Nextfuture

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Nextfuture
L’ O S S E R V A T O R I O I N T E R N A Z I O N A L E S U L L E T E N D E N Z E D E L R E T A I L E D E I C O N S U M I
a cura di Thomas Bialas
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I CONTENUTI
Prodotti senza qualità
Osare a rassicurare
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Focus group
sulla qualità
Confessioni da bar
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Falsi di qualità
Il valore
e il suo doppio
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Future qualità 1
Il valore della magia
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Future qualità 2
Il valore fai da te
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Progetto grafico Walter Tinelli
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Via Brescia 53/65 Cernusco s/Naviglio
Consumi senza qualità
Varcare la soglia
Stampa Rotolito Lombarda
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Direttore Responsabile Luigi Rubinelli
Quale qualità
Nuovi
paradigmi
Futuro
senza
qualità
I valori del retail
sono tutti
da ricalibrare
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qualit y update
Quale
qualità
Survival
revival
Nuovi
Lezioniparadigmi
di ricaduta
Bassezze
01
C’è una alternativa alla guerra all’ultimo prezzo e si chiama qualità.
Sarà vero? Contestualizziamo. L’essere umano si trova in mezzo alle rovine e potrebbe anche chiedersi: ma di quale qualità state parlando voialtri? C’è solo da scegliere. Vogliamo parlare della qualità
delle regole del calcio, della qualità dell’umiliante lavoro precario,
della qualità dei matrimoni allo sfascio, della qualità dell’aria che respiriamo, della qualità della vita nelle nostre caotiche e schizofreniche metropoli, o delle qualità del nascente partito dei pedofili che in
Olanda vuole liberalizzare la pornografia infantile con il motto “libertà
e diversità”? O vogliamo parlare delle intercettazioni. Parliamone. Il
bello delle intercettazioni è l’evidenza mediatica della fine di ogni
qualità del lessico. Ruffiani, veline, bulli coatti, imprenditori, politici e
principi parlano tutti lo stesso slang rozzo e volgare da hinterland disagiata. I Savoia parlano come Ricucci, che parla come Moggi, che
parla come la più grottesca macchietta del Grande Fratello. Ci sarebbe da sudare freddo se non fosse che tutti noi abbiamo già ampiamente digerito che siamo all’anno zero dei valori e di ogni qualità. Figuriamoci quella dei prodotti (in Germania, già il 53% dei consumatori ritiene che la qualità peggiori di anno in anno). Ecco, forse, finalmente, tutto diventa chiaro, speriamo. Un prodotto, o servizio di qualità, è un prodotto o servizio che rispetta una precisa gerarchia di valori. La qualità è una scala di valori, che ci eleva. Ma se
la scala scricchiola, siamo sospesi nel vuoto di una qualità immaginaria. Pretesa, ma disattesa. Ecco il punto. “Dalle più violente esagerazioni, se lasciate a se stesse, nasce col tempo una nuova mediocrità” scrive Robert Musil in L’uomo senza qualità. E se c’è una
parola esagerata e assai mediocre, oggi, è proprio la qualità. A furia di dichiararla trionfalmente in ogni discorso (certificato e non) ha
perso credito, come certi uomini che promettono amore eterno ad
ogni donna che incrociano per strada. Un fantasma che vaga senza più la propria Eigenschaften (individualità).
Incertezze
02
Esiste almeno il consumatore di qualità? Insomma, una persona
con Eigenschaften chiara, riscontrabilie, verificabile, classificabile?
E perché dovrebbe? Se oggi non si segmenta più (o non si dovrebbe, perlomeno), la ragione è semplice. Per decenni, ci siamo
cullati nell’illusione di eterne, raffinate e incontestabili segmentazioni socio-culturali ed economiche, come se il marketing fosse una
scienza esatta (vedi tra l’altro le figuracce degli exit poll). Ora guardiamo in faccia il consumatore e ci accorgiamo che non fa quello
che dice, non dice quello che pensa e non pensa quello che sente.
