Il tema della vista nelle Baccanti di Euripide

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Il tema della vista nelle Baccanti di Euripide
Il teatro greco: esperienze da un TFA
Il tema della vista nelle Baccanti di Euripide
di Barbara Giubilo
C LASSE
E DISCIPLINA
P ROGRAMMAZIONE
P REREQUISITI
O BIETTIVI
•
•
Ultimo anno di liceo classico
Programma di lettura e traduzione di un testo d’autore
5 o 6 lezioni intermedie, pensate come commento e
approfondimento da affiancare alla lettura e analisi di alcune
sezioni di testo, da svolgersi in itinere.
• Durata: 5 o 6 ore in classe.
• Dopo la lettura del prologo, si propone quella dei versi 434518: secondo episodio; versi 778-861: parte finale del terzo
episodio; versi 912-976: quarto episodio; versi 1043-1152: quinto
episodio; versi 1263-1300: sezione centrale dell’esodo.
• Conoscenza del teatro attico, della struttura della tragedia e
del contesto storico, sociale e culturale in cui questo genere
fiorisce;
• Conoscenza della drammaturgia euripidea;
• Conoscenza del trimetro giambico;
• Lettura integrale in versione italiana del testo;
• Lettura del saggio critico di J. P. Vernant (vedi bibliografia),
propedeutico e introduttivo alle tematiche trattate nel
percorso.
Competenze interpretative:
• interpretare le concezioni religiose e l’ideologia di Euripide alla
luce del contesto storico, sociale e politico dell’Atene del V
secolo;
• confrontare la rappresentazione del mondo divino, così come
emerge nelle Baccanti, con quella di altre tragedie dello stesso
Euripide e degli altri tragici;
• individuare il diverso ruolo svolto dall’eroe euripideo, rispetto a
quello eschileo o sofocleo.
Competenze linguistiche:
• riconoscere l’intera gamma dei termini afferenti alla sfera
•
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•
C ONTENUTI
S TRATEGIE
DELLA LEZIONE
DIDATTICHE E STRUMENTI
•
1.
2.
P ERCORSI
DI APPROFONDIMENTO
1.
E DI ECCELLENZA
2.
visiva e saperne distinguere le specificità, ovvero le diverse
sfumature semantiche che intercorrono tra i termini
appartenenti a tale sfera;
individuare, attraverso l’analisi del lessico, il messaggio
veicolato dall’autore.
Analisi testuale e lessicale di una selezione di passi tratti dagli
episodi tradotti.
In particolare, i versi analizzati saranno tratti dai seguenti
nuclei di versi:
– versi 451-503 → Penteo, pur trovandosi di fronte al dio,
non riesce a “vederlo”;
– versi 810-840 → il voyeurismo del sovrano comincia a
prendere il sopravvento su di lui. A poco a poco, Penteo
assume gli atteggiamenti di una spia;
– versi 912-959 → accecato dalla follia, Penteo vede doppio;
– versi 1046-1075 → nel tentativo di osservare i riti bacchici,
Penteo sale sulla cima di un albero;
– versi 1263-1300 → Agave, tornata dal Citerone, viene
sottoposta dal padre a un percorso “psicoterapico” basato
sulla vista.
Attività di laboratorio sul testo (lavoro pomeridiano da
svolgersi prima dell’inizio delle lezioni proposte per il percorso):
• costruzione di schede lessicali relative all’area semantica
della vista, all’interno delle quali dovranno essere distinti i
valori specifici dei singoli termini. È consigliato l’uso di un
dizionario etimologico da affiancare a quello linguistico.
Lezione frontale:
• lettura, analisi e commento della selezione di passi, da un
punto di vista linguistico e tematico.
La follia di Penteo a confronto con quella di altri eroi tragici
(Oreste, Aiace, Eracle): per ciascuno di questi eroi la follia
scaturisce da una punizione divina, in quanto riconducibile a
una colpa. Ma sul destino di Penteo pesa una più grave
condanna: l’impossibilità di giungere a una pur minima forma
di consapevolezza prima di andare incontro al proprio destino,
come avviene invece per gli altri eroi.
Il tema della vista nelle Baccanti e nell’Edipo Re di Sofocle:
pur rivestendo un ruolo chiave in entrambe le tragedie, il tema
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I POTESI
DI VERIFICA
P ERCORSI
DI RECUPERO
della vista assume in questi drammi significati molto diversi. Se
la cecità di Edipo di fronte agli eventi lascia il posto, nel finale
del dramma, alla piena consapevolezza, la cecità di Penteo,
nelle Baccanti, è condizione immutabile.
3. Percorso interdisciplinare: in quest’ultimo percorso si chiede
agli studenti di esaminare il diverso significato che assume la
follia nelle Baccanti di Euripide, nelle tragedie di Seneca e nel
teatro di Pirandello (Enrico IV).
Per la verifica si prevedono due tipi di lavori.
• Anticipatamente al percorso, si richiederà un tipo di lavoro
laboratoriale da svolgere a casa, in gruppi, che preveda la
creazione di schede lessicali relative ai termini afferenti al
campo semantico della vista.
• Un’ulteriore verifica si richiederà a termine del percorso, e
consisterà nella somministrazione di domande aperte di
carattere lessicale e contenutistico.
• Per il recupero si prevede la traduzione in classe di versi già
esaminati con l’insegnante, per verificare la comprensione dei
valori semantico-lessicali dei versi affrontati in classe.
