INTRODUZIONE - La Recherche

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INTRODUZIONE
La concezione della tragedia secondo Martello a confronto con le teorie
tragiche del Settecento
Il Settecento è un secolo estremamente vitale dal punto di vista dello studio e
della riflessione sulla letteratura, sulla poesia e sul teatro. Ciò che si ritrova in
molti intellettuali, autori e critici dell'epoca è una generale volontà di
rinnovamento rispetto ai moduli espressivi dell'arte secentesca, considerata
incompatibile con la volontà di riavvicinamento ai classici greci e latini e con
l'incipiente razionalismo di matrice cartesiana che veniva applicato sempre di più
anche alla produzione artistica e letteraria.
In questo lavoro mi occuperò essenzialmente della querelle sul teatro analizzando
l'opera di uno dei più importanti drammaturghi della prima metà del Settecento: il
bolognese Pier Jacopo Martello, il quale si inserisce nel lungo e vivace dibattito
su questioni teatrali attraverso la composizione di due importanti opere critiche
Del verso tragico e Della tragedia antica e moderna, nonché di numerose
tragedie di cui verranno prese in esame l'Edipo tiranno e l'Edipo coloneo.
Il dibattito sul teatro fa parte di una più ampia discussione e analisi della
situazione culturale italiana che, come sostiene Croce, aveva attraversato un
periodo di decadenza, durato per quasi tutto il XVII secolo. In realtà le
affermazioni di Croce sul Seicento sono state riesaminate e almeno parzialmente
smentite dalla critica successiva; è proprio un crociano, Luigi Russo, che attenua
la posizione fortemente negativa del maestro:
questo Seicento, che appare di decadenza in Italia, ha pure il
merito di avere affermato la superiorità dei moderni sugli antichi.
[…] Così il Seicento italiano è un secolo di decadenza, perché del
tutto imbevuto di antistoricismo, ma è al tempo stesso un secolo
rivoluzionario, in quanto volge risolutamente le spalle al passato e
vuole iniziare un'era novella.1
1 Luigi Russo, Novità del Seicento, in Cultura e letteratura del barocco, a cura di R. Dellepiane,
Torino, Società Editrice Internazionale, 1973, pp. 37-38.
1
Il saggio di Russo presenta ancora aspetti di critica ma introduce positivamente la
novità portata dal barocco nell'arte e nella letteratura: il barocco non rappresenta
soltanto una “regressione”, ma inserisce nella tradizione letteraria elementi nuovi
dovuti ad una sensibilità diversa; è lo stesso Dellepiane che mostra l'arte
secentesca in questa prospettiva
il Seicento rappresenterà il punto cruciale e culminante di questa
ricerca di novità esercitantesi, e questo è importante, su una
materia, la tradizione classica, che non si ripudia, ma si vuole
affinare, perfezionare, rendere, come si diceva, sempre più
meravigliosa, in una progressiva identificazione tra il bello e il
difficile.2
Dalla sua “presunta” decadenza, il XVII secolo aveva iniziato a riprendersi a
partire dal 1670 e poi, vent'anni più tardi, con la fondazione dell'Accademia
dell'Arcadia, di cui anche Martello fece parte con il nome di Mirtillo Dianidio. In
questa fase «mentre l'Italia si riposava, altri popoli avevano camminato.
Bisognava, levatisi dal riposo, tenere loro dietro e sforzarsi di raggiungerli»3.
Croce si riferisce in particolare ai francesi i quali potevano vantare, soprattutto dal
punto di vista teatrale, una letteratura più ampia e stilisticamente più matura
rispetto a quella italiana che, all'inizio del XVIII secolo, non possedeva
la
copiosa ed eccellente produzione di Corneille, Racine e Molière.
Gli intellettuali italiani dovettero confrontarsi con la necessità di costituire quasi
completamente ex novo i fondamenti poetici, stilistici e contenutistici di un teatro
che si potesse veramente dire italiano e potesse rivaleggiare con quello francese.
La loro attenzione si concentrò principalmente sulla «costituzione del genere
perfettissimo nel teatro e in tutta la poesia: la tragedia, alla cui riforma e
perfezione più tardi, nel secolo, si operò persino con concorsi, premi, sovvenzioni
di principi».4 Tale affermazione, in relazione a ciò che è stato scritto
precedentemente, permette di comprendere i due grandi problemi del teatro
2 Renato Dellepiane, Dal rinascimento al barocco, in Ivi, pp. 13-16, p.14.
3 Benedetto Croce, La coscienza della crisi secentesca e la rinascita culturale del primo
Settecento, in Antologia della critica letteraria, a cura di M. Fubini, Petrini, Torino, 1963, pp.
2-3.
4 Walter Binni, L'aspirazione al tragico, in Storia della letteratura italiana, vol. VI, a cura di E.
Cecchi e N. Sapegno, Garzanti, Milano, 1969, p. 415.
2
italiano: il confronto con il teatro francese e il suo carattere dotto e decisamente
distante dalle forme più popolari della rappresentazione, come la Commedia
dell'Arte, e da quelle di raffinato intrattenimento musicale come il melodramma.
Ma i drammaturghi, salvo rare eccezioni, si interessavano poco del rapporto con
la scena e con il pubblico e, dato che anche la condanna del melodramma suonava
quasi unanime, la questione principale era quella del paragone con il teatro
francese
rispetto alla quale i teorici e scrittori di poetiche dell'epoca
arcadica si trovarono in una complicata situazione di odi et amo,
attratti dall'innegabile altezza di quel teatro, ma desiderosi di
emularlo e superarlo alla luce della loro spinta alla perfezione dei
modelli greci e delle loro istanze morali, pedagogiche, letterarie
(convenienza, costume, regolarità, verisimiglianza e correttezza)
variamente operanti anche nel rilevare presunti errori e difetti del
teatro francese, soprattutto là dove esso concedeva di più alla
passione amorosa da cui insieme gli arcadi erano attratti, nel loro
fondo sentimentale più schietto, e respinti per la doppia esigenza
di una rappresentazione più educativa e morale e da una
rappresentazione di un mondo di sentimenti più complesso e
universale.5
Il modello francese risultava molto attraente anche per l'arcade Martello che
conosceva la letteratura d'oltralpe, la quale, sebbene pretendesse «il primato sopra
quante provincie ha l'Europa nella professione delle lettere»,6 sembrava
possederlo davvero in ambito drammaturgico, tanto che Martello ammette che
«dobbiamo nelle tragedie con disinteressata ingenuità confessarci ad essi
inferiori».7 A partire da questa presa di coscienza, avvenuta al principio del XVIII
secolo ma comunque non universalmente condivisa, è iniziato un lungo lavoro di
critica e composizione di opere teatrali che ha visto i letterati schierarsi in due
fronti opposti: sostenitori di un ritrovato classicismo e sostenitori di posizioni più
moderne. Martello è stato definito “partigiano dei moderni” in opposizione alle
5 Ivi, p. 415.
6 Pier Jacopo Martello, Del verso tragico, in Scritti critici e satirici, a cura di H. S. Noce,
Laterza, Bari, 1963, p. 151.
7 Ibidem.
3
teorie classiciste di Gian Vincenzo Gravina e Scipione Maffei; soprattutto con
Gravina, Martello entra in polemica nel suo dialogo Della tragedia antica e
moderna in cui difende le sue convinzioni grazie al suo alter ego Aristotele
contro il giureconsulto che avrebbe dovuto occuparsi solo della sua professione di
giurista. Secondo l'autore bolognese, infatti, l'unica cosa degna di imitazione era
soltanto la natura e non le opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide e, soprattutto,
bisognava allontanarsi dal seguire pedissequamente le interpretazioni che nel
corso dei secoli erano state elaborate intorno alla Poetica aristotelica. È lo stesso
Aristotele che, nel dialogo con Martello, smentisce i suoi commentatori riguardo
alle unità di tempo e di luogo spiegando che tali unità non sono così prescrittive e
restrittive ma sono funzionali all'effetto catartico della tragedia che, per essere
tale, deve necessariamente basarsi sui criteri della verosimiglianza e della
meraviglia: l'unità di tempo è, infatti, estremamente importante per suscitare
meraviglia «non essendo meraviglioso che gran cose in lungo tempo
succedano»;8 pur restando, però, nell'ambito del verosimile «Né si esca dal
verisimile, non essendo verisimile che gran cose in breve tempo succedano, e
però leggerai scritto nel mio frammento della Poetica al cap II: “Poiché la
tragedia è un'azione dentro il periodo di un giorno, poco più, poco meno».9
Per quanto riguarda l'unità di luogo Aristotele redivivo, o l'impostore, sostiene
che il luogo dove si svolge l'azione deve essere uno ma, come un corpo, può
essere composto da più parti che possono essere rappresentate grazie ai cambi di
scena; alle repliche di Martello, che si fa portavoce di coloro che considerano i
cambi di scena lontani dal verosimile, Aristotele risponde che:
Più perfetta saria la tragedia se un'azione sola di un istante solo in
un solo luogo seguisse: così sarebbe più meravigliosa senza alcun
dubbio, ma quello che trapassa i termini del possibile è mostruoso
e chimerico. Questa tanto decantata unità rigorosa di luogo è una
di quelle perfezioni che eccedono l'essere verisimile di una
rappresentazione, e però chi cerca questa perfezione, cerca
8 Idem, Della tragedia antica e moderna, in Scritti critici e satirici, a cura di H. S. Noce,
Laterza, Bari, 1963, p. 211.
9 Ivi, p. 211.
4
mostruosità, cerca chimere.10
e successivamente aggiunge con veemenza:
E cotesto è bene lo scandalo […] che in una sala, dove rare volte
si parla di cose gelose, esca un personaggio a tramare una secreta
congiura contro di un principe, che di lì a poco vi s' oda l' istesso
principe in discorsi d'affari del suo governo o de' suoi amori, ch'ivi
una vergine figlia esca a sfogare un affetto, di cui ella sola è
consapevole, verso il suo stesso inimico, cose tutte le quali sono
inverisimili ed inconvenienti se l'immaginazione non fa uno sforzo
a se medesima di considerare quell'anticamera come altrettante
anticamere quanti sono gli interessi de' principali interlocutori, e
quanti sono essi medesimi; quando tutto il verisimile veracemente
s' ottiene senza alcuna violenza di mente, e con diletto maggiore
dell'occhio, cangiando scena e collocando i discorsi degli occulti
affari ne' gabinetti o negli interni giardini, ed i palesi nelle sale,
nelle logge, o nelle strade d' una città. 11
La vera disputa con Gravina e Maffei si svolge, però, intorno a questioni
metriche, infatti la più importante novità introdotta da Martello riguarda il verso.
Martello decide di effettuare un esperimento in tal senso non prendendo in
considerazione l'endecasillabo, il verso classico della poesia e del teatro italiano,
ma sostituendolo con un altro verso comunque non estraneo alla nostra tradizione.
Il metro prescelto è il doppio settenario utilizzato quasi unicamente, fino a quel
momento, da un poeta della scuola siciliana: Cielo d'Alcamo. Ciò che induce
l'autore a scrivere le sue opere in doppi settenari non è l'autorità del poeta
siciliano, che è pur utile per dimostrare che non sta compiendo un'operazione
arbitraria e irrispettosa del passato dato che «so quanto vaglia in mezzo a noi di
seguir piuttosto l'esempio che il farsi esemplare»,12 bensì la somiglianza di questo
verso “autoctono” con l'alessandrino francese. Martello accusa tutti i versi della
nostra tradizione di inadeguatezza ad esprimere i sentimenti nobili e gravi che
10 Ivi, p. 215.
11 Ivi, pp. 216-217.
12 Ivi, p. 246.
5
caratterizzano le tragedie mentre riscontra nel metro adottato dal teatro francese
una maggior capacità di assolvere a tale compito: propone, quindi, un'alternativa
all'endecasillabo e al settenario adottando un verso composto di due settenari
disposti in distici a rima baciata.
Questa soluzione innovativa viene attuata dopo un attento studio della produzione
teatrale dell'epoca e dei secoli precedenti ma è decisamente criticata dagli
intellettuali italiani: essi biasimano soprattutto la scrittura in rima ritenendo che la
rima baciata si scosti eccessivamente dal parlato reale e quindi contravvenga al
principio della verosimiglianza. Soprattutto Gravina critica questo aspetto della
poetica martelliana e sceglie per le sue tragedie soltanto il tradizionale
endecasillabo accompagnato dal settenario con qualche rima sparsa, sostenendo
che il verso endecasillabo non abbia bisogno di altri ornamenti che della propria
misura.
Come evidenzia Grazia Di Staso, il confronto tra Gravina e Martello emerge nei
trattati sul teatro e, leggendo il dialogo Della tragedia antica e moderna, si può
chiaramente notare il fatto che Martello conoscesse i trattati graviniani Della
tragedia e la Ragion poetica a tal punto da imitarne stilemi e strutture: c'è «una
ripresa stilistica inequivocabile, quasi una parodia – e il gusto di 'rifare' le voci è
tipico del Martello».13 Sulla questione della rima il trattato ripreso e parodiato è il
Della tragedia in cui Gravina dichiara che la perfezione di un'opera teatrale si
debba valutare in base all'imitazione del vero ma «aveva affermato, riguardo al
linguaggio teatrale, di scegliere il verso e non la prosa, oltre che per ragioni
tecnico-sceniche, per rispetto del criterio di verisimiglianza, che impone
somiglianza e non uguaglianza con il vero».14 Infatti:
Ogni simile, perché sia simile, dee ancora esser diverso dalla cosa
cui rassomiglia: altrimenti non simile sarebbe ma l'istesso. E
perciò l'imitazione, la quale è somiglianza del vero, non dee per
tutte le parti verità contenere, altrimenti non sarebbe più
imitazione, ma realtà, e natura. [...] Perciò la favella tragica, che
come la favella poetica è imitativa e deve la vera somigliare, se
13 Grazia Di Staso, Un «giureconsulto» un «impostore» e una polemica settecentesca sul teatro,
in «Annali della facoltà di lettere e filosofia», XXXIII, Adriatica Editrice, Bari, 1990, pp. 1-27,
p. 19.
14 Ivi, p. 20.
6
fosse sciolta dai numeri che dalla prosa la distinguono, più favella
simile non sarebbe, ma vera.15
L'argomentazione del Gravina è estremamente logica e solida ma approda
soltanto ad indicare il “numero” come il maggior carattere di diversità tra la
“favella tragica”, quindi imitativa, e quella vera. Martello, che nutre idee opposte,
si esprime i modo molto simile.
«Io» replicava l'impostore, «ti ho detto altre volte che l'imitazione,
perché diletti, dee contentarsi di una perfezione la quale non esca
al di fuori della sua sfera, e però in alcune cose dee convenire col
vero e in altre disconvenire. Egli è per questo le comparazioni son
belle, imperocché fra due cose dissomiglianti si viene a conoscere
qualche convenienza che per l'avanti non appariva. […] Tale è
l'imitazione: in alcune cose dee convenire, in altre disconvenire,
altrimenti non sarebbe più l'imitazione del vero, ma il vero
medesimo».16
Gli studi della Di Staso mettono in risalto l'imitazione dello stile graviniano
soprattutto nella parte iniziale in cui si trova lo stesso costrutto perché...dee e
nella parte finale in cui Martello giunge alla stessa conclusione e la modella
sull'esempio del Gravina. Ma «ora mi sembra evidente che il Martello si sia
divertito, in questo caso, a usare moduli concettuali e stilistici del suo avversario
per mostrare in realtà come essi possano rovesciarsi, alla fine, nella tesi del tutto
contrastante, perché è proprio sulla base del necessario carattere di finzione insito
nella rappresentazione teatrale che viene accettato l'uso della rima».17
È proprio questo il punto dove vuole arrivare Martello: egli è un fervente
sostenitore della rima e usa le stesse argomentazioni di Gravina per dimostrare la
sua tesi, infatti l'uso della rima sarebbe in linea con il principio di verisimiglianza
che esige somiglianza con il reale e non completa identità. Martello e il suo alter
ego dedicano l'intera sessione quarta del dialogo alla rima ed è proprio Aristotele
15 Gian Vincenzo Gravina, Della tragedia, in Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam,
Laterza, Bari, 1973, pp.542-544.
16 Pier Jacopo Martello, Della tragedia antica e moderna, cit., p. 256.
17 Grazia Di Staso, Un «giureconsulto» un «impostore» e una polemica settecentesca sul teatro,
cit., p. 22.
7
che prende le difese della rima nell'epoca moderna perché i moderni hanno perso
la capacità di comprendere l'armonia del verso antico insita nei dattili e negli
spondei.
Il filosofo sostiene che la metrica delle lingue romanze non possieda
«un'essenziale armonia, ma solamente una accidentale, datagli non dalla natura
ma dall'usanza».18 È questo il primo motivo che l'autore adduce a favore delle sue
idee: nella lingua italiana l'armonia determinata dalla metrica non si deve alla
misura, al succedersi di sillabe lunghe e brevi, come accadeva nella poesia greca
e latina, non si deve all'organizzazione “matematica” del verso in cui l'orecchio
dell'ascoltatore percepisce la quantità sillabica; essa deriva da un “accidente”
esterno, ovvero dalle desinenze con cui terminano i versi, desinenze che,
richiamandosi di verso in verso, costruiscono l'armonia del componimento.
Proprio perché l'orecchio moderno coglie l'armonia di suoni simili ripetuti, non è
accettabile, secondo il nostro autore, l'impiego dell'endecasillabo sciolto; esso
infatti è un verso che conferisce al testo un andamento prosastico, essendo
costituito solo di numerus, ovvero di ritmo, che è comune anche alla prosa;
inoltre è il verso che maggiormente richiama la metrica classica essendo privo di
rima e avendo accenti fissi in alcune sedi. Il suo utilizzo, però, può essere
considerato solo un omaggio agli antichi ed espressione della volontà di non
recedere da posizioni classiciste anche a costo di sacrificare l'armonia “moderna”.
Martello non si reputa uno di coloro che leggono «i Greci inginocchioni» 19 e si
distanzia notevolmente dalla consuetudine di scrivere in endecasillabi sciolti per
costituire una sorta di metrica “barbara”, a differenza del Gravina che adotta
questo tipo di metro convinto di rispettare la verosimiglianza e di dare veste
poetica e armonica alle sue tragedie. Gravina giustifica la propria decisione in
base al passo sopra citato: l'endecasillabo sciolto si inserisce alla perfezione nel
canone della verosimiglianza dato che l'unica differenza rispetto al linguaggio
reale sarebbe il ritmo che rende poetico il verso. Secondo Martello, invece, il
ritmo sarebbe un elemento secondario della poesia in quanto appartenente anche
alla prosa: «il verso italiano senza rima si può recitar punteggiato in maniera che
18 Pier Jacopo Martello, Della tragedia antica e moderna, cit., p. 249.
19 Idem, Edipo Tiranno, in Teatro, vol. III, a cura di H.S. Noce, Laterza, Bari, 1982, p. 562.
8
altri non vi conosca il numero armonioso»,20 quindi, rifacendosi anche all'autorità
di Bembo e di Castelvetro, procede nella sua dimostrazione asserendo che
«l'anima del verso italiano è la rima».21
La disputa tra rima e ritmo viene prontamente risolta da Aristotele che si affida ad
un'osservazione di tipo mediocremente linguistico: «nell'idioma italiano, le cui
parole terminano tutte in vocali, è più facile che il caso porti la rima che la
misura, alla quale la natura di cotesta lingua, anzi quella di tutte le lingue è meno
inclinata; e però la rima è a voi più naturale della misura». 22 L'uso della rima è
legittimato anche perché la tragedia, a differenza dell'epica, è fatta per essere
ascoltata: secondo Aristotele, infatti, la rima contigua contribuirebbe a creare il
piacere dell'armonia e a dilettare il senso dell'udito senza appesantire
eccessivamente il testo. È lo stesso Martello a difendere il verso da lui adoperato
e la rima baciata dicendo:
Condanneranno altresì questa questa uniformità di verso non
mantenuta né da' Greci né da' Latini nelle loro tragedie. Ben è
però vero che il mio verso non è così pertinace come il verso
alessandrino franzese perché il mio non è sempre della stessa
misura, benché una certa uniformità di ritmo lo paia. Ve n' ha di
quattordici sillabe, ve n' ha di tredici, di quindici, di dodici, e sino
di sedici, se si voglia.23
La varietà dei ritmi del martelliano è stata studiata da Vincenzo Dolla il quale ha
analizzato il rapporto del tragico con l'alessandrino francese: lo studioso nota che,
avendo la lingua francese un'assoluta maggioranza di parole ossitone, che
determinano un ritmo ascendente, gli emistichi utilizzati più frequentemente sono
di tipo giambico e anapestico e inoltre la poesia francese tende a ricorrere a rime
“facili” soprattutto a quelle desinenziali in -ée, -er, -é. Questi elementi possono
cagionare quella che Martello definisce “pertinacia” dell'alessandrino ma egli,
grazie alla maggiore varietà di sillabe che compongono il suo verso, evita questa
pedante ripetitività. Da questo punto di vista, Dolla riconosce una certa validità
20
21
22
23
Idem, Della tragedia antica e moderna, cit., p. 250.
Ivi, p. 251.
Ivi, p. 259 .
Ivi, p. 252.
9
all'esperimento metrico del Martello perché nel suo ricorrere ad un verso
“barbaro” non nei confronti dei classici ma dei francesi, il poeta, grazie anche ad
una lingua non vincolata dall'accento sull'ultima sillaba della parola, riesce a
creare numerosi ritmi: a giambi ed anapesti si affiancano dattili e trochei di modo
che il ritmo cambi continuamente, evitando di aggravare la percezione monodica
per lo meno in parte causata dalla presenza della rima baciata. Ma anche in questo
caso l'autore bolognese si trova in vantaggio rispetto ai suoi colleghi d'oltralpe dal
momento che sceglie di evitare le rime “facili” e molto raramente ricorre a rime
desinenziali.
Da questa breve analisi delle teorie martelliane possiamo dedurre di trovarci di
fronte ad un autore colto, attento ai primi segnali di innovazione della sua epoca e
seriamente impegnato nella costruzione dello stile e del teatro tragico italiano.
Le passioni tragiche: pietà-terrore, orrore-amore
Non credo che si possa affrontare un discorso sulla tragedia senza trattare delle
passioni che la animano e che la rendono tale infatti, affinché un testo teatrale
possa essere definito tragedia, deve provocare un effetto catartico sullo spettatore
grazie alla pietà, o compassione, ed al terrore. Le passioni tragiche primarie sono
queste ma ho voluto aggiungere anche l'orrore e l'amore in relazione alla vicenda
edipica in cui sono entrambe presenti e strettamente legate l'una all'altra.
