nel disegno di legge governativo, e poi
stralciata, da parte della Commissione Lavoro del Senato, dal testo dell’art. 1.
Il contrasto tende a farsi diretto e potenzialmente più grave, invece, nei casi in cui
il lavoratore rifiuti di adempiere la propria prestazione, proprio per esercitare un diritto di
libertà, come quello all’obiezione di coscienza “professionale”287, oppure avanzi critiche, in
specie pubbliche, all’operato del datore di lavoro.
Ed è qui che torna in causa, per l’appunto, l’art. 1, con la sollecitazione
interpretativa al bilanciamento dei diritti, campo elettivo della quale (in assenza di più
specifiche delimitazioni positive, come nel francese droit d’expression288) è stato
284
Nel senso che l’obbligo in discorso non si estende ad attività illecite dell’imprenditore, v. comunque la famosa
Cass. 16 gennaio 2001 n. 519, RIDL, 2001, II, 453.
285
Per una ripresa del tormentato dibattito dottrinale sull’argomento v., per tutti, Mattarolo 2000.
286
Nel senso che, sulla base di una lettura dell’art. 2105 collegata ai principi generali di correttezza e buona fede,
il lavoratore non deve astenersi soltanto dai comportamenti espressamente vietati, ma anche da qualsiasi altra condotta
che risulti in contrasto con i doveri di inserimento del lavoratore nell’impresa o crei un conflitto di interessi con la
medesima, v. ad es. Cass. 4 aprile 2005 n. 6957, FI, 2005,I,2018. Per l’inizio di tale orientamento, v. Cass. 1 giugno
1988 n. 3719, RIDL, 1988,II,978.
287
Per un esame delle ipotesi di obiezione di coscienza positivamente previste, ivi compresa quella –
particolarmente delicata - del rifiuto di svolgere attività lavorative durante i giorni considerati festivi dal proprio credo,
v. Aimo 2003, 182 ss. In generale sul “diritto alla diversità religiosa”, v. Bellocchi, 198 ss.
288
Cfr. Aimo 2003, 231-232.
43
soprattutto il faticoso lavoro della giurisprudenza sui limiti del diritto di critica del
lavoratore289.
A
partire
dalla
sentenza-capostipite
del
1986,
tale
indirizzo
ha
rappresentato per alcuni (e criticati290) versi, la trasposizione “lavoristica” di principi
elaborati in tema di responsabilità del giornalista291. Ma ulteriori ramificazioni
ermeneutiche – interne alle vicende del bilanciamento - si sono poi aperte, man mano
che si è posto il problema di quanto il diritto di critica abbia ad espandersi allorché
costituisca una forma di esercizio (e ciò dicasi, in particolare, per il dipendentesindacalista) dell’attività sindacale292.
E’
sempre
sul
problematico
terreno
del
bilanciamento293,
inoltre,
che
la
giurisprudenza ha correttamente tentato di risolvere il problema, pur emerso ancora
embrionalmente nella nostra esperienza (in specie a paragone di quella statunitense294),
dei limiti alla libertà del lavoratore in ordine all’autodeterminazione del proprio aspetto
esteriore (che può anche avere evidenti punti di contatto con quella religiosa)295. Si è così
enucleato il principio per cui (al di là del problema, in fondo non decisivo296,
dell’esistenza o no di specifiche norme o clausole contrattuali in argomento) eventuali
limitazioni imposte dall’imprenditore al modo di presentarsi esteriore del lavoratore,
debbono essere giustificate da qualificate esigenze produttive, organizzative o di
immagine al pubblico dell’azienda, o da esigenze di sicurezza o di igiene della
lavorazione297, che possono concernere anche lo stesso lavoratore interessato298.
La rilevata contiguità giuridica fra l’area del diritto e quella dell’inadempimento
consente, infine, una riflessione di ordine sistematico. Insistendo in un’area coperta dal
principio di libertà ex art. 21 Cost. e art. 1 St.lav., i comportamenti del lavoratore che,
Per un riepilogo critico della tematica, v. Aimo 2003, 226 ss.
Per un commento problematicamente critico alla sentenza cit. nella nota che segue, v. Mazzotta 1986, ove la
prospettazione delle domande tuttora cruciali: “Il lavoratore deve essere solidale con quanto di “bene” e di “male”
faccia il datore di lavoro nell’impresa? La fiduciarietà del rapporto sottende anche la connivenza?”.
291
V. Cass. 25 febbraio 1986 n. 1173, FI, 1986,I,1885, in un caso in cui un tecnico di radiologia ed un’infermiera
erano stati licenziati per avere denunciato a più riprese, anche ai media, deficienze di organico ed inefficienze di una
struttura paraospedaliera, ed il loro licenziamento è stato ritenuto, alla fine, illegittimo, anche in considerazione del
perseguimento dell’interesse, sovraordinato, alla salute pubblica.
292
V. soprattutto Cass. 6 maggio 1998 n. 4952, RGL, 1999,II,455, relativa al noto caso Basile. Nel senso della
legittimità di frasi ironiche e satiriche, ancorché grevi, contenute in un volantino distribuito in un conflitto sindacale, v.
Cass. 21 settembre 2005 n. 18570, ADL, 2006, 289, con nota di Greco. Per completi riferimenti, v. Aimo 2003, 254 ss.
293
Con una problematicità aggiuntiva, in nome di un “riproporzionamento” tutto da puntualizzare, nell’ipotesi
che il rapporto di lavoro sia nell’ambito di un’organizzazione di tendenza.
294
Sul quale v., con un approccio classicamente (e scontatamente) da crit, Klare 1994.
295
V. Aimo 2003, 283 ss.
296
V., invece, Cass. 9 aprile 1993 n. 4307, RGL, 1994,II,224.
297
Se non, addirittura, rese “indispensabili” dalle esigenze in discorso: v., ad es., App. Milano 9 aprile 2002,
RIDL, 2002, II, 658, che ha ritenuto non punibile in via disciplinare un lavoratore addetto al reparto di gastronomia di
un supermercato, per l’omissione della rasatura quotidiana della barba. Per il famoso caso della “minigonna”, trattato
come discriminazione di genere, v. Pret. Milano 12 gennaio 1995, GC, 1995,I,2267, con nota di Pera; D&L, 1995,349,
con nota di Vettor.
298
Come specificazione del dovere di prendersi cura della propria salute, oltre che di quella altrui, di cui all’art. 5,
comma 1, del d.lgs. n. 626/1994, sul quale v. in generale Corrias 2005, spec. 69 ss.
289
290
44
per non aver travalicato i limiti di tale libertà, non sono trasmodati in inadempimento
(degli obblighi negativi di cui all’art. 2105), non possono semplicemente considerarsi
indifferenti rispetto al diritto, ma debbono qualificarsi, al contrario, come comportamenti
iure. Di guisa che, a prescindere dal loro presentarsi, di solito, nella prospettiva della
delimitazione dei presupposti di valido esercizio del potere (direttivo, e, di conseguenza,)
disciplinare, è da ammettere che un’eventuale lesione, da parte del datore di lavoro
(perpetrata anche tramite la stessa irrogazione di un provvedimento disciplinare poi
risultato illegittimo), dei diritti di libertà in discorso, possa dare titolo anche a doglianze
di tipo risarcitorio ex art. 2059 c.c.
10. Riservatezza.
Non è questa, ovviamente, la sede idonea a ripercorrere, anche sommariamente, la
complessa evoluzione, dottrinale, giurisprudenziale, e infine legislativa, che ha condotto
l’ordinamento italiano a dare riconoscimento, sempre più completo, al diritto alla
riservatezza, in quanto diritto della personalità dotato di rango costituzionale299. Ci
interessano qui, più limitatamente, le modalità e le tecniche tramite le quali tale diritto,
di natura assoluta, è penetrato nel regolamento di un rapporto come quello di lavoro,
caratterizzato da un elevato livello di contatto sociale, aggravato dallo squilibrio di potere,
e le sue ricadute sistematiche.
La prima di tale modalità, che corrisponde all’accezione più classica della
riservatezza (intesa come diritto a non subire intrusioni non desiderate nella propria
sfera privata), letta in combinazione con i valori di dignità e libertà, è un ennesimo
riscontro della forza anticipatrice del diritto del lavoro. Si fa riferimento a quelle norme
statutarie che, come esito vittorioso della battaglia condotta da un agguerrito
orientamento dottrinale nel nome di un’effettiva penetrazione nell’impresa dei valori
costituzionali di “sicurezza, libertà e dignità”, intesi come sintesi di un moderno status
civitatis300, si sono poste a custodi del diritto del lavoratore a non subire, anche in
azienda, interferenze lesive della propria dignità, mediante l’apposizione di limiti esterni
alle varie manifestazioni del potere (formalizzato) di controllo, nonché del potere (non
formalizzato) di indagine, in mano al datore di lavoro.
299
Per i vari percorsi fondativi, a livello costituzionale, di un diritto alla riservatezza, v., con riguardo all’art. 2
Cost., Barbera 1979, 66 ss.; alla libertà di manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost., Cataudella 1991 e Cerri 1991,
anche come riepilogo di loro precedenti contributi sul tema; alle disposizioni poste a tutela della libertà personale, del
domicilio e della corrispondenza, Pace 1984, 3 ss. In generale, sul carattere fondamentale del diritto alla privacy, a
fronte delle inusitate possibilità di controllo consentite dalle tecnologie dell’informazione, v. Rodotà 1992, 189 ss. Per
una teorizzazione precorritrice della riservatezza nella letteratura lavoristica, ma sub specie di interesse legittimo, v.