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Il tema della vista nelle Baccanti di Euripide
I NTRODUZIONE
Il presente percorso didattico si propone come commento e approfondimento sul tema della
vista nelle Baccanti, tragedia inserita nel programma di lettura e traduzione di testo d’autore per gli
studenti dell’ultimo anno di liceo classico. La vista svolge un ruolo chiave in questo dramma,
caratterizzandosi come una sorta di fil rouge che lo attraversa tutto. L’impiego massiccio di termini
afferenti a questo campo semantico (ὁράω e i suoi composti: καθοράω, εἰσοράω, λεύσσω, σκοπέω,
ἀθρέω, σκέπτομαι, ὄψις, θαῦμα, κατασκοπή, τὼ ὄσσε, τὰ ὄμματα, μορφή, εἶδος, ἰδέα, θεατής, κατασκοπὸς
φαίνω, φανερός, ἐμφανής, ἐπίσημος, λανθάνω, κρύπτω) non è casuale, bensì rimanda a precisi significati.
La vista viene infatti considerata da Euripide come strumento di conoscenza per penetrare il mondo
divino. Tuttavia, attraverso l’uso sapiente del lessico, in questa tragedia l’autore traccia una linea di
separazione netta tra coloro che, grazie alla fede, sanno davvero vedere (gli iniziati), e coloro che,
come Penteo, sono accecati da un ottuso razionalismo. Proprio la cecità di Penteo (al di là del suo
voyeurismo), ovvero il suo rifiuto del divino, è, secondo Euripide, all’origine della catastrofe del re.
L’analisi attenta del lessico della vista funge così da chiave di volta per una corretta interpretazione
e comprensione della tragedia e, più in generale, della religiosità e dell’ideologia euripidea. Come è
noto, secondo alcuni studiosi del secolo scorso, le Baccanti rappresenterebbero la testimonianza
della conversione del poeta in punto di morte1. In realtà, come ha dimostrato la critica più recente,
tale interpretazione va considerata semplicistica, giacché Euripide non aveva mai negato la
religione tradizionale – come testimoniano tragedie quali l’Ippolito –, pur avendone una concezione
“intellettualizzata”. Come osserva Privitera2, Euripide ha infatti sempre ritenuto la religione “una
proiezione delle più intime e fondamentali esigenze dell’uomo. E come queste non possono essere
negate, così a suo vedere non può essere negata la religione che le rispecchia”. Non v’è dubbio,
tuttavia, che nelle Baccanti l’autore mostri una sensibilità particolare nei confronti del divino. Tale
sensibilità religiosa non si esplica però nell’apertura di “un dibattito teologico sul dionisismo3”,
bensì conduce il poeta ad esplorare il tema dell’irrazionale. Secondo Euripide, chi sa accettare il dio,
emblema dell’impulso naturale dell’uomo a valicare momentaneamente i limiti della ragione, trova
la felicità. Chi invece lo nega, nega la stessa natura umana, ed è per questo condannato alla follia. Il
dibattito sotteso alla tragedia si pone quindi su un piano che travalica quello della religione, e va
inquadrato nel contesto della crisi dell’Atene di fine V secolo. La cultura razionalistica che aveva
dettato le regole del vivere civile sembrava infatti ormai crollare sotto i colpi dell’irrazionalismo
1
Secondo altri, invece, la tragedia confermerebbe l’ateismo di Euripide. Su questo argomento cfr. E.R. Dodds, Euripides.
Bacchae, Oxford 1960 (Introduzione).
2
Cfr. A. Privitera, in A. Privitera – R. Pretagostini, Storia e forme della letteratura greca, I, Milano 2006, p. 315.
3
Cfr. G. Guidorizzi, Euripide. Baccanti, Venezia 1989, p. 31.
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sfociato nella guerra del Peloponneso, ma che pure si era manifestato in seno a quella cultura. In
questa tragedia, scritta in un momento di grave decadenza della polis, il poeta si volge così ad
indagare i meccanismi che regolano l’esplodere di impulsi irrazionali incontrollati nell’uomo, ovvero
le modalità per incanalarli nella giusta direzione. Tale tematica rappresenta il motivo ispiratore del
dramma, e, come si è detto, trova trascrizione proprio attraverso il lessico della vista. Per questa
ragione, si è scelto di presentare un percorso che faccia costantemente riferimento a questo tema,
così da offrire una sorta di “taglio” interpretativo del testo, nel corso della lettura della tragedia. Per
sviluppare il tema, dopo l’analisi del prologo, funzionale all’introduzione dei temi principali del
dramma, si propone la lettura di sezioni del secondo episodio, del terzo, del quarto, del quinto e
dell’esodo, all’interno dei quali questa tematica è sempre presente. L’approfondimento proposto
potrà quindi svolgersi in itinere, sotto forma di commento da affiancare alla lettura di alcune sezioni
di testo, nell’ambito di 5/6 lezioni.
E PISODIO II:
VERSI
451-503. V EDERE
SENZA VEDERE
Nel primo discorso che Penteo rivolge allo straniero, versi 451-460, comincia subito ad
affiorare il tema della vista. Al verso 453, il re usa un vocabolo, (οὐκ) ἄμορφος, che fa riferimento
all’aspetto fisico di Dioniso. Subito dopo prende il via una descrizione particolareggiata dell’aspetto
del dio, dal carattere quantomeno controverso. Ai versi 453-459, il re indugia con lo sguardo sui
lunghi boccoli e sulla pelle immacolata dello straniero, constatandone la bellezza. La grazia dello
ξένος accende peraltro la fantasia di Penteo, che ne immagina le imprese notturne, ovvero “le caccie
ad Afrodite” (verso 459). È indubbio che mettendo in risalto l’effeminatezza di Dioniso, Penteo in
parte adotti un tono ironico, che scaturisce dal suo preteso status di “mascolina” regalità; ma in
parte, la “morbosa attenzione4” con cui egli scruta lo straniero manifesta una “repressa attrazione5”
per l’effeminato che gli sta davanti. Già da questo primo discorso, focalizzato sull’osservazione
visiva, comincia così ad emergere un tratto saliente della psicologia del re: la sua indole repressa.