Prima di iniziare ad analizzare una ad una le passioni che ho citato sarebbe
interessante cercare di definire, brevemente e in modo sicuramente non
esauriente, il concetto di passione. Per farlo possiamo ricorrere alla definizione
data da Sergio Moravia che si associa a coloro che si oppongono ad «un certo,
assai riduttivo, stereotipo che fa della passione null'altro che irragione,
accecamento, eccesso»24 e considera la passione come un «affetto con un
investimento forte-determinato che può rafforzare il soggetto che lo prova». 25 La
passione assume, quindi, una connotazione estremamente positiva e, sebbene si
allontani in parte dal logos, dalla razionalità pura, ha un effetto benefico sul
soggetto che la prova perché lo rafforza, lo rende più consapevole e, nel caso del
24 Sergio Moravia, Considerazioni sulle passioni all'alba del Moderno, in Atlante delle passioni,
a cura di S. Moravia, Laterza, Bari, 1993, p. 25.
25 Ibidem.
10
teatro, lo guida fino alla catarsi. Non sarebbe possibile l'effetto catartico della
tragedia senza la naturale disponibilità del soggetto a lasciarsi muovere e
coinvolgere da ciò che vede in scena ed è per questo che in ambito teatrale le
passioni sono elementi cardine: proprio l'identificazione dello spettatore con il
personaggio permette, pur nella sicura lontananza creata dalla quarta parete, che
nell'uno si generino le passioni dell'altro e che nell'osservatore vengano suscitate
e purgate le passioni che determinano la catarsi.
Dato che il fine della tragedia è la catarsi, le passioni maggiormente implicate
sono la pietà ed il terrore. La parola pietà, a cui si affianca nel Settecento la parola
compassione, è la traduzione italiana del greco έλεος ed è considerata secondo
accezioni molto diverse fra loro, anche perché la compassione è una delle virtù
fondamentali del cristianesimo: la compassione cristiana spinge l'uomo verso il
suo prossimo e proprio per questo Sant'Agostino ritiene che non possa essere
suscitata da rappresentazioni fittizie. Queste diverse interpretazioni della pietà
sono dovute al fatto che l'έλεος aristotelico è ambiguo e può essere inteso come
volontà attiva di soccorrere chi è in difficoltà o come ripiegamento interiore nella
sofferenza, quasi ci si avvicinasse al significato etimologico della parola
compassione che è cum pati, soffrire insieme.
Questa dualità nella riflessione sulla natura della compassione teatrale è proposta
e specificata dai filosofi stoici alla fine del Cinquecento e sarà alla base del
dibattito sulle passioni tragiche. Essi distinguono tra la miseratio che è la pietà
“inattiva”, ed è una «compassione irrazionale e disdicevole per l'uomo guidato
dalla ragione»26 e la misericordia che è la compassione cogente all'azione che è
un tipo di compassione positiva sottoposta al controllo della ragione. In realtà,
nota Mattioda,27 la vera natura di tale passione non risiederebbe nella volontà di
aiutare il prossimo, non è quindi compassione cristiana, ma, come aveva
affermato Cartesio, la compassione è originata dall'amor proprio in quanto l'uomo
debole e portato alla miseratio avrebbe avuto pietà della disgrazia occorsa al
personaggio perché sarebbe potuta capitare anche a lui, mentre l'uomo razionale e
“misericordioso”, sentendosi generoso, ne avrebbe ricavato una soddisfazione
personale.
26 Enrico Mattioda, Teorie della tragedia nel Settecento, Modena, Mucchi, 1994, p.19.
27 Cfr. Ivi.
11
Vicino alla prima tesi cartesiana si colloca Jacopo Riccati, il quale asserisce che
esiste una compassione istintiva che che muove l'animo anche davanti ad un esito
razionalmente condivisibile, quale la punizione de malvagio, e viene giustificata
da una tendenza dell'uomo a non voler che altri esseri umani soffrano. Una delle
definizioni di compassione da cui non si può prescindere è quella di Ludovico
Castelvetro la quale si basa, anch'essa, sull'amor proprio gratificato dal
riconoscimento della propria giustizia
L'allegrezza adunque in questo secondo caso origina e procede
dalla tristizia che altri sente del male del giusto e del bene del
malvagio in questa guisa: altri sentendo tristizia di quello che
ragionevolmente si dee dolere, si riconosce esser giusto, in quanto
si duole di quello che dee dolersi e riconoscendosi giusto si ralegra
e gode.28
Questa definizione di compassione, interamente basata sull'amor proprio, anticipa
e sembra coincidere con quella di catarsi che sempre Castelvetro indica come
“piacere oblico” ovvero piacere che si prova, pur nel dolore, nel riconoscersi privi
degli affetti negativi portati in scena dalla tragedia.
La seconda passione necessaria per ottenere la catarsi è il terrore. Terrore è la
traduzione del Φόβος aristotelico ed è una della passioni riguardo cui si è
maggiormente riflettuto nel corso del XVIII secolo: è la passione che paralizza lo
spettatore della tragedia e opera una curiosa deformazione dei lineamenti del suo
volto, come sopracciglia aggrottate, bocca socchiusa con le estremità piegate
verso il basso e pallore diffuso. La sensazione di terrore mista alla
consapevolezza di trovarsi in una posizione di sicurezza causa nell'osservatore un
certo piacere che attrae sempre di più il suo sguardo sulla scena.
Nel Settecento viene separato il terrore “teatrale”, causato da uno spettacolo, dal
terrore “reale” provato di fronte a spaventosi avvenimenti concreti. Il terrore
“scenico”, l'unico preso in considerazione dagli intellettuali settecenteschi, non
doveva essere eccessivo altrimenti avrebbe annullato la barriera di finzione
propria del teatro e avrebbe provocato il ritorno alla realtà alla quale, soltanto,
28 Ludovico Castelvetro, Poetica d'Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. I, a c. di W. Romani,
Laterza, Bari, 1978-79, p.365.
12
poteva appartenere il terrore estremo. Il terrore viene, quindi, considerato in
un'accezione moderata e soprattutto deve essere sempre una passione utile a chi
guarda o legge una tragedia. Un sostenitore dell'utilità del terrore è Antonio Conti
che ritiene che l'insieme di compassione e terrore causi un doppio movimento
dell'animo: il primo è quello della pietà che fa uscire l'anima da se stessa per
muovere incontro all'eroe disgraziato, il secondo è quello del terrore che costringe
a ripiegarsi in se stessi per fuggire il male. In questo binomio interno-esterno
possiamo intravedere un'utilità dovuta all'amor proprio teorizzato da Cartesio,
infatti, anche in questo caso la passione obbliga ad una reazione conveniente e
dovuta all'amor proprio cioè il difendersi dal male.
Il principio dell'amor proprio è alla base anche della teoria sul terrore di Ludovico
Antonio Muratori; nonostante Mattioda ritenga che il punto di vista di Muratori
sia molto diverso da quello di Conti credo che queste due teorie riguardanti le
passioni tragiche non divergano molto almeno nel presupposto sui cui si fondano:
l'utilità per se stessi conseguente all'amor proprio. Secondo Muratori il terrore
coinvolgerebbe lo spettatore costringendolo ad aver paura della propria sorte
qualora incorresse negli stessi vizi del personaggio. Abbiamo, quindi, una
concezione molto diversa da quella che era stata proposta in passato: non più
terrore per un evento spaventoso che accade ad un altro ma per qualcosa che
potrebbe investire il soggetto in prima persona se si allontana dalla retta via.
Muratori avanza un'idea etico-didascalica del terrore: il terrore, o meglio ciò che
provoca terrore, diventa una sorta di monito per scongiurare il vizio senza, però,
rendere l'uomo pusillanime; il vero scopo del terrore è ricondurre l'uomo alla
prudenza che, in epoca cristiana, è la virtù a cui appellarsi per non cadere in
errore.
A queste due passioni che possiamo definire principali ho voluto aggiungerne due
“collaterali” che, come ho accennato precedentemente, sono presenti nella
tragedia edipica. La prima è l'orrore che, in realtà, è molto simile al terrore tanto
che sono utilizzate frequentemente come sinonimi. L'unico aspetto che le
distingue è l'effetto raccapricciante dell'orrore, cioè la volontà di allontanarsi da
ciò che viene percepito come orribile. Dato che questa è la sua principale
caratteristica, l'orrore sarebbe una delle passioni che una rappresentazione non
13
dovrebbe mai suscitare altrimenti gli spettatori si rifiuterebbero di assistervi. Le
scene che provocano orrore devono quindi essere evitate anche per una ragione
drammaturgica, infatti Gravina sostiene che:
Avvengono ancora nelle favole delle morti, svenimenti, duelli e
cose simili, le quali debbono per relazione agli orecchi, non per
vista agli occhi venire, sì perché la vista di cose atroci offende
troppo l'interno senso, sì perché non si possono portare a tanta
naturalezza e verisimilitudine, che non riescano freddi, per essere
apparente la finzione; sì alla fine perché non è imitazione poetica
quella che non è fatta dalle parole: dalle quali per via degli orecchi
possiamo concepire quel che agli occhi si presenta.29
Questa convinzione espressa da Gravina sarà condivisa da molti anche se nel
corso del secolo anche l'orrore sarà ammesso a teatro purché mitigato e misto a
qualche altra passione secondo la teoria delle impressioni miste. 30 Ad un esito
simile a quello graviniano giungono anche Pietro Verri, Diderot e Lessing i quali
eliminano l'orribile dalle scene perché la verosimiglianza a cui può aspirare una
rappresentazione teatrale non sarà mai pari alla realtà e deluderebbe sicuramente
lo
spettatore;
l'orribile
o il
patetico
devono,
quindi,
essere
lasciati
all'immaginazione ed espressi solo attraverso la narrazione.
Anche Martello si conforma ai dettami del suo tempo infatti sulla scena non
compaiono né il parricidio né la morte di Jocasta né l'accecamento. L'unico delitto
mostrato è l'incesto, non perché si veda l'unione di madre e figlio, ma perché nella
riscrittura martelliana Edipo e Jocasta si amano davvero: nello spettatore che
conosce la vicenda questo potrebbe suscitare orrore e contemporaneamente
muovere a compassione, vedendo due innamorati sinceri volgere verso un destino
così funesto. È portato in scena un orrore più sottile e concettuale che elude la
rappresentazione esplicita e non necessita del ricorso alla narrazione, ma che
mantiene un'indiscutibile presa sull'animo umano. L'autore, però, fa uso anche
della narrazione per mostrare gli ultimi e orrendi avvenimenti, che sono descritti
da Forbante nell'atto quinto: la morte di Jocasta che spira cadendo a terra dopo
29 Gian Vincenzo Gravina, Della tragedia, cit., p. 520.
30 Su questo si veda il saggio di Mattioda, Teoria della tragedia nel Settecento, cit.
14
che Edipo ha strappato il laccio con cui si era impiccata- passo in cui non manca
anche una connotazione grottesca- e la punizione di Edipo che non usa la spilla
della madre per togliersi la vista ma si cava gli occhi a mani nude, e tanta è la sua
volontà di rinunciare alla luce che l'occhio non si ribella alle dita ma «stassi, o sol
se si move, sporgesi incontro all'ugna».31
Ma oltre all'aspetto “immaginativo” vediamo che l'orrore è strettamente legato
alla storia di Edipo perché gli eventi della sua vita sono orrendi; Edipo si acceca,
quindi distoglie lo sguardo per sempre, perché ciò che ha compiuto è talmente
empio e disumano che non deve essere visto, egli non vorrà più vedere neanche i
suoi stessi figli, e al contempo fratelli, la sua discendenza frutto di una colpa tanto
orribile a vedersi che anche l'Inferno ne resta attonito:
EDIPO: Per te infausto imeneo nel sen, dov'anzi er'io,
nel fianco ond'uscì prima, rientrò il sangue mio,
e là questo ha creati figli in un punto, e padri,
in un punto fratelli, mogli, mariti e madri:
mescolando i misfatti più orrendi in tal misfatto,
che vinto irne in sue colpe l'Inferno è stupefatto.32
Nell'Edipo c'è, quindi, la volontà massima di fuggire l'orrore: egli compie il gesto
più estremo per evitare la luce ormai foriera solo di misfatti scellerati, Edipo ha
visto ciò che non era lecito vedere e la sua punizione sarà, per questo, l'oscurità
totale e un volto privo di occhi che susciterà orrore in chiunque lo guarderà.
Il motivo principale dell'orrore causato dalla storia di Edipo è l'inserimento nella
vicenda dell'amore tra lui e Jocasta. L'amore è una delle passioni tragiche che
inizia a comparire sulle scene francesi a partire dal Seicento. Una passione del
tutto moderna, che scatena un importante dibattito soprattutto in Italia, dove
inizialmente i tragediografi erano contrari alla sua introduzione nei testi teatrali.
L'amore era la passione che provocava l'indebolimento dell'eroe, era ciò che
rendeva le rappresentazioni immorali perché, spinti dall'amore, i personaggi
tenevano comportamenti sconvenienti alla loro condizione e dunque non poteva
essere accettato da coloro che volevano moralizzare il teatro. Anche Muratori si
31 Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., atto V, scena 2, v.182.
32 Ivi, atto V, scena 3, vv.273-278.
15
pronuncia negativamente contro questa passione e contro i drammaturghi francesi:
Fra essi o pochissime, o niuna tragedia v' ha, che non contenga
bassi amori; e per lo più gli eroi principali della favola
s'introducono deliranti, ed avviliti per questa passione. Ma ciò
forse non sarebbe sì grave peccato contra la facoltà civile, se da
loro in guisa tale si dipingessero questi amori, che ben ne
conoscessero gli uditori la viltà, e imparassero ad aborrirli, col
vederli dal poeta per bocca altrui biasimati, e sposti con colori di
dispregio. Il peggio è, che sovente se ne apprende l'uso da chi nol
conosce; si comincia ad approvarne il dolce da chi dianzi
l'abborriva, e si consola già chi già n'era infettato; non parendo
cosa vile, e indegna di prudenti, e nobili persone il coltivar
quell'affetto, da cui tanti principi, ed eroi son vinti, e che quivi è
rappresentato lodevole, degno delle anime grandi, e soave,
tuttoché questo conduca gli uomini a perdere la prudenza e seco le
altre virtù.33
Muratori ritorna sul concetto di prudenza che è una virtù veramente fondamentale
nell'ambito di una interpretazione cristiana della vita e della letteratura: tutto ciò
che contribuisca ad allontanare l'uomo da una condotta morale deve essere
eliminato o mostrato in modo da risultare deprecabile; è per questo che l'amore
che infiacchisce l'animo e lo abbassa ad azioni imprudenti non può essere
accettato, mentre il terrore che riporta l'uomo sulla via della prudenza è sano e
auspicabile nella tragedia. La critica di Muratori, alla quale si unisce anche
Martello nonostante il modello francese ammettesse la passione amorosa sulle
scene, è volta a colpire non tanto l'amore onesto e nobile quanto i comportamenti
ispirati ad eccessiva galanteria o sentimentalismo, che trasformano gli eroi tragici
in damerini: infatti nella tragedia martelliana non vediamo svenimenti, lettere
segrete e fughe che contravvengono ai divieti paterni; quello presentato da
Martello è piuttosto l'affetto consolidato di due sposi, Edipo e Jocasta, che si
trattano con tenerezza, stima e rispetto senza mai sconfinare nel patetico. I
personaggi non perdono la loro statura tragica a causa dell'amore che viene
33 Ludovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, a cura di A. Ruschioni, Marzorati,
Milano, 1972, pp. 591-593.
16
presentato in una veste tale da conciliare una certa fedeltà al modello francese con
la volontà arcadica di non fermarsi soltanto all'amore, rappresentando un mondo
di sentimenti più complesso e universale, e con le istanze moralizzatrici del teatro
che erano presenti nel XVIII secolo.
L'amore di Edipo e Jocasta, quindi, non comporta debolezze, l'unica vera
debolezza è di Jocasta che, a causa dell'affetto per Edipo, non riesce a vendicare la
morte di Laio perché «di vedova a sdegno prevale amor di sposa». 34 La tragedia
martelliana mostra un amore apparentemente solido e puro che potrebbe essere
indicato come esempio di amore coniugale, ma proprio questa esemplarità, questa
esteriore purezza e devozione reciproca degli sposi contribuiscono alla percezione
di un esito tragico ancora maggiore: alla piena realizzazione, materiale e
spirituale, del rapporto sponsale tra madre e figlio, lo spettatore viene dominato
contemporaneamente dall'orrore, perché quella che sembrava la più alta e
“consacrata” forma di amore coniugale si rivela essere la più impura violazione
del sacro velo che regola i rapporti tra consanguinei, il più terribile delitto contro
il proprio sangue, e dalla compassione per la disgrazia in cui cadono due coniugi
che si amano teneramente ignorando l'identità l'uno dell'altro.
Vediamo, quindi, nella riscrittura martelliana dell'Edipo l'intreccio inscindibile
delle passioni analizzate. Ogni passione sembra intessuta nell'altra in modo da
creare una serie di nodi sovrapposti e aggrovigliati che condividono essenza ed
esistenza.
La catarsi tragica
L'analisi delle passioni svolta fino ad ora può essere propedeutica allo studio della
catarsi. La catarsi è un fenomeno di cui Aristotele parla nella Poetica35 e nella
34 Pier Jacopo Martello, Edipo tiranno, cit., atto I, scena 2, v. 430.
35 Cfr. Elizabeth Belfiore, Aristotle on plot and emotions, Princeton, Princeton University Press,
1992, p. 258: What can we learn from “what has been said” in chapters 1 through 5 of the
Poetics? In the first place, these chapters tell us something about the way in which katarsis is
accomplished. The definition in Poetics 6 states that imitation produces katarsis. Because
imitation is associated with learning in Poetics 4, we woul expect tragic katarsis to involve
learning. We would also expect tragic katarsis to be pleasurable, for, in Poetics 4, Aristotle
says that learning is pleasurable, and states in Poetics 14 that the poet should produce the “the
pleasure that comes from pity and fear by means of imitation”.
17
Politica. Finalizzata ad un miglioramento morale dello spettatore, 36 la catarsi
permette di purgare l'eccesso delle passioni suscitate dalla rappresentazione
provocando una sorta di diletto detto “piacere tragico”. A questo punto credo sia
necessario chiarire dapprima la natura della catarsi e le sue interpretazioni nel
corso del Settecento e successivamente il modo in cui la tragedia causi questo tipo
di piacere.
La lettura dei testi aristotelici, soprattutto della Poetica, diede origine a due
interpretazioni opposte del concetto di catarsi già a partire dal Cinquecento. La
prima venne elaborata da Francesco Robortello, il quale considerava la catarsi un
rimedio omeopatico alle passioni portate in scena dalla tragedia: la compassione
ed il terrore suscitati dalla rappresentazione riuscivano, secondo il principio
omeopatico che cura il male con il male, a purgare se stesse. In qualche modo esse
potevano essere annullate per fare in modo che lo spettatore arrivasse alla
praemeditatio futurorum malorum, e fosse, cioè, pronto ad affrontare il dolore
reale. La seconda interpretazione, sulla quale si allineerà anche Muratori,
appartiene a Vincenzo Maggi, il quale riteneva che la compassione ed il terrore
fossero passioni utili e non avessero bisogno di essere purgate, essendo anzi un
farmaco allopatico per purgare altri tipi di passioni decisamente più dannose per
l'uomo.
Si rinnova anche in questo caso il dibattito tra la concezione del teatro stoica,
quella di Robortello che cerca l'annullamento totale delle passioni per raggiungere
l'apatia, e cristiana, quella di Maggi che riconduce il terrore e la compassione alla
prudenza e alla carità. Le interpretazioni settecentesche della catarsi si collocano
sulla scia di quelle cinquecentesche, infatti, la dualità interpretativa di Robortello
e Maggi viene recepita rispettivamente da due importanti teorici del teatro quali
Gravina e Martello. Gravina riprende la concezione stoica robortelliana nella sua
variante della mitridatizzazione e concentra la funzione della catarsi nella
36 Cfr Jonathan Lear, Katharsis, in Essays on Aristotle's Poetics, a c. di A. Oksenberg Rotry,
Princeton, Princeton University Press, 1992, p. 318: Perhaps the most sophisticated view of
katarsis which has been powerfully argued for in recent years, is the idea that katharsis
provides an education of the emotions. The central task of an ethical education is to train youth
to take pleasure and pain at the right sorts of objects: to feel pleasure in acting nobly and pain
at the prospect of acting ignobly. This is accomplished by a process of habituation: by
repeatedly encouraging youth to perform noble acts they come to take pleasure in so acting.
Virtue, for Aristotle, partially consists in having the right emotinal response to any given set of
circumstances.
18
praemeditatio futurorum malorum:
Imperocché, benché la tragedia rappresentando casi miserabili ed
atroci commova le passioni, nulladimeno, siccome il corpo umano
bevendo a poco a poco il veleno supera con la consuetudine la
forza di quello e ne fugge l'offesa, così l'animo commosso
frequentemente senza suo pericolo dalle finte rappresentazioni si
avvezza in tal maniera alla compassione e all'orrore, che a poco a
poco ne perde il senso, come nella peste veggiamo avvenire. In
modo che poi, quando nella vita civile incontra oggetti e casi veri
e compassionevoli o spaventevoli sopra la propria o l'altrui
persona, si trova esercitato sul finto e preparato dall'uso della
tolleranza del vero: appunto come i soldati a sostener la vera
guerra, nel finto combattimento e nella palestra lungo tempo
s'avvezzano.37
La tragedia mantiene comunque la sua funzione di mostrare la sventura dei più
fortunati per suscitare la compassione ed il terrore davanti ad essa, ma la catarsi
intesa in questo modo diventerebbe una sorta di vaccino per immunizzare l'uomo
davanti alle situazioni terribili della realtà: è una catarsi che si dirige verso
l'interiorità dello spettatore, non per consentirgli di liberarsi dei vizi esternandoli,
ma per fortificarlo ed guidarlo verso la costanza dell'animo.
L'interpretazione martelliana della catarsi è, invece, molto diversa da quella
graviniana e si colloca in linea con quella di Maggi. Martello tratta della catarsi
nel dialogo Della tragedia antica e moderna in cui nella conversazione con
Aristotele appare un insolito e contraddittorio cambiamento: dapprima il filosofo,
o impostore che sia, viene irriverentemente mostrato come un intellettuale dedito
all'invenzione di discorsi senza senso ed elaborati in termini altisonanti, solo per
evitare il decrescere del credito presso gli ignoranti che sollevano questioni
assurde; in seguito il filosofo stesso ritratta parzialmente le sue teorie per
accettare un'interpretazione più “moderna”. Credo ci sia bisogno di una lunga
citazione per comprendere questo cambiamento di opinione:
37 Gian Vincenzo Gravina, Della tragedia, cit., pp. 510-511.
19
La tragedia per mezzo del terrore e della pietà solleva lo spettatore
da queste stesse passioni, facendo ch'ei si scarichi sovra oggetti
finiti della tristezza che lo divora. Nella maniera in cui una musica
malinconica toglie e solleva la nostra malinconia. Questo è il vero
senso del testo, ma io senza dipendere da quanto ho scritto, posso
ora interpretare quella espressione diversamente da ciò che allora
sentii. Gli affeti nostri ci portano all'ambizione, alla prepotenza,
alla crudeltà: col terrore si purgano i primi due affetti, e con la
compassione si purga il terzo, ma non si purgano veracemente gli
affetti, si purga l''animo dagli affetti disordinati. Il rappresentare
un principe scellerato, parte per malizia e parte per sua disgrazia,
punito con la miseria, purga gli animi degli ascoltanti
dall'ambizione e dalla prepotenza; ma il vederlo poi punito forse
troppo severamente, muove la nostra umanità a compatirlo e
caccia da' nostri cuori la crudeltà. Questo ho io fondato sull'idea la
più generale delle nostre antiche tragedia, che è di esporre sul
palco principi sventuratamente colpevoli ed orribilmente puniti; e
ciò faceano i poeti per adular le nostre repubbliche le quali
volevano mantenere ne' liberi popoli l'odio alla monarchia,
mettendo loro negli occhi la scelleraggine e l'infelicità de'
monarchi. Ma, per dirla, in oggi questo fine della politica è ben
cangiato nella maggior parte dell'universo, e per questo conto può
essere che i nostri vecchi argomenti potessero piacer tuttavia a
Venezia, a Genova e all'Italia; ma dove la monarchia si è fatta
domestica con la giustizia, clemenza e maestà del governo,
bisogna regolar altrimenti il fine politico della tragedia.38
La spiegazione di Aristotele mostra chiaramente le due teorie della catarsi e il
possibile cambiamento interpretativo: il filosofo, sostenitore del principio
omeopatico, si schiera poi a favore di quello allopatico, ritenuto migliore per il
tempo contemporaneo dal momento che è cambiato il fine politico della tragedia.