Ichino 1986, 7 ss. Per la vecchia impostazione “privatistica”, che desumeva l’esistenza di un diritto alla riservatezza
dall’applicazione analogica di disposizioni dettate a tutela dell’immagine, v. invece De Cupis 1982, 283 ss. Per il
ricchissimo dibattito successivo alla legge n. 675/1996, v., ex multis, Alpa 1998, e Rodotà 1997.
300
V., per tutti, Natoli 1956.
45
Relativamente al primo di tali profili301, vengono in gioco i limiti cogenti, se pur
sviluppati secondo tecniche diverse, di cui agli artt. 2, 3 e 6, per i controlli “personali”, ed
all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, per quelli effettuati con mezzi non umani, secondo
una gamma procedente dai “vecchi” impianti audiovisivi sino alle apparecchiature
elettroniche ed informatiche oggi di uso corrente302.
Come è noto, le maggiori criticità, relativamente a tale “eroico” apparato di tutela,
si sono manifestate non tanto in relazione alla tecnica regolatrice impiegata, bensì come
conseguenza della propensione di alcune forme di controllo a chiamarsi fuori dall’ambito
di applicazione delle norme statutarie: quelle orientate a fini “difensivi”303, ossia
all’accertamento di condotte illecite (un ambiguo concetto giurisprudenziale che, dai
controlli “umani”304, tende a propagarsi a quelli “tecnologici”305), e quelle effettuate
tramite strumenti elettronici o informatici306, le quali sottolineano impietosamente
l’urgenza di una riscrittura, adeguata ai tempi, dell’art. 4.
Più ampio e indefinito del “controllo” (classico corollario del potere direttivo) è il
concetto di “indagine”, che l’art. 8 St. lav. ha fatto oggetto di un ampio divieto finalizzato
alla protezione della sfera privata di libertà del lavoratore307. Il riferimento espresso alle
“opinioni politiche, religiose o sindacali” del lavoratore, ossia al nocciolo di valori presi in
considerazione dal testo originario dell’art. 15, rende palese la complementarietà
sistematica con la tutela antidiscriminatoria.
Il divieto si estende, altresì, a qualunque fatto “non rilevante ai fini della
valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. Là dove si riaffaccia, in qualche
misura circolarmente, l’incertezza sull’estensione di tale “rilevanza”, in nome della quale,
ad esempio, sono reputati leciti, fermo il rispetto della riservatezza “domiciliare”, i
controlli extrasanitari (e in qualche modo, anch’essi, “difensivi”) sul lavoratore in stato di
malattia308.
Peraltro, l’evoluzione avuta, nel frattempo, dalla normativa antidiscriminatoria, fa
ormai apparire necessaria (nonché agevole, in considerazione della formulazione aperta
dell’art. 8, oltre che del rango costituzionale dei valori in gioco) un’interpretazione
Cfr. Magnani 1994, 50 ss.
In argomento v. Bellavista 1995; Gragnoli 1996, 147 ss.; Ichino 1986, 57 ss.
303
Cfr. Bellavista 1995, 99 ss.
304
V., ad es., Cass. 2 marzo 2002 n. 3039, NGL, 2002, 642; Cass. 3 novembre 1997 n. 10761.
305
V. Cass. 3 aprile 2002 n. 4746, RGL, 2003,II,71, in un caso di abuso privato del telefono aziendale. In
argomento, cfr. Vallebona 2001.
306
Cfr. Bellavista 2005; Stenico 2003.
307
In argomento, v. Ichino 1986, 118 ss.; Romagnoli 1979b; Sciarra 1979; più di recente, Aimo 2003, 45 ss.
308
V. Cass. 3 maggio 2001 n. 6236, RIDL, 2002, II, 345, con nota di Bartalotta; Cass. 14 aprile 1987 n. 3704.
Circa la normativa in tema di malattia, un’istanza specifica di protezione della riservatezza è stata recepita ante litteram
non già dall’art. 5 St.lav., bensì dall’art. 2 della legge n. 33/1980, il quale ha prescritto l’indicazione, nel certificato
medico inviato ad attestazione della malattia, della sola valutazione prognostica, rendendo particolarmente difficile il
controllo del datore di lavoro sull’attendibilità della certificazione: in argomento, cfr. Del Punta 1992, 116 ss. e 172;
Ichino 1986, 80 ss.
301
302
46
estensiva del precetto statutario, tale da inglobare la gamma, oggi molto più ampia, di
fattori protetti: sì da suggerire la possibilità di una rilettura dell’art. 8 alla luce del più
recente disposto (art. 10, comma 1, d.lgs. n. 276/2003) che ha esteso il divieto di
indagine de quo, ma ampliandone il campo obiettivo di applicazione, alle agenzie per il
lavoro.
La particolare prospettiva nella quale il diritto alla protezione della riservatezza,
dignità e libertà del lavoratore, si è “presentato” al diritto del lavoro, ha altresì
comportato che l’unica conseguenza sanzionatoria (a parte la - pur spesso obliterata tutela penale) ricollegata alla violazione dei limiti menzionati sia stata identificata
nell’inefficacia giuridica dei relativi atti o comportamenti di esercizio del potere, ergo
nell’inutilizzabilità probatoria delle informazioni illecitamente raccolte309. In verità, però,
considerando l’ascendenza costituzionale dei diritti lesi da condotte datoriali ormai non
iure (essendo fuoruscite dall’ambito di legittimo esercizio del potere), non sembrano
esservi difficoltà ad ammettere che il lavoratore vittima di tali illeciti possa rivendicare il
risarcimento dei danni non patrimoniali che egli possa dimostrare di aver patito.
Il descritto apparato di tutela lasciava scoperto, peraltro, il problema di come
garantire una protezione ai tantissimi dati personali dei quali il datore di lavoro (al di là
di controlli illeciti) viene comunque in possesso nella gestione del rapporto. Viene qui in
gioco una più lata accezione di riservatezza, come diritto all’autodeterminazione
informativa310.
Ebbene, come è noto, il diritto del lavoro ha mutuato il riconoscimento giuridico di
tale interesse dalla normativa generale che ha finalmente dato piena cittadinanza al
concetto di privacy (legge n. 675/1996311, successivamente riordinata dal d.lgs. n.
196/2003), con ciò riconfermando, tuttavia, che la pur ritenuta assolutezza di tale diritto
non può che “relativizzarsi”, nel quadro del bilanciamento di interessi e delle condizioni e
limitazioni di esercizio previste dalla legge.
Per quanto concerne i riflessi lavoristici, la scelta della legge è stata chiara nel
senso di non contrapporsi, ma di aggiungersi, alle regole statutarie, delle quali è stata
formalmente ribadita la vigenza312. Ciò consente di delineare una prima, approssimativa
ripartizione dei compiti fra le due normative, in base alla quale lo Statuto dovrebbe
V. ad es. Ichino 1986, 67 e 74.
Espressione già elaborata dal Bundesverfassungsericht tedesco, Decisione del 15 dicembre 1983, trad.it. in
RIDL, 1987, I, 532.
311
In argomento, v. Aimo 2005, 37 ss.; Chieco 2000. Per altri contributi sul tema, v. La tutela della privacy del
lavoratore, QDLRI, n. 24/2000. Per la letteratura precedente alla legge n. 675/1996, v. Bellavista 1995, 128 ss. ;
Gragnoli 1996, in una prospettiva di riflessione generale sui processi informativi nell’impresa.
312
V. l’art. 113 del d.lgs. n. 196/2003, a proposito dell’art. 8 St. lav., e l’art.114, circa l’ art. 4; nonché, per i
riflessi penali, l’art. 171.
309
310
47
bloccare, a monte, l’illecita acquisizione di dati personali, e il Codice della privacy
dovrebbe disciplinare, a valle, il trattamento dei dati lecitamente acquisiti.
Ma gli intrecci fra le due normative sono, nondimeno, numerosi, in virtù del
rapporto di continenza, concettuale e giuridica, esistente fra la normativa generale in
tema di privacy, e le norme statutarie (non a caso fatte espressamente salve, onde
evitarne una possibile abrogazione implicita). Infatti, la “raccolta” dei dati, cui
guardavano le norme statutarie, è una delle possibili manifestazioni del più ampio
concetto di “trattamento” (cfr. l’art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 196/2003).
Ne segue, da un lato, che il Codice ha potuto integrare, anche sul loro stesso
terreno, i limiti statutari, aggiungendo ulteriori condizioni di liceità per il trattamento dei
dati313; e, dall’altro, che, in caso di raccolta di dati non rispettosa delle norme statutarie,
anche la normativa a protezione della privacy risulta, ad un tempo, violata314.
Al pari delle norme statutarie, insomma, anche quelle del Codice sembrano in
grado di inserirsi agevolmente, e pur da una prospettiva “generale”, nel regolamento
contrattuale; e, del resto, lo schema titolare/interessato, proposto dal Codice, si attaglia
perfettamente
alla
relazione
datore/dipendente,
propria
del
rapporto
di
lavoro
subordinato, al di là del fatto che essa preesista all’ulteriore rapporto che si attiva nel
momento in cui i dati personali del lavoratore cominciano ad affluire nella sfera di
conoscenza del terzo/datore di lavoro.