Il tema della vista torna pochi versi oltre, con nuove implicazioni. Ai versi 460-468, Penteo
chiede allo straniero la sua patria di provenienza e da chi abbia appreso i riti che tenta di introdurre
a Tebe. Poiché lo straniero fa il nome di Dioniso, Penteo sarcasticamente gli chiede se egli abbia
visto il dio in sogno (νύκτωρ) oppure “faccia a faccia”, κατ’ ὄμμα (verso 469). Come osserva Vernant6
“la (…) domanda traccia una linea di demarcazione netta tra forme contrapposte della visione:
quella illusoria, irreale di colui che dorme e sogna; quella autentica, irrecusabile, dell’uomo sveglio,
lucido, con gli occhi spalancati”. È pur vero che le epifanie divine potevano avvenire tanto di notte,
4
Cfr. G. Guidorizzi, cit., p. 181.
Cfr. G. Guidorizzi, cit., p. 181.
6
Cfr. J.P. Vernant, Il Dioniso mascherato delle Baccanti di Euripide, in Mito e tragedia due, tr. it. Torino 1991, p. 233.
5
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in forma onirica appunto, quanto di giorno7. Tuttavia, con questa domanda il re mira a mettere in
discussione l’affidabilità di un’ipotetica visione onirica, per via della sua intima esigenza di ottenere
prove concrete e positive, a suo parere conseguibili solo attraverso uno stato di veglia. Un tale
atteggiamento denunciala completa mancanza di fede di Penteo. Non a caso, alla provocazione del
re, Dioniso risponde: ὁρῶν ὁρῶντα (verso 470). Le parole del dio possiedono una doppia valenza. Da
una parte egli intende disorientare Penteo, confermando di aver sperimentato quella visione reale e
positiva che, sola, il re giudica credibile; ma da un’altra egli allude alla “reciprocità dello sguardo8”
che si instaura tra il vero iniziato, il quale grazie alla fede è in grado di vedere, e quindi di
conoscere/riconoscere il dio, e il dio stesso che si rende manifesto. A prescindere dalla sua
comprensione da parte del re, la risposta di Dioniso si rivela efficace: Penteo inizia infatti ad
incalzare il dio con una serie di domande martellanti. Nei primi sette versi del dialogo che segue
(471-477), il verbo ὁράω (o parole ad esso etimologicamente connesse) compare per ben quattro
volte. Prima il re chiede allo straniero che “aspetto” abbiano i riti dionisiaci (verso 471), usando il
termine ἰδέα (da ὁράω), e che vantaggio arrechino a chi li celebra (verso 473). A queste domande
Dioniso risponde che ai non iniziati non è lecito εἰδέναι (ancora da ὁράω: verso 472), sebbene ne
valga la pena (verso 474: ἔστι δ’ ἄξι’ εἰδέναι). Poi, giacché lo straniero afferma di averlo visto, il re
domanda che aspetto abbia il dio (verso 477): τὸν θεὸν ὁρᾶν γὰρ φῂς σαφῶς, ποῖος τις ἦν;. A cosa mira
Penteo con queste domande? La sua sete di sapere, il desiderio irrefrenabile di ottenere
informazioni, non coincide affatto con la volontà di “conoscere religiosamente” tipica degli iniziati,
ma è bensì figlia di una stolida curiosità. La vista di cui ripetutamente si chiede conto allo straniero
è spogliata dal re del suo elemento mistico, mentre attiene esclusivamente alla sfera del tangibile.
Questa vista superficiale di Penteo “sancisce il divorzio fra le due parti dell’unità etimologica tra
vedere e sapere presente nella lingua greca (la radice *wid- comune a οἶδα e εἶδον)9”. Tramite il
verbo ὁράω il re infatti si riferisce sempre alla necessità di “ottenere delle prove visibili10” di quanto
si sta dicendo, per via della sua “comprensione limitata e semplicistica della realtà11”. In altre
parole, Penteo viene presentato come un ottuso, incapace di vedere perfino ciò che è davanti ai
suoi occhi. Egli, cioè, pur vedendo non vede, accecato dal suo bieco pragmatismo. La cecità del re
tebano dinnanzi al divino viene apertamente sancita da Dioniso poco oltre. Al verso 500, allorché lo
straniero, minacciato di essere gettato in prigione, afferma che il dio gli è vicino e “vede” ciò che
egli soffre: ἃ πάσχω… ὁρᾷ, il re risponde (verso 501): “E dov’è? Ai miei occhi non è visibile” (οὐ γὰρ
φανερὸς ὄμμασιν γ’ ἐμοῖς). E il dio (verso 502): “Qui, accanto a me, ma tu che sei empio non lo vedi”
(παρ’ ἐμοί· σὺ δ’ ἀσεβὴς αὐτὸς ὢν οὐκ εἰσορᾷς). Penteo dunque non è in grado di vedere in quanto
7
Su questo argomento cfr. G. Guidorizzi, Il sogno in Grecia, Bari 1988.
Cfr. J.P. Vernant, cit., p. 233.
9
Cfr. C. Thumiger, Visione e identità nelle Baccanti di Euripide, Acme 2, 2007, p. 7.
10
Cfr. C. Thumiger, cit., p. 9.
11
Cfr. C. Thumiger, cit., p. 9.