Aristotele chiarisce che la catarsi non agisce sulle passioni ma sull'animo che
prova affetti disordinati e, mostrando in scena i principali vizi dell'uomo, riesce,
tramite l'identificazione tra spettatore e personaggio, a fare in modo che lo
spettatore veda il proprio vizio esternato e, riconoscendolo tale, senta l'impulso di
38 Pier Jacopo Martello, Della tragedia antica e moderna, cit., pp.238-239.
20
allontanarsene, così come è spinto ad esercitare la compassione quando la
punizione dell'eroe è eccessiva. La variazione del fine politico riguarda
principalmente il fatto che la tragedia antica fosse una celebrazione indiretta della
repubblica mentre quella moderna è libera da tale missione e può concentrarsi
sulla rappresentazione di altri ideali.
Ma quale piacere può derivare dalla vista di avvenimenti terribili e
compassionevoli se la funzione della catarsi oscilla tra la fortificazione dell'animo
ed il miglioramento morale di esso? Aristotele ribadisce che non bisogna cercare
nella tragedia un diletto diverso da quello che le è proprio e il piacere tragico
coincide con la catarsi. Potremmo inoltre rispondere riprendendo le parole di
Castelvetro precedentemente citate: il piacere tragico è obliquo perché si prova
davanti al dolore e al male riconoscendosi pronti a dolersi di essi, e dunque
moralmente retti. Nel Settecento venne elaborata anche la teoria delle sensazioni
miste che comportava il suscitare contemporaneamente una sensazione piacevole
e una dolorosa quindi il piacere catartico fu interpretato in questo senso, ma
Martello rimane estraneo a queste teorie per altro cronologicamente successive.
Egli non si occupa di analizzare come la tragedia provochi piacere e di quale
natura sia il diletto, ma si concentra principalmente sull'utilità morale della
rappresentazione:
Tanto meglio, replicò il vecchio, egli è dunque opportuno regolare
diversamente il fine politico della tragedia, e giovare al pubblico
per altre strade che per quelle di rendere odiosa la monarchia.
Converrà perciò che dalle tragedie si cavi qualche profitto morale
che riguardi la buona educazione de' figliuoli, la fede intera de'
maritati, l'amor della patria, la giusta difesa del vero onor proprio,
la costanza dell'amicizia, l'ingiustizia della persecuzione del
merito, il culto verso le divine cose, e ciò col rappresentar
premiata sotto queste ed altre divise una esemplare virtute, e col
mostrar gastigato il vizio che se le oppone. E perché tanto più
spiccano la virtù e il vizio, il premio e la punizione, quanto più in
personaggi illustri e reali si veggono, egli è uopo continuar nella
massima di imitar solamente i migliori.39
39 Ivi, p. 240.
21
In queste prime pagine ho cercato di mettere in luce il contesto storico-culturale in
cui operò Martello e le sue idee riguardo alla drammaturgia e all'imitazione della
natura sempre in relazione ai dettami aristotelici.
22
CAPITOLO I
EDIPO TIRANNO
1.1 La questione della verosimiglianza
Una delle ultime tragedie portate a termine da Martello, l'Edipo tiranno, ebbe
un'elaborazione estremamente lunga, che si concluse nel 1723. Egli stesso,
nell'appello rivolto alla marchesa Eleonora Bentivoglio Albergati affinché presenti
l'opera al cardinal Bentivoglio, destinatario della tragedia e giudice severo di
opere letterarie, scrive che «fu la prima tragedia che in animo ebbi di
intraprendere, e l'ultima è stata che dopo le altre ho compiuta […] così mi do a
credere che, avendo io nel compor l'altre, a compor questa unicamente studiato,
debba questa (s'io mal non giudico) le sue sorelle signoreggiare». 1 Questa
affermazione permette di intuire che molto probabilmente l'autore, quando
compose l'Edipo Coloneo tra il 1710 e il 1713, aveva già iniziato a delineare
questa tragedia elaborata e conclusa successivamente.
L'autore fa seguire le parole rivolte alla marchesa Bentivoglio Albergati da un
proemio che è fondamentale per chiarire ulteriormente la posizione di Martello
riguardo al teatro e soprattutto per iniziare a comprendere quali saranno
l'interpretazione e la rielaborazione martelliana del mito di Edipo. Il proemio
inizia con un breve commento delle riscritture del mito nel corso dei secoli: la
prima che viene esaminata e duramente criticata è quella di Seneca, il quale
mostra di conoscere il testo sofocleo ma lo ha imitato male e forse, secondo
Martello, avrebbe dovuto creare un'altra storia. La seconda critica viene rivolta a
Corneille per aver introdotto nella narrazione mitica la vicenda amorosa di Teseo
e Dirce e quindi stravolto l'intreccio originale. L'autore cita, inoltre, la traduzione
francese dell'Edipo di Sofocle realizzata da André Dacier; tale traduzione presenta
alcuni difetti dato che Dacier legge «i greci inginocchioni».2 La critica principale
riguarda l'assenza di verisimiglianza, principio che non deve mai venir meno nel
teatro martelliano.3 Gli elementi su cui si appunta la critica di Martello sono
1 Pier Jacopo Martello, Edipo tiranno, in Teatro, cit., p. 560.
2 Ivi, p. 562.
3 Su questo argomento si veda il saggio di Valeria Merola, Paradigmi edipici, Viterbo, Sette
città, 2009, p. 45. L'importanza della verosimiglianza è tale da indurla ad intitolare il suo
saggio sull'Edipo Tiranno: Il mito reso verosimile.
23
esposti in modo estremamente chiaro: non è possibile che una discussione così
importante e un'inchiesta così riservata, come quella sull'omicidio di un re, si
svolgano sulla pubblica piazza. L'autore ribadisce in questa sede ciò che aveva già
affermato per mezzo di Aristotele nel passo del dialogo Della tragedia antica e
moderna che ho precedentemente riportato; essendo estremamente inverosimile
che tutti i personaggi giungano in un unico luogo discutendo degli argomenti più
disparati e soprattutto più segreti, Martello concepisce un nuovo luogo in cui
ambientare la sua tragedia:
Eccomi dunque, non a rappresentarla in piazza, ma nella sala della
reggia, ove l'apparato e l'intervenimento di molte comparse dà
tutta la maestà tragica all'apertura della mia scena. Ivi più
discretamente, quando in pubblico e quando in privato, si
discorrono le materie che, o vogliono pubblicità, o esigono
confidenza.4
Questa affermazione supplisce alla mancanza di stage directions nel testo e
mostra chiaramente le idee dell'autore riguardo all'unità di luogo, che, in accordo
col principio di verosimiglianza, non deve essere sempre lo stesso ma può, come
un corpo, essere composto da più parti senza che l'unità venga compromessa. In
questo caso la reggia è un luogo ideale essendo formata da più ambienti o
comunque da una sala che, alternativamente, ospita più persone, in modo da
trattare affari pubblici, o promette riservatezza consentendo lo svolgimento di
confessioni e discussioni private tra gli sposi. In questo modo Martello riesce ad
accordare il rispetto dell'unità di luogo e il realismo della rappresentazione.
Un ulteriore elemento di inverosimiglianza sta, non tanto nella mancata
conduzione di un'accurata indagine sulla morte di Laio, che ha un'altra
spiegazione, ma nella mancanza dei pettegolezzi di corte; nella reggia tebana non
circolano voci sull'assassinio del precedente monarca e secondo Martello:
non si potrà mai concepire come in almeno quattr'anni da che
Laio, re di Tebe, era stato assassinato, non vi sia stato un cane che
siasi lasciato cader di bocca dove e come fosse seguito
4 Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., p. 564.
24
quell'omicidio: le quali due circostanze bastavano ad illuminare
Edipo, che si dipinge per uomo accorto, in guisa che conoscesse, o
almeno sospettasse sé essere stato quel tale assassino di cui si
parlava.5
Martello lamenta, quindi, sia l'assenza di testimonianze dirette sia quella di una
qualsiasi informazione utile a provocare la prima agnizione, quella del regicidio.
Egli rimedierà a questa mancanza introducendo alcune voci che giungono
all'orecchio di Edipo dopo il suo ingresso nella reggia in qualità di nuovo monarca
tebano e di cui parlerà a Jocasta nella seconda scena del primo atto:
EDIPO: [...] Dopo che il Citerone vide cader sua tema
col reo mostro biforme, perc'ho scettro e diadema,
fra gli applausi, che Tebe m'alzò d'intorno, il vecchio
re ver Focide ucciso feimmi allor l'orecchio.
Sussurrarne per Grecia confuse udii più voci,
siccome empion la terra de' grandi i casi atroci.
Ma che in Focide Laio cadesse ad un doppio calle,
colà, 've fra due poggi siedesi ombrosa valle,
de' quai l'un porta a Delfo, l'altro ver Dauli, e fosco
l'uno e l'altro cammino per tutto assedia un bosco,
sol mi fu noto allora che entrai tra queste mura;
ché taciutomi altrove ciò avea la fama oscura.
Rammentai che in quel luogo sì dubbio e sì selvaggio
con quattro assalitori mi valse il mio coraggio.6
Edipo, quindi, in modo conforme a quanto affermato nel proemio, sente voci
dapprima vaghe sull'omicidio del re tebano avvenuto in Focide poi, una volta
arrivato alla reggia, le informazioni diventano più circostanziate e viene a sapere
che Laio è stato ucciso ad un trivio che conduce a Delfi e a Dauli, il che
ovviamente lo mette sull'avviso facendogli ricordare l'omicidio dei suoi quattro
assalitori compiuto proprio nello stesso luogo. Edipo non è quindi completamente
inconsapevole delle circostanze che hanno visto la morte del suo predecessore ed
5 Ivi, p. 562.
6 Ivi, atto I, scena 2, vv. 259-272.
25
è difficile dire se a questo punto possa già sospettare di essere l'assassino di Laio,
ma la conferma definitiva arriverà poco tempo dopo. Così facendo, Martello
introduce una delle più importanti varianti della sua riscrittura: l'autore separa
l'agnizione del regicidio da quella del parricidio e dell'incesto; l'Edipo martelliano
scopre fin dalla prima notte di nozze di essere l'assassino di Laio grazie ad un
busto presente nella camera da letto della sua sposa, e lo confessa alla regina
nella seconda scena del primo atto, quando i due sposi rimangono a parlare
nell'intimità della reggia deserta, dato che tutti sono al tempio a pregare:
EDIPO: […] per la prima fiata m'ebbe tua stanza interna
col testimon soletto di fida aurea lucerna.
Nel lume urto col guardo, ma il lume ardente e vago
trasferisce le occhiate su l'or di sculta immago
in cui la faccia ravviso, che viva e morta altrove
veduta avea, sì ch'ella più l'occhio a mirar move,
e più quello vi trovo che men trovar vorrei;
che scritto eravi Laio, ahi qual nome, oh Dei!
[…]
JOCASTA: […] E di' pur, ch'io tel miro già in fronte, allor vedesti
colui ch'era mio sposo, colui che traffiggesti.7
Martello compie una scelta decisamente innovativa ponendo il riconoscimento di
Edipo come regicida nel primo atto e lasciando nel quinto la scoperta del
parricidio e dell'incesto. Le motivazioni di questa scelta sono illustrate
chiaramente nel proemio e sono racchiuse nell'orizzonte del rispetto del criterio
della verosimiglianza. L'autore sostiene che l'essere a conoscenza di aver ucciso
Laio non pregiudichi lo svolgimento della trama né l'agnizione finale, ma serve a
render più verisimile la poca diligenza usata per rinvenir
l'uccisore, e questa malizia per altro compatibile in uno che ha
ammazzato un altro per propria difesa, e senza conoscerlo,
constituisce il nostr'Edipo in una tal reità che gli fa in parte
meritare quelle disgrazie, che poscia da questo politico ed
artificioso silenzio gli vennero: e così quella mezzana bontà, che
7 Ivi, atto I, scena 2, vv. 311-318, 327-328.
26
nel protagonista richiedesi, non sarà affatto esclusa da Edipo, che,
rispetto alla coscienza, per Sofocle è un uomo giustissimo. 8
L'importanza dell'anticipazione di questo riconoscimento riconduce gli atti di
Edipo in un ordine logico e verosimile: essendo già a conoscenza dell'identità
dell'assassino non svolge che un'indagine sommaria in cui vengono condannati
alcuni briganti sbrigativamente considerati colpevoli del delitto. Per nascondere il
reato e conservare un'apparenza da monarca giusto e rispettoso degli avi, Edipo,
nella prima scena del primo atto, dice di aver pianto la morte di Laio e ostenta il
ricordo dei magnifici funerali del sovrano, in cui furono sacrificati cento cavalli e
trecento prefiche piansero per tre giorni. Senza la scoperta immediata del
regicidio, Edipo sarebbe incorso in un comportamento troppo inverosimile ed
estremamente rischioso per la sua stessa vita. Se Edipo non avesse conosciuto il
nome dell'assassino e, nonostante ciò, non avesse condotto un'inchiesta
approfondita, la sua stessa vita sarebbe stata in pericolo. L'omicida infatti avrebbe
potuto essere un usurpatore, qualcuno interessato al trono tebano e disposto ad
uccidere tutti coloro che lo occupavano.
Il realismo martelliano arriva fino a far incontrare nella reggia il nuovo re ed il
vecchio servo Forbante, unico sopravvissuto nella strage di Laio e degli altri
servitori: è sempre Edipo che, nel dialogo con Jocasta, riferisce l'incontro
avvenuto prima dell'inizio del dramma:
EDIPO: Forbante, il sol Forbante, cui questa man trafisse,
non saprei dirti il come, scampommi, e sopravvisse.
Qua giunto, al torvo grifo, alle spalle ampie e gobbe
vidilo, e il riconobbi; me vide, e riconobbe.
L'anima mercenaria, che avea sì mal difesa
del suo signor la vita, comprar fu lieve impresa.
L'oro mio lo fe' muto; s'acquistò campi e buoi.
Fra questi, o avrà finiti, o segue i giorni suoi:
ma per certo ha tacciuto, né cesso in cuor sì vile
d'ammirar tanta fede rara anche in cuor gentile.9
8 Ivi, p. 563.
9 Ivi, atto I, scena 2, vv. 477-486.
27
Il servo è facilmente riconoscibile grazie ad una caratteristica fisica
particolarmente evidente: la sue spalle ampie e gobbe. Questo elemento sembra
metterlo in relazione con il suo padrone, infatti anche Edipo può essere
identificato grazie ai piedi gonfi che sembra, però, non avere o non mostrare a
questo punto del dramma: il dolore alle cicatrici e l'impossibilità di camminare
bene si manifesteranno solo più tardi. Forbante non può ancora individuare il suo
attuale sovrano come il figlio di Laio, che molto tempo prima aveva ricevuto
l'ordine di esporre sul Citerone, ma immediatamente lo riconosce come l'uccisore
di Laio ed Edipo riconosce il servitore come l'uomo che gli è sfuggito. Questa
immediatezza è suggerita in tutto il suo orrore dal laconico parallelismo al v. 480
«vidilo, e il riconobbi; me vide, e riconobbe» non c'è bisogno di altri dettagli: il
riconoscimento è diretto e veloce. I due personaggi, legati dalla deformità fisica,
si uniscono ulteriormente grazie all'accordo corruttore di Edipo che offre denaro
in cambio del silenzio di Forbante. Il servo si rifugia in una vita totalmente
agreste e dedita al bestiame, consapevole del tradimento della memoria di Laio e
tacendo l'orrida circostanza che vede il regicida ora sul trono dell'ucciso. Edipo si
meraviglia che Forbante abbia mantenuto il segreto: mantenere la parola data è
segno di animo gentile e di comportamento cavalleresco ma qui la fides si applica
ad un dominio estremamente volgare dell'esistenza. Il legame tra Edipo e
Forbante è, in realtà, un patto criminale stipulato fra un assassino ed un testimone
che tiene alla sua vita più che alla verità. Il re tebano si comporta come il capo di
una banda di briganti che con minacce, ricatti e corruzione lega a sé i suoi
compagni; il servo viene definito «anima mercenaria» che preferisce salvare la
sua vita più che proteggere quella del padrone: per due volte sceglie la vita e la
tranquillità condannando irrimediabilmente quella dei padroni. Se forse non si
deve a lui la fine di Laio, sicuramente Forbante è responsabile della vita e della
catastrofe di Edipo: lo salverà dall'esposizione sul Citerone affidandolo ad Ificrate
di Corinto, ma sarà costretto a rivelare la vera identità del sovrano provocandone
la caduta.
Forbante, nonostante il patto stretto con Edipo, non è un personaggio
completamente negativo, la sua caratteristica sembra proprio essere la fedeltà,
sebbene comprata, al suo signore. Egli si mostra assai riluttante a lasciare i suoi
28
campi e a seguire Creonte in città, tenterà fino all'ultimo di tacere il nome
dell'assassino di Laio così come tacque a Jocasta il motivo che spinse Laio ad
uccidere il suo unico figlio. Se consideriamo questi elementi saremo portati a
ritenere Forbante venale e amante del quieto vivere, ma che la vera anima
mercenaria sia quella di Edipo che non esita a nascondere un omicidio comprando
il silenzio di un servo. Edipo appare fin dal proemio come un personaggio non
esattamente positivo, egli ha la colpa di aver taciuto l'omicidio di un re.
Martello, nel proemio, fa un'osservazione quasi metateatrale, rivendicando per il
suo personaggio una maggiore corrispondenza alla descrizione aristotelica del
protagonista della tragedia: un uomo che si trova in una posizione intermedia fra
vizio e virtù in modo da suscitare pietà e terrore, quindi catarsi, senza scivolare
nell'indignazione o risvegliare il senso di giustizia. Siamo in presenza di un uomo
pienamente colpevole di un delitto che potremo definire «minore» rispetto agli
altri predetti dall'oracolo; l'accordo mercenario tra Edipo e Forbante, che mostra
la consapevolezza di ciò che accadde in Focide, e la successiva confessione a
Jocasta all'inizio della tragedia sono i principali motivi che inducono il colpevole
Edipo a non indagare sulla morte di Laio. Alla fine del primo atto gli unici ad
essere a conoscenza che Edipo sia l'assassino di Laio sono Edipo stesso, Forbante
e Jocasta; ma, se i dubbi del lettore sulla mancata inchiesta sono caduti, non può
essere così per gli altri personaggi. Essi non conoscono la colpevolezza di Edipo,
criticano la lentezza e la sommarietà dell'indagine che non sembra affatto
accettabile in un re che siede sul trono di un predecessore ucciso e ne ha sposato
la vedova. Il personaggio che rivolge un rimprovero esplicito per la mancata
inchiesta è Creonte nella seconda scena del secondo atto:
CREONTE: […] s'è pensato ai piaceri del crear figli, e annida
impunito fors' anche qui dentro il parricida
del qual se la ricerca iva allor men negletta,
non chiederebbe or l'alma sdegnosa al Ciel vendetta;
ma la chiede, e la vuole quale al furor suo basta,
del qual rei, con tua pace, siete Edipo e Jocasta.10
10 Ivi, atto II, scena 2, vv. 155-160.
29
La battuta di Creonte pone le parole chiave della vicenda in incipit e soprattutto
in explicit di verso, evidenziandole fortemente: in primo luogo forse l'assassino si
annida, come un parassita indesiderato, nella reggia. Questa visione è in linea con
coloro che credono che il regno di Edipo sia in realtà un'usurpazione poiché,
anche se il suo potere deriva dalla sconfitta della Sfinge, egli ha comunque ucciso
il suo predecessore. Al verso 156 l'iperbato «impunito» e «parricida» crea una
struttura ad inquadramento che sottolinea, con una pericolosa allusione di cui
certo Creonte non è consapevole ma che non può sfuggire al lettore, la gravità
della situazione: un regicida vaga ancora libero forse anche nella dimora
dell'ucciso. Nei due versi seguenti assai significativa è la rima «neglettavendetta»: il fratello di Jocasta usa una parola molto forte per indicare il
comportamento dei monarchi riguardo alla morte di Laio, la ricerca del colpevole
non è stata né sommaria né sbrigativa, essa è stata semplicemente, ma
gravemente, trascurata. Creonte sembra intuire che Edipo non si sia affatto
occupato di cercare l'omicida di Laio. Il collocare le due parole in rima fa sì che
si crei uno stringente nesso di causa-effetto fra loro: è stata la mancata ricerca a
provocare l'ira di Laio e quindi il suo desiderio di vendetta, evidenziato ancora
maggiormente nel verso successivo dal climax «la chiede, e la vuole» adeguata al
suo furore. L'ultimo verso contiene l'accusa esplicita e ormai ineluttabile, «con
tua pace», nei confronti di Edipo e Jocasta che hanno trascurato un dovere
imposto dalla pietas e dalla ragion di stato per dedicarsi ai piaceri della vita
coniugale, «s'è pensato ai piaceri del crear figli». Il nominare i colpevoli
nell'ultimo verso e il delitto nel primo dona al passo una sorta di andamento
circolare, una coesione interna molto forte dato che in pochi versi sono stati citati,
in modo da mostrarne la compenetrazione, i delitti della famiglia reale: il
parricidio e la sua mancata soluzione, quindi la disgrazia di Tebe, dovuti ad una
preferenza dei protagonisti per l'incesto.
La concatenazione degli elementi presentata inconsapevolmente da Creonte
mostra che, di fatto, la tesi martelliana della separazione delle agnizioni non
compromette in alcun modo lo svolgimento degli eventi né l'esito finale in cui lo
scioglimento della peripezia e l'agnizione principale coincidono. La catastrofe
giunge sicuramente inaspettata dato che Edipo, con una cecità degna di quella che
30
si infliggerà poi, pensava di aver scampato il pericolo del parricidio e dell'incesto.
Quindi «tolta di mezzo la total trascurataggine delle ricerche» 11 e lo svolgimento
dell'azione in piazza, il principio della verosimiglianza viene rispettato.