Un bel rebus. E così dalla segmentazione siamo passati alla frammentazione. Il target è morto. Viva il target indecifrabile e inafferrabile. Il consumatore camaleonte, incoerente, che nega ogni lettura
univoca dei suoi modelli di consumo. O spende troppo, o troppo
poco. Oggi, un cosmetico è in concorrenza con il cibo per gatti e il
cibo per i gatti con l’ultimo gadget tecnologico. Un bel pasticcio che
si complica con la concorrenza globale. Di omogeneo c’è, forse,
solo la parità generazionale. Una generazione di consumatori senza
più generazioni, che ci porta dritti nell’era dell’ageless consuming
(consumi senza più target d’età). Un’età sospesa docilmente nell’adolescenza perpetua. Questo sì che è vero. Bambino, adolescente, adulto, anziano, tutti condividono questa qualità coetaneizzata
da “mezzi uomini”. Trovare dei punti in comune in questo universo
qualitativamente frantumato, diventa sempre più difficile e certo non
aiuta come scappatoia la follia del neuromarketing, che pretende di
fotografare gli impulsi più inconsci d’acquisto. Diciamo, invece, che
in un certo senso tutto diventa nicchia e tutto richiede nuovi approcci: osservare, anziché intervistare, frequentare anziché interpretare. Intuire. Ma c’è anche qualche nuova qualità su cui fare perno per raggiungere queste masse di consumatori sfuggenti e lo vedremo più avanti nelle future qualità, in chiusura di questo Nextfuture.
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Consumi senza qualità
Varcare la soglia
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Sprofondare
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Questa è un’epoca dei primati con segno negativo. Un’epoca che
supera, in ogni ambito utile, la soglia di massima tollerabilità (e non
solo per le polveri sottili). Un’epoca che ci pone due alternative:
cambiare e salvare il mondo con intento purificatore, oppure saccheggiarlo e consumarlo con intento orgiastico. Il delirio consumistico accompagnato dal crescente e spensierato abuso di alcol,
droga, sesso e psicofarmaci ci fa pensare che la seconda ipotesi
prevalga e che la recente profezia del noto astrofisico Stephen
Hawkins -che gli umani saranno costretti nel giro di cent’anni a cercarsi un altro pianeta dove vivere, poiché la terra, entro breve, non
avrà più le qualità per ospitare la vita- non sia poi così campata per
aria. D’altronde, quello della qualità è un discorso compromesso a
troppi livelli. Qualità dell’aria: sei sicuro dell’aria che respiri? Pretendi aria pulita! Esorta la recente campagna pubblicitaria di Ambientemilano con la Regione Lombardia che invita i consumatori a scegliere automobili e impianti di riscaldamento a basso impatto per ridurre la mortalità d’inquinamento (impensabile, un invito del genere, in passato). Qualità dell’acqua: secondo le previsioni, resteremo
con poca acqua a disposizione, e, quello che è peggio, di pessima
qualità (per dare un’idea, secondo gli ultimi dati di Legambiente e
Corpo Forestale dello Stato, già un quinto delle nostre acque dolci è
malato). Qualità dell’istruzione: scuole delle competenze anziché
delle conoscenze, e i risultati si vedono. Scrive Pietro Citati in un
saggio, dal titolo fin troppo esplicito, Catastrofica Università: “Le
norme introdotte anni fa distruggono ogni probabilità che l’Italia formi un’elite moderna”. Qualità educative: arriva anche in Italia la tv
per soli neonati, una specie di baby sitter telematico con ninne nanne, storielline e consigli alimentari rivolte ai bambini da 0 a 24 mesi. No comment. Qualità turistiche: cabine allagate e al buio, aria
condizionata e bagni fuori uso hanno accompagnato i passeggeri
della nave da crociera Costa Allegra che, per reazione, si sono ammutinati. Qualità dei matrimoni: ogni 33 secondi si sfascia un matrimonio nell’Unione Europea, un milione di divorzi all’anno. Qualità
del volontariato: secondo le denunce dell’ONG Save the Children,
molti operatori volontari e caschi blu nei campi profughi pretendono sesso in cambio di cibo e aiuti. Qualità dei servizi: basta citare
quello sfuggente centauro, mezzo uomo e mezzo macchina, chiamato call center, che il 75% degli utenti italiani non sopporta per la
sua inutilità. E la qualità dello sport? Dal doping alla corruzione lo
sport si è autoespulso dal campo del rispetto.