8
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6
ἀσεβὴς, osserva il dio. Egli cioè non fa parte della schiera dei credenti, gli unici in grado di penetrare
il divino con lo sguardo, giungendo alla conoscenza. Certo, Dioniso si presenta a Penteo con un
travestimento, e questo ingenera un inganno nei suoi confronti12. Tuttavia, non è la maschera del
dio a impedire al sovrano la vista, bensì il suo ottuso razionalismo. Eppure, il positivismo del re
manifesta fin da questo secondo episodio delle crepe. L’emergere di impulsi irrazionali nell’animo di
Penteo è tradito dalla curiosità morbosa con cui egli scruta e interroga lo straniero. Analizzando la
terminologia della vista nel secondo episodio, già emergono quindi i due tratti salienti della
personalità del re: il suo carattere represso e la sua visione limitata della realtà. Saranno proprio
questi due elementi a condurlo alla rovina.
E PISODIO III:
VERSI
810-840. V EDERE ,
OVVERO SPIARE SENZA ESSERE VISTI
Il tema della vista torna anche nella sezione conclusiva del terzo episodio, ancora nel dialogo
tra Penteo e Dioniso. Al verso 811, allorché il sovrano di Tebe palesa la sua decisione di salire sul
Citerone con un esercito in armi, Dioniso, stimolandone la curiosità, gli domanda: “vuoi vedere le
donne tutte insieme sul monte?” (βούλῃ σφ’ ἐν ὄρεσι συγκαθημένας ἰδεῖν;). E il re risponde, verso 812:
“o se lo voglio, lo pagherei a peso d’oro” (μάλιστα, μυρίον γε δοὺς χρυσοῦ σταθμόν). Penteo è
consapevole che la vista delle sconcezze delle donne tebane potrebbe causargli dolore, come egli
stesso osserva al verso 814: “soffrirò a vederle ubriache” (λυπρῶς νιν εἰσίδοιμ’ ἂν ἐξῳνωμένας), e come
rimarca anche Dioniso al verso 815: “e vuoi vedere ciò che ti farà patire?” (ὅμως δ’ ἴδοις ἂν ἡδέως ἅ σοι
πικρά;). Eppure, egli appare soggiogato dal desiderio di ottenere prove “visibili” sull’immoralità delle
baccanti. Il fatto è che questo desiderio viene a coincidere col voyeurismo, con la bramosia di
osservare ciò che è proibito, e non solo da un punto di vista sessuale, bensì anche religioso. Non
essendo un iniziato, al re è infatti interdetta la visione dei riti bacchici. Non v’è dubbio che il dio
giochi la sua parte nel far prevalere simili impulsi in Penteo, eccitandone la curiosità morbosa.
Tuttavia, Dioniso fa leva su quell’aspetto represso della psicologia del sovrano, che già si era
intravisto nel secondo episodio. Da questo momento, il voyeurismo del re prenderà fatalmente il
sopravvento su di lui, trasformandolo in una spia. Questa assunzione di status da parte del sovrano
tebano è sancita anche dalla terminologia relativa alla vista: al verbo ὁράω vengono ora ad
affiancarsi nuovi, più specifici vocaboli.
A partire dal verso 816, il discorso dei due protagonisti si sposta sulle modalità con cui il re
potrà appunto “spiare” le baccanti sul Citerone. Penteo vorrebbe salire sul monte senza farsi
vedere, verso 816, ma Dioniso controbatte che gli verrà data la caccia, anche se salirà di nascosto,
verso 817: …κἂν ἔλθῃς λάθρᾳ. Penteo allora cambia idea, e decide di salire sul monte in modo
manifesto, verso 818: ἀλλ’ ἐμφανῶς. Ma anche questa modalità viene bocciata dal dio, che propone a
12
Su questo argomento cfr. J.P. Vernant, cit., p. 235; C. Thumiger, cit., p. 9.
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7
questo punto al re di travestirsi da donna, “per non essere ucciso lassù, se scopriranno che sei
uomo” (μή σε κτάνωσιν, ἢν ανὴρ ὀφθῇς ἐκεῖ). Solo in questo modo, afferma Dioniso al verso 829, il re
potrà farsi θεατὴς μαινάδων, “spettatore delle menadi”, e conseguire il suo obiettivo, che, come
Penteo sottolinea al verso 838, è quello di μολεῖν… εἰς κατασκοπήν, “andare in esplorazione”. Entra in
scena a questo punto un nuovo elemento: il travestimento del sovrano. Al termine del terzo
episodio, il re inizia infatti a scivolare verso l’accettazione della degradante mimetizzazione
suggeritagli da Dioniso, pur di raggiungere il suo obiettivo: osservare le donne. Certo, il sovrano
manifesta ancora delle remore (verso 828; verso 836), giacché egli prova disagio al pensiero di
essere visto abbigliato in vesti femminili dai suoi concittadini. Ancora al verso 840, egli chiede allo
straniero in che modo potrà aggirarsi per la città di nascosto ai Tebani (καὶ πῶς δι’ ἄστεως εἶμι
Καδμείους λαθών;). Ma al di là di ogni pudore, la volontà di agire in incognito, il tentativo di sottrarsi
alla vista degli altri, è riconducibile a un atteggiamento spionistico. In ogni caso, il travestimento di
Penteo non avrà affatto la funzione di nasconderlo, di proteggere la sua identità, ma sarà al
contrario rivelatore: rivelerà alle donne la sua presenza di intruso, nonostante gli abiti femminili e la
lunga chioma posticcia; rivela agli spettatori lo stato confusionale in cui si trova il re, entrato ormai
in una dimensione liminare che oscilla tra mascolinità e femminilità. La confusione mentale del
sovrano è parzialmente imputabile al dio, che al verso 851 afferma di avergli ispirato una leggera
follia (ἐνεὶς ἐλαφρὰν λύσσαν). Ma in ultima istanza deriva dal modo sbagliato di Penteo di guardare la
realtà. Come si è detto, il re non desidera osservare le baccanti per trarne una conoscenza, bensì
per appagare le sue brame di voyeur; si trova al cospetto del dio e non sa percepirne la presenza;
assiste al miracolo del palazzo e stenta a riconoscerne la matrice divina. La vista di Penteo non si
indirizza mai nella direzione giusta, che è quella del riconoscimento della divinità – riconoscimento
auspicato da Dioniso nel prologo del tragedia, verso 61: ὡς ὁρᾷ Κάδμου πόλις. In questo errore di
percezione della realtà è insito il germe della sua catastrofe, giacché, come osserva Vernant13, la
venuta di Dioniso ha lo scopo di portare “la pienezza della felicità” a chi sa vederlo, ma “agli altri,
che non hanno saputo vederlo, la distruzione”.