1.2 Una tragedia passionale e politica
Un'altra variante particolarmente significativa introdotta da Martello riguarda il
rapporto tra Edipo e Jocasta. Nel testo sofocleo, come in quello martelliano, le
nozze con la regina e il regno di Tebe sono il premio che spetta al solutore
dell'enigma della Sfinge. Edipo riconosce pienamente che il suo potere è dovuto
alla sua sposa quando, nella prima scena del primo atto, afferma che:
EDIPO: Se già a piè della reggia non vi prevenni, il pianto
di Jocasta incolpate. Lei se ho corona e manto,
lei, se al fianco mi splende, come ai dì fortunati,
questa usata importuna pompa di fidi astati.12
Ma Jocasta non è semplicemente la vedova del re e la detentrice, quindi la
garante, del suo potere sulla città: il matrimonio con la regina è la condizione
indispensabile perché il solutore dell'enigma possa regnare, ma si trasforma
immediatamente in un rapporto amoroso vero e proprio che condurrà poi all'esito
tragico della vicenda, come Jocasta spiega nel secondo atto:
JOCASTA: Quattr'anni ha il ciel rivolti da che allor subit'arsi,
che m'apparisti, e ardesti di me, quando t'apparsi.
Noi ci amiamo, o consorte, né per lentar de' sensi
i primi nostri affetti son fra noi mento intensi.13
Le parole di Jocasta evidenziano, tramite il parallelismo dei verbi «ardere» e
«apparire», l'immediatezza e la reciprocità dei sentimenti, che è ribadita poco
dopo da Edipo:
EDIPO: Come tu mi piacesti, piacquiti e ti piacea,
11 Ivi, p. 564.
12 Ivi, atto I, scena 1, vv. 17-20.
13 Ivi, atto I, scena 2, vv. 219-222.
31
quel ravvisar che festi di Laio in me l'idea;
così il volto, e le spalle quello portar di poi
dicevi, e l'età sola distinguerci fra noi.
Somiglianza d'oggetto, già caro in altro oggetto
sì, che mal se n'avveda, trasporta un fido affetto.14
L'amore fra i due è subitaneo e vicendevole, come indica la ripetizione che
occupa interamente il primo verso; Jocasta è subito affascinata dal giovane
straniero che tanto le ricorda il marito ormai scomparso ed è proprio questa
somiglianza ad attirare il «fido affetto» per il nuovo consorte. Ma se questi versi
evidenziano principalmente i sentimenti della regina, già nel primo atto Edipo
trova parole di estrema dolcezza per descrivere la sua sposa: Jocasta è «vaga e
leggiadra»15 e, come nota Valeria Merola, la bellezza della donna viene espressa
nei termini in cui si descrivono le amanti; ma se il primo emistichio è volto a
mostrare Jocasta come un'amante, il secondo «tant'ella è a me feconda»16 ce la
presenta come madre, mettendo in risalto l'aspetto materno e fecondo della regina
«in un senso che non può non risuonare di ironia tragica». 17 Ma al di là
dell'aspetto materno, che vedremo manifestarsi palesemente in Jocasta, i coniugi,
ancora ignari del loro legame incestuoso, continuano a mostrare nell'intimità un
atteggiamento di vero affetto. Nel dialogo che costituisce l'intera seconda scena
del primo atto, gli sposi, mentre Edipo tenta di svelare di aver ucciso Laio,
palesano chiaramente i loro sentimenti.
Una volta avvenuta la confessione, però, la benevolenza della regina si trasforma
in discorso carico d'ira che ribadisce le ragioni dell'amore per il suo sposo:
JOCASTA: Pur sapeasi, o curdele, quant'io l'amava, e sassi
che il sol tuo somigliarlo cagion fu ch'io t'amassi.
Perché dunque in quel punto, che grata al cener sacro,
dacché più lui non posso, ne abbraccio un simolacro,
e che tu sei quel desso, farmegli ingrata insino
ad impalmar la destra di chi n'è l'assassino? 18
14
15
16
17
18
Ivi, atto I, scena 2, vv. 287-292.
Ivi, atto I, scena 1, v. 105.
Ibidem.
Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 57.
Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., atto I, scena 2, vv. 351-356.
32
Da questo sfogo di furore vedovile potremmo intuire che, in realtà, l'amore di
Jocasta nei confronti di Edipo non sia sincero o comunque estremamente
superficiale, ma questi versi sono preceduti da un'accusa di menzogna
intollerabile per un'amante: «reo che il mio ben m'hai tolto, più reo ché mel
tacesti».19 Il vero delitto di Edipo non sembra tanto l'uccisione di Laio, quanto
l'aver mentito a Jocasta, provocandone la complicità nel tradimento ai danni del
primo marito e causando, quindi, l'incrinarsi di un legame affettivo favorito dalla
somiglianza dei due uomini che ora «appare quasi una profanazione della
memoria del re».20 Ma anche se il legame tra i coniugi subirà una modifica sul
piano materiale, rimarrà invariato su quello spirituale: la stima e l'affetto non
vengono meno anche perché Jocasta, in seguito, giustificherà il gesto di Edipo,
sia perché parzialmente innocente, sia qualificandolo come la giusta ricompensa e
la vendetta che lei stessa avrebbe voluto compiere dopo essere stata messa al
corrente dell'infanticidio del figlio ordinato da Laio.21
Ad ogni modo, dopo l'esplosione d'ira della regina, Edipo si rivolge a lei con
accenti di supplica e ammette che «aveva scelto di tacere il proprio
coinvolgimento nel regicidio, per paura di perdere l'amore di Jocasta»:22
EDIPO: Ma che far debbi allora? Scoprirmi? Erami poco
render una corona non cerca in questo loco.
Se l'altra, a che Corinto m'aspetta, è a me d'impaccio,
non mancheriamen'una, mercè di questo braccio.
Te perdea, che d'un regno valevi a me più molto:
però, se l'error tacqui, ne accusa il tuo bel volto,
cui sì amai, che già prima ch'io ti vedessi, e pria
che tu mia ti facessi, mi parevi esser mia.23
Edipo confessa il proprio amore con grande tenerezza e sincerità, il timore di
perdere Jocasta è più forte sia della verità sia del desiderio di potere. In questa
19 Ivi, v. 350.
20 Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 60.
21 Cfr Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., atto II, scena 3, vv. 317-320.
JOCASTA: Il mio allora non saperlo, fe' loco al tuo delitto/ s'io 'l sapeva, preveniati, lasciando
il re trafitto./ Animo ho ben che baste a una vendetta e modi,/ onde un uom fraudolento
cogliessi io tra le frodi.
22 Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 60.
23 Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., atto II, scena 3, vv. 361-368.
33
fase Edipo è un personaggio che si situa completamente al di fuori dell'orizzonte
politico, egli è tutto compreso nel ruolo, dopotutto sincero, dell'innamorato e non
presenta nessuna delle caratteristiche del tiranno; è proprio lui che afferma, pur
non mettendo in dubbio di essere destinato al potere regale, che la sua sposa vale
più di un regno e che aveva l'impressione che il suo bel volto gli appartenesse da
sempre. Gli ultimi due versi confermano quest'idea grazie al parallelismo e al
climax «prima ch'io ti vedessi, e pria che tu mia ti facessi» che risultano, però,
bruscamente sconvolti sul piano cronologico dall'ultimo emistichio «mi parevi
esser mia». L'innatismo dei sentimenti di Edipo e Jocasta, sebbene interpretato
come indice di grande passione, è un forte richiamo al lettore che rabbrividisce di
fronte
all'aperta
manifestazione
dell'amore
materno
e
filiale
ancora
inconsapevole. Ma l'amore a questo punto della tragedia è ancora di tipo
coniugale e soprattutto ancora presente, suo malgrado, nell'animo della regina:
JOCASTA: Che vuoi dunque ch'io dica, lassa!O che vuoi ch'io faccia?
Perché mostrarmi il ferro, se mostri a me la faccia?
Ch'io ti miri, e t'uccida, non è possibil cosa
ché di vedova a sdegno prevale amor di sposa.24
Jocasta sembra rassegnarsi alla forza dell'affetto che prevale anche sul furore
vedovile, propone soltanto di evitare di irritare ulteriormente l'ombra di Laio, di
rispettarne la memoria facendo sì che «torni vedovo il letto»25 e di cambiare i
nomi e i ruoli di sposo e sposa con quelli di madre e figlio che siglano «l'alta
necessitate d'escludersi a vicenda»,26 ma che sono garanzia di un amore ancora
più profondo. Il fatto che l'amore rimanga invariato è testimoniato dall'immediata
preoccupazione della regina perché l'uomo scampato alla strage di Laio riconosca
Edipo e lo denunci:
JOCASTA: Ma un di coloro, che sopravvisse, attosca
le mie speranze: e s'egli pur viva e ti conosca?27
24
25
26
27
Ivi, atto II, scena 3, vv. 426-430.
Ivi, atto II, scena 3, v. 443.
Ivi, v. 454.
Ivi, vv. 475-476.
34
Inoltre al principio dell'atto successivo Jocasta, colloquiando con Tiresia e Manto,
avanza l'ipotesi, che sa essere assolutamente falsa, che ormai l'assassino sia morto
o non rintracciabile.28 Jocasta suggerisce questa possibilità con l'ingenuità tipica
del personaggio innamorato, ma le sue supposizioni hanno vita breve poiché
Tiresia non conosce ancora la verità ma è destinato a scoprirla.
L'amore di Jocasta si manifesta ancora più apertamente nelle parole cariche di
gelosia dell'atto quarto:
JOCASTA: Me neh gir fra' Corinti colà mostrata a dito
nuora, con cui divida la suocera il marito?29
La regina, come sostiene Paduano, mostra in questo caso una mentalità gretta da
donna borghese: ella teme l'incontro con Merope e l'incesto che, come si evince
dalle sua parole, è avvertito più come tradimento nei confronti di un'amante che
come crimine sacrilego.
Vero è che essa non esclude altri torbidi risvolti dell'eros-possesso,
il più sorprendente e sgradevole dei quali è la gelosia che Giocasta
manifesta nei confronti della madre adottiva di Edipo, perciò
opponendosi alla sua volontà di tornare a Corinto: per incredibile
che appaia, [...] non Edipo ma appunto Giocasta crede che possa
realizzarsi ancora l'incesto con Merope, e acidamente commenta
in termini di rispettabilità piccolo-borghese.30
Edipo da parte sua palesa meno i suoi sentimenti ed accetta di buon grado il
volere della sua sposa di proseguire in castità la loro unione e di chiamarsi madre
e figlio
EDIPO: Mi parea sin d'allora meglio inchinar miei spirti
che qual sposo ad amarti, qual figlio all'obbedirti.31
28 Cfr Ivi, atto IV, scena 1, vv. 19-20. JOCASTA: Forse più l'uccisore non vede il sole, o il
vede/ in tal parte del mondo che piede opponci a piede.
29 Ivi, atto IV, scena 3, vv. 223-224.
30 Guido Paduano, Lunga storia di Edipo re, Torino, Einaudi, 1994, p. 316.
31 Pier Jacopo Martello, cit., atto I, scena 2, vv. 459-460.
35
Ma Edipo continua a confondere, nel corso del dramma, il nome di sposa con
quello di madre mostrando che, nonostante l'inclinazione ad obbedirle come un
figlio, la regina rappresenta ancora a tutti gli effetti una moglie. Come scrive
Valeria Merola, Edipo subisce un vero e proprio «processo secondo la legge del
cuore»32 ma ne viene quasi completamente assolto in nome dell'amore presente
fra gli sposi. Tale sentimento così forte e così resistente è immediatamente notato
dal lettore poiché si tratta di una variante inedita, introdotta per la prima volta da
Martello ed è di grande effetto sul lettore: il pubblico aveva sempre assistito ad un
incesto inconsapevole, determinato dalla soluzione dell'enigma e dal conseguente
matrimonio e senza il coinvolgimento affettivo dei due coniugi. Ora invece,
proprio per porre maggiormente l'accento sull'incesto, l'autore, in linea con il suo
tempo e con i suoi modelli che ammettevano la passione amorosa sulla scena, ci
mostra due improbabili coniugi che si amano teneramente, costringendo il lettore
a seguire la vicenda in preda ai più alti sentimenti di terrore e compassione.
Oltre all'amore troviamo nella tragedia una componente meno accentuata che è
quella politica. Il personaggio che si fa portavoce delle istanze politiche del
dramma è Creonte. Creonte è il fratello di Jocasta e gode nella città di Tebe di uno
statuto particolare: come sostiene Oddone Longo egli è un «tertius inter pares»,33
è colui che viene immediatamente dopo Edipo e Jocasta ma ne ha in qualche
modo pari poteri. «Creonte è il politico»,34 sarebbe sufficiente questa concisa
affermazione di Umberto Albini per comprendere la statura di questo
personaggio: «egli si batte per conservare gli equilibri ottimali che potrebbero
essere messi in forse da avvenimenti esterni, fiuta il rischio per il suo paese e
intende evitarlo: non vuole porre sotto controllo ulteriori spazi, allargare il proprio
dominio, ma salvaguardarlo».35 Se Edipo e Jocasta regnano alla pari, come è
testimoniato dalla stessa formula con cui gli altri personaggi si rivolgono loro, 36
essi sono, però, troppo implicati nei loro problemi coniugali, mentre Creonte è
32 Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 59.
33 Oddone Longo, Regalità, polis, incesto nell'Edipo tragico, in Atti delle giornate di studio di
Edipo, Torino 11-12-13 Aprile 1983, a cura di R. Uglione, Celid, Torino, 1984, pp. 69-83, p.
72.
34 Umberto Albini, Edipo e Creonte nell'«Edipo a Colono», in Ivi, pp. 117-121, p.117.
35 Ibidem.
36 Cfr Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., atto I, scena 1, vv. 29-30. CREONTE: O tu, che
reggi/ Tebe un tempo felice con fren delle tue leggi e Ivi, atto II, scena 2, vv. 71-72
CREONTE: O tu che reggi/ l'anfionee contrade col fren delle tue leggi.
36
interamente votato alla politica. È lui che viene incaricato di andare a Delfi per
interrogare l'oracolo e non può fare a meno di suggerire un'interpretazione politica
delle parole di Apollo. Il verdetto di Delfi 37 assomma in sé i due responsi
precedenti: quello attraverso cui Edipo seppe di essere destinato all'incesto e al
parricidio e quello che decretava il divieto alla procreazione imposto a Laio e
Jocasta; essi avrebbero generato un figlio che avrebbe ucciso suo padre e sposato
sua madre. Il nuovo oracolo stabilisce una connessione tra i due precedenti, ma i
personaggi non sono ancora in grado di comprendere che i verdetti si sono ormai
realizzati e dunque si affannano a scongiurarli o a proporre altre interpretazioni.
Creonte, infatti, lasciando da parte l'incesto, guarda al parricidio con gli occhi del
politico introducendo per primo l'ipotesi che non si tratti dell'omicidio del padre
privato ma di quello pubblico:
CREONTE: Se a quel non tolse che diede a lui la vita,
nel re di questa or sua patria il padre ha trafitto,
maggior, che se uccidesse suo padre, in uom delitto:
che di due parricidi qual è più scellerato,
quel che al pubblico padre dà morte, o che al privato? 38
Parricidio, nella concezione paternalistica del potere mostrata da Edipo fin dal
primo atto, può essere anche l'assassino del re che è padre della patria e di tutti i
suoi sudditi. Questa interpretazione è lecita a Creonte che legge la realtà solo in
base a categorie politiche, ma non può esserlo a Edipo il quale «si dipinge per
uomo accorto»39 e ha già dato prova di avere un'intelligenza superiore agli altri
uomini: egli non può e non deve guardare i fatti da un unico punto di vista.
Mentre si reca a Delfi, Creonte osserva la sterilità e la peste che stanno
minacciando Tebe: dato che si sta abbattendo su un regno che è anche suo, la
peste deve essere assolutamente sconfitta e perciò è necessario che si plachi
l'ombra di Laio. Creonte, preoccupato per la situazione della sua patria, descrive
37 Cfr Ivi, atto I, scena 1, vv. 135-138. CREONTE: Sinor l'ombra di Laio non fu placata assai;/
placheralla l'esilio di tal, che a lui funesto,/ reo fu del parricidio predetto e dell'incesto./
Plachila; e da' tuoi mali, Tebe respirerai.
38 Ivi, atto IV, scena 3, vv. 110-114.
39 Ivi, p. 562.
37
con grande precisione gli effetti della calamità che si sta abbattendo sulla città. 40
Tale descrizione mette in luce il profondo legame tra Creonte e la sua patria ma
la sua preoccupazione per la situazione del regno non è condivisa dai regnanti. Si
crea un particolare gioco di contrasti per cui colui che non è re si interessa
maggiormente alla città, mentre alla sterilità delle terre tebane si contrappone la
fecondità della famiglia reale. Tale contrasto è sottolineato da Creonte quando,
una volta conosciuto il modo per far cessare la peste, non esita a rimproverare la
sorella ed il cognato per la trascuratezza con cui sono state condotte le indagini
sulla morte di Laio:
CREONTE: […] s'è pensato ai piaceri del crear figli, e annida
impunito fors' anche qui dentro il parricida
del qual se la ricerca iva allor men negletta,
non chiederebbe or l'alma sdegnosa al Ciel vendetta;
ma la chiede, e la vuole quale al furor suo basta,
del qual rei, con tua pace, siete Edipo e Jocasta.41
Il piacere si oppone al dovere nei confronti del regno e nei confronti della pietas
familiare: il duro rimprovero e la commovente descrizione della peste
evidenziano l'errore dei sovrani e la sofferenza di Creonte nel vedere la città
sopraffatta dalla morte.
L'amor di patria di Creonte può essere interpretato come volontà di non essere più
«tertius inter pares» ma unico tiranno della città; è Edipo stesso che muove
questa accusa nei suoi confronti. Edipo abbandona, dopo il primo atto, il ruolo
totalizzante dell'innamorato perché deve fronteggiare le accuse che lo vogliono
incestuoso, parricida e regicida. Dopo il primo atto, infatti, Edipo sembra
40 Cfr Ivi, atto II, scena 2, vv. 163-178. CREONTE: Vidi allor, che ver Delfo trassi, e da Delfo
io trassi/ cose che di pietade potrian rompere i sassi./Pallido in ogni parte crepa l'arso
terreno;/d'erba non v'ha fil verde, ma basso arido fieno:/ tal che non mieter falce lo può,
non staccar dente/ d' inscheletrito bue, che il piè mancar si sente/ digiuno, e, intisichendo,
di fame e sete arrabbia,/ ma tratto ove fu rio, giaia vi trova e sabbia:/ quinci essiccato in
parte, tutto incadaverito,/e la vita e la peste fuor caccia in un muggito:/ ma la peste, che
n'esce, contamina l'armento:/senza animal che pera non contasi un momento./ Il pastor
vecchierello, prima che n'avveggia,/ istupidisce, e il vedi morir colla sua greggia,/ e
infettata da lui pur muor, mentre il consola,/ in proprio danno a lui mal pia sua
famigliuola.
41 Ivi, atto II, scena 2, vv. 155-160.
38
corrispondere maggiormente a quelle che vengono indicate come le
caratteristiche principali del tiranno nella Repubblica di Platone: l'erotismo,
l'irascibilità e la gozzoviglia. Pur mancando la gozzoviglia, l'erotismo e
l'irascibilità sembrano elevate al massimo grado. Oltre all'erotismo, che si
manifesta in un incesto con un inquietante coinvolgimento affettivo, anche
l'irascibilità è presente e si mostra a partire dal terzo atto, quando Tiresia addita il
sovrano come colpevole dell'omicidio di Laio e lo rivela anche parricida e
incestuoso. Sopraffatto dall'ira, Edipo immagina che Creonte e Tiresia stiano
ordendo una congiura ai suoi danni per impadronirsi del potere. 42 La collera lo
conduce a recuperare almeno in parte il suo ruolo politico: Edipo è un tiranno che
vuole ostacolare qualsiasi tentativo di opposizione o di usurpazione del potere,
per questo è oltremodo sospettoso nei confronti di Creonte, che però non sembra
aspirare al trono. L'attaccamento quasi morboso al potere conduce Edipo a
rifiutare, sbeffeggiare brutalmente e accusare di tradimento politico anche
l'autorità religiosa di Tiresia, nonostante l'indovino non sia interessato al regno: la
sua cecità è simbolo di un profondo distacco dal mondo terreno e rivela il suo
paradossale compito di scoprire la verità.
Nella scena successiva è Creonte, carico di rabbia e di risentimento, a smentire le
accuse farneticanti di Edipo:
CREONTE: Ah più tosto mi s'apra sotto le piante il suolo
che mi passi di mente per froda un pensier solo.
Per non soffrir la colpa d'ingrato e di fellone,
calpesterei ben quante può Grecia offrir corone.
Io tradir chi a Jocasta recuperò i felici
perduti giorni, e immerso ne tien fra i benefici?
Quasi che, tolti i regi, mi rimanesser vuoti
lor seggi, e non gl'empiesser due figli a me nipoti.
Ciò vuol dir che, se affetta l'aver corona in fronte,
tòr di mezzo i nipoti già fisso ha in cuor Creonte!43
42 Cfr Ivi, atto III, scena 4, vv. 99-106. EDIPO: E così tu vecchiardo col buon cognato unito/
fossi pure innocente d'avere un re tradito/ colle vostre menzogne come innocente è questi/
dei parricidi in lui sognati, e degl'incesti./Gran tempo è che m'avvedo che frodi in capo
aggira/ Creonte, e che in cacciarmi dal regno, al regno aspira./ Bel commercio è fra voi,
ch'ei saglia ai primi onori,/ da te aitato, e teco si parta i miei tesori.
43 Ivi, atto IV, scena 2, vv. 43-54.
39
Creonte pronuncia questa appassionata autodifesa sottolineando l'amore per la sua
famiglia: non può desiderare di uccidere colui che ha reso felice Jocasta dopo la
morte di Laio, né tantomeno può voler uccidere i nipoti ancora bambini. Creonte
fa appello ad un codice d'onore rispettato dai principi: gli animi onorati non
mentono e non tramano contro il proprio sangue solo per ottenere il potere.
Ritornando alle parole di Albini, Creonte vuole salvaguardare il proprio dominio e
non aumentarlo. Egli è interessato solo al bene della città e non al potere
personale: se Edipo sconfigge la Sfinge liberando Tebe, sia accolto con onori
regali, se ora la città è sconvolta dalla peste si trovi l'assassino di Laio in modo da
porre fine all'epidemia. La tesi di un interesse reale per la città è supportata dal
fatto che in alcune versioni dell'Edipo coloneo Creonte diventa re di Tebe ma va
ugualmente a cercare Edipo per fare in modo che la città si assicuri la protezione
di cui godrà il luogo dove giaceranno le ossa dello sventurato sovrano; se il bene
di Tebe non fosse stato tra le sue preoccupazioni si sarebbe accontentato della
corona che ormai ha ottenuto.