Negoziare
02
È evidente. Si può negoziare il prezzo, perchè in realtà si negozia sulla riduzione di qualità. Il recente scandalo Olimpiadi di Pechino (i giochi si terranno in Cina nel 2008) è un
buon esempio: alcuni grandi opere potrebbero essere smantellate e ricostruite perché c’è il rischio che siano state costruite con materiale scadente, senza controlli e, dunque, insicure. Questa pratica diffusa di parlare sempre di qualità,
ma di cederla alla prima occasione (al primo indizio di maggiore profitto) ha ovviamente dei rischi anche per i negoziatori per antonomasia: i negozi e le commesse (o commessi) che guarda caso raccolgono, secondo una indagine sui
consumi del Trendbüro tedesco, un tasso di fiducia solo del
27%. In Italia, peraltro, i continui scandali alimentari (tra gli
ultimi il ritiro di pack in cartone poliaccoppiato) costringono
i retailer a continue e faticose azioni di rassicurazione. Va
detto che non basta più per le catene dichiarare “percorsi di
qualità” quando il consumatore percepisce, nell’aria, che
essi sono stati smarriti da tempo. Ma non è solo questo.
Dovendo semplificare al massimo, un negozio è di qualità
se soddisfa tutte le aree funzionali e non (dalle facilities al
display, dalle informazioni ai valori trasmessi, fino alla decenza estetica così bistrattata oggi) in modo degno (nel
senso di luoghi dignitosi in ogni aspetto e manifestazione),
indicate e raccontate da Luigi Rubinelli nel suo libro Retail di
marca. Sarebbe già una gran cosa. Va detto che gli esempi
del volume sono lì a dirci che sono l’eccezione a confermare la regola. Basti pensare alla banca, il luogo per definizione della quantità. Uno spazio che, anche se qualcosa sta
cambiando nella stessa Italia lentamente e a seguito di una
maggiore concorrenza, ha sempre pensato di poter fare a
meno della qualità da negozio (servizi, design e altro) perché la “sua” qualità è quantità accumulata e prestata. Ancora una volta: quanta quantità può sopportare la qualità prima di svanire?
Per contro e paradossalmente (ma il marketing direbbe: ovviamente) c’è comunque e spesso più qualità nell’involucro,
nella scatola che nei prodotti e/o nei servizi contenuti. Il negozio, dunque, vive di qualità propria. Per dirla con una negazione: non è vero che un negozio è di qualità, se vende
merce di qualità.
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Prodotti
Survival senza
revivalqualità
Osare
rassicurare
Lezionia di
ricaduta
Deludere
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Goleo, la mascotte dei Mondiali di calcio 2006 in Germania, fa male alla salute. Secondo le analisi della potente e autorevole rivista
Oeko-Test l’animale di peluche contiene una dose eccessiva di Dibutilstagno che già in piccole quantità provocherebbe disordini nel
sistema immunitario e ormonale. Intanto, in tutto il mondo, Bausch&Lomb è stata costretta (con tanto di annunci e scuse sui quotidiani) a ritirare dal mercato la sua soluzione per lenti a contatto
MoistureLoc, dopo la segnalazione di una preoccupante insorgenza di una rara e pericolosa infezione oculare. Gran Bretagna: un milione di tavolette di cioccolata della marca Cadbury ritirate per "motivi precauzionali" dai negozi del Regno Unito e dall'Irlanda dopo la
scoperta che alcuni prodotti presentavano tracce di salmonella. Ecco che di nuovo il dubbio assale il consumatore: ma cosa diavolo
c’è nei prodotti?
Altri fatti. La fine del “made in”. Il vecchio made in Germany rappresentava l’orgoglio e la dignità del lavoro tedesco. Ben fatto, dicevano loro. Ben fatto dicevano i consumatori. Oggi qualcuno ci
crede ancora al made in Germany? Non è passato tanto tempo da
quando a mio padre si è fulminato un phon della Braun a un mese
dall’acquisto e dopo solo tre phonate. Mio padre, ingegnere “prussiano di vecchio stampo” ha scosso la testa e detto: “Questa è la
fine di ogni qualità tedesca”. Giudizio severo, ma giusto. Infatti, il
phon era made in Cina ed è laggiù che vengono definiti i nuovi parametri della qualità. Che gli altri si adeguino. Perché tra il livellamento verso il basso e quello verso l’alto vince (storicamente) sempre il primo. Altre delusioni o disillusioni. Certi matrimoni d’affari si
sfasciano quando appare improvvisamente lo spettro della pessima
qualità. Effettivamente qualità e obesità non vanno tanto d’accordo,
non sorprende dunque che la Disney abbia deciso di non rinnovare
la partnership con McDonald’s per distanziarsi, così scrive il Los
Angeles Times, dalla cattiva fama dei fast food.
