prig_lager risocializzazione estrema

Transcript

prig_lager risocializzazione estrema
I VECCHI PRIGIONIERI DEI LAGER NAZISTI
Internati che hanno studiato
la vita nei lager
(trad. it. Uno psicologo nel lager, Ares, Milano 1967).
Lo psichiatra olandese Elie Aron Cohen, dopo essere stato anch’egli in vari lager, a guerra finita, pubblicò Human behavior in the concentration camp.
Anche altri uomini di cultura che hanno vissuto quell’esperienza, sebbene non fossero psicologi o studiosi di scienze sociali, in seguito ne hanno scritto,
cogliendone elementi essenziali. È il caso di Primo
Levi, chimico e scrittore torinese, autore di Se questo
è un uomo (Einaudi, Torino 1958). A partire da queste ed altre testimonianze-studio sono nati lavori
successivi, tanto che si può dire ci sia un filone di
studi sulla condizione del lager.
Nei campi di concentramento nazisti, durante la
Seconda guerra mondiale, gli internati vivevano una
drammatica esperienza di risocializzazione, di
annullamento della socializzazione precedente e di
socializzazione a una vita sociale completamente
diversa. Questa esperienza di risocializzazione è
eccezionale per la sua gravità e per le sue proporzioni: è stata di massa e ha prodotto nelle persone
cambiamenti radicali e spaventosi.
Tra i superstiti ci sono stati alcuni studiosi di scienze umane e intellettuali, che hanno cercato di capire quei momenti e analizzare ciò che accadeva ai
deportati.
Bruno Bettelheim, psicanalista austriaco, internato
per un anno, tra il 1938 e il 1939, a Dachau e a
Buchenwald, emigrò negli Stati Uniti e pubblicò
resoconti delle sue esperienze in The informed
heart, del 1960 (trad. it. Il prezzo della vita, Adelphi,
Milano 1965) e in Surviving and other essays, del
1979 (trad. it. Sopravvivere, Feltrinelli, Milano 1981).
Victor Frankl, psichiatra austriaco, che più tardi elaborerà la psicoterapia umanistico-esistenziale nota
come logoterapia, deportato a Tereisienstadt,
Auschwitz e Dachau, raccolse le sue osservazioni in
un libro pubblicato appena dopo la guerra, nel 1946,
Ein Psychologe erlebt das Konzentrationslager
Bruno Bettelheim
© Pearson Italia S.p.A.
A. Bianchi, P. Di Giovanni – Paravia
Trovarsi a essere nullità sociali in
un mondo assurdo
Il lager metteva le persone di fronte a una situazione
del tutto inaspettata, a cui la gente non era assolutamente preparata. In qualsiasi ambiente, anche nei
deteriori, esistono regole del gioco, vengono rispettati alcuni princìpi nei rapporti umani, per discutibili
che siano. Nei campi di concentramento era vano
cercare regole. Sembrava che ogni ragione fosse
scomparsa, lasciando il posto all’assurdo. Primo Levi
rende bene l’idea dicendo che una delle regole fondamentali non scritte era «qui non c’è perché».
Un’altra legge non scritta imponeva l’obbedienza
Victor Frankl
Elie Aron Cohen
1
Primo Levi
Internati a Dachau
pronta, cieca e assoluta, l’obbedienza del cadavere
(Kadavergehorsam). La logica di quell’istituzione, dal
punto di vista del deportato, finiva lì, non conteneva
nient’altro. In effetti per i nazisti i deportati non erano
uomini, erano già morti e non esistevano sul piano
sociale: erano nullità sociali. La negazione della vita
sociale creava un’esperienza senza confronti, che
Bettehleim ha efficacemente chiamato situazione
estrema.
no atto del fatto che lì la vita era diversa e cercavano contromisure per salvare in qualche modo se
stessi. Una strategia spesso adottata era reprimere i
sentimenti per non soffrire le continue morti, diventare in qualche misura cinici. Un’altra cercare di rendersi «invisibili» alle SS, nascondersi tra gli altri sperando di non essere così coinvolti in episodi assurdi
e drammatici che ogni giorno si vedevano.
Le strategie fallivano inesorabilmente, proprio perché il lager non aveva una vita istituzionale interna
con una sua logica rispetto a cui prendere contromisure. A questo punto si verificava il crollo. Bettehleim
nota che alcuni si trasformavano in cadaveri ambulanti (Muselmänner), privi di volontà e indifferenti al
proprio destino, mentre altri regredivano in una condizione di tipo infantile, calati nel presente, senza
progetti, con l’umore instabile. Nella fase di crollo si
verificava solitamente la morte, che non sempre era
da mettere in relazione a cause fisiche.
Quelli che superavano la crisi per lo più diventavano
i tipici «vecchi prigionieri», i «concentrazionari». Il
loro modo di pensare e di agire somigliava incredibilmente a quello dei loro aguzzini. Avevano assunto
l’assurdità del lager come principio ispiratore della
loro vita. In questo modo si inserivano e riuscivano a
sopravvivere.
Essere drasticamente
cambiati dal lager
Come reagivano i deportati? Anche se i vari autori
danno descrizioni in parte differenti del processo, c’è
accordo sul fatto che le persone attraversavano una
sequenza di fasi, attraverso le quali, se non morivano prima, si trasformavano radicalmente, diventando
uomini diversi.
Prima c’era lo shock iniziale, al quale si tentava di
resistere sforzandosi di conservare le abitudini e la
condotta di sempre. I tentativi di resistere in poco
tempo si mostravano fallimentari. Seguiva allora una
fase di adattamento al lager: le persone prendeva-
© Pearson Italia S.p.A.
A. Bianchi, P. Di Giovanni – Paravia
2
L’intero processo configura una risocializzazione,
con la desocializzazione e lo svuotamento totale
della persona precedente cui segue la neosocializzazione alla logica del lager. Inizialmente, prima
dello scoppio della guerra, la risocializzazione nei
lager durava anche due-tre anni. In seguito, per
l’esigenza di sfruttare la manodopera, le SS
impressero notevole impulso al trattamento degli
internati, per cui l’intero ciclo si concludeva nel giro
di mesi. In pochissimo tempo una persona o mori-
© Pearson Italia S.p.A.
A. Bianchi, P. Di Giovanni – Paravia
va o diventava un «vecchio prigioniero».
Nei lager non esistevano solo due possibilità: morire o
diventare un «vecchio prigioniero». Per alcuni, pochi a
dire il vero, si apriva una terza via. Bettehleim, Frankl,
Cohen e quelli che hanno testimoniato e studiato il
lager hanno trovato uno spazio psicologico in cui rifugiarsi. Da vittime sono diventati osservatori e questo li
ha aiutati a sopravvivere e a resistere a quella
mostruosa risocializzazione.
3