E PISODIO IV:
VERSI
912-959. V ISIONE
E ALLUCINAZIONE
Il dramma della vista, ovvero dell’incapacità di Penteo di vedere la realtà, emerge con
prepotenza nel IV episodio, in cui questo tema riveste un ruolo centrale. Le prime parole che il dio
pronuncia, appena uscito dalla reggia, sono quelle di un minaccioso avvertimento nei confronti del
re, accusato di voler vedere ciò che non andrebbe visto, verso 912: σὲ τὸν πρόθυμον ὄνθ’ ἃ μὴ χρεὼν
ὁρᾶν. Dioniso fa naturalmente riferimento ai riti preclusi ai non iniziati, che il re pericolosamente si
accinge ad andare a scrutare in veste di spia, verso 916: λόχου κατάσκοπος. Poi, con un certo
13
Cfr. J.P. Vernant, cit., p. 223.
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sarcasmo, gli ordina di farsi vedere vestito da donna, versi 914-915: …ὄφθητι μοι, / σκευὴν γυναικὸς
μαινάδος βάκχης ἔχων. L’aberrante trasformazione del sovrano, ormai in completa balìa del dio, viene
così offerta agli occhi degli spettatori. E quando Penteo appare sulla scena in abiti femminili,
agghindato come una baccante, subito esclama: “mi pare di vedere due soli, e Tebe dalle sette
porte si è sdoppiata. E tu che mi conduci sembri un toro” (καὶ μὴν ὁρᾶν μοι δύο μὲν ἡλίους δοκῶ, /
δισσὰς δὲ Θήβας καὶ πόλισμ’ ἐπτάστομον· / καὶ ταῦρος ἡμῖν πρόσθεν ἡγεῖσθαι δοκεῖς). Con questa scena si
giunge al culmine del dramma della vista. Reso ormai folle dal dio, Penteo ci vede doppio. Tuttavia
le sue allucinazioni sono anche “il segno di una più profonda percezione del dio, che gli appare nella
sua epifania taurina14”. È lo stesso Dioniso, al verso 924, ad affermare che il re ora vede ciò che deve
vedere: …νῦν δ’ ὁρᾷς ἃ χρή σ’ ὁρᾶν. Questa dichiarazione, che si trova in perfetta antitesi con quella
del verso 912 (σὲ τὸν πρόθυμον ὄνθ’ ἃ μὴ χρεὼν ὁρᾶν), denuncia una forte ambiguità da parte del dio. La
vista più acuta che Penteo acquisisce, infatti, rimane pur sempre nel campo dell’allucinazione e
dello straniamento, ben lontana dalla visione estatica degli iniziati, e continua quindi a non
produrre alcuna reale conoscenza. La limitatezza del suo sguardo sulla realtà continua a precludere
al re l’accesso all’universo dionisiaco, anche nel momento in cui egli lo percepisce più
profondamente. Che quella di Penteo sia una vista distorta è peraltro reso chiaro nel seguito
dell’episodio, in cui il re, pur tramutato in baccante, continua a riprodurre gli atteggiamenti di una
spia. Prima egli si preoccupa che il suo camuffamento sia idoneo, verso 925: τί φαίνομαι δῆτ’;. Ma il
dubbio di Penteo viene immediatamente fugato da Dioniso, che, assecondando la follia della sua
vittima, dichiara di vedere riflessa nel re l’immagine delle baccanti, verso 927: αὐτὰς ἐκείνας εἰσορᾶν
δοκῶ σ’ ὁρῶν. Poi, dopo un breve dialogo in cui i due protagonisti continuano a discutere sul
travestimento di Penteo, il re ribadisce la sua volontà di guardare le donne di nascosto, verso 954:
ἐλάταισιν δ’ ἐμὸν κρύψω δέμας. Con un ambiguo gioco di parole, il dio risponde che il re si nasconderà
nel luogo che più gli compete – alludendo all’Ade –, giacché egli è un’ingannevole spia, versi 955956: κρύψῃ σὺ κρύψιν ἥν σε κρυφθῆναι χρεών / ἐλθόντα δόλιον μαινάδων κατάσκοπον. Anche nel momento
di massima penetrazione nella dimensione dionisiaca, Penteo rimane dunque essenzialmente
estraneo al divino, come rivelano le sue più intime, vane preoccupazioni: quella di avere un buon
travestimento e quella di non essere visto15.
E PISODIO V:
VERSI
1046-1075. E SSERE
VISTI SENZA VEDERE
Il tema della vista torna infine nell’ultimo episodio, a suggellare la morte di Penteo. La misera
fine del sovrano viene raccontata agli spettatori dalle parole del messo, il cui discorso appare sin
dall’incipit irto di riferimenti alla sfera semantica visiva, come si desume dal verso 1046: ξένος θ’ ὃς
14
15
Cfr. G. Guidorizzi, cit., p. 199.