Illudere
02
Rassicurare e certificare. Come se esistesse qualcosa di certo,
quando si parla di qualità, valori, etica, responsabilità sociale, solidale e ambientale. Fra un po’ i prodotti assomiglieranno a quelle
buffe valigie del viaggiatore che l’iconografia dei primi del novecento vuole tappezzate di scudi, stemmi e adesivi a mo’ di trofeo.
Suona paradossale che il comparto del bio debba fare una pubblicità sui quotidiani con il messaggio “biologico di qualità per tutti”.
Il bio dovrebbe da solo essere una qualità, una garanzia e diversità
che è insita nel metodo agricolo. Ora si aggiungono ulteriori certificazioni. Parlare di bio di qualità significa alludere a un bio di non
qualità. Qualcosa non quadra. Basta guardarsi in giro, per rendersi conto che le qualità certificate sono diventate una faccenda assai seria. Perché il consumatore, disorientato dal caos globale e
bombardato da messaggi poco rassicuranti (pensiamo per esempio alla recente campagna dell’Associazione Nazionale Calzaturifici Italiani che “spaventa” il consumatore con messaggi che parlano di inganni, di prodotti che non rispettano la sua salute e quella
dell’ambiente e che in sostanza lui paga per calzature europee scadenti, non fatte in Europa), non sa più come e di chi fidarsi. Non
stupisce, dunque, che nascano alleanze come quella della Compagnia Italiana della Frutta per promuovere all’estero l’alta qualità
con il bollino Made in Blu, che l’Alto Adige spinga il marchio ombrello per tutti i prodotti territoriali Qualità Südtirol o che aziende come Lenti puntino tutto sul bis di qualità certificate. Questo sforzo di
ottenere o ri-ottenere la fiducia, comunicando un universo di qualità si nota bene nell’ultima campagna di Centromarca. Qui, le grandi marche ribadiscono (messaggio: per un prodotto di marca la
qualità è darti sempre il meglio) che sono loro i veri portatori, sani, di qualità. Fanno bene a ribadirlo per prendere le distanze
dal mondo discountizzato dove tutto rischia, prima degli assestamenti verso l’alto, di compromettere le qualità percepite.
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Focus
group
sulla qualità
Survival
revival
Confessioni
da bar
Lezioni di ricaduta
Metodo
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Per fare il punto sulla qualità percepita abbiamo fatto un piccolo e
informale esperimento. Statisticamente irrilevante e metodologicamente quasi irritante. Nemo ha radunato una decina di persone alquanto eterogenee (convocate a casaccio, per altro) attorno ai tavolini di un bar e, tra una birra e l’altra, le ha fatte raccontare a ruota libera le loro avventure e disavventure di qualità. Formazione base: un ingegnere single, una veterinaria prossima al matrimonio,
una barista studentessa universitaria, una bellona perditempo, un
camionista, un operaio cassaintegrato, due precari e due professionisti. 6 uomini e 4 donne. Verso la fine si sono infilate nei discorsi altre 5 persone (non è tuttora chiaro se per interesse o se
per via delle birre offerte). Comunque: né tante né poche. Abbastanza per raccogliere un po’ di casi e di storie da ricordare. Non
faremo i nomi, per di più di grandi marche, per una semplice ragione: non siamo Beppe Grillo e neppure Report di Rai 3 che (r)accoglie ad ogni puntata querele e richieste di risarcimento. Una delle ultime, la puntata velenosa sulla società di videotelefoni 3, che
pronti via ha chiesto, per i presunti clienti persi dopo la puntata, un
risarcimento di 137,5 milioni di euro. Roba da rimanere secchi.
Non fa per noi. Alla fine, comunque, salta fuori che c’è molta rassegnazione mista a cinismo e soprattutto che non siamo soli nell’universo. Nel senso che, ad ogni episodio, saltava fuori qualcuno
ad esclamare: “Ma dai, anche a te è successo”. Interessante. Sul
food (per i consumatori moderni un tema paradossalmente più
complesso di una sofisticata automobile, ma si sa, col tempo abbiamo perso confidenza con i fondamentali dell’esistenza, proprio
in virtù della complessità) il discorso si è un po’ perso per strada
e ci siamo trovati di fronte o ai soliti luoghi comuni -i sapori non
sono più quelli di una volta- o a dissertare sulla definizione di qualità del cibo (solo il cibo, i servizi, nuove prestazioni ecc).