Ciò premesso come inquadramento sistematico, non è certo il caso di scendere ad
un esame analitico della normativa in discorso315, se non, come consueto, limitatamente
a riflessioni di “struttura”. Al riguardo, a prescindere dalla previsione di un ricco
apparato di diritti strumentali (i c.d. diritti informatici)316, l’impianto precettivo sembra
pur sempre poggiare su un divieto di base, avente ad oggetto il trattamento dei dati
personali altrui, la cui rimozione è possibile, ma soltanto all’interno di un sofisticato
dispositivo di pesi e contrappesi.
La regola generale, infatti, è quella per cui il trattamento richiede un’espressa e
specifica manifestazione di consenso da parte dell’interessato, che nel caso è il
lavoratore317; un consenso che, nel caso di “dati sensibili”318, deve essere scritto, nonché
preceduto da un’autorizzazione, pur di solito “generale”, del Garante319.
Così, ad esempio, il Provvedimento generale sulla videosorveglianza nei luoghi di lavoro, emanato dal
Garante in data 29 aprile 2004 (ex art. 12, comma 1, d.lgs. n. 196/2003), ha aggiunto nuovi limiti sostanziali a quelli già
derivanti dall’art. 4 St.lav.
314
Cfr. Aimo 2003, 148-149, argomentando correttamente dall’art. 11, comma 1, lett. a), del d.lgs. n.196/2003, su
cui infra, nel testo.
315
Cfr. Aimo 2003, 133 ss.
316
V. Aimo 2003, 322 ss.
317
Art. 23, commi 1-3. V. Chieco 2000, spec. 35 ss.
318
Idonei a rivelare (art. 4, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 1967/2003) – l’elenco è considerato tassativo - “l’origine
razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti,
313
48
Ove non può non colpire, nell’ottica lavoristica, che, a differenza dei diritti di
riservatezza di “vecchia” generazione, assolutamente indisponibili, i diritti di nuovo conio
siano stati configurati come ordinariamente disponibili320, quand’anche abbiano ad
oggetto quei “dati sensibili”, il cui trattamento potrebbe essere finalizzato all’effettuazione
di atti discriminatori321. Peraltro, una meccanica estensione ai diritti in discorso
dell’ordinario regime di indisponibilità sarebbe stata impraticabile, non dovendosi
neppure dimenticare, con riguardo ai dati sensibili, la valenza integratrice (degli obblighi
legali) assolta, con riguardo ai dati sensibili, dall’autorizzazione del Garante, nonché, per
tutti i dati personali, dai Codici di deontologia e buona condotta promossi o adottati dal
medesimo Garante (art. 12, comma 1)322.
A tale regola, gli artt. 24 (per i dati comuni) e 26, comma 4 (per quelli sensibili),
apportano una serie di eccezioni, relative ai casi nei quali il trattamento può essere
effettuato anche senza consenso
323.
Ma la non necessità del consenso, così come
l’espressione dello stesso ove è richiesto, non comportano, a loro volta, che al titolare
venga lasciata una totale libertà nel trattamento dei dati. Gli è, invece, che il
bilanciamento degli interessi, pazientemente perseguito dalla normativa, si ripropone ad
un ulteriore livello, caratterizzato dall’operatività, in senso limitativo della libertà di
trattamento, del generale principio di “finalità”, nelle sue diverse articolazioni324.
L’apparato è completato da norme rivolte alla tutela, che delineano una sorta di
micro-sistema di responsabilità civile325. In forza di esse, il trattamento illegittimo di dati
personali viene, anzitutto, neutralizzato, attraverso la previsione dell’inutilizzabilità dei
dati medesimi326, e, in secondo luogo, sanzionato, mediante l’affermazione della
sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale”, nonché “lo stato di
salute e la vita sessuale”: ove è palese la tendenziale coincidenza delle informazioni, oggetto di tali dati, con i fattori “di
rischio” protetti dalla normativa antidiscriminatoria in precedenza vagliata.
319
Art. 23, comma 4. V., da ultimo, l’Autorizzazione n. 1/2006, rilasciata con Provvedimento del 21 dicembre
2005. In argomento, v. Chieco 2000, 141 ss.
320
Cfr. infatti Chieco 2000, 19, il quale aggiunge, peraltro, che “non di meno è da rimarcare il significato di
principio dell’attribuzione al lavoratore del diritto di diniego alla raccolta ed al trattamento dei propri dati”. Sulla
capacità del lavoratore di poter disporre effettivamente della propria riservatezza in un rapporto caratterizzato da
dislivelli di potere, v. Faleri 2000, 327-333.
321
V. Rodotà 1992,196.
322
Ed il cui rispetto è “condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali” (art.
12, comma 3).
323
Due fra essi, in particolare, sono da porre in risalto: il caso in cui (v. art. 24, lett. a-b, e art. 26, comma 4, lett.
d) il trattamento è necessario per adempiere obblighi derivanti dalla legge (anche, si aggiunga, a titolo di
eterointegrazione del contratto), o da un contratto del quale è parte l’interessato, ove si conferma l’intreccio sistematico
col contratto di lavoro subordinato; e il caso in cui (art. 24, lett. f), e art. 26, comma 4, lett. c) il trattamento è necessario
“per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria”, ove sembra affacciarsi, in un sostanziale parallelismo rispetto
alla lettura giurisprudenziale della normativa statutaria, il concetto di trattamento “difensivo”. A tali ipotesi
corrispondono le eccezioni all’obbligo di informativa, di cui all’art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 196/2003. V. in
argomento Aimo 2003, 147 ss.
324
Art. 11, comma 1. V. Aimo 2003, 147 ss.; Chieco 2000, 91 ss.
325
V. Aimo 2003, 336 ss., riprendendo Comandè 1999.
326
Art. 11, comma 2.
49
responsabilità civile di chi (titolare o responsabile del trattamento) ha cagionato danni ad
altri (in primis, all’interessato) per effetto del trattamento di dati personali327 (art. 15,
comma 1).
E’ significativo, altresì, che detta responsabilità sia di natura oggettiva, in forza
dell’espresso richiamo dell’art. 2050 c.c. Ciò comporta che rimane addossato al datore di
lavoro, nel caso, di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (a partire
dalla prova – peraltro non sufficiente ad esonerarlo da responsabilità328 - che i dati sono
stati trattati legittimamente). Ove non può non colpire, in un’ottica di sistema,
l’occasionale penetrazione nel contratto di una regola di imputazione della responsabilità,
di solito riservata ad altri campi; l’impatto pratico di tale “anomalia” non deve essere,
peraltro, sopravvalutato, l’ambito della prova liberatoria ex art. 2050 non essendo poi
troppo dissimile da quello previsto dall’art. 1218. E, in ogni caso (per quanto
l’interrogativo rivesta un rilievo esclusivamente teorico), il richiamo formale della
disposizione sulla responsabilità per attività pericolose non pare in grado di determinare
una fuoruscita dell’apparato obbligatorio de quo dall’area del regolamento contrattuale.
Né suscita sorpresa, per motivi che ormai dovrebbero essere chiari, l’espressa previsione
di risarcibilità del danno non patrimoniale329.
11. Professionalità.
Ove si consideri che già nel remoto 1963 Gino Giugni, sviscerando la debole
disciplina dell’art. 2103 di allora, e in specie riflettendo sui limiti all’esercizio dello ius
variandi,
parlava di “posizione sostanziale” o “morale” del lavoratore330, sarà difficile
stupirsi del fatto che la componente “personale” della tutela della professionalità sia
divenuta, in un’evoluzione che ha avuto per protagonista, soprattutto, la giurisprudenza,
sempre più preponderante.
Ciò è avvenuto, segnatamente, attraverso un lento ma inesorabile processo di
mutamento genetico della posizione soggettiva del lavoratore ex art. 2103, che, partendo
dal danno, ha proceduto a ritroso sino a penetrare nel cuore della fattispecie.
D’altra parte, che il sommovimento prendesse le mosse dall’apparizione del “danno
professionale”,
era
pressoché
inevitabile.
La
verità
è
che,
non
producendo
il
demansionamento, di norma, pregiudizi patrimoniali diretti (al fine di scongiurare i quali
l’art. 2103 ha previsto un’autonoma garanzia di irriducibilità della retribuzione), la
capacità di impatto del dispositivo protettivo è rimasta a lungo affidata alle sole, incerte,
327
328
329
330
Art. 15, comma 1.
V. Comandè 1999,493, secondo cui la mera .
Art. 15, comma 2.
V. Giugni 1963, 103.
50
potenzialità della tutela specifica, che però, quand’anche sia coronata da successo pro
futuro331, nulla può, per definizione, per il passato.
Di conseguenza, quando, sulla scia della “scoperta” del danno biologico, la
giurisprudenza ha preso a forzare i blocchi che le avevano reso difficile l’accesso al danno
non patrimoniale332, la giurisprudenza sul “demansionamento” ha rappresentato uno dei
capitoli più importanti, in ambito lavoristico, di tale indirizzo, dal quale è poi germinata,
come frutto della riflessione giurisprudenziale sulle ipotesi più gravi di lesione della
professionalità, e quindi in un contesto di forte (e talora, come già denunciato, confusa)
integrazione sistemica fra le varie figure di illecito, la stessa fattispecie del mobbing333.