1.3 La tragedia preannunciata
Il testo martelliano sembra voler annunciare fin dall'inizio il suo esito tragico. Si
notano nel testo numerosi segnali che fanno presagire la catastrofe aumentando
nel lettore la pietà ed il terrore e causando un vero e proprio fenomeno di conpassione; il lettore, cogliendo i riferimenti e le allusioni, soffre già dal principio
della tragedia per gli eroi sventurati.
Il meccanismo principale usato dall'autore per ottenere quest'effetto è l'ironia
tragica. L'ironia tragica è un particolare procedimento teatrale per cui un
personaggio, senza sapere che che tutto gli si ritorcerà contro, lancia una
maledizione contro qualcuno o si augura che qualcosa non avvenga o, come
avviene in questo caso, propone pericolosi scambi di ruolo. L'ironia tragica è
presente in tutte le versioni di Edipo a partire da quella sofoclea: nel testo di
Sofocle il principale momento di ironia tragica si ha quando Edipo dà inizio alle
ricerche dell'assassino di Laio, lo maledice e lo condanna all'esilio. Ma Martello
decide di aumentarne le occorrenze e aggiungere altri momenti che fanno correre
40
al lettore «un gel per l'ossa»;44 Edipo nel primo atto, quando si appresta a
cominciare le ricerche del regicida, dichiara:
EDIPO: Erede io del suo trono, qual se vivea, sarebbe
l'estinto unico figlio che di Jocasta egli ebbe,
debbo a lui, qual padre, quel che un figliuol dovria,
e la morte e l'ingiuria sua vendicar qual mia.45
L'«estinto unico figlio» di Laio e Jocasta è proprio Edipo e suona particolarmente
sinistro in bocca sua il distacco dalla famiglia reale tebana, esplicitato al terzo
verso: Edipo sembra voler agire solo in qualità di figlio nei confronti di qualcuno
che deve considerare in qualità di padre, senza ancora sapere che Laio è davvero
suo padre; l'ironia tragica si mostra, inoltre, con il proponimento di vendicare il
torto come suo, dato che è stato lui ad ucciderlo anni prima. Nei versi
immediatamente successivi l'ironia tragica prosegue, infatti troviamo il
giuramento di mandare in esilio il colpevole che, rivelerà egli stesso, è lui.
EDIPO: Dunque voi tutti invoco, superni Dei, e presenti
d'Edipo re di Tebe qui ai voti, ai giuramenti.
Giuro che se a me fia, siccome è a voi palese,
consapevole in Tebe, chi voi, re, e patria offese,
privo delle sacr'acque, da questa terra errando
andrà (poiché il volete, pii Dei bandito) in bando.46
Ma Edipo conosce già il nome di chi ha offeso gli dei, il re e la patria e, non
rivelandolo, non mente solo a Jocasta ma all'intero popolo di Tebe. È presente una
sorta di ironia tragica falsa: Edipo sa che la maledizione ricadrà su di sé, se avesse
adottato un atteggiamento corretto avrebbe dovuto abbandonare immediatamente
la città invece di continuare a tacere la propria colpa e seguitare a cercare una
scappatoia per il resto della tragedia. Edipo crede di essere innocente dato che
non poteva sapere che l'uomo che uccise era Laio, ma né l'ignoranza dell'identità
dell'ucciso né l'amore di Jocasta possono giustificare il suo comportamento in
44 Ivi, atto I, scena 2, v. 458.
45 Ivi, atto I, scena 1, vv. 181-184.
46 Ivi, vv.185-190.
41
questa circostanza, le sue parole pronunciate in malafede rendono nulle le iniziali
dichiarazioni di affetto per i Tebani.
L'ironia tragica non è prerogativa soltanto di Edipo, anche Jocasta svolge un ruolo
importante in questo procedimento annunciatore dell'esito tragico. Nella terza
scena del secondo atto, dopo la confessione, Edipo inizia ad avvertire uno strano
dolore ai piedi, causato dalle cicatrici, che lo costringe a dire «stamane era un
fanciullo, Jocasta, ed ora son vecchio»,47 affermazione in cui si riscontra
un'identificazione tra l'enigma della Sfinge ed il suo solutore con una mise en
abyme dell'unità di tempo: la giornata dell'enigma è una metafora della vita, qui
invece si fa riferimento al corso di una sola giornata in cui si arriva allo
scioglimento della tragedia. Jocasta, ascoltando i lamenti del consorte, fa una
singolare associazione di idee: «cotesta tua qualsiasi dei piè feriti istoria,/ un non
so che d'atroce mi sveglia alla memoria». 48 Jocasta inizia a ricordare la triste
storia del suo bambino, ucciso per volere del precedente marito, ma il racconto di
Edipo non è una storia qualsiasi, e il «non so che d'atroce» può sembrare quasi
preludio ad una completa agnizione di Edipo da parte di sua madre. La regina,
però, sembra intendere come «atroce» solo la terribile vicenda del suo primo
figlio, ma il fatto che usi le parole «non so che» fa pensare che inconsciamente
stia iniziando a comprendere chi è il giovane che si trova davanti a lei. Il
bambino, infatti, fu «per ambi i pieducci trafitti impeso in selva» 49 ed è davvero
strano che una donna dell'intelligenza di Jocasta non deduca fin da ora dall'età e
dalle cicatrici sulle caviglie la vera identità del marito, tanto più che è stata messa
in allarme da una sensazione inconscia. Il dolore della regina permette di capire la
differenza fra il personaggio martelliano e quello sofocleo: la Jocasta di Martello
è sposa ma soprattutto madre. Ogni elemento in lei, dalla fecondità all'amore
materno che si estende, non senza ironia tragica, anche al marito, ce la qualifica
come tale: Jocasta non è a conoscenza dell'oracolo e condanna in cuor suo Laio
per aver ucciso il loro figlio. La Giocasta di Sofocle conosce l'oracolo e,
contravvenendo alla legge della natura e commettendo un atto di hybris, è lei
stessa che consegna il bambino al servo perché lo esponga sul Citerone.
47 Ivi, atto II, scena 3, v. 244.
48 Ivi, atto II, scena 3, vv. 263-264.
49 Ivi, v. 315.
42
Un altro esempio di ironia tragica si ha quando Edipo riceve la notizia della morte
di Polibo: la sua felicità di fronte alla scomparsa del genitore è così empia che
sente il bisogno di giustificarsi.50 Edipo, con una buona dose di hybris, si
considera ormai assolto e dichiara vana l'accusa di parricidio ringraziando gli dei
per averlo liberato. Ma a fare da contrappunto alle esclamazioni di sollievo del re
si trova, nella scena successiva, il serrato dialogo fra Jocasta e Tiresia che fa
intuire che lo scioglimento tragico è ancora lontano e che la situazione, salutata
con gioia e senso di liberazione, si capovolgerà:
JOCASTA: Almen mortogli il padre non fia il re parricida.
TIRESIA: Ver dicesti. Ei più al certo non fia che il padre uccida
JOCASTA: Sottrerrallo all'incesto le sue virtuti istesse.
TIRESIA: Ver diresti, se madre fra i vivi ei non avesse.51
La confutazione dei tentativi di giustificazione di Jocasta è svolta tramite un
dialogo molto incalzante, in cui Tiresia si avvale di un'anafora per sottolineare
che le parole della regina possono essere vere solo in un contesto diverso da
quello presente: quasi comicamente l'indovino afferma che Edipo non può più
uccidere il padre, ma ovviamente non perché Polibo è morto, e alla fiducia nella
virtù del re, Tiresia risponde gravemente che, dopo la predizione dell'oracolo, la
virtù è inutile se sua madre appartiene al mondo dei vivi.
Nel testo martelliano esiste anche una declinazione particolare dell'ironia tragica
che si esplicita nella presenza di inquietanti giochi di ruolo e allarmanti
somiglianze fra i personaggi, come se l'autore volesse dar sfogo al suo gusto di
«rifare le voci», individuato da Grazia Distaso. Il gioco di ruolo è introdotto fin
da subito nel testo: immediatamente dopo l'ammissione dell'omicidio fatta da
50 Cfr. Ivi, atto III, scena 4, vv. 143-144, 153-154. Tanto in me può la gioia che vane sian le
grida/ che innevitavilmente volean me parricida,/ [...] O Numi omai contenti del misero altrui
strazio,/ a mani giunte, inchinato la testa, io vi ringrazio.
Queste esternazioni quasi blasfeme del personaggio sono così spiegate da Valeria Merola nel
saggio Paradigmi Edipici, cit, p. 65: la spavalda dichiarazione di innocenza fonda le proprie
basi sulla natura calcolatrice di questo personaggio, che nell'interpretazione martelliana è
accecato dal proprio interesse al punto da accogliere con soddisfazione la morte di Polibo,
quasi fosse una ricompensa per il maltolto. Lungi dal sentirsi liberato dalle premonizioni
dell'oracolo, Edipo si considera piuttosto immune dalla giustizia umana, che non può
condannarlo per un “innocente fallo”.
51 Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., atto III, scena 5, vv. 191-194.
43
Edipo, la regina si sente in dovere di assumere un atteggiamento riparatore nei
confronti di Laio, dato che gli si è fatta «ingrata insino ad impalmar la destra di
chi n'è l'assassino».52 Propone, perciò, un regime di castità sancito da un bizzarro
quanto agghiacciante scambio di parti:
JOCASTA: Me tu madre, io te figlio chiamianci, e ognun s'inganni
col figurar suo stato dal numero degli anni.
Tal con sì sacri nomi più forte in noi si renda
l'alta necessitate d'escluderci a vicenda.53
Jocasta cerca di creare una barriera invalicabile tra se stessa e il marito
utilizzando i nomi sacri e irreversibili di madre e figlio;54 la nuova disposizione
creata dalle parole di Jocasta è davvero incredibile, senza saperlo la regina riporta
l'ordine in una situazione familiare in cui i ruoli erano mutati e si erano
sovrapposti:
La conseguenza del connubio con la madre è in primo luogo il
sovvertimento del cosmo della parentela. L'incesto va infatti ad
attaccare l'unicità e l'irreversibilità dei rapporti di parentela
gettando nel caos il sistema ordinato della famiglia.55
Il legame madre-figlio, ristabilito solo per finzione, è creduto unico ed
irreversibile e posto a garanzia dell'«alta necessitate d'escluderci a vicenda», dato
che il loro commercio è sentito come impuro. Jocasta adotta, quale «cristiana
penitenza»,56 una creduta sovversione dell'ordine nella sua attuale famiglia, ma
che, paradossalmente, riconduce alla verità dei legami familiari, i quali
precedentemente versavano in una condizione di sovrapposizione e di caos
52 Ivi, atto I, scena 2, vv. 355-356.
53 Ivi, vv. 451-454.
54 Cfr il saggio di Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 61: È un'ulteriore concessione al
criterio della verosimiglianza, anche perché ribadisce tra i due sposi reali un rapporto più
confacente alla loro differenza di età. Sciogliendo il nodo matrimoniale, Jocasta dà legittimità
a un nuovo legame avvertito come meno sacrilego. Ne deriva una situazione paradossale, per
cui si assume il legame familiare a garanzia dell'astensione di qualsiasi rapporto fra i due. Con
un eloquente colpo di teatro, Jocasta si avvale dell'orrore di un incesto solo virtuale, come
freno ad ogni possibile tradimento della memoria di Laio.
55 Oddone Longo, Regalità, polis, incesto nell'Edipo tragico,cit., p. 80.
56 Guido Paduano, Lunga storia di Edipo re, cit., p. 316.
44
assoluti:
Edipo è insieme padre e fratello (dovremmo aggiungere uterino)
dei suoi figli; rispetto a Giocasta, egli è al tempo stesso figlio e
marito (e Giocasta è insieme madre sua e dei suoi figli). Ancora
Giocasta è colei che ha generato un marito dal marito e figli dal
figlio.57
Edipo non fa che confermare le asserzioni di Jocasta, sembra cogliere nelle parole
della regina il giusto nome del sentimento che prova per lei e intuisce una
naturale predisposizione all'obbedienza che emerge solo nei confronti della
madre-moglie.58
Ma commette il grave errore di dimenticare di chiamare Jocasta col nome di
madre proprio quando nella regina è avvenuta l'agnizione definitiva:
EDIPO: Placati, o pia consorte: perché più e più sdegnosa
mi sogguardi? Ah perdona se il nome usai di sposa.
Ciò t'irrita: or sovviemmi del mio fallo in pena
ognor madre ha a chiamarti: farollo e ti serena.59
Jocasta non ha più dubbi sull'identità del marito e per questo il suo sguardo è
carico di sgomento e di sdegno. In questi versi si nota una grande ambiguità:
Edipo non è ancora giunto al riconoscimento quindi interpreta male lo sguardo
inorridito della sposa; secondo lui, lo sdegno è dovuto ad un errore nell'uso degli
appellativi e dunque chiede perdono per averla chiamata «consorte» e la rassicura
promettendo che da ora in poi userà il nome di madre. Il lettore, come Edipo che
conoscerà di lì a poco la sua identità, comprende che il protagonista dovrà
realmente rivolgersi alla regina chiamandola «madre» ma ciò non può
assolutamente rasserenare né l'animo di Jocasta né quello del pubblico.
Il gioco di ruolo, che individua la corretta assegnazione dei ruoli familiari, è
ulteriormente aggravato da una triplice somiglianza fra Laio, Edipo ed Eteocle.
La somiglianza fra Laio ed Edipo è particolarmente insistita nel dialogo tra i due
57 Oddone Longo, Regalità, polis, incesto nell'Edipo tragico, cit., p. 81.
58 Cfr. Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., atto I, scena 2, vv. 459-460. EDIPO: Mi parea
sin d'allora meglio inchinar miei spirti che qual sposo ad amarti, qual figlio all'obbedirti.
59 Ivi, atto IV, scena 4, vv. 297-300.
45
sposi nel primo atto: Jocasta dichiara che Edipo è il «simolacro» del suo
precedente marito ed è questa similarità, che dovrebbe invece favorire il
riconoscimento, ad indurla all'innamoramento. Una somiglianza che dovrebbe
essere ancora più rivelatrice è quella tra Edipo ed il figlio Eteocle. Nel secondo
atto Jocasta, in seguito ai lamenti del marito per il dolore ai piedi, richiama alla
memoria la vicenda del suo primo bambino e, per accertarsi che il consorte
comprenda il suo discorso, accenna all'urna funeraria che doveva avergli mostrato
e in cui Edipo:
JOCASTA: Di cui spesso osservando la statuetta, hai mostro
molto in quelle fattezze trovar d'Eteocle nostro.60
Come Edipo è il simulacro di Laio, così nella statuetta del piccolo Edipo si
ritrovano i tratti di Eteocle. La somiglianza fisica segue con estrema precisione la
linea paterna, ma le tre generazioni condividono anche una affinità sul piano
morale: Laio, Edipo ed Eteocle sono destinati a compiere delitti finché il sangue
dei Labdacidi non si estinguerà. Ad ogni modo il lettore, che rabbrividisce
sapendo che quello nell'urna è il ritratto di Edipo, si meraviglia di come a questo
punto non avvenga l'agnizione: ci sono già moltissimi indizi, la somiglianza tra
Laio ed Edipo, la differenza di età con la regina, la coincidenza cronologica, le
cicatrici sui piedi di Edipo ed ora anche la somiglianza tra il bambino nell'urna ed
il piccolo Eteocle.
Un altro parallelismo importante si stabilisce in linea “materna” ed è quello che si
crea tra Jocasta e Merope, il cui rapporto è inizialmente stabilito solo in termini di
gelosia. La relazione fra queste due figure è sempre di parità: esse si trovano sullo
stesso piano dapprima come amanti, infatti Jocasta considera Merope come sua
rivale nell'amore di Edipo, stimando l'incesto alla stregua di un tradimento, poi
come madri. È Creonte che convince la sorella che l'incesto è possibile, l'età
matura di Merope non è un impedimento poiché è la stessa di Jocasta;
ricordandole il suo essere adulta, Creonte, reinserisce Joscasta nel ruolo più
consono alla sua età, quello di madre:
60 Ivi, atto II, scena 3, vv. 289-290.
46
JOCASTA: Merope oimè? Una madre già vecchia? E che dirai?
CREONTE: Vecchia non fia, se gli anni da te ne conterai.
Ti potrebbe esser figlio colui che è teco unito,
perché dunque alla madre non puote esser marito?61
Con una lucidità che manca a tutti gli altri personaggi, Creonte ammette la
possibilità dell'incesto con Merope, ma riconosce anche una certa anomalia,
dovuta alla differenza d'età, nell'unione di Edipo e Jocasta; così facendo instaura
tra Merope e Jocasta «un parallelo estremamente ambiguo che le vuole entrambe
regine e madri, almeno simboliche».62 Ma la regina, accecata dall'amore, continua
a rimandare il riconoscimento e le parole di Creonte non fanno che aumentarne la
gelosia.
L'unico al quale la vicenda si mostra nella sua chiarezza è Tiresia. Tiresia è un
indovino cieco che possiede una vista interiore ed il privilegio di una
comunicazione diretta con gli dei. Egli ha un ruolo fondamentale nella tragedia:
poiché gli dei gli hanno rivelato l'identità dell'assassino di Laio, egli si fa carico di
sollecitare Edipo nello scoprirsi di fonte alla città e viene, inoltre, invocato come
giudice che deve indicare al re i reati per cui è stato condannato. A causa della sua
vicinanza agli dei, questo personaggio sembrerebbe completamente distaccato dai
pensieri e dai sentimenti terreni, invece all'inizio dell'atto terzo, prima di
smascherare Edipo, rivolge una preghiera ad Apollo dandoci un commovente
saggio della sua umanità.63 Quella di Tiresia è un'umanità contraddittoria, la
mente è occupata dal dio ma non tanto da fargli dimenticare l'affetto per Edipo
quindi, per evitare il dolore dell'annuncio che sta per dare, supplica Apollo di
togliere dalla sua mente o la disgrazia o l'amore di Edipo.
Nell'opera l'indovino è accompagnato dalla figlia Manto, personaggio che
compare per la prima volta nella versione di Seneca. Manto significa «profezia» e
dunque sembra che Tiresia sia accompagnato dall'altezza del suo magistero
personificato nella figlia. La concretizzazione ben visibile del suo dono, che
dovrebbe metterlo a riparo da ingiurie e incredulità, non riesce a proteggerlo da
61 Ivi, atto IV, scena 3, vv. 134-138.
62 Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 65.
63 Cfr. Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., atto III, scena 2, vv. 35-38. TIRESIA: Perché
coi sovrumani serbar gli umani affetti,/ quando tu sei in mia mente, né miei sono i miei detti./
Levami, o la memoria di quanto hai rivelato,/ o quella ancor mi togli di avere Edipo amato.
47
che Edipo si rifiuta credergli e lo insulta sacrilegamente. La presenza di Tiresia e
Manto si inscrive nell'ambito degli elementi rivelatori poiché è già prefigurazione
del destino che toccherà a Edipo e alla figlia Antigone. Manto inizia un processo
di identificazione con Antigone a partire dall'affetto che entrambe nutrono nei
confronti del padre.64 Si può già riconoscere nel devotissimo amore filiale di
Manto ciò che Oddone Longo descrive a proposito dei rapporti tra alcuni
personaggi: Longo parla di «sopravvalutazione dei rapporti di parentela»65 che,
nell'Edipo a Colono di Sofocle, avviene soprattutto tra Edipo e Antigone e tra
Antigone e Polinice.
Le parole di Manto sono seguite dall'esplicita profezia di Tiresia che annuncia ciò
che accadrà nell'Edipo coloneo: Edipo, vecchio e cieco, vagherà per la Grecia
avendo figlia come guida.
TIRESIA: Non correran molt'anni che avralla Edipo a canto,
forse ad essergli allora quel che ora a me sei, Manto.66
1.4 La questione della colpevolezza
La questione dell'innocenza o della colpevolezza di Edipo è stata a lungo
dibattuta a partire dalla Poetica di Aristotele in cui per indicare la colpa o l'errore
tragico viene usato il termine hamartema.
L'hamartìa, sostantivo astratto da cui deriva il ben più concreto hamartema, «è
uno dei concetti fondamentali della Poetica»,68 opera in cui si distinguono tre
tipologie di errore: l'adìkema, il delitto volontario e premeditato, l'hamartema,
l'errore di valutazione, e l'atùkhema, il delitto voluto dal fato di cui l'idividuo non
può essere ritenuto responsabile.69 Lo schema proposto da Mattioda è
ulteriormente chiarito da Suzanne Said la quale, nel saggio La faute tragique,
ridimensiona le categorie dell'errore di Mattioda non occupandosi dell'adìkema
che, essendo errore volontario, esula dalla condizione essenziale della tragedia.
Un delitto intenzionale colloca il personaggio nell'orizzonte della malvagità,
64 Ivi, atto III, scena 1, vv. 11-12. MANTO: Ma quell'Antigonuccia più am'io della mia vita,
perché amando il suo babbo, me più dell'altra imita.
65 Oddone Longo, Regalità, polis, incesto nell'Edipo tragico, cit., p. 81.
66 Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno,cit., atto III, scena 2, vv. 13-14.
68 Enrico Mattioda, Teorie della tragedia nel Settecento, cit., p. 166.
69 Cfr. Ivi.
48
quindi fuori dal canone indicato da Aristotele, che aveva designato per la tragedia
un personaggio mezzano, a metà fra vizio e virtù. Un eroe che si caratterizza per
deliberata malvagità comporta che la punizione alla fine della tragedia soddisfi il
desiderio di giustizia dell'osservatore, ma non provochi la catarsi. Le tipologie di
errore prese in esame da Suzanne Said sono dunque l'hamartema e l'atùkhema. In
realtà anche l'atùkhema non rientrerebbe nella tragedia essendo l'atùkhema «ce
qui se produit quand les faits viennent démentir les calculs humains les plus
raisonnables».70 L'atùkhema è, quindi, una disgrazia che non coinvolge la
responsabilità
del
soggetto che si limita semplicemente a subire i fatti;
l'hamartema, invece implica maggiormente la responsabilità individuale e per
questo Aristotele lo individua come l'errore proprio dell'eroe tragico.
Suzanne Said inizia il suo saggio riflettendo sulla vera natura di quello che viene
definito errore tagico: «la faute tragique: crime, erreur ou défault?».71
L'hamartema si avvicinerebbe al concetto di «défault», è una mancanza di
razionalità e di accortezza che sarebbero necessarie per evitare di compiere un
atto errato. L'hamartìa è quindi
un acte commis en état d'ignorance. […] Déjà A. Dacier, à la fin
du XVII siècle, faisait del l'hamartia une faute involontaire qu'on a
commise ou par ignorance, ou par imprudence et malgré soi,
vaincu par une violente passion dont on n'a pas pu être le maître,
ou enfin par une force majeure et exterieure, pour exécuter des
ordes auxquels on n'a pu désobeir.72
Tale definizione sembra esauriente del concetto di hamartìa e particolarmente
calzante al caso di Edipo; Said analizza la vicenda edipica, che è tremendamente
complessa, mettendo in risalto che l'Edipo sofocleo presenta «le parricide et
l'inceste non comme des actes qu'il avait commis mais comme des malheures qu'il
a subis».73 In effetti nella versione di Sofocle è difficile stabilire se il protagonista
70 Suzanne Said, La faute tragique, Paris, Maspero, 1978, p. 24. Secondo il dizionario Petit
Robert, «crime c'est un manquement grave à la loi», «erreur c'est changer vrai et faux» e
«défault c'est absence de ce qui serait necessaire ou désirable».