Esempi
02
Tutti d’accordo, così, tanto per rompere il ghiaccio, che la qualità
della vita, a grandi linee è peggiorata e che la prima installazione
dell’ADSL è stato un girone dantesco con insulti ai vari call center
a non finire. È già un inizio. Ora servono esempi lampanti che facciano luce sui consumi senza qualità. Ecco il primo, subito in tema. Paolo, ingegnere con il pallino per i dettagli, ci racconta di una
sua piccola scoperta. Forse, ci dice lui, avrete fatto caso che le
lampadine oggi si fulminano in un attimo: basta un piccolo sbalzo
della corrente e pum, saltano. Sono tutte sigillate male, e se entra
aria, ovviamente esplodono. Non cambia niente se le comprate di
marca o di primo prezzo, tanto provengono dalle stesse fabbriche,
su per giù. Per curiosità, ho indagato e comprato all’Esselunga
lampadine di marca e non. Su entrambe le confezioni non c’è scritto, ma su entrambe le lampadine, in minuscolissimo, si legge made in Poland (con una differenza di prezzo del 50%). Sospettoso,
ma educativo. È la volta di Francesca. Dopo neanche un anno dall’acquisto, il manico dell’aspirapolvere di marca tedesca si spezza
come un grissino nel tonno (plastica riciclatissima?) lasciando di
stucco la nostra amica che aggiunge “e pensare che mia madre
ha un aspirapolvere fine anni ‘70 della stessa marca, che ancora
oggi fa il suo dovere”. A questo punto, è un via e vai di esempi: dagli spazzolini da denti che si spezzano, ai libri che si scollano, alle
scarpe da vela che si aprono in due al primo acquazzone fino alle
auto di lusso che ne hanno sempre una. Alla fine, ci siamo chiesti
perché Ikea funziona da un punto di vista squisitamente qualitativo. Semplice, secondo i presenti: nessuno si aspetta che una cucina Ikea sia per sempre. Anzi. Il prezzo, però, è ragionevole e la
qualità onesta e trasparente. Invece, girano le scatole, eccome, se
degli occhiali di marca blasonati e costosi perdono i pezzi per strada. Li fate in Cina? Fateli pagare di meno, allora. Fine del focus.
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Falsi
di qualità
Survival
revival
IlLezioni
valoredie ricaduta
il suo doppio
Partecipare
01
Sì lo so, è un falso, ma di qualità. Ha senso? Forse sì. Se la qualità è diventata un falso o più esattamente una falsa verità tanto vale preferire un falso di qualità e pagare di conseguenza. Guardate
che sta già accadendo, e non solo per i seni finti. “Hai visto il mio
nuovo Rolex? Bello, vero? E sai una cosa: è un falso, ma di quelli
di qualità”. Una simile e diffusa affermazione fa riflettere. In altre parole in passato, chi comprava un falso, voleva farla franca e passare per un rispettabile possessore di un vero. Oggi, invece: qualità vera o falsa, che importanza ha? Resta il Rolex, resta il segno
distintivo. Non solo. Il buon falso è segno di furbizia, dichiarata, appunto! Sono falsi, come segnalano anche i settimanali economici
di mezzo mondo, sempre migliori. E pure cari. Una borsetta Kelly
di Hermès originale costa 25mila dollari, un perfetto falso 4mila.
Dal ‘93 al 2003 i prodotti contraffatti sono aumentati del 1.700%.
Anche gli “estimatori” aumentano. L’anno scorso, 2 milioni di inglesi hanno comprato un orologio falso (praticamente uno su tre di
tutti quelli complessivamente venduti). Un fenomeno globale e trasversale che contamina tutte le classi sociali. Gli acquirenti dei falsi non sono solo giovani squattrinati, ma anche gente agiata, con
il portafogli (falso) pieno di soldi (veri). Tutta gente che vuole spendere di meno per comprare di più. Ovviamente, più forte è il brand,
più forte è la contraffazione. Non più economia del sottoscala, ma
new economy, ben organizzata, che opera quasi alla luce del sole.