Lungi da noi seguire, in questa sede, le complicate vicende del danno non
patrimoniale alla professionalità334, e in specie quelle, assai controverse e fra loro
intrecciate, legate alla necessità o no di un’autonoma prova del medesimo ed ai criteri di
quantificazione335. Interessa piuttosto riflettere, come già notato, su come il vento della
monetizzazione, scatenato – per ironico paradosso – dalla scoperta dei profili non
patrimoniali della tutela, ha retroagito sulla connotazione strutturale della fattispecie.
Infatti, accanto ai limiti alla risarcibilità del danno non patrimoniale, un ulteriore
(e seppur più teorico) ostacolo alla praticabilità della tutela risarcitoria in questa materia,
era rappresentato dalle incertezze esistenti in ordine alla natura della posizione
soggettiva. Il fatto che qui, come altrove, il diritto del lavoratore si “nascondesse” in seno
ad un limite, pur inderogabile, apposto all’esercizio del riconfermato ius variandi, non gli
faceva perdere forza sostanziale, ma ne rendeva forse più problematica – a
livello di
mezzi di tutela - la trasposizione nel diritto secondario al risarcimento del danno.
Ciò anche perché, non diversamente da quanto era successo con l’art. 2087, la
persistente convinzione circa l’inesistenza, a monte, di un diritto del lavoratore
all’effettiva esecuzione della prestazione di lavoro, con il conseguente “confinamento” di
Sul tema, a favore del principio di atipicità della tutela specifica, Pagni 2004, spec. 85 ss.
Il che è avvenuto, peraltro, con continue oscillazioni concettuali sulla natura del danno: ad es., per un caso di
ricorso alla categoria del danno alla vita di relazione, v. Cass. 18 ottobre 1999 n. 11727.
333
V. retro, § 5.
334
Rectius, della componente non patrimoniale del danno professionale, avendo esso una natura tipicamente
ancipite (v. ancora infra, nel testo).
335
Circa la quantificazione, la giurisprudenza non può che fare ricorso, alla fine, al criterio equitativo (di
massima rapportato ad una percentuale variabile della retribuzione), ma dal modo in cui ne argomenta l’impiego, si
riesce a capire, sia pure a fatica (la massima essendo spesso traditrice), quanto essa sia vicina ad una logica di
automatismo del danno (concepito come mera conseguenza della accertata lesione del diritto), o quanto, invece, essa sia
protesa alla ricerca di quell’araba fenice, che non molti hanno sinora avuto la ventura di trovare, che è la prova del
danno professionale, rigorosamente inteso come danno-conseguenza. Per esplicitazioni, o quasi, della tesi del danno in
re ipsa, v. ad es. Cass. 16 agosto 2004 n. 15955; Cass. 26 maggio 2004 n. 10157, D&L, 2004,343; Cass. 6 novembre
2000 n. 14443; Pret. Firenze 8 aprile 1994, Toscana lavoro giur., 1994, 381. Per la diversa tesi (ma della quale, come si
accennava, non è sempre facile intendere gli effettivi risvolti pratici), della necessità di una dimostrazione (anche
presuntiva) del danno, fatta salva l’alea della quantificazione giudiziale, v. ad es. Cass. 28 maggio 2004 n. 10361; Cass.
14 novembre 2001 n. 14199; Trib. Milano 10 giugno 2000, OGL, 2000,I,367; Pret. Roma 10 giugno 1999, LPO,
1999,1888. Il prevedibile accoglimento di quest’ultima tesi, da parte di Cass., Sez. un., 24 marzo 2006 n. 6572, non
sopirà, probabilmente, le inquietudini suscitate da questo arduo nodo ricostruttivo.
331
332
51
tale vicenda dell’obbligazione nell’area della cooperazione creditoria336. E anche se il
creditore in mora sarebbe stato pure tenuto, in teoria, a risarcire i danni derivanti dalla
mora medesima (art. 1207, comma 2), la convinzione sottostante era che, una volta
assicurata la permanenza dell’obbligo retributivo (art. 1207, comma 1), tali danni non
fossero in radice configurabili. Ciò, con una certa circolarità fra le vicende genetiche e
funzionali del rapporto obbligatorio.
Ma, da allora in poi, la dinamica interna della posizione soggettiva del lavoratore,
innescata dalle nuove opportunità risarcitorie, è stata inesorabile.
Anzitutto, la prospettiva del risarcimento ha dato occasione alla giurisprudenza di
precisare la qualificazione di tale posizione in termini di diritto soggettivo ex contractu,
dal cui inadempimento, per l’appunto, si fa discendere la pretesa secondaria337.
Di tale diritto, la giurisprudenza tende costantemente ad enfatizzare – tessendo un
filo diretto fra l’art. 2103 e l’art. 2 Cost. - la componente non patrimoniale, ovvero la
natura di diritto fondamentale, avente ad oggetto la libera esplicazione della personalità
del lavoratore nel luogo di lavoro, secondo le mansioni e con la qualifica spettantegli per
legge o per contratto338. Ciò non significa che le conseguenze dell’illecito si esauriscano
su tale terreno: anzi, lo “sblocco” della via risarcitoria ha permesso di isolare nuovi profili
di danno (in tutto o in parte) patrimoniale, come quello derivante dall’impoverimento
della capacità professionale acquisita dal lavoratore, il danno da perdita di chance e il già
menzionato danno all’immagine professionale339.
In secondo luogo, l’enucleazione di un diritto, risarcibile in caso di lesione, ha
inevitabilmente condotto la giurisprudenza, attraverso un’operazione esemplificabile
nell’impiego dell’argomento a fortiori, a configurare il medesimo danno, oltre che nelle
ipotesi di assegnazione a mansioni non equivalenti alle ultime effettivamente svolte340,
anche
in
quelle
in
cui
il
prestatore
di
lavoro,
anziché
essere
semplicemente
demansionato, è lasciato inattivo, o è comunque emarginato (in odore di mobbing) dalla
vita lavorativa ed aziendale341.
V. classicamente Grezzi 1965. Sul tentativo di porre a carico del datore di lavoro un obbligo a far lavorare,
anziché l’onere di porre in essere quell’attività di cooperazione necessaria a rendere possibile l’esecuzione della
prestazione, v., più di recente, le conclusioni negative raggiunte da Speziale 1992.
337
Cfr. ad es., in motivazione, Cass. 14 novembre 2001 n. 14199.
338
V. Cass. n. 10157 del 2004, cit.
339
Cfr. ancora, ex multis, Cass. n. 10157 del 2004, cit.; Cass. 14 novembre 2001 n. 14199.
340
L’analisi della nozione di “equivalenza” professionale non è qui oggetto di specifica analisi. Nondimeno, non
sembra superfluo osservare, riprendendo una delle linee tematiche della trattazione, che attraverso la nozione
“soggettiva”, o “dinamica”, di equivalenza professionale (v., ad es., Cass. 11 aprile 2005 n. 7351; Cass. 30 luglio 2004
n. 14666; Cass. 11 giugno 2003 n. 9408),la giurisprudenza si è aperta un qualche varco nei confronti di elementi
conoscitivi esterni al sistema giuridico. Ciò in quanto il “valore” di una posizione professionale è difficilmente
accertabile, prescindendo dal concreto contesto organizzativo, nonché dal “sapere” organizzativo, che di quel contesto è
la linfa.
341
V., ad es., Cass., sez. III, 27 aprile 2004 n. 7980; Cass. 14 novembre 2001 n. 14199..
336
52
Tanto non equivaleva ancora a configurare un diritto all’esecuzione della
prestazione lavorativa, bensì soltanto il suo (e pur non del tutto corrispondente, in
quanto, ad esempio, un minimo periodo di inattività comporta, a rigore, una lesione
dell’ipotetico diritto, ma non anche un danno342) riflesso rovesciato. Ma, per giungere a
tale conclusione, il tratto era ormai breve, e non stupisce che la
giurisprudenza di
legittimità l’abbia compiuto, affermando in numerose occasioni che la prestazione
dell’attività lavorativa deve considerarsi oggetto, non soltanto di un obbligo, ma anche di
un diritto343.
La tenuta dogmatica di tale costruzione attende ancora di essere sottoposta ad
una rigorosa verifica. Ma ci si accontenti, in questa sede, di aver ricostruito la dinamica
essenziale della posizione soggettiva in esame, e di aver posto in evidenza come la vera
forza propulsiva di essa sia stato un valore personale, che ha trovato nell’art. 2103, letto
in chiave costituzionale, uno scorrevole canale di espressione giuridica.
Ma l’analisi non sarebbe completa, se non si tenesse conto di un’ulteriore
tendenza evolutiva del sistema, che, in verità, si è manifestata soltanto debolmente sul
terreno positivo, ma in direzione della quale cospirano una serie di indizi precisi e
concordanti (oltre che gravi, ove si pensi alla drammaticità del problema occupazionale).
Si allude a una teorizzazione dottrinale che, rivisitando in qualche modo la vecchia
lettura “propulsiva” dell’art. 13 St.lav.344, ha cercato di far “reagire” sul concetto di
professionalità, previa collocazione del medesimo nel cuore dell’obbligazione lavorativa, e
un’interpretazione evolutiva della garanzia costituzionale del diritto al lavoro (la cui
premessa è appunto la riaffermazione delle valenze personalistiche del lavoro), e il nuovo
rilievo assunto, nell’ambito delle organizzazioni post-fordiste, dall’adattabilità del
lavoratore, e quindi della formazione come strumento principe della medesima345. Ciò con
l’obiettivo di dimostrare, attraverso riferimenti positivi incentrati (oltre che sull’art.