71 Ivi, p. 11.
72 Ivi, p. 16.
73 Ivi, p. 218.
49
abbia compiuto orrendi delitti o abbia subito enormi disgrazie.
Martello dipinge l'Edipo di Sofocle come «un uomo giustissimo, e molto più
santo di Giove di Apolline di Mercurio, e di tutti gli altri Dei di Varrone» 74 ma,
nonostante questa definizione, il personaggio sofocleo presenta tutti i caratteri
dell'hamartìa secondo la spiegazione data da Dacier: commette un errore per
ignoranza ed imprudenza, in preda ad un'angoscia che non riesce a dominare
causata dalla predizione dell'oracolo ed è sicuramente influenzato da forze esterne
che lo vogliono incestuoso e parricida. Nonostante Aristotele sostenga che quello
di Edipo sia hamartema. l'agire per ignoranza ed in preda a forze esterne
rientrerebbe più nell'ambito dell'atùhkema, l'errore in cui il soggetto non ha
alcuna responsabilità.
Il problema nasce quando si parla di imprudenza: la prudenza è una virtù
cristiana, pressoché sconosciuta nel mondo greco e sicuramente estranea ad un
tiranno impulsivo ed irascibile. Secondo la concezione moderna successiva alla
controriforma, per evitare i delitti, Edipo avrebbe dovuto calcolare i rischi delle
sue azioni, astenersi dall'uccidere un uomo in età da essere suo padre e dallo
sposare «la regina vedova, molto più anziana di lui. Per uno che fuggiva l'incesto
materno è per lo meno una condotta avventata».75 Anche Giacomo Bona sostiene
che le azioni di Edipo non siano compiute per ignoranza ma «per insipienza,
scioccamente»:76 l'accusa di insipienza viene rivolta anche a Giocasta di cui «è
dunque detto non tanto che sposò il figlio senza saperlo, ma che, senza badare,
senza tener conto delle profezie, degli antichi oracoli, per sciocca leggerezza
d'animo non si trattenne dallo sposare il giovane 'straniero'». 77 Edipo e Giocasta
sono, quindi, due personaggi che non badano ai loro comportamenti, convinti di
poter eludere ciò che è stato predetto dall'oracolo: sono entrambi colpevoli di
hybris, di tracotanza, di dismisura. Sempre Said ricorda che
l'hubris est enfantée par la tyrannie. […] L'hubris est clairement
liée à la satieté, puisqu'il est question d'une démesure qui s'est
74 Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., p. 563.
75 Michele Torre, La personalità di Edipo tra il possibile e il necessario, in Atti delle giornate di
studio di Edipo, Torino 11-12-13 Aprile 1983, a cura di R. Uglione, Celid, Torino, 1984, pp.
101-112, p.110.
76 Giacomo Bona, Edipo pretragico, in Ivi, pp. 93-100, p. 96.
77 Ibidem.
50
gavée follement, sans souci de l'heures et de son intérêt. […] Et
l'homme en qui s'incarne cette démesure est aussi défini par son
mépris à l'égard de la Justice et, plus encore, par une impiété qui
se manifeste par un manque de respect à l'egard des autels des
dieux qui ne recule pas devant le sacrilège et n'hésite pas à porter
la main sur ce qui est inviolable.78
L'hybris è sicuramente presente e condannabile in Edipo, ma l'imprudenza può
essere una colpa minore da imputare: quella che viene definita un po'
anacronisticamente come imprudenza è in realtà velocità «car visiblement Œdipe
se range au nombre de ceux qui pensent que l'inaction et l'attente entraînent à
l'echec et qui voit dans la rapidité de décision la condition du succès».79
La vera colpa di Edipo sarebbe, dunque, la rapidità poiché egli possiede
un'intelligenza globale, una sorta di esprit de finesse pascaliano, che gli consente
di cogliere solo le linee principali della sua vita, di procedere da una tappa all'altra
a grandi salti, evitando i passaggi intermedi che lo avrebbero ricondotto alla
razionalità, alla lentezza e alla prudenza, le quali gli avrebbero evitato di
commettere errori. Said propone una visione tripartita della colpevolezza di
Edipo: egli è colpevole sul piano dei fatti, innocente su quello delle intenzioni ma,
per quanto affermato a proposito della hybris e della rapidità, irrimediabilmente
colpevole sul piano che dalle intenzioni conduce ai fatti: Edipo commette errori di
valutazione e ricade, quindi, sotto il dominio dell'hamartìa.
Una concezione che ha una qualche somiglianza con quella di Said viene
presentata da Jacques Scherer: «aux deux positions tranchées (il est coupable, il
ne l'est pas), s'ajoute, dès l'epoque de Sophocle, l'idée qu'à la fois il est coupable
et il ne l'est pas».80 Evidentemente, però, la sospensione fra essere e non essere
non riguarda solo la colpevolezza del personaggio, è la sua vita stessa, fin dagli
inizi, ad essere trovarsi tra l'essere e il non essere:
les parents d'Œdipe faisant exposer leur bébé sur le Cithéron
illustrent le passage aristotélicien du deux au trois. On ne tue pas
l'enfant, on ne n'élève pas normalement, on invente une solution
78 Suzanne Said, La faute tragique, cit., pp. 400-401.
79 Ivi, p. 453.
80 Jacques Scherer, Dramaturgie d'Œdipe, Parigi, Puf, 1987, p. 83.
51
intermédiaire, qui se révélera porteuse de tragique. On le tue
presque.81
Edipo è dunque un personaggio «quasi»: è quasi figlio di Laio e Giocasta dato
che entrambi lo hanno rifiutato, è quasi figlio di Polibo e Merope di Corinto, è
quasi re di Tebe, poiché in realtà è un «principe consorte», 82 è quasi marito di
Giocasta dato che è anche suo figlio, è quasi padre dei suoi figli perché è anche
loro fratello, è «quasi» anche nella figura data la sua deformità. La posizione fra
essere e non essere è, dunque, determinante nella vita di Edipo ed è quella che ne
garantisce l'esistenza; accettando, però, di risolvere l'indovinello della Sfinge si
dà involontariamente inizio all'indagine che fisserà Edipo nell'essere, svelando
l'orrore della sua condizione perché «Edipo appunto sa che cos'è l'uomo, che cosa
sono il padre e la madre. Egli possiede, diremmo con Aristotele, la scienza
dell'universale. Ma ancora non sa chi è quell'uomo che egli è, ignora chi sono il
padre e la madre: non possiede la scienza degli eventi particolari».83 Edipo è,
quindi, l'universale, è una sorta di sintesi kierkegaardiana in cui la tesi e l'antitesi
confluiscono restando entrambe vere e costituendosi come un tutt'uno misterioso
e insondabile. Tale sintesi non può, quindi, essere sottoposta ad un'analisi che
metterebbe in luce la coincidenza degli opposti, dell'essere e del non essere,
dell'essere e di ciò che non può essere, realtà che non possono essere accettate né
dalla razionalità né dalla morale: «alfa e omega dell'esistenza dell'eroe si
rinserrano in un processo che, benché in sé durativo, è nella sua rapidità
assimilato all'istante, dalla coincidentia oppositorum portato all'assoluto». 84 Edipo
risolve la sua contraddizione e la coincidenza degli opposti solo sul piano
esistenziale, in quanto solo nell'esistenza i due opposti mantengono la loro
contraddizione ma possono verificarsi contemporaneamente; l'esistenza sembra
dunque possedere una sorta di superiorità rispetto alla conoscenza e alla morale.
Per questo motivo la curiosità di Edipo sulla peste e sulla propria identità non può
che portare ad un esito tragico. Tale curiosità è «intempestiva, giunge in ritardo
81 Ivi, p. 87.
82 Cfr. Oddone Longo, Regalità, polis, incesto nell'Edipo tragico, cit., pp.69-83, p. 73.
83 Giuseppe Serra, Edipo il tiranno, in Atti del convegno internazionale, Urbino, 15-19
Novembre Novembre1982, a c. di B. Gentili e R. Pieragostini, Roma, Edizioni dell'Ateneo,
1986, pp.275-287, p. 283.
84 Guido Paduano, Edipo re: gli oracoli e la logica del tempo, in Ivi, pp. 99-111, p. 99.
52
allorché il reale si è già definitivamente assestato in termini incompatibili ed
opposti».85 Ma poiché Edipo racchiude in sé la coincidenza degli opposti, egli è
da un lato l'inconsapevole ma, dall'altro, uno dei significati del suo nome è «colui
che sa»: Edipo è l'uomo più intelligente della città ma non conosce se stesso e,
troppo tardivamente, usa «una saggezza che paradossalmente ha come esito finale
la caduta».86
La questione della colpevolezza in Sofocle è dunque estremamente complessa;
Martello cerca di semplificarla dichiarando, già dal proemio, Edipo colpevole di
regicidio, cosa che «lo constituisce in una tal reità che gli fa in parte meritare
quelle disgrazie».87 Siamo in presenza di un personaggio colpevole ma ora
bisognerebbe domandarsi quali siano le sue colpe. Ce lo chiarisce Tiresia
nell'ultimo atto, in cui Edipo è completamente assolto dall'assassinio di Laio
poiché ha compiuto una giusta vendetta di cui gli dei lo hanno eletto esecutore:
TIRESIA: Giusti ognor furo i Numi. Laio fu parricida:
volle uccidere il figlio; lui dunque il figlio uccida.
Così scrissero i fati la tua colpa e il suo eccidio,
e con un parricidio punissi un parricidio.
Quell'eterna giustizia, che mai non si disdice,
in te fier ministro elesse del disegno infelice.88
L'applicazione della legge del taglione salva Edipo dall'accusa di parricidio ma le
accuse che gli verranno imputate saranno ben più gravi. Edipo sapeva di essere
destinato ad azioni orribili perciò era fuggito da Corinto ma questa fuga non è
sintomo di hybris, al contrario è forse uno dei pochi atti di prudenza compiuti dal
personaggio: in un'ottica cristiana l'inazione e la fuga dai delitti possono essere
visti non come tracotanza né come fallimento, ma come un atteggiamento
prudente volto ad allontanarsi dai guai; purtroppo però, «quant'uom puote, evitasti
l'innevitabil scempio/ te il fuggir l'empietade fe' incontro all'esser empio». 89
85 Ivi, p. 102.
86 Bruno Gentili, Il tiranno, l'eroe e la dimensione tragica, in Atti del convegno internazionale,
Urbino, 15-19 Novembre 1982, a cura di B. Gentili e R. Pieragostini, Roma, Edizioni
dell'Ateneo, 1986, pp.117-123, p 118.
87 Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., p. 563.
88 Ivi, atto V, scena 3, vv. 337-342.
89 Ivi, vv. 343-344.
53
L'omicidio era inevitabile, voluto da dei più somiglianti alle Erinni che al Dio
cristiano, era una colpa necessaria a differenza delle altre che sono volontarie;
dopo questa prima assoluzione la sentenza di Tiresia prosegue:
TIRESIA: Sapevi essere in colpa, non già d'un padre ucciso,
ma d'un re, sul cui trono festi adorarti assiso.
Né contento di questo, la man pur sanguinosa
del trafitto suo sposo stendesti alla sua sposa.
Vedova, a cui tradita le colpe tue celasti,
te in suo talamo ammise. Vincesti, e trionfasti.
Già con onta di Laio ten pavoneggi e gonfi:
son vita e scettro e donna rapirgli i tuoi triofi.
Se ella udia che traesti Laio già suo di vita,
sua virtù, per cacciarti, sorgevale in aita.
Or va', trionfa, e taci, dove allor men tacendo
quel delitto fuggivi dei due c'ha più d'orrendo.90
Ecco la prima colpa: l'aver taciuto a Jocasta di essere l'assassino di Laio; se ella
l'avesse saputo non avrebbe permesso l'unione matrimoniale, la sua virtù infatti le
sorge in aiuto anche dopo anni, quando finalmente Edipo confessa e la regina
decide di interrompere i rapporti. Tiresia tratta Edipo come un volgare ladro, il
suo trionfo sta solo nel rubare la vita, il potere e la sposa di un altro re. Ma in
questo caso, Edipo commette un errore in preda ad una passione incontrollabile
che è quella amorosa; per amore il giovane re tace e perciò cade in errore, con un
singolare gioco di assonanze, l' hamartìa si costituisce come omertà. C'è una sorta
di legame tra il parricidio e l'incesto che riflette quello presente tra Laio, Edipo e
Jocasta:
il contrasto tra Laio ed Edipo si definisce nella dimensione del non
detto, che stabilisce la colpevolezza dei due: se Laio avesse
confessato l'infanticidio, Jocasta avrebbe sollevato Edipo dai reati
previsti dall'oracolo, perché avrebbe ucciso lei stessa il consorte.
Simmetricamente, se Edipo non avesse taciuto il regicidio, la
90 Ivi, vv. 353-364.
54
regina lo avrebbe rifiutato come sposo, evitando l'incesto.91
A questo punto Tiresia esplicita la più grave delle accuse:
TIRESIA: Per te giuntosi a tanto passossi ancor più oltre
torcer voleansi i sensi della delfica coltre.
Si smezzarono i falli narrati a questo vecchio,
quasi che mai gli Dei gli parlassero all'orecchio.92
L'indovino fa riferimento all'atto precedente quando Jocasta riferisce al marito
l'interpretazione politica dell'oracolo pensata da Creonte; Edipo, con un guizzo di
tracotante intelligenza, costruisce un parallelismo carico di ironia tragica tra il repadre e la regina-madre:
EDIPO: Come verificossi che in Laio uccisi un padre,
sì fia ver che in sua moglie sposata avrà una madre
chi a te regina e madre di questa patria è sposo:
e qual fui parricida, tal sono incestuoso.93
La logica di questo passaggio sillogistico è cristallina ma è di una arditezza tale
da sconvolgere Jocasta, costringendola ad una esclamazione di pietas che non le è
propria: «non si scherza coi Numi».94 Edipo conferma di essere un interprete
affetto da cecità della mente, «rifiuta di riconoscere il parallelismo fra enigmi e
oracoli.[...] Modernamente la hybris coincide con questa dissimmetria: Edipo non
coglie la possibilità di ambivalenza della sua condizione, senza rendersi conto che
quelli che gli erano sembrati segni della benevolenza divina, si rovesceranno nella
sua condanna».95
Edipo è un personaggio sempre meno positivo: viene meno volontariamente
all'onestà dovuta a Jocasta, commettendo il delitto più aberrante, mostra una
scaltrezza e una natura calcolatrice tutte moderne che si manifestano nel cercare
91
92
93
94
95
Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 63.
Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, in Teatro, cit., atto V, scena 3, vv. 367-370.
Ivi, atto IV, scena 3, vv. 211-214.
Ivi, v. 215.
Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 52.
55
di sfuggire all'incesto e al parricidio ma anche nell'evitare l'esilio, pena per il
regicidio. Il calcolo, la falsa scaltrezza e il suo interesse lo rendono cieco a ciò
che accade, Edipo sembra rifiutarsi di cogliere i legami fra gli eventi percorrendo
un itinerario che lo conduce ad un'empietà moderna; la volontà degli dei è
rielaborata in un orizzonte esclusivamente umano in cui la divinità ha perso
significato a tal punto che le sue parole possono essere analizzate e sillogizzate
applicando una logica aristotelico-cartesiana. Edipo decide di non curarsi delle
parole dell'oracolo, interpretando ciò che gli è riferito da Jocasta come prova di
un'innocenza concepita tenendo conto solo di se stesso. È in atto un processo di
desacralizzazione del divino che può avvenire solo in un contesto dove il
personaggio ha una totale libertà di scelta: «sottraendosi alla necessità del destino,
perché rientrano nell'ambito della volontarietà, le nuove colpe di cui Martello
macchia il suo protagonista definiscono un tragico moderno».96 Pur con scarso
successo dal punto di vista esecutivo, Martello riesce a rielaborare il mito
costruendo un tragico basato su libertà e volontà e inserisce, quindi, nella tragedia
le caratteristiche intrinseche della modernità.
96 Ivi, p. 67.
56
CAPITOLO II
EDIPO COLONEO
2.1 Il prologo della Sfinge
L'Edipo Coloneo rappresenta gli ultimi avvenimenti della vita di Edipo,
concentrandosi sull'ultima parte dell'esilio e sulla morte del protagonista;
nonostante l'ordine cronologico degli eventi richiedesse prima la scrittura
dell'Edipo tiranno poi quella del Coloneo, Martello inverte l'ordine componendo
prima l'Edipo Coloneo tra il 1710 e il 1713. Questa rovesciamento chiarisce il
motivo di alcune incongruenze riscontrate tra i due testi, delle quali si parlerà in
seguito.
Anche questa tragedia è preceduta da un proemio, ma più breve di quello
dell'Edipo tiranno e forse di minore importanza. Nel proemio viene illustrato il
legame tra il testo sofocleo e le vicende biografiche di Sofocle stesso e viene
affermato l'alto valore della tragedia, dato che «ella è forte, ella è severa, ella è
magnifica, e piena più di terrore che di compassione». 1 Un altro elemento
interessante, nel proemio, è la spiegazione del motivo per cui Teseo, re d'Atene,
ha la sua reggia non nella città principale ma a Colono, cittadina che sorge presso
la capitale. L'autore rende ragione di questa particolarità costituendo un
parallelismo tra Teseo e i sovrani moderni:
Suppongo che Teseo avesse la corte in Colono alla vista di Atene,
siccome molti principi in vicinanza delle lor capitali tengon le
corti e le abitazioni di delizia; così il re di Francia, non in Parigi
ma a Versaglies poco distante abita e quasi continuamente
villeggia.2
Ma oltre al proemio, che mostra come Martello voglia creare un tragico moderno,
il testo è dotato di un prologo pronunciato dalla Sfinge. Il prologo ha una
funzione introduttiva del testo che segue e, in questo caso, serve a riassumere gli
1 Pier Jacopo Martello, Edipo coloneo, in Teatro, vol. III, a c. di H.S. Noce, Laterza, Bari, 1963,
p. 85.
2 Ibidem.
57
avvenimenti precedenti della vita di Edipo e a presentare quelli che verranno
narrati nella tragedia. La presenza della Sfinge sembra un'incongruenza rispetto
all'antefatto dell'Edipo tiranno poiché, avendo Edipo risolto l'enigma, il mostro si
era suicidato gettandosi da una rupe. È la Sfinge stessa che risolve l'enigma della
sua inedita presenza, essa non è semplicemente un mostro ma:
SFINGE: Ma dentro a queste spoglie son nuda furia e fuori
altro non so che un'aria dipinta a più colori.3
La Sfinge è quindi un personaggio completamente nuovo perché è assente dal
testo sofocleo e perché si presenta in una veste del tutto originale, quella della
furia. Martello attua un'assimilazione tra la Sfinge e Aletto, una delle tre Erinni,
differenziando il proprio personaggio dalle identità solitamente attribuitele: essa
non è una creatura mandata dagli dei per punire i crimini di Laio, né una una
figlia naturale del re con la quale unirsi e da sconfiggere, come ci ricorda Carlo
Brillante.4 L'unione tra la Sfinge e la furia può mettere in risalto la «funzione
persecutoria»5 del personaggio nei confronti di Edipo, del quale viene ribadita la
colpevolezza. La persecuzione e l'implacabilità delle Erinni sono evidenti al v. 36
«e il piacer dell'Erinni trionfò in ambiduo»:6 le Eumenidi sono le dee vendicatrici
dei delitti commessi contro i membri della famiglia e Edipo non può certo
sottrarsi a questo genere di accuse, dato che uccise suo padre, sposò e causò la
morte di sua madre. La gloria di queste dee primitive e sanguinarie è il dolore
inflitto all'uomo, come si può vedere al v. 40 «paghe per maggior gloria siamo noi
di maggior pene».7 La colpa che dà inizio allo scatenarsi delle furie è
l'intelligenza di Edipo «felice se men dagli dei avea d'ingegno».8 Edipo è dunque
colpevole di eccesso di intelletto che si mostra nel rispondere agli indovinelli
della Sfinge: egli «non contamina Tebe in quanto parricida, ma come solutore di
enigmi, qualità che lo lega indissolubilmente al trono e al matrimonio con la
3 Ivi, p. 90.
4 Carlo Brillante, La carriera di Edipo, in Atti del convegno internazionale, Urbino, 15-19
Novembre 1982, a cura di B. Gentili e R. Pieragostini, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1986, pp.
81-96.
5 Cfr Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 52.
6 Pier Jacopo Martello, Edipo Coloneo, cit., p. 90. v. 36.
7 Ivi, v. 40.
8 Ivi, p. 89, v. 17.
58
regina, e intrinseco all'aspetto colpevole di una intelligenza capziosa, troppo
sottile».9 La spiegazione di Valeria Merola ci permette di comprendere
completamente tutti i riferimenti alla colpa e alla sventura del protagonista:
l'interdipendenza tra la soluzione dell'enigma e l'incesto è ribadita dall'autore al v.
26, quando la Sfinge commenta tristemente «e fue più scellerato, che re, quando
m'intese»10 e, in maniera ancora più incisiva, sottolinea l'assoluta indissolubilità
dell'intelligenza e dei delitti al v. 31 «così egualmente a forza d'ingegno e di
misfatti».11
Alla colpa si affianca, però, una sorta di innocenza: «scellerato innocente» scrive
Martello al v. 46, anticipando la strenua difesa delle sue azioni da parte di Edipo e
riaffermando la posizione intermedia fra colpevolezza e innocenza che
caratterizza il protagonista.
Attraverso l'insistenza sulla colpa e l'identificazione della Sfinge con Aletto,
l'autore enfatizza l'aspetto persecutorio del mostro ma non ne tralascia quello
enigmatico. La Sfinge propone ben tre enigmi: il primo è quello che diede ad
Edipo il trono di Tebe, il secondo è più inquietante:
SFINGE: V'ha un genero dell'avo, rival del padre, e figlio
e fratel de' suoi figli, padre de' suoi fratelli.
Ebbe l'avola, madre, figli e nipoti in quelli.12
Quest'enigma riassume in maniera mirabile gli eventi e lo scioglimento del
Tiranno; i due indovinelli vengono commentati laconicamente e con una sintesi
efficacissima dalla Sfinge: «l'uno Edipo coi detti scifrò, l'altro coi fatti». 13 Inizia
l'identificazione del personaggio con le parole del mostro: «Edipo non solo è
l'interprete, egli diventa nel corso della sua vicenda anche l'incarnazione
dell'enigma».14 Dopo aver ripercorso il passato, anche il futuro è presentato sotto
un velo di mistero e, con un colpo di scena molto teatrale, la Sfinge chiama in
causa il lettore a sciogliere il nuovo indovinello:
9
10
11
12
13
14
Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 51.
Pier Jacopo Martello, Edipo Coloneo, cit., p. 90, v. 26.
Ivi, v. 31.
Ivi. vv. 27-29.
Ivi, v. 32.
Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 51.
59
SFINGE: In un girar di sole, qua chi lo sciolga attendo.