Cfr. C. Thumiger, cit., p. 10.
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ἡμῖν πομπὸς ἦν θεωρίας. Il termine θεωρία indica infatti al tempo stesso la contemplazione del rito e
lo spettacolo offerto dagli iniziati. In questo passo il vocabolo possiede senza dubbio un ambiguo
doppio senso, riferendosi tanto all’auspicata e non realizzata vista delle baccanti da parte di Penteo,
quanto allo spettacolo offerto dalle baccanti con l’assassinio di Penteo. In modo allusivo, il re viene
dunque designato come vittima sacrificale di quel rito che egli intende spiare, pur non avendo il
diritto di assistervi. Nel seguito della narrazione, il messaggero mette in effetti in risalto proprio
l’atteggiamento spionistico di Penteo, allorché icasticamente ne descrive l’avanzare silenzioso e
circospetto attraverso le balze del Citerone, al fine di vedere senza essere visto (versi 1049-1050: τά
τ’ ἐκ ποδῶν σιγηλὰ καὶ γλώσσης ἄπο / σώζοντες, ὡς ὁρῷμεν οὐχ ὁρώμενοι), nonché la ricerca del miglior
appostamento per osservare le sconcezze delle baccanti: la cima di un albero (versi 1058-1062:
Πενθεὺς δ’ ὁ τλήμων θῆλυν οὐχ ὁρῶν ὄχλον / ἔλεξε τοιάδ’· Ὦ ξέν’, οὗ μὲν ἕσταμεν, / οὐκ ἐξικνοῦμαι μαινάδων
ὄσσοις νόθων. / ὄχθων δ’ ἔπ’, ἀμβὰς ἐς ἐλάτην ὑψαύχενα, / ἴδοιμ’ ἂν ὀρθῶς μαινάδων αἰσχρουργίαν).
Tuttavia, prima ancora di riuscire a vedere le donne, il re viene visto da loro, verso 1075: ὤφθη
δὲ μᾶλλον ἢ κατεῖδε μαινάδας; verso 1095: …εἶδον ἐλάτῃ δεσπότην ἐφήμενον. A nulla valgono al re il
travestimento da menade o il nascondiglio. La sua presenza è avvertita dalle donne, che nel delirio
mistico lo scambiano per una fiera. L’albero è abbattuto e Penteo fatto a pezzi. Nel momento in cui
giunge per lui la morte – momento che pure viene vissuto lucidamente –, il re di Tebe non è dunque
riuscito a vedere, né tantomeno a comprendere il miracolo dionisiaco. La punizione del dio consiste
proprio nel negare a Penteo finanche uno squarcio di conoscenza in punto di morte: a chi non sa
vedere il dio non è concessa nemmeno la più piccola ricompensa. E poiché l’ottusità del re ne
determina “una visione del mondo personale, privata, isolata16”, egli stenta a sua volta ad essere
percepito nel modo corretto anche dagli altri. La sua morte avviene proprio nel momento in cui,
visto, egli non viene riconosciuto dalla sua stessa madre.
E SODO :
VERSI
1263-1300. L A
VISTA COME STRUMENTO DI RINSAVIMENTO
Un valore diverso la vista lo assume nell’esodo della tragedia. In quest’ultima sezione del
dramma, protagonista è Agave, che giunge trionfante sulla scena. La figlia di Cadmo impugna il tirso
sulla cui cima è confitta la testa di Penteo, dopo che si è ormai consumato sui monti il suo atroce
σπαραγμός. Vittima di allucinazioni, Agave è convinta di brandire la testa di un leone ed inneggia
orgogliosamente alla sua valentia nella caccia, invitando suo padre a condividere la sua gioia e a
celebrare con lei l’impresa. A questo punto, prende il via quella che è stata definita una vera e
propria “scena di psicoterapia17”. Al fine di dissipare la tenebra che offusca la mente di Agave,
Cadmo la esorta a rivolgere lo sguardo al cielo, verso 1264: πρῶτον μὲν ἐς τόνδ’ αἰθέρ’ ὄμμα σὸν μέθες.
16
17
Cfr. C. Thumiger, cit., p. 11.
Cfr. G. Devereux, The psychotherapy scene in Euripides Bacchae, JHS 90, 1970, pp. 35-48.
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Guardando verso l’alto, Agave percepisce subito una più intensa luminosità dell’etere, verso 1267:
λαμπρότερος ἢ πρὶν καὶ διειπετέστερος. È l’inizio del suo rinsavimento. Constatandone il mutamento
d’animo, Cadmo rivolge alla figlia una serie di domande volte a farle recuperare la memoria di sé,
quali il nome del suo sposo e di suo figlio. Poi, egli la incita ad esaminare la testa conficcata nel suo
tirso, verso 1277: τίνος πρόσωπον δῆτ’ ἐν ἀγκάλαις ἔχεις;. Ancora semi-incosciente, la donna ribadisce
di avere tra le mani un leone, ma le sue parole non possiedono più la ferma convinzione
manifestata in apertura di scena, giacché l’identificazione della preda viene ora attribuita alle sue
compagne di caccia, verso 1278: λέοντος, ὥς γ’ ἔφασκον αἱ θηρώμεναι. L’anziano padre la sprona quindi
ad osservare di nuovo, con maggiore attenzione il trofeo, verso 1279: σκέψαι νυν ὀρθῶς· βραχὺς ὁ
μόχθος εἰσιδεῖν. Dopo aver indirizzato un secondo sguardo al tirso, Agave viene scossa da un fremito
di terrore, verso 1280: ἔα, τί λεύσσω; τί φέρομαι τόδ’ ἐν χεροῖν;. Cadmo, intuendo che il completo
rinsavimento di sua figlia è ormai vicinissimo, la costringe a posare ancora una volta gli occhi sullo
scempio al suo cospetto, verso 1281: ἄθρησον αὐτὸ καὶ σαφέστερον μάθε. Come si desume dall’uso del
verbo μανθάνω, la vista si configura in questo passo come un mezzo per raggiungere una forma di
conoscenza. E difatti, al termine del percorso “psicoterapico” cui viene sottoposta dal padre, Agave
ha ripreso piena consapevolezza della realtà. Quando Cadmo per l’ultima volta le chiede se le
sembri ancora di vedere un leone (verso 1282: μῶν σοι λέοντι φαίνεται προσεικέναι;), la donna afferma
con decisione di riconoscere il volto di Penteo, verso 1284: οὔκ, ἀλλὰ Πενθέως ἡ τάλαιν’ ἔχω κάρα.