2103346) su quella norma dalle “nove vite”, che ormai si è rivelata essere un art. 2087
rilanciato dal mobbing347, l’esistenza (non già di un diritto incondizionato alla formazione,
bensì) di un misurato dovere di “manutenzione” della professionalità, a fronte di
modifiche introdotte dall’imprenditore nell’organizzazione del lavoro.
La tesi ricordata (che rovescia lo schema per cui l’esistenza di un contratto con
causa formativa, come l’apprendistato, implicherebbe a contrario l’inesistenza “normale”
di un diritto alla formazione) interessa soprattutto come indizio di un processo di
342
343
344
345
346
347
Per un caso del genere, v. Pret. Milano 28 marzo 1997, D&L, 1997,791.
V., ad es., Cass. 14 novembre 2001 n. 14199; Cass. 4 ottobre 1995 n. 10405; Cass. 15 luglio 1995 n. 7708.
Per la quale v. Romagnoli 1972.
V. Alessi 2004.
V. Alessi 2004, 107 ss., e ivi, 117 ss., sui profili della tutela.
V. Alessi 2004, 123 ss.
53
crescente
rilevanza
giuridica
dell’interesse
alla
formazione,
del
quale
hanno
rappresentato un primo riconoscimento positivo i congedi di cui agli artt. 5 e 6 della legge
n. 53/2000.
Rimane incerto, peraltro, sino a che punto il rapporto di lavoro sia in grado di
reggere il peso di queste nuove imputazioni giuridiche, potendosi invece pensare che esso
debba essere spostato, oltretutto più efficacemente rispetto agli odierni fattori generatori
di bisogno, sul versante di diritti sociali “di nuova generazione”, orientati ad una “vera”
protezione del lavoratore nel mercato del lavoro348. E’ una prospettiva suggestiva, della
quale, però, rimangono ancora sfuocati, anche alla luce della realtà istituzionale del
mercato del lavoro italiano, i contorni.
12. Non di solo lavoro.
Una ricognizione delle valenze personalistiche inerenti al rapporto di lavoro
sarebbe, più che incompleta, concettualmente contraddittoria, se si limitasse a concepire
la persona attraverso la lente del dovere di astensione, ossia come un’entità che deve
essere oggetto di rispetto assoluto anche nel lavoro e nonostante esso (e ciò pure come
espressione – nel caso della tutela della riservatezza – di una garanzia di libertà
negativa349).
Tale istanza di rispetto è, ovviamente, preliminare, ma già il tema della
libertà di espressione350 ci ha ricordato come la persona (o il liberale, e per questo da
molti non amato, “individuo”) sia anche un soggetto di scelte, molte delle quali sono
scelte fondamentalmente libere.
E’ in questa proiezione esistenziale del concetto di “persona” che si radica, del
resto, la tradizionale opzione lessicale (per tale aspetto moderna) di imputare i diritti in
discorso alla “personalità”, intesa come lo svolgersi della persona351.
Si è consapevoli che evocare il concetto di libertà potrebbe condurci molto, troppo,
lontano, e precisamente nel cuore del dibattito, peraltro discontinuo, in merito alla
ridiscussione dei valori fondativi del diritto del lavoro. Chi scrive è da tempo persuaso,
infatti, che il valore “libertà” sia destinato ad acquisire, nel patrimonio assiologico della
materia, una crescente importanza, non in antitesi, ma accanto – in una relazione,
peraltro, assai più problematica, in quanto anche potenzialmente conflittuale, di quanto
talora venga ritenuto352 – al principio di eguaglianza353, né tanto meno in antitesi ai
Sul tema, anche in chiave risarcitoria (argomentando dalla risarcibilità degli interessi legittimi), v. Pedrazzoli
2004, XXXIII ss.
349
Cfr. la sistematica proposta da Aimo 2003, 37 ss.
350
V. retro, § 5.
351
V. Rescigno 1990, 3.
352
Ad esempio, con la riproposizione, analiticamente e storicamente non soddisfacente (v. Ballestrero 2004, pp.
502-503; e cfr. anche Izzi 2005, 4-6, ove l’evocativo appellativo di “revisionista”, a proposito della diversa tesi proposta
da chi scrive), per cui “nessuna contrapposizione è immaginabile fra libertà ed eguaglianza”, trattandosi dei valori “che
348
54
diritti, che la libertà, intesa in senso “sostanziale”354 (cfr., pur sempre, l’art. 3
cpv.),
presuppone355. Tale nuova centralità trova la sua giustificazione di fondo nei processi di
individualizzazione del lavoro postfordista, che tendono a fare uscire dall’orizzonte
antropologico
di
riferimento
il
“lavoratore
subordinato”
come
figura
quasi
metaindividuale, e talvolta appesantita da valenze esterne, e mettono al suo posto, forse
per la prima volta, il lavoratore-uomo o donna, aspirante a una capacità di scelta, che
riguarda anzitutto la sfera delle sue decisioni economiche356.
Ma perché evocare, in questo stadio della ricerca, la libertà? Perché un concetto
evoluto di tutela della persona non può comprendere soltanto le garanzie di rispetto e
pure di libertà (di manifestazione del pensiero, religiosa, sindacale) della medesima nel
lavoro, ma deve estendersi anche alla libertà di compiere scelte che escludano, più o
meno temporaneamente, il lavoro, e si rivolgano – condizioni materiali permettendolo - ad
altre mete esistenziali.
Non
si
sta
parlando,
sarà
superfluo
precisarlo,
dell’amara
“libertà”
del
disoccupato, bensì del fatto che, se il lavoro viene riguardato dalla prospettiva delle
libertà e delle vite individuali, non può non risaltare che esso è, non esclusivamente ma
forse prima di ogni altra cosa, la fonte di produzione di un reddito, e quindi, in primis,
un’attività economica. E’ in questa aspirazione al reddito che il lavoratore deve essere
primariamente tutelato, oltre che nei confronti di possibili lesioni ed invasioni della sfera
personale. Giacché, se la tutela si focalizza sulla persona, non potrà che esserne oggetto
il lavoro come mezzo, e non il lavoro come fine.
La dimensione della realizzazione di sé attraverso il lavoro, sulla quale sono stati
versati fiumi di parole, rimane invece una dimensione prevalentemente personale ed
esistenziale. Sarà l’individuo, nel contesto della propria individuale esistenza, ad
attribuire al lavoro il suo appropriato valore. Ciò non significa per nulla, beninteso,
mettere in questione indirizzi come quello sulle protezione della professionalità come
prerogativa tesa all’esplicazione della persona357; bensì che ciò di cui l’ordinamento deve
preoccuparsi, il più estesamente ed efficacemente possibile, è che le condizioni
stanno a fondamento della democrazia”. Al che mi sento di replicare con le parole di Veca 1991, 196-197: “L’idea che
la libertà non fosse in tensione con l’eguaglianza e la fraternità è stata propria delle tradizioni socialiste e comuniste
che hanno reagito alla lacerazione individualistica. Noi sappiamo, ora, che ciò non è vero.” Il che non significa
proporre il ritorno ad un’eguaglianza in senso meramente formale, bensì semplicemente non cessare di ricercare
accettabili combinazioni fra libertà ed eguaglianza.
353
Per l’illustrazione generale di tale prospettiva, mi permetto di rinviare a Del Punta 2004a.
354
Su tale concetto, v. la riflessione di Mari 2002.
355
V. Mari 2002, 236. E’ mia opinione, fra l’altro, che proprio in una prospettiva di integrazione concettuale fra
libertà e diritti potrebbe essere ritematizzato quello iato fra “libertà” ed “autonomia”, che costituisce uno dei grandi
punti di criticità della riflessione liberale (si veda, al riguardo, l’impegnativa riflessione di Santoro 1999), e potrebbero
darsi le condizioni di una riconciliazione fra il diritto del lavoro e gli indirizzi più maturi e socialmente sensibili del
pensiero liberale moderno.
356
Il riferimento è, ovviamente, a Sen 2000.
357
V. retro, § 11.
55
complessive entro le quali il lavoro viene prestato siano (non soltanto compatibili col
rispetto minimale della persona, ma anche) quelle più favorevoli a tale attribuzione di
senso.
E tanto implica,ex multis, riscoprire un’”idea” di lavoro esente da appesantimenti
metafisici358, e aprirsi alla riflessione filosofica359 e sociologica360 sul disincanto del lavoro
e sulla riscoperta del tempo di vita; nonché, nel più limitato orizzonte del presente
saggio, e all’interno del quadro di riferimenti delineato, capire con quali aperture e
modalità (certo ancora deludenti, se rapportate al rilievo dei valori implicati361)
l’ordinamento tenga conto della più ampia “proiezione” esistenziale del lavoratore.
La prima di tali modalità è ovviamente quella del diritto alle varie forme di “riposo”
previste dall’ordinamento (riordinate, allo stato, dal d.lgs. n.66 del 2003), alle quali è
sottesa non soltanto una finalità di tutela della salute, ma anche l’esigenza di garantire
al lavoratore “la libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana”362. Di
tale istanza “esistenziale” la riflessione giuslavoristica è stata sempre consapevole, pur
tradizionalmente
ravvisandola
più
garantita
nel caso
delle
pause
giornaliera
e
settimanale, che in quello delle ferie363.