Scellerato innocente non muor da' vivi uscendo:
senza tomba sepolto, lieto, infelice ei giace,
e torrà ad altri, ad altri darà senz'aver pace.15
La Sfinge non perde il gusto per gli enigmi, essa è colei che «d'enimmi fatali il
vero avvolse»;16 con grande originalità Martello idea questo coup de theâtre in cui
il mostro inventa un nuovo e terribilmente veritiero quesito, che induce Valeria
Merola a parlare di «funzione oracolare dell'indovinello». 17 La Sfinge
preannuncia ciò che accadrà con estrema precisione e dunque può essere
assimilata all'oracolo, ma possiamo notare che, se il primo enigma aveva come
soluzione «l'uomo», agli altri due si può rispondere semplicemente «Edipo». Le
parole del mostro seguono la parabola della vicenda edipica, si muovono
dall'universale al particolare proprio come il soggetto a cui si rivolgono: Edipo è
guidato alla scoperta degli eventi particolari della sua stessa vita, della sua
complessità irriducibile sottolineata da due ossimori in posizione chiastica
«scellerato innocente» «lieto, infelice».
2.2 Il sistema dei personaggi
Il sistema dei personaggi costruito dall'autore è abbastanza complesso, tutti
intrattengono relazioni fra loro e sono delineati con precisione in modo da
individuare caratteri ben definiti e talmente netti da far pensare più a stereotipi
che a persone reali. Tutti i personaggi sono in movimento, almeno nella fase
iniziale della tragedia, poi alcuni si stabilizzano, mentre altri continueranno a
spostarsi. Il primo movimento è l'arrivo a Colono di Edipo e Antigone e
successivamente quello di Teseo: in questo modo si stabilisce il nucleo centrale e
la corte del re sarà il fulcro attorno al quale graviteranno tutti i personaggi,
rendendo verisimili le partenze e gli arrivi in un solo luogo. Tutti tendono, quindi,
a convergere verso un centro che è rappresentato da Edipo: «Edipo è fermo,
perché ha già la verità: si muovono gli altri intorno a lui, tentano di spostarlo dalle
15 Pier Jacopo Martello, Edipo Coloneo, cit., p. 90, vv. 45-48.
16 Ivi, p. 89, v. 15.
17 Valeria Merola, Paradigmi edipici, cit., p. 52.
60
sue risoluzioni, non ci riescono».18 Le parole di Albini sono confermate dalla
stessa Antigone che ammonisce Polinice dicendo: «uscite di speranza ch'esca di
tai confini/ più ch'esso, agevol fora lo smovere i destini». 19 Dal suo arrivo a
Colono, Edipo non si sposterà più se non per recarsi nel bosco sacro che gli dei
hanno scelto come sua tomba; egli sa di essere ormai arrivato alla conclusione
della sua vita ed è anche consapevole di concedere una speciale protezione al
luogo che ospiterà le sue ossa. È per questo motivo che non vuole fare ritorno a
Tebe: la città gli ricorda i delitti compiuti e, soprattutto, il regno dei suoi figli,
scellerati perché nati da un incesto e perché bramano il potere al punto da esiliare
il padre. La carismatica protezione assicurata dalle spoglie di Edipo smuove dal
patrio suolo tre illustri tebani: Creonte, Ismene e Polinice pronti a tutto per
ricondurre il padre in patria.
Coloro che vogliono ricondurre Edipo a Tebe non fanno parte del nucleo
principale dei personaggi che è costituito solo da Edipo, Antigone e Teseo.
Il primo e più evidente rapporto tra i personaggi principali è quello tra padre e
figlia: i due sembrano vivere un legame di assoluta simbiosi, in cui la ragazza è la
guida del padre cieco e afferma che solo la morte potrebbe farla recedere
dall'essere scorta al vecchio genitore, mentre egli «mira con le sue ciglia».20
Antigone è altera, saggia e fortemente intenzionata a mantenere la sua purezza:
«lo spiacere a' mortali più fora il mio costume»; 21 inoltre l'affetto per il padre è il
solo sentimento presente nel suo animo: «questo affetto amoroso, che d'ogni core
ha vanto/ l'ha pur del mio ma il padre l'occupa tutto quanto». 22 Antigone confessa
apertamente il suo amore filiale che comunque è evidente tutte le volte che chiede
del padre, implora la libertà per lui o si preoccupa che la sua vera identità non
venga scoperta. Per un gioco di contrasti, la fedeltà della fanciulla al padre è
messa in evidenza dal figlio empio per eccellenza, Polinice, che nota: «giovinetta
innocente, qual merto hai tu di pene?/ Tenerezza di padre non fe' mendica
Ismene».23 Antigone è dunque il più alto esempio di pietas filiale ed è lei che
riesce ad ottenere ospitalità presso la reggia: Edipo cieco e mendicante conserva
18
19
20
21
22
23
Umberto Albini, Edipo e Creonte nell'«Edipo a Colono», cit., p. 120.
Pier Jacopo Martello, Edipo Coloneo, cit., atto II, scena 4, vv. 412-422.
Ivi, atto I, scena 2, v. 34.
Ivi, atto I, scena 4, v. 366.
Ivi, vv. 371-372.
Ivi, atto II, scena 4, vv. 311-312.
61
ancora un orgoglio regale che induce Teseo e i sacerdoti a considerarlo empio,
mentre la ragazza con la modestia, il silenzio e l'intelligenza ottiene pietà e asilo.
Antigone ha anche un'altra caratteristica che la rende cara soprattutto agli occhi di
Teseo: la sua bellezza che, unita all'aura di maestà, suscita un amore immediato
«come vuoi ch'io non t'ami, se da più amabil salma/ mai non m'apparve in terra
più grande, amabil alma?»24 I sentimenti di Teseo sono motivo di preoccupazione
per Edipo il quale raccomanda alla figlia di evitare le insidie di un re che «è
discreto, è giusto: ma è giovine».25 Ma anche una proposta di matrimonio
preoccupa il vecchio genitore:
EDIPO: Ma se queste a te offerte magnanime e reali
rendonti a una fortuna degna de' tuoi natali,
che sarà d'un padre senza l'usata e fida
destra, che all'infelice ora è conforto e guida?
ANTIGONE: Ma tu piangi senz'occhi? Stringer la man ti sento
ti penti; e in ciò regina t'accetto al pentimento
poi, tornandoti figlia, giuro che a la tua vita
la mia verginitate fia, qual fu sempre, unita.26
La vera preoccupazione di Edipo è che la figlia sposi il giovane re e non sia più la
sua fidata guida; Antigone, indignata per il sospetto, accetta con regalità il
presunto pentimento paterno e pronuncia un voto, a cui manterrà fede anche dopo
la morte del padre, rinunciando alle nozze con Teseo.
Un'altra coppia di personaggi completamente antitetica rispetto a Edipo e
Antigone è quella formata da Creonte e Ismene. Zio e nipote si incontrano per
caso sulla via di Colono; Ismene, con un'importante mise en abyme, compare
sulla scena travestita da donna tessalica e Creonte può riconoscerla solo dagli
«occhi torvi e scaltri».27 Il loro comune scopo è quello di ricondurre Edipo a Tebe
ma per farlo hanno bisogno «ch'altro dal ver si mostri,/ e per dar mano all'opra
scordiamo i nomi nostri».28 Si prolunga quindi la mise en abiyme con il
24
25
26
27
28
Ivi, atto I, scena 4, vv. 381-382 .
Ivi, atto IV, scena 1, v. 30.
Ivi, vv. 41-44, 61-64.
Ivi, atto II, scena 2, v. 38.
Ivi, atto II, scena 2, vv. 197-198.
62
prolungamento del travestimento che finisce per essere svelato da Ismene,
compianta dallo zio perché:
CREONTE: Vergine sarai tu dotata di pianti e sdegni
perché, a gir dietro a un padre, lasciasti i patri regni.
Bello d'animo grato ai benefici esempio!
Sventurata pietate con chi è merto esser empio.
O domestiche colpe, celarvi io ben vorrei,
ma chi vi fe', a scoprirvi sollecita gli Dei.29
Il lamento di Creonte risulta assai distante dalla verità: la sola Antigone sarebbe
da compiangere perché ha sacrificato gli onori principeschi per farsi mendica
insieme al padre. Il vero scopo di Creonte è mettere in luce le colpe di Edipo: lo
fa in un modo falsamente garbato accennando solo a «domestiche colpe», ma in
questo aggettivo possono essere racchiusi tutti i crimini di Edipo, dato che tutti
riguardano la famiglia, dal parricidio all'incesto con cui ha generato i suoi figli.
Edipo comprende la finta gentilezza del cognato e risponde duramente:
EDIPO: Note al par di tua voce, l'insidie tue mi sono.
Perfido, a che mi tenti, perché a un lacciol mi colga
in cui, dopo esser colto, d'ir preso invan mi dolga?
Quando in patria io bramava finir dolente i giorni,
pregato, allor cacciasti quel me ch'or vuoi che torni.
[…] Quasi ch'io non conosca come a tuo pro' tu finga,
e qual velen serpeggi tra i fior d'una lusinga.
[…] Vieni, non per ripormi nel soglio a cui m'inviti,
ma perché ne' confini voi relegato aiti,
mentre han scritto i Destini che là 've morto giace
questo avanzo de' mali, sia fama eterna e pace.30
L'odio tra i due è manifesto e insanabile: ognuno ricorre a tutti gli espedienti per
ferire l'altro. Il loro contrasto è descritto splendidamente da Albini:
29 Ivi, atto III, scena 2, vv. 81-86.
30 Ivi, atto III, scena 2, vv. 124-150.
63
Edipo era, per Creonte, l'usurpatore, per Edipo Creonte è
l'intrigante che mirava al potere. Edipo sa la tattica, i tranelli dietro
le argomentazioni di Creonte, può strappargli il camuffamento,
svelarne ancora una volta i segreti pensieri. Creonte, colla
psicologia dell'odio, è in grado ferire profondamente il suo nemico,
di riaprire antiche piaghe: cosa importa se Edipo non è colpevole
per sua volontà, il crimine resta.31
Dotato di una «notevole capacità trasformistica, sa alternare cortesia e prepotenza,
Creonte è astuto e sottile, doppio e ironico, causidico e trasgressore della legge, si
districa nell'arte retorica, ma è pronto a far la voce grossa e a ricorrere a metodi
spicci».32
E, infatti, ricorre a metodi spicci quando tenta di rapire Antigone, sperando di
persuadere il padre a tornare a Tebe per riavere la figlia. Il tentativo di rapimento,
però, non va a buon fine, i soldati di Teseo trovano i fuggitivi e li riconducono
alla reggia. È significativo il dialogo tra zio e nipote durante il viaggio di ritorno:
Creonte deride sarcasticamente Antigone per gioia di vedersi riconsegnata a Teseo
ma la fanciulla risponde con l'alterità e la nobiltà che le sono proprie:
ANTIGONE: Della gioia che accusi, né fui né fia mai senza
fin ch'avrò al fianco e in petto il padre e l'innocenza.
[…] Mesto sia chi nell'alma sente latrarsi i falli.
Tu sai chi a un padre, a un prenze sottrae figli e
vassalli:
tu sai chi d'un fratello fe' quasi un fratricida.
Tai delitti a chi è reo rimordano, poi rida.
Mal forse un padre incolpa i sedotti suoi figli:
dessi la colpa all'opre che più deesi ai consigli.33
La purezza e l'innocenza generano nell'animo di Antigone una letizia profonda
che prescinde dalle circostanze; tale serenità, che sembra un topos nella
rappresentazione delle vergini, non viene scalfita dalle insinuazioni maliziose
31 Umberto Albini, Edipo e Creonte nell'«Edipo a Colono», cit., p. 119.
32 Ibidem.
33 Pier Jacopo Martello, Edipo Coloneo, cit., atto V, scena 1, vv. 7-16.
64
dello zio. La tranquillità, che deriva dall'innocenza, e il coraggio fanno sì che la
giovane non tema di sfidare Creonte a stare allegro con le sue enormi colpe: le
accuse sono estremamente chiare, è Creonte che ha sottratto i figli al padre
provocando l'odio fratricida tra Eteocle e Polinice ingiustamente incolpati da
Edipo. Creonte non demorde e continua ad insultare la nipote chiamandola «del
suo signor la putta destinata agli amplessi»;34 inoltre tenta beffardamente di
convincerla a usare il suo potere su Teseo per fargli pronunciare una condannare a
morte:
CREONTE:Vanne a sollecitarla; non hai da pregar molto:
sai ben contro il tuo sangue che può in Teseo il tuo volto:
di tue beltà fidando, sull'odiata mia testa
usale in ver con lode di vergine modesta.35
Allo sprezzante sarcasmo di Creonte, Antigone replica: «compensar ti prometto
con la giustizia i torti»36 e «in tuo pro' farò quanto in mio danno farai».37 Tali
risposte sembrano andare oltre la nobiltà d'animo, e soprattutto l'offerta di giovare
a Creonte tanto quanto egli le nuocerà sembra una proposta decisamente cristiana.
Questa Antigone è un'eroina che esula dalla grecità e dal testo sofocleo, ella
somiglia più a una martire pronta a sacrificarsi per i suoi ideali ma anche per i
suoi nemici.
Un comportamento simile è adottato dalla ragazza anche nei confronti della
sorella. Ismene è un personaggio che, nella riscrittura martelliana, è più
sviluppato e profondamente diverso dalla versione sofoclea. Nel testo di Sofocle,
Ismene si fa soltanto messaggera al padre di ciò che sta accadendo a Tebe e verrà
poi rapita insieme ad Antigone: è un personaggio minore ma positivo; nel testo
martelliano è decisamente negativo. Ismene compare all'inizio del secondo atto e
si presenta con un monologo molto eloquente a proposito della gelosia nei
confronti di Antigone:
34
35
36
37
Ivi, atto V, scena 1, v. 40.
Ivi, vv. 47-50.
Ivi, atto V, scena 1, v. 81.
Ivi, v. 86.
65
ISMENE: Primogenita indarno, me alla minor sorella
posposta il genitore, lei vuol scorta ed ancella.
Privilegio infelice di chi tra prole e prole
prima è altrove agli onori perché pria vide il sole.
[…] M'odia ei perché un incesto autor di vita mi fue?
O più Antigone egli ama perché glien costò due?
[…] Né già sofferta un padre m'avria da sé lontana:
sedusse il rimbambito l'ipocrita germana.
[…] Che sì, che sì, ch'allora...ma a tua licenza intoppo,
o suora, una non cieca è giunta per te purtroppo.38
Le parole di Ismene sono cariche d'odio e risentimento, ella incolpa la sorella di
averle sottratto il diritto di primogenitura nella cura del padre. Lungi
dall'immaginare il sincero affetto di Edipo per una figlia che gli ha dimostrato
amore autentico, Ismene accusa scelleratamente il padre di amare la figlia
minore: essendo Antigone l'ultima di quattro figli, fu colei che rese Edipo
sommamente colpevole di incesto. Il v. 22 dimostra l'empietà di Ismene nei
confronti della famiglia poiché definisce senza un vero motivo il padre
«rimbambito» e la sorella «ipocrita». Il più grande desiderio di Ismene non è,
dunque, ricondurre Edipo in patria ma destituire la sorella usurpatrice dal ruolo di
guida paterna. Le grida di vendetta della giovane giungono, però, in ritardo: la
primogenita avrebbe potuto, proprio per l'età maggiore, diventare compagna di
viaggio del padre prima di Antigone. Ismene lamenta che le è stato sottratto un
diritto di cui lei stessa non ha voluto né saputo godere. Ella è l'unica della sua
famiglia che viaggia accompagnata da una scorta di servi che le promettono
obbedienza solo in cambio di gemme preziose: è il primo personaggio che per
farsi esaudire non ricorre all'onore e alla verità ma ad una ricompensa materiale.
Ciò dimostra come la sua levatura morale sia infinitamente più bassa di quella di
Antigone: Martello crea una figura che sembra non possedere la nobiltà e il
coraggio di fuggire da Tebe per vagare sola e mendica guida paterna.
Ma Ismene non placa l'invettiva contro il padre, che avrebbe compiuto una scelta
utilitaristica permettendo ad Antigone si seguirlo:
38 Ivi, atto II, scena 1, vv. 3-30.
66
ISMENE: Gli è ben ver che ha bel volto, e che sua mercé, forse
con lei limosinando, trovò chi più gli porse.39
Ma, oltre alla decisione del padre, viene messo in dubbio l'onore della sorella che,
data la sua bellezza, non può essere sfuggita alle insidie dei viandanti; ma
Antigone ha «il forte proposto di soffrire pria che il disnor la morte»: 40 le
preoccupazioni di Ismene possono quietarsi. Anche Ismene, come Creonte, deride
Antigone a causa dell'amore di Teseo: quando la sorella è ricondotta alla reggia
dopo il rapimento, Ismene sorride sarcasticamente pensando che Antigone voglia
rivedere Teseo più che il padre, ma la giovane risponde prontamente:
ANIGONE: Sì al mio duol con amaro sorridere soccorri?
T'amo se m'ami, e t'amo non men se tu m'aborri.41
La risposta della fanciulla è stupefacente, si può collocare sulle stessa linea di
quella data a Creonte: Antigone conferma la sua pietas erga parentes e la sua
pietas cristiana verso coloro che vogliono causarle sofferenza. Le sue parole si
realizzeranno al massimo grado quando, consapevole del compito affidatole dalla
pietas nei confronti i suoi fratelli, la giovane rinuncerà alle nozze con Teseo e
proporrà a quest'ultimo di sposare Ismene. Dopo aver udito i propositi della
sorella, Ismene si pente:
ISMENE: Magnanima germana, ecco a' tuo' piè davanti
genuflessa un'ingrata, che già rise a' tuo pianti
che t'accusò di colpe ignote a un'innocente
tu pia ver chi t'offese, sialo anche a chi si pente.
Io bramai te punire, tu coronar me brami;
più co' tuoi benefici mia sconoscenza infami.42
L'altro personaggio verso cui Antigone mostra la sua pietas è Polinice. Polinice
arriva a Colono dove scopre la presenza del padre e prega di essere condotto al
39
40
41
42
Ivi, atto II, scena 2, vv. 83-84.
Ivi, atto I, scena 4, vv. 307-308.
Ivi, atto V, scena 2, vv. 109-110.
Ivi, atto V, scena 4, vv. 417-422.
67
suo cospetto per chiedergli perdono. Tale richiesta è immediatamente accolta da
Antigone che risponde: «se in pugno ha tua sorella/ tua felicitade, chi nacque in
miglior stella?»43 ma avverte «moviam supplice al padre: tua sorte è in sue
risposte».44 Polinice, però, non ottiene clemenza dal padre e successivamente al
rifiuto scopre la sua vera indole nel dialogo con Antigone:
POLINICE: Su me gli Dei che ponno? Pon fulminarmi; e poi?
Pon dannar l'alma al foco. Pon far che non siam noi?
Pon far che contro il loro voler, s'io vo', non voglia?
[…] Già col non paventarli so renderli impotenti.
[…] Ben potrei segnalarmi io nel paterno eccidio,
al fratricidio unendo in esso il parricidio;
ma la gloria mi basti, qual sia, di fratricida;
e tutta a lui s'arroghi quella di parricida.45
Polinice si mostra come eroe romantico ante litteram, è un personaggio la cui
hybris è maggiore di quella di Edipo. Con uno scetticismo pari solo alla Giocasta
sofoclea, non riconosce il potere assoluto degli dei sull'uomo, anzi, è lui che
vuole decidere il proprio destino: non teme la morte e la dannazione, né
tantomeno gli dei che non possono impedire all'uomo di scegliere la sua identità e
di essere se stesso. Polinice è, quindi, irremovibile: ha deciso di tornare a Tebe ad
ottenere «la gloria di fratricida» lasciando sarcasticamente al padre quella di
parricida. Solo grazie alle preghiere di Antigone, che lo supplica di desistere in
nome della giovane sposa, Polinice sembra ravvedersi: «credei d'esser furia; ma
se vedo, odo, o nomo/ voi due, germana e sposa, conosco ahi d'esser uomo». 46 Ma
subito dopo, nel colloquio con Ismene, Polinice recupera tutta la sua eroica
dismisura e, rivolgendosi a Giove, grida:
POLINICE: A che tuoni, a che tuoni? Saettator codardo,
ecco torri innocenti coglie in me il teso dardo.
Vedrai più di tua mano questa in ferir maestra,
43
44
45
46
Ivi, atto II, scena 4, vv. 397-398.
Ivi, v. 450.
Ivi, atto IV, scena 2, vv. 217-236.
Ivi, vv. 261-262.
68
se por lasci a Vulcano tuoi strali in questa destra.
Prova, provala, o Giove: non fallirà già questa
la tua, come fallisti la mirata mia testa.
Sfidoti a incenerirmi, scagliando in te quest'asta.
Poco sale al desio; ma il buon voler non basta?
Né ti vendichi ancora con lampi e tuoni?
Onnipotente, o Giove, non sei se mi perdoni.47
Polinice è un personaggio titanico, con tutta la sua titanica hybris si erge contro
Giove sfidandolo a restituirgli il colpo che empiamente ha vibrato contro il cielo.
Sfida il dio a punirlo perché un dio che perdona mostra, ai suoi occhi, una
debolezza che non si accorda con l'onnipotenza. Il rifiuto deciso del pentimento e
la sfida agli dei fanno di Polinice un eroe quasi dongiovannesco. Anche se
appartengono a due modi diversi di concepire il tragico, entrambi presentano una
tracotanza titanica che può riassumersi nella frase: «su di me gli dei che ponno?».
Essi non temono l'ira celeste e pretendono di avere uno scontro alla pari con la
divinità. Prendendo in esame la versione di Mozart-Da Ponte, il titanismo di Don
Giovanni si esplica al massimo grado nel dialogo finale con il commendatore che
lo invita a pentirsi, ma Don Giovanni rifiuta anche se sa di essere in punto di
morte. Polinice, invece, cede per un momento alle parole della sorella ricordando
di essere uomo e non furia. La sfida all'aldilà, invece, è considerata con ironia e
leggerezza da Don Giovanni nei suoi incontri conviviali con il morto, mentre
quella di Polinice è estremamente consapevole, carica di rabbia e di disprezzo.
Non c'è traccia di ironia sorridente in Polinice, il sarcasmo è grave, la sfida è
seria: Polinice si offre deliberatamente e temerariamente come bersaglio ai
fulmini di Giove. Egli mostra una tale forza e un tale disprezzo del timor divino
che fa quasi considerare paritario la scontro fra uomo e divinità. Polinice è,
romanticamente, l'eroe che non cede, che non rinuncia al suo ideale e accetta la
morte pur di preservarlo.
Oltre a Polinice, c'è un altro personaggio che può essere assimilato a Don
Giovanni: Teseo, il quale incarna l'aspetto libertino del personaggio mozartiano.