Una piccola verità che si può contemplare visitando il New Silk
Market, a Pechino, terza meta dei turisti in Cina, dopo la Città Proibita e la Grande Muraglia. Infatti, il paradiso del consumatore “falso”, ha un indirizzo simbolico (e ovviamente commerciale), nel
centro di Pechino. Un luccicante centro commerciale, l’Eden del
falso di qualità, dove anche un operaio o giovane precario può vestire sè stesso, amici e parenti, per quattro stagioni e con un solo
stipendio. Il tutto con falsi certificati di rivenditore autorizzato.
Copiare
02
Falso il 10% del Pil mondiale. E si va dagli orologi, alla borse, al
Viagra fino alla Ferrari e, addirittura, il fucile Kalashnikov in versione taroccata, con cui il Pentagono equipaggiava i neopoliziotti iracheni. Le regole (come i valori e le qualità) vanno riscritte
quando il falso diventa la norma. Fa un certo effetto vedere la
precisa copia della catena Starbucks in Cina: la catena di coffee
shop cinese Xingbake è sfacciatamente identica in ogni dettaglio,
compreso il marchio. Quasi “onesta” nella sua replica. Qui non
si copia (pratica diffusa da sempre nel mondo degli affari), nossignori, qui si fa la Copia (con la C maiuscola).
È vero che l’azienda cinese ha dovuto pagare, alla fine e dopo
forti pressioni, una multa di 51mila euro. Ben poca cosa (quasi
una presa per i fondelli), se si pensa che Wal-Mart dovette pagare 6,4 milioni di dollari (considerati pochi) per aver venduto,
nei suoi punti di vendita, una griffe contraffatta di Tommy Hilfiger.
Il colosso americano, comunque, non recede e continua a vendere merce falsa: è recente la guerra di Fendi che lo accusa, con
tanto di denuncia, di vendere borse contraffatte nella sua catena
Sam’s Club. Tanto per dare un’idea, una borsa Fendi da 930 dollari è venduta a poco più della metà. Non resta che dire: every
day low price.
Certo, se a vendere merce contraffatta ci si mette anche il più importante gruppo americano della grande distribuzione, allora risulta chiaro che siamo di fronte a uno dei tanti effetti collaterali
(o strutturali) della discountizzazione dei mercati. Per quanto riguarda la Cina, poi, non bisogna dimenticare che sono stati capaci di clonare un’intera multinazionale. Mi riferisco al gigante
giapponese dell’elettronica Nec che, in Cina, ha una Nec-gemella, un’impresa copia con tanto di 50 fabbriche, reti commerciali
e operatori marketing per commercializzare Dvd, Cd, MP3 player,
computer: tutti prodotti muniti di perfetti certificati di garanzia.
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Il valore della magia
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Spettacolarizzare
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La vera domanda è: cosa diventa un mondo che non crede più alla favola della qualità? Come diventano i consumatori? Diffidenti,
scettici, cinici, opportunisti? E i prodotti? Se la qualità “convenzionale” di massa appartiene al passato, allora forse, meditano le
aziende, bisogna puntare su qualità mostruose, miracolose che ridefiniscono o, più esattamente, manipolano i valori in campo. Tecnica, scienza, fantascienza, innovazioni, spettacolarizzazione e
prestazioni inedite. La qualità del futuro è un di più, qualcosa in aggiunta, che prima non c’era. Proviamo ad osservare la nuova qualità in azione. L’ultimo miracolo di qualità: la qualità superlativa, über
premium, quasi divina. In un mondo devastato dall’inquinamento,
il consumatore “ipocondriaco” è disposto a spendere cifre assurde per presunte qualità incontaminate. Dal sale dell’Himalaya all’acqua australiana Cape Grim (già una case history di successo)
ricavata, dicono, da purissima acqua piovana e venduta a 6 euro a
bottiglia: più le promesse e i procedimenti sono esagerati, più l’alta gamma si afferma come nuovo privilegio. Prestazioni multiple.