Eppure, è stato proprio per le ferie, che la Corte Costituzionale ha consentito di
compiere, nella sentenza dichiarativa della parziale illegittimità dell’art. 2109 c.c.364, un
importante salto di qualità, che si è condensato in due passaggi logico-giuridici
strettamente consequenziali365: il primo è stato l’insistenza sull’effettività della protezione
del diritto alla reintegrazione delle energie fisiche e psichiche, inteso come ratio
dell’istituto feriale, sì da farlo evolvere nel diritto (non già ad un “riposo”, bensì) ad un
tempo “privato”, id est libero dal lavoro; il secondo è stato la traslazione sul datore di
lavoro del rischio inerente ad un evento tipico, come la malattia, nella misura in cui esso
è suscettivo di minare la suddetta effettività366.
Analoghe valenze protettive sono sottese agli altri riposi previsti dall’ordinamento,
dei quali la giurisprudenza ha cercato di tutelare in vario modo l’effettività, e la cui
V. Arendt 1989.
V. Méda 1997; Totaro 1998.
360
V. De Masi 1999 e 2003.
361
Ma non è solo questione di valori “contrapposti” alla libertà d’impresa, bensì anche di provare a dirigersi
verso una nuova e comune (o comunque più cooperativa) idea del rapporto fra lavoratore e impresa: si provi a guardare,
in questa ottica, al grande tema della conciliazione fra il lavoro e la maternità.
362
Così Cass. 3 luglio 2001 n. 9009.
363
Ciò (si veda Mancini 1957, 155-156),a motivo della previsione di sanzioni penali (successivamente
derubricate ad amministrative).
364
V. Corte Cost. 30 dicembre 1987 n. 616, RIDL, 1988,II, 297, con osservazione di Pera.
365
Nella stessa direzione di cui al testo, ha proceduto il pur diverso principio, affermato da Cass., Sez .un. ,12
novembre 2001 n. 14020, RIDL, 2002, II, 557, con nota di Santoni) a composizione di un annoso contrasto, in virtù del
quale il diritto alle ferie non si contrae proporzionalmente in ragione dei giorni di malattia intervenuti durante l’anno.
366
V., in argomento, Del Punta 1992, 89 ss. Più di recente, l’ordinamento si è spinto ancora oltre su questa strada,
trasferendo sul datore di lavoro anche il rischio inerente alla malattia del figlio di età non superiore a otto anni (art. 47,
comma 4, d.lgs. n. 151 del 2001).
358
359
56
lesione, non per caso, ha cominciato ad attirare (e nulla fa pensare che ciò non accadrà
anche per le ferie) nell’orbita del danno già esistenziale, e ora non patrimoniale367. Ciò,
peraltro, senza alzare la guardia sul fronte del divieto di monetizzazione (che oggi, sempre
per le ferie, può contare su un risolutivo supporto legislativo368), nonché, a mali estremi,
sulla priorità del risarcimento in forma specifica369.
Anche il diritto ai “riposi” è dunque entrato, sia pure con discontinuità,
nella
corrente trasversale del danno non patrimoniale. E ciò, in ultima analisi, proprio in virtù
della sua natura assoluta370, la percezione della quale ha consentito la messa da parte
dei pur persistenti dubbi sulla possibilità dogmatica di inserire il riposo all’interno di una
visione contrattualistica del rapporto di lavoro. Il riposo, infatti, non è oggetto di una
posizione debitoria del datore di lavoro, ma si profila piuttosto come un limite esterno
all’estensibilità temporale della prestazione lavorativa.
Eppure, l’ordinamento si è espresso ripetutamente, ad ogni livello, in termini di
diritto, essendo ciò giustificato, sul piano della struttura obbligatoria del contratto, e
quanto meno per le ferie, anche dalla ripresentazione sotto forma di pretesa creditoria del
limite esterno in discorso, nel momento in cui la fruizione del riposo presuppone un atto
datoriale di individuazione del relativo periodo, che diviene oggetto, quindi, di uno
specifico obbligo.
Ma, quale che sia l’inquadramento prescelto, che cioè si concepisca l’eventuale
illecito come inadempimento dell’obbligo a proteggere il bene del riposo, o come lesione di
tale bene, le prospettive di tutela non sembrano divaricarsi particolarmente, considerata
la crescente contaminazione, sotto l’egida costituzionale, fra i campi della responsabilità
contrattuale ed extra-contrattuale.
L’altra e più dinamica proiezione del tema è quella delle ipotesi di legittima
sospensione della prestazione lavorativa, che rappresentano il limite della penetrazione,
all’interno del regolamento contrattuale, di interessi legati a scelte o situazioni personali
del lavoratore371.
Al di là della malattia372, “laboratorio” quotidiano della categoria, e per limitarsi
alle figure di fonte legale, si distende una gamma ormai vasta di altre ipotesi, dalle quali
si desume – e pur nel costante bilanciamento con l’interesse datoriale – il riconoscimento
V., ad es. , Cass. 3 luglio 2001 n. 9099. Sulla natura risarcitoria, e non retributiva, dell’attribuzione
patrimoniale riconosciuta al lavoratore per il lavoro prestato nel settimo giorno consecutivo, v. Cass. 26 gennaio 1999 n.
704.
368
Sull’art. 10 del d.lgs. n. 66/2003, v. , anche per gli indispensabili riferimenti, Del Punta 2004b.
369
V. Cass. 21 febbraio 2001 n. 2569, RIDL, 2002,II, 87, con nota di Lazzeroni, che si è richiamata all’art. 2058
c.c.
370
Cfr. già Smuraglia 1967, 176 ss., e, con riferimento specifico alle ferie, Sandulli 1989, 3.
371
In generale sul tema, v. Calafà 2004, 123 ss.; Cinelli 1984; Dell’Olio 1998; Del Punta 1992.
372
Sulla quale v. pur succintamente retro, § 4.
367
57
giuridico di una variegata serie di interessi, peraltro tutti connotati, in qualche modo, dal
crisma costituzionale373, e sia pure con diversi livelli di protezione374.
La fotografia “dall’alto” è quella di un rapporto men che mai chiuso in un recinto,
ma
che
contempla,
viceversa,
crescenti
livelli
di
interscambio
con
altri
valori
costituzionalmente tutelati375. Pare ormai da superare, alla luce di tale dato di tendenza,
la risalente separazione teorica, intessuta di una presunta diversità (manco a dirlo)
“ontologica” 376, fra il tema delle “sospensioni” e quello delle “pause” dal lavoro. In realtà,
soprattutto alla luce dell’evoluzione “causale” registrata dai (tradizionalmente detti)
“riposi”, v’è in entrambe le situazioni un denominatore comune, rappresentato dalla
permeabilità del rapporto ad interessi diversi da quelli inerenti all’esecuzione della
prestazione di lavoro.
Ed è da domandarsi, altresì, se sia ancora pertinente ritenere, dal punto di vista
teorico, che tali contenuti siano riassorbiti all’interno di un’accezione ampia del
“programma” contrattuale377, o non vederli, invece, per quello che esteriormente
sembrano, ossia contenuti radicalmente e irriducibilmente personali, che non ampliano
l’ambito del contratto, ma che, piuttosto (e pur dall’interno), si impongono ad esso.
13. Diritti della persona e sistema.
Questa relazione ha proceduto sulla base di un’ipotesi metodologica in qualche
misura “inattuale”: quella che, a dispetto di ogni deriva postmoderna, non sia affatto
tramontato il tempo della riflessione sistematica. Al contrario, proprio la grande
373
Ciò, ovviamente, a partire dalla normativa (in sé esaustiva, ma bisognosa di ulteriori implementazioni in una
logica di azioni positive mirata sulle diverse realtà aziendali) rivolta a conciliare il diritto alla maternità ed alla paternità,
anche non naturali, e le conseguenti esigenze di protezione della salute del bambino, con il diritto al lavoro (art. 31,
comma 2, e 37, comma 1, Cost.), per proseguire con le aspettative e i permessi per lo svolgimento di funzioni pubbliche
elettive (art. 51, comma 3), i permessi per motivi elettorali, i congedi per eventi e cause particolari di natura personale
(artt. 29-31), e infine, nel capitolo dei doveri di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., i riposi giornalieri per i donatori di
sangue, i permessi per i donatori di midollo osseo, e la poco nota aspettativa per lo svolgimento di attività di
volontariato nei paesi in via di sviluppo.
374
Come può trarsi da uno sguardo sinottico alle diverse componenti strutturali della fattispecie sospensiva (per
un panorama aggiornato, v. Del Punta 2006): modalità di produzione dell’effetto sospensivo, se sulla base di una mera
attestazione dell’evento tutelato nella sua oggettività, ovvero dell’esercizio di un diritto potestativo condizionato alla
sussistenza del presupposto, e talvolta anche all’inesistenza di esigenze aziendali ostative; intensità della protezione
dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, limitato alla (doverosa) giustificazione dell’astensione dal
lavoro, ovvero esteso (come nel caso della lavoratrice madre) ad un vero e proprio divieto di recesso nel periodo
protetto; estensione temporale di tale protezione; riconoscimento o no della retribuzione, pur in assenza della
prestazione corrispettiva, e/o di una prestazione previdenziale integrativa o sostitutiva.