Il recupero della ragione non conduce però Agave alla comprensione dell’universo dionisiaco,
ma solo alla presa di coscienza dell’accaduto. Una volta spazzate via le tenebre della follia, tornata
nel pieno delle sue facoltà mentali, la figlia di Cadmo riprende a vedere. Ma tutto ciò che scorge è il
terribile dolore che si è abbattuto sulla sua casa, verso 1282: ὁρῶ μέγιστον ἄλγος ἡ τάλαιν’ ἐγώ. Come
avviene per Penteo, dal rifiuto di Dioniso scaturisce anche per Agave una condanna senza appello.
Ciò che essa vede durante il delirio bacchico non ha niente a che fare con la visione dei veri iniziati,
ma si esaurisce in una folle allucinazione, che la lascia completamente estranea al mondo
dionisiaco. Nel momento del rinsavimento non le rimarrà che l’amara constatazione dell’illusorietà
della sua esperienza estatica. Sebbene quindi nell’esodo la vista rappresenti a tutti gli effetti uno
strumento per acquisire una conoscenza, si tratta di una conoscenza di segno opposto rispetto a
quella che ci si aspetterebbe. Nel caso di Agave, la vista è cioè un mezzo per uscire dal buio della
demenza, ma non per penetrare il divino. Di fronte al divino, al termine del dramma, Agave è
rimasta cieca, pur avendo riconquistato la luce della ragione.
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Ipotesi di verifica
Per ciò che concerne la verifica, se ne propongono due diverse tipologie, da somministrare
rispettivamente ad anticipazione e a conclusione del percorso. Come prima tipologia, si propone un
percorso formativo, da svolgere autonomamente come compito a casa che porterà a una verifica
sommativa in classe, e in base alla quale si richiederà agli studenti la creazione di schede lessicali
relative ai termini afferenti al campo semantico della vista. Gli studenti verranno divisi in sei
gruppi, che lavoreranno su tre diverse aree (due gruppi per ogni area): quella del vedere vero e
proprio, quella dello spiare, e quella del nascondersi. A ciascun gruppo verrà chiesto di esaminare i
seguenti blocchi di versi: 451-503; 810-840; 912-959; 1046-1075; 1263-1300. Dopo aver cercato tutti i
termini appartenenti alla propria area, essi dovranno poi individuarne le specificità (spiegando, ad
esempio, la differenza tra il significato di ὁράω e quello di λεύσσω). Infine, verrà chiesto loro di
scegliere un termine del proprio campo semantico, indicandone tutti i possibili esiti in lingua
italiana. Il lavoro viene assegnato come compito a casa e dovrà essere svolto in uno o due
pomeriggi, prima dell’inizio delle lezioni intermedie previste per il percorso. La produzione di tali
schede consentirà di vagliare le competenze linguistiche dei discenti, messi alla prova su un testo
non ancora affrontato con l’insegnante (o di cui, oltre alla previa lettura integrale in italiano, si sarà
analizzato soltanto il prologo). Inoltre, questo tipo di lavoro rappresenterà per gli studenti un valido
strumento per individuare in anticipo i passi in cui sono maggiormente concentrati i termini relativi
alla sfera visiva, così da poter più agevolmente seguire e comprendere le lezioni del percorso. La
valutazione avverrà in classe, in merito all’esposizione orale della ricerca. Il punteggio potrebbe
essere assegnato sulla base di tre indicatori: capacità di individuare i termini, capacità di
distinguere le sfumature di senso tra lessemi sinonimici, capacità di delineare una corretta
etimologia per gli esiti italiani prescelti. A tal fine verrà loro suggerito l’uso di un dizionario
etimologico.