Ecco una qualità suggestiva. I nuovi cosmetici di Lancaster o
Biotherm che raddoppiano, triplicano e quadruplicano la loro efficacia, rappresentano il futuro. Le aziende li chiamano prodotti miracolosi (visto?): stimolano l’abbronzatura, proteggono dalle scottature e contemporaneamente snelliscono il girovita, tonificano le
gambe, sono anti-età grazie a principi che si liberano con il calore
del sole. Niente di che stupirsi, comunque. Il food è pieno di nuovi
prodotti con prestazioni multiple. Le nuove qualità sono “cordate”:
farmacologia, dermatologia, cosmesi e alimentazione assieme per
prodotti di food lifting altamente performanti (vedi i vari yogurt pro
qualcosa o contro qualcosa). Prestazioni esagerate. In attesa che
le nanotecnologie ci sommergono con prodotti dalle qualità inaudite (tipo una torta che non si bagna sotto la pioggia, intanto le auto con vernice che respinge la polvere già sono in commercio) e
in attesa che arrivi definitivamente il cibo spazzatura dietetico (gli
americani ci stanno già lavorando con zelo) o il cibo che riconosce
il profilo del consumatore (in fase di studio). Accontentiamoci delle prestazioni esagerate (vere o presunte) di bevande come Red
Bull, che ben interpreta una qualità futura, di scarpe hightech come quelle di Adidas dotate di sensori per adeguare la scarpa al terreno, di inalatori (il PT-141), ecstasi spray che accendono il desiderio sessuale all’istante per un amore effetto fast food, di prodotti che ci fanno dimostrare 30 anni in meno.
Innovare
02
Prima innovazione comportamentale quasi scontata. Bisogna far
percepire a tutta la clientela che un certo prodotto può avere una
maggiore o minore qualità: quello che è avvenuto nel vino si è ripetuto nell’olio di oliva e in altre categorie alimentari e oggi lo vediamo palesemente nel caffé. Chiaramente questa strada per creare una cultura del prodotto non passa per la concorrenza, ma per
la cooperazione. I produttori, che vogliono ancora parlare di qualità
e farsi credere, hanno tutta la convenienza a consorziarsi per creare una cultura del prodotto che, una volta trasferita al consumatore, avvantaggerà tutti. Ovvio. Ma ci sono cose più stimolanti.
Mettere nel carrello della spesa un avvocato (in Gran Bretagna il
governo sta lavorando ad una legge per permettere a supermercati e grandi magazzini di offrire consulenza legale) è un’innovazione
di qualità o qualità innovativa? Sì, perché molte future qualità ruotano attorno ai servizi. Il prodotto è nato prima dei servizi e prima
risente delle crisi d’identità e di qualità. Certo anche l’innovazione
di prodotto dà soddisfazioni, quando inventa novità come il passeggino norvegese (bestseller) Xplory che si adegua alla crescita
del bambino, crescendo a sua volta. Ma i servizi sono un’altra cosa. Come Arla Express, un servizio di consegna di latte appena
munto, disponibile quotidianamente nei pdv per il consumatore
che vuole bere latte con al massimo 24 ore di vita o l’Heineken
Beer Tender per la casa per servire e bere birra come al pub. Per
non parlare dei pdv che offrono vere qualità servizievoli come l’Apple Store. L’altra strada è semplificare l’innovazione (qualità easy
come l’iPod) e innovare la semplificazione (per esempio suddividere i vini con semplici e accessibili chiavi di lettura come fresco,
frizzante, amabile, dolce, corposo, ecc). Easy dunque come nuovo valore e leitmotiv per nuovi servizi. Come IMO (Independent
Mobile), una catena di negozi americana che mette sotto lo stesso tetto tutti gli operatori, le tariffe e le soluzioni, oltre a offrire consulenza neutrale (pare) per semplificare la scelta con aree explore
(conosci), choose (scegli) e learn (prova). Poi c’è il convenience,
al quale abbiamo dedicato l’intero numero del precedente Nextfuture. Il convenience (comodità in tutte le sue valenze) è una nuova
qualità o valore assai apprezzato dal consumatore. Segnaliamo un
nuovo esempio di pdv recentemente aperto e interessante come
format: il luxury convenience store di Harrods. Lusso e convenience. Bella accoppiata. Per i retailer accorti, qui c’è molto spazio
per creare nuovo valore aggiunto.
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Future qualità 2
Il valore fai da te
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Partecipare
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Abbiamo scovato all’estero, per la precisione in Danimarca,
un curioso prodotto, la cui etichetta riporta la seguente dicitura: Vores OI (la nostra birra) An open source beer. Sì, avete capito bene. Open source beer, ovvero, birra risorsa aperta, “programmata” dal consumatore. La consumocrazia profetizzata da Nemo, il customer made trend. Decide lui il prodotto e i suoi valori e può anche modificare la composizione,
visto che la ricetta della birra è liberamente a disposizione.