375
Un’altra ipotesi significativa è quella del contratto a tempo parziale (d.lgs. n. 61 del 2000, come novellato
dall’art. 46 del d.lgs. n. 276 del 2003), per ciò che concerne la protezione dell’interesse del lavoratore alla
predeterminazione del proprio impegno orario, realizzata attraverso la regola di cui all’art. 2, comma 2, e le limitazioni
– per quanto attenuate dalla novella del 2003 (cfr. soprattutto l’art. 8, comma 2-ter) – alla stipulazione di clausole
elastiche o flessibili (art. 3, commi 7-9). Che l’interesse protetto, nella circostanza, sia anche “esistenziale”, si desume,
se non da altro, dalla previsione di uno specifico risarcimento del danno (nel caso di un impiego del lavoratore non
rispettoso dei limiti di cui sopra), che ha tutte le stimmate (arg. ad es. dal riferimento ad una valutazione equitativa) del
danno non patrimoniale (art. 8, commi 2 e 2-bis).
376
Per la critica di tale distinzione, e sia pure in vista di una personale classificazione, v. già Ichino 1984,73 ss.
377
V. ad es. Cinelli 1984, 203 ss.
58
precarietà che affligge numerose aree del sistema giuridico – e il diritto del lavoro in
modo particolare – rappresenta un motivo in più per tornare a coltivare tale dimensione.
In un’epoca in cui intere branche del diritto si stanno profondamente riorganizzando, è
solamente alzando lo sguardo, più di quanto non siamo soliti fare, che possiamo sperare
di cogliere, nel disordine, le tracce di nuove logiche ordinatrici.
Per il diritto del lavoro, una riscoperta della prospettiva macro-sistematica implica,
anzitutto, una nuova tematizzazione del rapporto col diritto civile. E chissà se questo,
pressoché obbligato, confronto col sistema della responsabilità civile, che si è realizzato
nel campo dei diritti della persona, non si rivelerà una “prova generale” di un altro ancor
più delicato, quello col diritto dei contratti378.
Nelle riflessioni preparatorie si era osservato che il dibattito civilistico sui nuovi
danni è stato, in primis, un dibattito sui diritti. Tanto più esso si è rivelato tale, o è
tornato ad esserlo, dopo la rivisitazione “costituzionale” dell’art. 2059, che ha riportato in
primo piano, con le implicazioni problematiche che sono state esaminate, il tema della
selezione e della gerarchia dei beni rilevanti.
Si sarebbe allora tentati di osservare, in prima battuta, che il diritto del lavoro non
aveva nulla da imparare a proposito di diritti, in virtù della sua tradizione culturale e
dell’imponente apparato normativo passato in rassegna, e che l’unica vera novità “di
importazione” – una novità, peraltro, non da poco - è stata quella di affrancare la tutela
risarcitoria dalle pastoie del “vecchio” art. 2059.
Il rilievo non sarebbe, però, esaustivo, e forse neppure giusto, essendovi segnali
del verificarsi, all’interno del sistema in senso vasto (oltre che, come si è visto, nei
continui rimandi reciproci del micro-sistema), di una crescente circolazione dei diritti.
Anzitutto, ha questa implicazione il fatto che la proposta di stabilizzazione del sistema,
provenuta dalle Alte Corti, al di là della difficoltà di determinarne esattamente l’area di
ricaduta, sia stata incentrata sul compimento della valorizzazione privatistica dei diritti
fondamentali, o umani379.
Difatti, nel momento in cui il valore giuridico di persona si rivela tramite il filtro
del diritto fondamentale, le distanze sistemiche interne tendono a ridursi, e tale riduzione
“passa sopra” le peculiarità dei differenti contesti legislativi, specie laddove essi
rappresentano l’espressione di quei diritti. Gli stessi processi argomentativi della
giurisprudenza tendono ad omogeneizzarsi, nella misura in cui le norme legislative –
come, d’altra parte, è doveroso – vengono lette per mezzo di quelle costituzionali. In altre
Se così accadrà, sarà difficile non ripartire da riflessioni come quelle di Mengoni 2004, 53 ss.
Nella misura in cui il primo attributo dei diritti fondamentali è l’universalità: v. Ferrajoli 2001, 6-7. Sulle
ragioni della preferenza terminologica per l’aggettivo “fondamentale”, v. Peces-Barba 1993, 23-24. Sulle basi
filosofiche dei diritti umani, v. Viola 2000.
378
379
59
ipotesi ancora (come nell’elaborazione sulle “libertà” del lavoratore380), l’argomentazione
è, senza mediazioni (tale non è l’art. 1 St.lav.), di natura “costituzionale”, specie nel
ricorso a quella navigazione “a vista”, che è la tecnica del bilanciamento.
C’è chi si preoccupa che l’invasione dei diritti fondamentali “non-specifici”, o “nonsociali”, faccia perdere alla materia la propria “diversità”381. E’ una preoccupazione che
tendo a non avvertire382, essendo convinto che il lavoratore abbia titolo, secondo
Costituzione, ad essere protetto meglio, in relazione ai fattori di rischio che lo sovrastano,
ma non di più, di qualsiasi cittadino. Il diritto del lavoro deve far valere il proprio
inarrivabile know-how personalistico, ad esempio continuando a spiegare quanto il
“personale” si infiltri nel “patrimoniale” (come dimostrato anche dalla diffusione di danni
“misti”, come quello professionale), ma non aspirare ad un differenziale di protezione
“umana”.
Guai, poi, a sottovalutare la forza d’impatto del danno che, in omaggio a Renato
Scognamiglio, si chiamerà “personale”, essendovi stato almeno un caso, quello del
mobbing, nel quale il danno, se si passa l’espressione, ha “creato” il diritto, contribuendo,
più che a far “rivivere” una disposizione dimenticata, a farla vivere per la prima volta383.
Per non dire degli altri diritti pur già riconosciuti, come quelli alla salute384 e alla
professionalità385, ai quali soltanto l’offerta di un mezzo di tutela tanto prosaico quanto,
finalmente, tangibile e concreto, ha permesso di acquisire una piena consistenza
giuridica.
Inoltre, nel caso della privacy386, si è data per la prima volta, se non ci si inganna,
l’emanazione di una
normativa
legislativa
destinata
indifferentemente (al di là
dell’esistenza di sezioni particolari) a tutti i cittadini, come è accaduto anche con il d.lgs.
n. 215 del 2003387.
Non è quindi nel processo di “creazione” dei diritti della persona che deve più
essere ricercata la vera specificità della materia, bensì nella speciale attitudine del
contratto di lavoro a metabolizzarli nella relazione obbligatoria, resa a sua volta possibile
dall’affinità elettiva fra la genesi assoluta e indisponibile di tali diritti e il carattere
V. retro, § 9.
V ad es. Avio 2001, 186 ss.
382
V., anzi, l’acuto rilievo di Del Rey Guanter 1994, 41, secondo cui – non si potrebbe dir meglio – “i diritti
fondamentali non lavoristici sono, paradossalmente, quelli che servono da filo conduttore a tutto l’ordinamento
giuslavoristico, essendo più “comuni” dei diritti lavoristici stessi.”
383
V. retro, § 5.
384
V. retro, § 4.
385
V. retro, § 11.
386
V. retro, § 10.
387
V. retro, § 6.
380
381
60
imperativo e inderogabile delle norme alle quali si deve l’integrazione dei medesimi nel
regolamento contrattuale388.
Per quel che si è potuto osservare attraverso l’analisi condotta, l’inserimento nel
contratto dell’istanza protettiva (con l’art. 2043 a far da utile “riserva”, come nel caso del
licenziamento “ingiurioso”389, e eventualmente, a seconda delle opzioni qualificatorie
accolte, anche in altri) è avvenuto secondo due schemi fondamentali.
Il primo è quello per cui il generale dovere di astensione, che è la forma base del
comando giuridico nel quale ha base la tutela della persona umana390, si è sottoposto ad
una torsione logico-semantica, dapprima specificandosi in un più puntuale obbligo
negativo, a sua volta ulteriormente sviluppato (ove l’esito di tale sviluppo, pur
campeggiando nel precetto dell’art. 2087, è, in realtà, un posterius logico), e al di là delle
polemiche
sull’uso
della
relativa
categoria
dogmatica,
in
termini
di
obbligo
(essenzialmente positivo) di protezione391. In questo caso, grazie alla lettura in termini di
obbligo, prima da parte della dottrina, e poi della giurisprudenza, della posizione
soggettiva descritta dalla disposizione, l’inserimento nel modello di responsabilità
contrattuale si è dimostrato agevole. Lo sblocco delle porte del danno non patrimoniale
ha fatto il resto.
Semmai, la segnalata differenza fra i due modi d’essere dell’obbligo ha continuato
a riverberarsi, pur restando all’interno dello schema dell’art. 1218, in una diversa
estensione degli oneri probatori: quanto l’azione per danno biologico intentata da un
lavoratore infortunato è esemplificativa di una responsabilità quasi-oggettiva, tanto
quella di un lavoratore che si pretenda vittima di una lesione (staremmo per dire
“dolosa”) della salute a causa di comportamenti vari, o di un mobbing “verticale”, tende a
somigliare, nella sostanza, ad un’azione ex art. 2043, e la pur ufficiale irrilevanza
dell’elemento
soggettivo
non
impedirebbe
all’indagine
sul
dolo
o
persino
sulla
preordinazione del datore di lavoro di farla da padrone nel processo (come, non di rado,
accade), se non fosse per lo spregiudicato ricorso alla “bussola” della connessione
funzionale fra i vari inadempimenti concretati da un medesimo fatto storico (ove quelli
più “visibili” riescono, un po’ per magia, a far acquistare visibilità anche agli altri).