La connotazione di donnaiolo è subito posta in risalto da Antigone che dice: «se
47 Ivi, atto IV, scena 5, vv. 391-400.
69
l'incostanza è fallo te l'imputa la fama».48 La fama di libertino precede Teseo e,
all'affermazione di Antigone, fa eco quella di Polinice: «han ozio i lumi tuoi
d'errar sovra ogni bella».49 Nella tragedia la facilità all'innamoramento di Teseo è
evidente, egli prova un subitaneo affetto per la giovane mendica, ma la bellezza e
la nobiltà d'animo di lei lo inducono al rispetto e non alla seduzione. Il giovane re
si duole dell'umile estrazione sociale della ragazza che vorrebbe unita a sé dal
vincolo matrimoniale: «con cotesti bei sensi, con quest'aria bella/ perch'Antigone,
o Ismene non è, chi mi favella?».50 Teseo pensa subito alle nozze ma non le usa
come promessa per consentire la seduzione, la sua offerta è sincera ma Antigone è
ferma nella sua decisione: «lasciai la speme in Tebe di scettro e di consorte». 51 Gli
affetti familiari prevalgono sugli altri, ma, almeno in un passo, Antigone ammette
il proprio amore per Teseo:
ANTIGONE: Teseo è un eroe sublime, magnanimo, vivace:
piacer merta a chi ha core, e al mio (diciamolo) ei piace;
ma se l'amo, io non debbo soffrir che al fin si gitti
a unir suo sangue a un sangue c'ha in fato i gran delitti.52
Il matrimonio è rifiutato anche per uno scrupolo di coscienza, Antigone, proprio
perché ama Teseo, non può permettere che venga contaminato dalle nozze con
una donna nata da un incesto, né che si possa dar vita a un'altra generazione di
impuri.
Il sistema dei personaggi è, quindi, molto complesso, le relazioni intrecciate sono
molteplici e complicate da una serie di desideri che non possono essere
soddisfatti: Edipo non tornerà a Tebe e non perdonerà Polinice, Ismene non
diventerà la guida del padre e Antigone non sposerà Teseo.
48
49
50
51
52
Ivi, atto I, scena 4, v. 332.
Ivi, atto II, scena 4, v. 282.
Ivi, atto I, scena 4, vv. 377-378.
Ivi, atto II, scena 4, v. 442.
Ivi, vv, 445-448.
70
2.3 La questione della colpevolezza
Decidere di riaffrontare il problema della colpa di Edipo può sembrare ripetitivo,
ma nelle due tragedie la questione della colpevolezza è affrontata in modo
completamente diverso. Nel Tiranno, Edipo si rivela colpevole di non aver
confessato l'assassino di Laio alla sposa che avrebbe, così, rifiutato l'unione ed
evitato l'incesto. L'altra colpa del protagonista è interpretare l'oracolo in modo da
ricavare altre prove della sua innocenza, completamente cieco a tutti gli indizi
che mostravano la sua reità. Martello costruisce un personaggio volutamente
negativo, anche per adeguarsi alla Poetica aristotelica in cui si legge che l'eroe
tragico avrebbe dovuto collocarsi a metà tra vizio e virtù.
Edipo, nel Coloneo, è invece mostrato come «un uomo giustissimo, e molto più
santo di Giove di Apolline di Mercurio, e di tutti gli altri Dei di Varrone». 53 Il
Coloneo, rispetto al Tiranno, ha un debito maggiore nei confronti del testo
sofocleo e sicuramente l'Edipo di Sofocle è più innocente di quello martelliano.
Nel testo martelliano il problema della colpa non investe solo il protagonista, ma
anche altri personaggi che devono rispondere alle accuse che sono loro rivolte:
Edipo stesso deve ripetutamente proclamare la propria innocenza scontrandosi
con Creonte; Teseo è costretto a rivelare la vera ragione dell'abbandono di
Arianna per evitare l'ingiusta nomea di libertino; mentre Polinice si ostina a
mostrare una hybris profonda e consapevole che viene condannata senza appello.
Il motivo di questo capovolgimento risiede nella volontà degli dei: ciò che è
compiuto secondo la volontà divina non può essere incolpato, ciò che è realizzato
volontariamente e in opposizione agli dei è da punire. È Edipo stesso che
chiarisce questo concetto pronunciando un lungo monologo di autodifesa nella
terza scena del primo atto:
EDIPO: Ma gli Dei, che alla colpe di cui la reggia è carca,
trassero in pena d'essa non conscio il suo monarca,
san che di scellerato non ha che l'apparenza;
e rea sugli occhi umani ne sa il Ciel l'innocenza.
[…] Se oracoli, che lingua son d'eterno consiglio,
pronunciar che Laio spento ir dovea dal figlio,
53 Pier Jacopo Martello, Edipo Tiranno, cit., p. 563.
71
e lo pronunciaro d'un figlio ancor non nato,
com'esser (pria ch'ei fosse) potea mai scellerato?
E se quando ebbe mente al destin, che il rapiva,
allor gli corse incontro, che indarno ei lo fuggiva,
l'intenzion sua retta lui fa da colpa intatto,
mentre la man, non l'alma fu complice al misfatto.
[…] Né più nel parricidio fu reo che nell'incesto.
Innocente appo i Numi, appo il suo cuore, appresso
il mondo, il reo cercando, trovò egli in sé stesso.
Ma con qual pentimento punì su gli occhi miei,
ciechi quai vedi, un'opra non sua ma degli Dei.54
Edipo è, quindi, colpevole solo in apparenza: l'omicidio del padre non è solo stato
voluto dagli dei, ma era predestinato fin da prima che il bambino nascesse. La
presenza di una predestinazione, a cui non si può sfuggire, fa sì che Edipo non
possa avere colpa di qualcosa che è stato stabilito prima della sua nascita. La
seconda ragione che dimostra l'innocenza del re tebano è l'assoluta involontarietà
del delitto: Edipo parla di «intenzion retta» e di anima non «complice al
misfatto». Il delitto è stato compiuto senza sapere e senza volere per questo non
può essergli imputato: egli è dunque completamente estraneo alla colpa ma
nonostante ciò, per rispettare la giustizia umana, ha dovuto punire su di sé l'opera
degli dei. Anche l'accusa di mancata prudenza cade davanti all'istinto di
sopravvivenza e, per dimostrarlo, Edipo invita Teseo a immedesimarsi nella
situazione:
EDIPO: Se te re provocato strascinasse tua sorte
contro un nemico ignoto a dare o a soffrir morte,
e credessi d'esser figlio del divulgato Egeo,
quando altri a te non noto fosse padre a Teseo,
il qual non noto avventasse in te colpi funesti,
se fosse mai tuo sangue di' allor pria cercaresti?56
Anche affrontata da un punto di vista esclusivamente umano, la colpa sembra non
54 Idem, Edipo Coloneo, cit., atto I, scena 3, vv. 217-254.
56 Ivi, vv. 239-244.
72
far parte della vita di Edipo ma, avverte Michele Torre, «in ogni caso la libertà
dell'uomo è nulla: i suoi comportamenti sono necessari e quindi non determinati
da lui stesso. L'uomo non ha possibilità, non ha alternative per la propria
condotta».57 Nel testo martelliano la libertà è, infatti, esclusa per Edipo e Teseo
ma possibile per Polinice. L'assenza di libertà e soprattutto di intenzione è
garanzia di innocenza per Edipo che aspetta la propria ricompensa nella morte che
lo innalzerà a onori divini. I concetti di colpa e di innocenza qui espressi
privilegiano il parricidio mentre nel Tiranno la vera colpa di Edipo è l'incesto:
l'incongruenza è palese ma è dovuta a ragioni cronologiche e ad una fedeltà
maggiore al modello sofocleo.
L'agire rispettando la volontà divina è così fondamentale nell'opera che anche
Teseo, obbedendo a Bacco, guadagna l'ingiusta fama di innamorato incostante.
Nel dialogo con Antigone, Teseo può difendere se stesso e il proprio dolore per la
perdita della giovane sposa perché l'abbandono di Arianna fu necessario:
TESEO: Parli qual vuol la fama, pur che tu sappia, è un Dio,
e quel Dio ch'or si gode nuda Arianna in Cielo,
come a mie rai notturno s'offrì senz'alcun velo:
s'offrì, che la fanciulla dopo due vezzi, al fianco
giaceami addormentata qual chi disagio ha stanco;
e ch'io pur differiva, per non destarla ancora,
gioie da verginella sì care a chi l'adora.
Quando il Nume di tralci ombrato il capel biondo
dissemi: «A tanta beltà si debbe un più bel mondo.
Parti, e cedila intatta. Esecri desta il nome
di chi parralle ingrato sin ch'abbia astri alle chiome,
e conosca mia donna lassù, dov'io vo' trarla,
che mai più non l'amasti che nell'abbandonarla».58
Teseo è dunque innocente, può solo sembrare ingrato e infedele, ma non poteva
rifiutarsi di eseguire l'ordine di un dio che si è manifestato direttamente e non
57 Michele Torre, La personalità di Edipo tra possibile e necessario, in Atti delle giornate di
studio di Edipo, Torino 11-12-13 Aprile 1983, a cura di R. Uglione, Celid, Torino, 1984, pp.
101-112, p. 107.
58 Pier Jacopo Martello, Edipo coloneo, cit., atto I, scena 4, vv. 344-355.
73
attraverso l'oracolo: non ci può essere dubbio, non ci sono sacerdoti da accusare
di essere tramiti fasulli con il divino, è proprio Bacco che ingiunge (parti e cedila)
al re di consegnargli la bella Arianna.
Edipo e Teseo sono quindi accomunati non solo dalla regia porpora ma da un
destino che li vuole pii e obbedienti agli occhi degli dei e infinitamente colpevoli
a quelli degli uomini.
Il personaggio a cui viene riservata una sorte diversa è Polinice, di cui son già
state analizzate la titanica opposizione agli dei e la strenua difesa della sua libertà
personale. Edipo maledice il figlio che, a causa della sete di potere, ha esiliato il
padre ma, se ciò può sembrare concordante con il testo sofocleo, risulta
decisamente incongruente con gli avvenimenti descritti nel Tiranno: alla fine
dell'opera è Tiresia che decreta l'esilio di Edipo «per la qual bandita esca in Edipo
la morte/ e mentre in guida ai suoi destini io lo licenzio» 59 e non sembra che
l'indovino sia stato influenzato dalla brama del regno di Polinice.
Nel proemio del Tiranno, Martello dichiara che sono passati almeno quattro anni
dall'incoronazione di Edipo e, nel testo, descrive i figli del re come bambini molto
piccoli: le figlie minori non sono ancora in grado di parlare correttamente e i
fratelli maggiori affrontano le risse infantili a suon di graffi. Dato che Edipo e
Jocasta hanno avuto quattro figli in quattro anni, Polinice, all'epoca dell'esilio
paterno, non poteva avere più di quattro o cinque anni ed è estremamente
inverosimile che avesse voluto bandire il padre per ottenere il trono. L'obiezione
maggiore a questo ragionamento è sicuramente che Martello si dedicò prima alla
scrittura del Coloneo poi a quella del Tiranno. La ricerca della massima
verosimiglianza avrebbe potuto, però, dar vita a soluzioni diverse o per lo meno
indurre l'autore a situare le due vicende più vicine nel tempo, evitando
specificazioni troppo compromettenti sull'età dei personaggi: Jocasta è ancora
giovane e i figli poco più che lattanti.
Ad ogni modo, Polinice è considerato colpevole poiché è colui che si distanzia
dal volere divino: «pon far che contro il loro voler, s'io vo', non voglia?» 60 e, così
facendo, si appropria di una libertà che non è consentita e che lo condurrà alla
dannazione.
59 Idem, Edipo tiranno, cit., atto V, scena 3, vv. 408-409.
60 Idem, Edipo coloneo, cit., atto IV, scena 2, v. 219.
74
Ma sul piano dei delitti realmente compiuti, Edipo e Polinice possono essere
equiparati, in quanto entrambi si sono macchiati di parricidio, l'uno uccidendo il
padre e l'altro esiliandolo. Il vero discrimine tra i due risiede nell'intenzionalità,
presente o meno nell'atto, che manifesterà le sue effettive conseguenze solo dopo
la morte. Infatti, ammonisce Edipo:
EDIPO: Sol da chi a' genitori fu per voler nocente,
pari a quel sin ch'ei vive, morendo è differente.
Con la vita finisce ogni suo strazio; all'empio
di là ancor dalla vita rivive ognor lo scempio.61
Entrambi soffrono in terra la pena dell'esilio ma nell'aldilà i loro destini sono
opposti. Edipo è cieco ma, come Tiresia, la cecità esteriore è compensata con la
vista interiore; egli diventa un indovino silenzioso: Apollo gli rivela i segni che
precederanno la sua morte e la differente sorte che attende lui e i suoi figli nel
regno dell'aldilà. A Eteocle e Polinice, fratricidi volontari, sono riservate pene di
inaudita ferocia:
EDIPO: Sognai (ma non fu sogno) laggiù due presso a Laio
seggi l'un contro a l'altro d'un infocato acciaio,
in cui di Polinice, d'Eteocle io lessi il nome,
e ver lo scritto Aletto rizzò gli angui alle chiome
quasi che m'accennasse, dicendo: «Or si prepara
fra tuoi figli e l'inferno di pene orribil gara;
ma usciran vincitori da questa gara orrenda,
sempre ripullulando, per struggersi a vicenda».62
La punizione dei due fratelli possiede una violenza tale da assimilare l'Ade
all'inferno dantesco, a cui si potrebbe ipotizzare che Martello si sia ispirato: le
pene previste per Eteocle e Polinice assommano in sé, ma aggravandole
ulteriormente, la pena per gli eretici, la tomba infuocata, e quella per i seminatori
di discordia, il subire ferite che continuamente si rimarginano e si riaprono. Tale
61 Ivi, vv. 105-108.
62 Ivi, atto IV, scena 1, vv. 155-160.
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crudeltà nello stabilire le pene è così spiegata da Edipo: «il castigo d'un empio
abbandonato ai lutti,/ misericordia è in Cielo, che veglia a serbar tutti». 63 Edipo
rende noto il tremendo destino dei fratelli alla sola Antigone che, pia alla
famiglia, risponde: «ma se questa è clemenza, qual è la crudeltate?». 64 Ma Edipo,
a differenza di Tiresia, non mostra compassione umana per la catastrofe dei suoi
figli, la sua mente è già assorbita nella divinità e consolata da una ricompensa
celeste: «compenserà l'Elisio le pene a lei non dovute».65
Alla fine del quarto atto, infatti, Edipo riconosce i segni annunciatori della sua
fine e, non curandosi dei figli, permette solo a Teseo e al sacerdote di seguirlo nel
bosco. Il viaggio e la morte sono al di fuori della scena e vengono poi narrati da
re e dal sacerdote. Gli ultimi momenti di Edipo sono ricchi di prodigi: egli, cieco
ma guidato dagli dei, precede i suoi compagni per un sentiero tortuoso, pericoloso
e pieno di rocce; giunto ad una fonte, Edipo chiede che gli sia versata l'acqua sul
capo:
TESEO: Si obbedisce; e, grondando dal capo in più ruscelli
ecco anellarsi i bianchi lunghissimi capelli,
qual se pettine eburneo fra gli anellati argenti
scorrendo, insinuati vi avesse arabi unguenti.
Empié di carne improvvisa (chi 'l crederà?) le opposte
al muscolo tergo rilevate sue coste,
e un color giovanile si propagò dai bianchi,
sino al nervoso piede, disposti abili fianchi.
Volse ver noi la faccia; ed ecco, o meraviglia,
gli occhi lasciati in Tebe tornar fra le sue ciglia.66
Edipo assume l'aspetto di un vecchio venerando: il suo ingresso nell'Elisio è
preceduto, in una sorta di premio del contrappasso, dalla restituzione di tutto ciò
che gli era stato tolto in vita. Tornano sul suo corpo la carne, che riempie la
magrezza dovuta all'esilio e alla mendicanza e, soprattutto, gli occhi: la punizione
è ormai terminata. Il momento della definitiva scomparsa è preceduto da un
63
64
65
66
Ivi, v. 175.
Ivi, v. 172.
Ivi, v. 130.
Ivi, atto V, scena 4, vv. 259-268.
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affettuoso ricordo delle figlie, a cui devono essere riconsegnati i manti regi del
padre che non appartiene più alla terra. Edipo, nel momento precedente alla sua
morte, affida, con una formula decisamente evangelica, le figlie a Teseo: «figlie,
ecco il padre vostro».67 Ma il richiamo delle Erinni costringe Edipo a riprendere il
suo viaggio in compagnia del solo Teseo; giunti a destinazione videro:
TESEO: Quivi insolita selva: gigli, rose, viole,
vi fiorian non più viste sott'altro e più bel sole.
Folgorò fra que' boschi donna non già, ma diva,
ché al camminar superbo donna non appariva:
Edipo allor di volo spiccasi ov'ella alluma
l'ombre, e ne va qual tratta da' venti agile piuma,
e in un balen lo miro prostrato a' pié di quella
che per essere dell'Erebo regina è troppo bella.68
In una scoscesa valle rocciosa si apre un giardino fiorito, una visione dell'Elisio in
cui una bellissima dea appare ai due uomini. Edipo si alza in volo e viene
trasportato ai sui piedi: l'anima di Edipo ascende in cielo finalmente ricompensata
delle sofferenze subite in terra. L'ascensione è il culmine e la realizzazione della
giustizia divina: gli dei premiano colui che sommamente e contro la morale
umana si è piegato al loro volere. Egli, non soltanto è anima beata in cielo, ma è
divinizzato e diventa Nume tutelare di Atene. L'apoteosi finale è sorprendente, è
il culmine del paradosso della vicenda edipica: la colpa è trasformata in onore, la
punizione terrena è necessaria per il premio celeste. L'imperscrutabilità e la
necessità della volontà degli dei dominano il mondo: enorme è distanza fra
umano e divino.
67 Ivi, atto V, scena 4, v. 296.
68 Ivi, vv. 319-326.
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CONCLUSIONI
L'analisi della riscrittura martelliana della vicenda edipica mostra come il mito sia
una delle fonti d'ispirazione più importanti per un tragediografo anche in epoca
moderna. Nei due testi presi in esame vediamo come l'autore attui un buon
tentativo di creare una tragedia moderna. La novità di Martello è inserita nella
tradizione teatrale per la scelta dell'argomento mitico ma diventa palese sotto altri
punti di vista. I trattati teorici mostrano come l'autore sia seriamente impegnato
nella costituzione di un tragico moderno, volto a ristabilire il primato letterario in
un genere poco frequentato e che risulti apprezzabile dalla la società moderna con
le sue credenze e la sua mentalità. Tale impegno è particolarmente evidente negli
aspetti contenutistici e formali delle sue opere: Martello vuole scrivere tragedie
che si collochino nello stesso orizzonte culturale, etico ed estetico del suo
pubblico, quindi compie una sorta di rivoluzione all'interno dell'ambito teatrale.
La sua posizione, intermedia tra modernità e tradizione, è lo conduce allo studio e
al confronto con gli autori antichi e contemporanei che si realizza, talvolta,
analizzando alcune opere nei proemi delle sue tragedie. Lo studio dei
tragediografi si concentra in particolare Sofocle, di cui vengono ripresi argomenti,
trame e personaggi. Dei due testi analizzati quello che mostra un maggior legame
con la versione sofoclea è l' Edipo coloneo, ma anche in quest'opera sono presenti
elementi di modernità quali la complicazione dell'intreccio e l'inserimento della
vicenda amorosa.
La modernità e la volontà di collocare l'opera nello stesso orizzonte culturale del
pubblico fa sì che l'autore decida di rendere verosimili gli avvenimenti portati in
scena: il rispetto della verosimiglianza si situa in quella fase culturale che,
all'inizio del XVIII secolo, si oppone al barocco e risente del razionalismo,
preludio
allo
sviluppo
dell'illuminismo.
Altre
innovazioni
riguardano
principalmente l'ingresso sulle scena delle passioni prima interdette come l'amore
e, in parte, l'orrore. Ciò che viene portato in scena è diretto ad una società colta e
incline al sentimentalismo, e ciò spiega la passione amorosa, ma soprattutto ad
una società cristiana successiva alla controriforma. Lo stesso Martello era a
contatto con ambienti ecclesiastici e probabilmente la visione cristiana del mondo
78
ha profondamente influenzato il modo di concepire una tragedia sul mito edipico.
Martello
concepisce
un
personaggio
colpevole
che
riconosce
il
suo
coinvolgimento almeno in parte dei delitti: egli sa di aver ucciso Laio ma non lo
confessa a Jocasta o al popolo tebano. Secondo l'autore Edipo non avrebbe dovuto
astenersi dall'uccidere qualsiasi uomo e dallo sposare qualunque donna: Edipo
non deve mantenersi innocente agli occhi del Dio cristiano, quindi fuggire la
tentazione evitando omicidi e matrimoni; egli è ancora sottoposto a divinità
diverse che vogliono vendicarsi di Laio. Edipo, però, mente a Jocasta e non evita
l'incesto: è questa la sua colpa “cristiana”, egli viene meno alla verità , rifiuta la
verità per amore e desiderio di potere. Sono questi gli elementi che Martello usa
per far presa sul proprio pubblico, su una società cristiana riformata e monarchica
per amplificare l'effetto di catarsi dovuto alla compassione e al terrore.
Tale contesto storico, fa sì che l'aspetto cristiano di cui è rivestita la prima parte
della vicenda Edipica si propaghi anche nella seconda: il personaggio di Antigone
diventa sorprendentemente cristiano e a lei si oppone l'antagonista Ismene che
alla fine riconosce il suo errore e si pente.
I cambiamenti apportati al genere tragico dall'autore sono spia della volontà di
essere partigiano dei moderni: la modernità non può imitare sterilmente gli
antichi, essa, al contrario, può rielaborare il mito fino a renderlo attuale in una
società razionalista e cristiana e fino a recuperare all'Italia il primato letterario
anche in ambito teatrale. L'eccellenza letteraria, che Martello si pone come
obiettivo, viene cercata anche sul piano formale con l'invenzione del
“martelliano”. Questa nuova forma metrica, però, fu duramente criticata dagli
altri letterati settecenteschi che non apprezzarono il verso “tragico”.
Da un punto di vista esclusivamente drammaturgico-rappresentativo, infatti,
nonostante l'attenzione alla verosimiglianza e la lunga discussione con Aristotele
nel trattato Della tragedia antica e moderna, le tragedie di Martello sembrano
essere difficilmente rappresentabili. La forma metrica ma soprattutto la lunghezza
dei testi rischierebbero di dar vita ad una rappresentazione che risulterebbe
appesantita ed eccessivamente cadenzata dalla rima. Martello stesso si difende da
questa accusa nel trattato Del verso tragico quando descrive la varietà di ritmi che
79
riesce a creare con l'estensione variabile del verso e con il ricorso
all'enjambement.
La difficoltà nella rappresentazione può essere considerata attualmente un
problema minore se si considerano le opere da un punto di vista letterario: la
composizione di testi in distici rimati di martelliani mostra un elegante gusto del
verseggiare che è espressione di grandissima finezza stilistica dell'autore, che
ricorre ad una veste metrica rimata per conferire un andamento poetico alle sue
tragedie. Tale finezza stilistica è sicuramente apprezzabile nella lettura che
consente anche di soffermarsi ad osservare l'enorme lavoro metrico dell'autore.
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