A conclusione del percorso, verrà invece somministrata una verifica scritta con domande
aperte, da affiancare a piccole sezioni di testo greco, con traduzione a fronte. Tali domande, di
carattere lessicale e contenutistico, mireranno a vagliare la capacità degli studenti di individuare il
messaggio veicolato dall’autore attraverso l’uso di uno specifico linguaggio, e di decodificarlo alla
luce della conoscenza dell’ideologia dell’autore e del contesto storico-culturale in cui tale
messaggio viene elaborato. A tal fine, si chiederà agli studenti di concentrarsi su una singola parolachiave presente nel testo assegnato (ad es. il sostantivo κατάσκοπος al verso 916, o il sostantivo
θεωρία al verso 1046), per spiegarne il significato e la ragione per cui l’autore lo adotti in quel
contesto. Ancora, partendo dal testo, si potrebbe domandare in cosa consista la differenza
nell’impiego dei verbi ὁράω e οἶδα da parte di Penteo e Dioniso nel secondo episodio; o da quali
termini si evinca la rappresentazione di Penteo come spia ai versi 810-840, e perché Euripide lo
dipinga come tale; ovvero quali siano e che valore abbiano i lessemi della vista nell’esodo. A
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domande di questa natura, utili a verificare le competenze lessicali e le capacità di analisi e
interpretazione del testo, se ne affiancheranno altre di carattere più generico. La caratterizzazione
di Penteo come spia, ulteriormente ridicolizzata dal suo travestimento, ne fa un protagonista
tragico molto diverso da quelli eschilei e sofoclei, giacché privato del suo statuto eroico. Proprio
partendo dall’analisi dell’episodio III, ove è la scena del camuffamento del re, si potrebbe chiedere
agli studenti di individuare le differenze che intercorrono tra la figura dell’eroe in Eschilo, Sofocle ed
Euripide. Infine, giacché il Leitmotiv stesso del percorso – ovvero l’incapacità di Penteo di
vedere/conoscere il divino a causa di un razionalistico rifiuto – induce a prendere in esame la
visione religiosa di Euripide, nonché la sua ottica sul tema dell’irrazionale, i discenti verranno
stimolati ad indicare quali fattori (politici, sociali e culturali) abbiano contribuito ad influenzare le
concezioni del poeta, e in che modo tali concezioni emergano; o ancora, quale sia il rapporto tra la
rappresentazione del divino in questa e nelle precedenti tragedie; o infine, in che modo la
religiosità euripidea diverga da quella eschilea e sofoclea.
Oltre a monitorare il rafforzamento delle competenze linguistico-lessicali, già messe alla
prova nella prima verifica, il questionario finale mirerà così a verificare la capacità di collegare la
conoscenza dei prerequisiti alle nuove informazioni acquisite, così da interpretarle in modo corretto
e coerente. Per la valutazione della verifica conclusiva si terranno in considerazione la proprietà di
linguaggio, la conoscenza del lessico specifico dell’area del vedere e la capacità di interpretare il
testo in base alla conoscenza del lessico, la capacità di stabilire confronti e collegamenti all’interno
della produzione letteraria euripidea, e con gli altri tragici.
Per il recupero si prevede invece la traduzione in classe di brevi sezioni di versi, già analizzati
in classe con l’insegnante, cui si affiancheranno domande di carattere semantico-lessicale. Qualora
la classe manifesti difficoltà nell’assimilare adeguatamente i contenuti, il recupero potrebbe
svolgersi in due momenti. A metà del percorso si potrebbero assegnare i versi 1-22 o i versi 451-470.
A conclusione del percorso, invece, i versi 912-927 o i versi 1058-1075. Qualora la classe dimostri di
assimilare agevolmente i contenuti della lezione, il recupero si svolgerà a conclusione del percorso,
tramite somministrazione di uno dei gruppi di versi indicati.
Per quanto riguarda le eccellenze si propongono tre percorsi, di cui uno interdisciplinare. Nel
primo, si chiede di mettere a confronto la follia di Penteo con quella di Oreste, Aiace ed Eracle.
Questo approfondimento consente di riflettere sul diverso valore attribuito alla follia dai tre tragici.
Pur considerata sempre come conseguenza di una punizione divina in seguito a una colpa, il destino
dei protagonisti trova infatti esito diverso a seconda delle concezioni etico-religiose degli autori. Il
secondo percorso si focalizza invece sul significato della vista nell’Edipo re di Sofocle e nelle Baccanti
di Euripide. Anche in questo approfondimento si chiederà agli studenti di operare un confronto tra
due tragedie in cui lo stesso tema viene declinato in modo diverso. Laddove infatti la cecità di
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Edipo di fronte agli eventi si trasforma, nel finale del dramma, in piena consapevolezza, quella di
Penteo dinnanzi al divino non subisce alcuna mutazione. Questa differenza consentirà ai discenti di
spiegare le ragioni alla base dei diversi esiti cui vanno incontro i due protagonisti. Il percorso
interdisciplinare, infine, ripropone il tema della follia, suggerendo di scandagliare il significato che
essa assume nelle Baccanti, nelle tragedie di Seneca più spiccatamente incentrate sul furor e
nell’Enrico IV di Pirandello. Tale percorso mira pertanto a mettere alla prova le competenze
trasversali degli studenti, chiamati ad analizzare la trattazione di una medesima tematica in
discipline diverse.
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Bibliografia di studio
(per il docente)
T RADUZIONI
E COMMENTI
E. R. Dodds, Euripides. Bacchae, Oxford 1960.
G. Guidorizzi, Euripide. Baccanti, Venezia 1989.
V. Di Benedetto, Euripide. Le Baccanti, Milano 2004.
S TUDI
E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, tr. it. Firenze 1959.
I. Gregory, Some aspects of seeing in Euripides’ Bacchae, Greece and Rome 32, 1985, pp. 23-31.
J. Kott, Mangiare Dio, o Le Baccanti, in Mangiare Dio, tr. it. Milano 1977, pp. 195-227.
C. Thumiger, Visione e identità nelle Baccanti di Euripide, Acme 2, 2007, pp. 3-30.
J.-P. Vernant, Il Dioniso mascherato delle Baccanti di Euripide, in Mito e tragedia due, tr. it. Torino 1991,
pp. 237-270.
Approfondimenti bibliografici
(per gli studenti)
L. Cammelli, Lessico metodico della lingua greca, Milano 1969.
V. Citti, C. Casali, L. Fort, M. Taufer, Dialogoi. Percorsi di lessico greco, Torino 2012 (consultabile online).
E. Dodds, Il Menadismo, in I Greci e l’irrazionale, tr. it. Firenze 1959, pp. 319-334.
J.-P. Vernant, Il Dioniso mascherato delle Baccanti di Euripide, in Mito e tragedia due, tr. it. Torino 1991,
pp. 237-270.
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