Qualità fai da te, dunque. Partecipare alla definizione delle caratteristiche qualitative è la nuova rivoluzione operata dalla
generazione digitale e va finalmente compresa come fenomeno sociale. Ne parliamo spesso su Nextfuture. Ne riparliamo
per far comprendere che le future qualità sono co-progettate
assieme al consumatore con operazioni di coinvolgimento
(all’estero le grandi imprese lo stanno già facendo), o direttamente dai consumatori in una logica di community. Per quanto riguarda il commercio, in particolare, stiamo uscendo da
una fase che ha coinciso con tutta l’età moderna e ora ritorniamo al Medioevo. L’epoca moderna si distingueva per una
asimmetria informativa tra chi vendeva e chi comprava. Il
venditore aveva tutte le informazioni e il consumatore invece
ne aveva poche. Questo tratto ha accompagnato l’evoluzione
dell’età moderna rispetto a quella precedente, in cui i mercati vedevano le stesse persone agire come compratori e come
venditori (un po’ come accade nelle nostre Borse che, infatti,
sono una istituzione medioevale).
Oggi, con l’avvento della generazione digitale, il cliente è più
informato della media dei venditori. Lo sa bene chi vende di
elettronica di consumo, facendo fatica a trovare commessi
all’altezza delle domande poste dai clienti. Soprattutto è informato sui prezzi. Cosa rende così informato e meno isolato il
consumatore? Un cambiamento strutturale. Individualmente il
consumatore sa poco, ma collettivamente i consumatori ne
sanno di più di tutti i singoli produttori. Ecco, internet consente al consumatore di accedere all’esperienza collettiva dei
consumatori che possono, classificare, comparare, giudicare, votare, recensire e scrivere (e nel mondo anglosassone e
tedesco lo fanno) della loro esperienza di consumo autoorientandosi a vicenda. Capirlo significa capire la futura qualità condivisa.
Orientare
02
Nell’era della complessità, il consumatore è mediamente disorientato (e non solo sulla qualità). Ora gli si prospettano due strade: l’autorientamento, alleandosi con altri consumatori, o essere
coinvolto in un orientamento aziendale da lui condiviso e partecipato. Sì, suona un pochino ermetico. Spieghiamo. Le aziende
devono cogliere i nuovi valori, le nuove qualità di fruizione dei
consumatori e orientarsi di conseguenza. Vista la crescente infedeltà del cliente, le aziende devono compiere scelte radicali. L’esempio illuminante (ormai storia vecchia, ma ottimo materiale di
studio) è quello delle major discografiche americane che, vedendo il numero crescente di canzoni scaricate e scambiate illegalmente dai loro clienti top, hanno pensato di incriminarli tutti. Il fatto che si sia non solo pensato, ma anche discusso di come mettere in galera i propri clienti è significativo del vecchio modo di fare marketing, con un atteggiamento che, in fondo, è contro il
cliente. Infatti, le stesse tecnologie che permettono di scaricare
abusivamente file musicali sono ora diventate una fonte preziosa
di utili per le aziende che l’hanno ascoltata e utilizzata correttamente. Apple con iPod e iTunes si è, infatti, orientata sui nuovi valori, giocando in sintonia con i consumatori. Consumocrazia: il
cliente decide davvero. Stando così le cose, bisogna, o condividere l’orientamento dei propri valori in un’ottica partecipativa, un
po’ come fa Coop, abile nel far sfilare il suo credo e la sua anima sociale (ma sono avvantaggiati dal loro essere cooperativa,
anche se però la Apple ci riesce lo stesso con altre modalità), oppure offrire altre forme di orientamento informativo, come fa
Chicco nel suo flagship di Milano (cose utili per i genitori). Perché il punto è questo. In un mondo estremamente complesso,
qualità significa anche e, forse, soprattutto orientamento e comunità. Nell’era dell’eccesso (dell’offerta) bisogna mettere il consumatore nella condizione più facile per poter scegliere. Non solo. Se è vero che la diffidenza aumenta, le aziende devono evitare il rischio di discountizzare i valori, ma trasmettere (senza barare) trasparenza, fiducia e gratitudine condivisa verso i consumatori. Prendete Ikea. Nei suoi punti di vendita il senso dell’orientamento è sviluppato come qualità in ogni dettaglio, il consumatore può effettivamente dire: qui mi oriento/orientano le mie
scelte in modo chiaro e accessibile. Le stesse toilette sposano
questa filosofia.
“Il futuro
è già scritto.
Leggetelo
in anteprima”
Firmato