Nel secondo degli schemi enucleati, invece, l’istanza della protezione di beni
assoluti si è tradotta dapprima nella predisposizione normativa di limiti all’autonomia
negoziale dell’imprenditore392 e/o al suo potere direttivo. Queste ipotesi, terreno elettivo
388
389
390
391
392
Sulle valenze personalistiche dell’inderogabilità della norma lavoristica, v. per tutti De Luca Tamajo 1976.
V. retro, § 8.
V. Messinetti 1983, 361.
V. retro, § 4-5-7.
Come nel caso dei limiti all’estensione temporale della prestazione: v. retro, § 12.
61
(con riguardo ad atti o poteri tipici) della tecnica dell’invalidità393 e/o dell’inefficacia394,
hanno manifestato però una carenza a livello sanzionatorio, che è divenuta non più
sostenibile allorché, nel paesaggio circostante, ha cominciato a prendere piede il danno
non patrimoniale.
Si è così innescato un processo di mutazione delle posizioni soggettive in esame,
sempre più tese a distendersi, non senza qualche forzatura concettuale, anche sulla
direttrice diritto/obbligo: quello che era un limite allo ius variandi è divenuto un vero e
proprio diritto soggettivo a vedersi assegnate mansioni professionalmente adeguate395, e
quest’ultimo, a propria volta (anche, per quanto si è ipotizzato, come conseguenza
“carsica” di una certa lettura dell’art. 2087396), un diritto “al lavoro”; i limiti all’estensione
temporale della prestazione lavorativa sono divenuti fonte di un non meglio identificato
“diritto” ai riposi397; la violazione del divieto di discriminazione (oltre che delle garanzie di
riservatezza398) è stata dichiarata, dallo stesso legislatore, produttiva di un possibile
diritto secondario al risarcimento del danno non patrimoniale399.
Un’importanza particolare è rivestita da queste ultime disposizioni, essendosi
positivamente realizzata, grazie ad esse, la grande “contaminazione” fra la tecnica
dell’invalidità e quella dell’illiceità, qui assunta come l’indicazione sistematica più
importante emersa dall’analisi, a guisa di scioglimento del paradosso dal quale si sono
prese le mosse. Ove con la suddetta espressione, è appena il caso di ribadirlo, si intende
semplicemente che l’atto invalido si apre ad un’ulteriore possibile qualificazione in termini
di illiceità400.
Un’illiceità, per quanto descritto, fondamentalmente ex contractu. In generale,
infatti, ha accomunato le posizioni soggettive in esame una propensione a evolversi
conformandosi al prototipo dell’obbligo, quasi concepito come un titolo di “cittadinanza”,
ossia come possibilità di accesso allo schema di responsabilità fondato sull’art. 1218,
nella sua faccia risarcitoria. Sì che, per singolare eterogenesi, la pressione proveniente
dal campo della responsabilità extra-contrattuale si è tradotta in una rivalutazione
sistematica dell’art. 1218: e ciò, prima che sul terreno probatorio, su quello della
delimitazione sostanziale delle fattispecie, giacché la comune natura “oggettiva” di tutti
gli illeciti considerati (ferma la rilevanza, come nella normativa antidiscriminatoria401, di
Ad esempio per le discriminazioni (retro, § 6) o i limiti ex art. 2103 (retro, § 11).
Ad esempio per l’illecito esercizio del potere di controllo o la violazione delle regole a protezione della
riservatezza (retro, § 10).
395
V. retro, § 11.
396
V. retro, § 4.
397
V. retro, § 12.
398
V. retro, § 10.
399
V. retro, § 6.
400
Per la piena configurabilità dogmatica di tale doppia qualificazione, v. Irti 2005, spec. 1059-1060.
401
V. retro, § 6.
393
394
62
eventuali “cause di giustificazione”, che tengono luogo della prova liberatoria) ben si
attaglia al modello di responsabilità prefigurato da tale norma.
Ciò non comporta, di per sé (come non l’ha comportata, mediante la conservazione
delle relative norme sostanziali, in materia di privacy402), alcuna rinuncia alle tecniche
sanzionatorie tipicamente lavoristiche; è questo, fortunatamente, un settore nel quale le
addizioni di tutela sono più semplici, pur dovendosi stare attenti a monitorare eventuali
squilibri sistemici (come quelli che potrebbero essere innescati da una corsa incontrollata
ai risarcimenti).
Ve n’è abbastanza per concludere che siamo di fronte ad un importante riassetto
“di sistema”, che è germinato nell’unica area della disciplina che, anche in questi anni
difficili, e quasi come contrappeso al diritto “della flessibilità”, ha continuato a proporre
avanzamenti dal punto di vista dei livelli di protezione o, quanto meno, di tutela (nel
senso proprio del termine).
Di tale riassetto il tratto saliente sembra essersi concretato, ma in una dimensione
che sarebbe riduttivo circoscrivere al danno, avendo coinvolto anche le dinamiche
evolutive delle posizioni soggettive, in una nuova e inusitata saldatura col sistema della
responsabilità civile, dalla quale è però scaturito – sorprendentemente - un complessivo
rafforzamento della protezione della persona. E’ pur vero, si potrà obiettare, che il diritto
del lavoro ha qui preso senza dover dare (a meno che non si consideri uno snaturamento
la maggiore apertura alla tutela risarcitoria). Ma è difficile negare, comunque, la novità
dei segnali che il sistema giuridico ha cominciato a lanciare, che parrebbero confermare
l’ipotesi403 che l’acquisita specialità della materia non sia riuscita ad assurgere al
superiore stadio dell’autonomia sistematica.
Parallelamente, proprio la materia qui trattata ci consegna, per un’implicazione
discendente dalla conformazione interna delle fattispecie considerate, una forte
indicazione di apertura extra-sistematica , rivolta a saperi scientificamente sistematizzati,
saperi tecnici, o meri saperi-esperienza. Se ne hanno riscontri, pur alla rinfusa,
nell’esigenza di un più sofisticato orientamento delle “precomprensioni” a proposito di
fenomeni come il mobbing o le molestie sessuali sul lavoro, nella difficoltà di delimitare
(senza risalire dal diritto alla società) concetti come quello di licenziamento “ingiurioso”,
nella dipendenza del giudizio sulla lesione della professionalità da una comprensione
delle moderne logiche organizzative d’impresa, nelle indagini sul rispetto degli standard
tecnici di sicurezza, e, in fondo, nello stesso accertamento (oltre che nella misurazione)
della malattia e della disabilità.
402
403
V. retro, § 10.
La cui dimostrazione necessiterebbe, peraltro, di un’approfondita riflessione ex professo.
63
Ovunque, segnatamente in questo campo, alle valutazioni giuridiche tendono ad
intrecciarsi e sovrapporsi valutazioni non giuridiche, che debbono essere valorizzate, ma
ad un tempo mediate ai fini della loro trasposizione nell’ordinamento. La necessità di tale
mediazione sollecita, peraltro, procedimenti argomentativi sempre più affinati, e segnala
l’esigenza di uno spazio comunicativo pubblico nel quale questa “cifra” - che ritengo
strutturale -, del diritto contemporaneo, possa essere adeguatamente tematizzata e
discussa.
Nondimeno, quanto più si approssima la conclusione, tanto più si acuisce la
sensazione dell’inadeguatezza del diritto ad esaurire in sé un concetto illimitatamente
aperto, come quello di persona, e a rispondere ai grandi interrogativi su dove debbano
tracciarsi le linee ultime di non “contatto” fra i consociati, e su quale prezzo possa darsi
alle lesioni del valore uomo. E’ come se la persona, nella complessità della sua
dimensione esistenziale, sfuggisse sempre al tentativo di afferrarla una volta per tutte.
Ma, pur nella coscienza dei propri limiti, il diritto ha il grande merito di aver accettato la
sfida di accompagnare la persona nella selva delle sue avventure umane, con i
compromessi che inevitabilmente ne sono discesi.
Proprio a tal proposito, una volta segnalata l’esigenza che il diritto del lavoro si
disponga di buon grado ad accogliere gli apporti di chi, sebbene con un secolo di ritardo,
ha imparato ad apprezzare quel valore, si lascerebbe un non detto, se non si aggiungesse
che a nessuno dovrebbe essere concesso di dimenticare o sottovalutare l’importanza
attuale della battaglia giuridica che esso ha condotto in nome della persona.
Non è stata, né ancora sarà, una battaglia facile. Se, come scriveva nel 1797
Immanuel Kant, “l’umanità in se stessa è una dignità, poiché l’uomo non può essere
trattato da nessuno.. come un semplice mezzo, ma deve sempre essere trattato nello stesso
tempo come un fine, e precisamente in ciò consiste la sua dignità, o la sua personalità”404,
converrà ricordare che nessun altra disciplina giuridica si è cimentata di più, e con
maggiore ostinazione, nella sfida, a suo modo “paradossale”, di portare il regno dei fini là
dove è il diritto stesso a consentire che l’uomo possa essere trattato come mezzo.
404
Kant 1991 (ma 1797), 333-334.
64
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