elogio dei colpi di sole
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elogio dei colpi di sole
“ELOGIO DEI COLPI DI SOLE” “Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta” (Alda Merini) Io invece sono nato il tredici, otto giorni prima, e credo che la vita sia un incubo a più strati, e che noi facciamo di tutto per rendere l'incubo ogni giorno più spaventoso, a qualsiasi livello. E' un incubo l'impossibilità di comprenderci veramente ad esempio, eppure peggioriamo this nightmare, esta pesadilla, coltivando l'illusione di essere capiti e di capirci. “Bella testimonianza cristiana che dai”, commenterà qualche amico prete, ricordandomi magari che a Gerusalemme vi furono molte persone stupite che fuori di sé per la meraviglia, dicevano: “tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Quella fu la necessaria deflagrazione iniziale: duemila anni dopo un grande intellettuale, papa in pensione, parlando dell'assistenza del Paraclito nel conclave ha dichiarato che lo Spirito Santo garantisce solo che il papa eletto dai cardinali non possa distruggere del tutto la Chiesa, e questa osservazione la tengo come cornice dell'incubo, incubo al quale non sfugge nessuno: è concesso solo distrarsi con un'idea e un motorino se ti chiami Di Battista o con una banca se sei fratello di Maria Elena Boschi. Cosa c'entrano i colpi di sole in tutto questo? L'elogio dei colpi di sole, assieme alla canzone che lo accompagna e che ho intitolato “Kobayashi” per essere il più oscuro possibile, esemplifica qualcosa di non esemplificabile ed ingloba disordinati moments of being, personalissimi flash back che hanno un senso – e pure quello provvisorio – solo per me, che non ho motorini e nemmeno banche ma solo una chitarretta. In the first moment mi trovo in un bel pomeriggio di marzo, Anno Domini 2000, ed ascolto il moro (o bruno o castano) psichiatra Alessandro Guidi in una sua “lezione” all'interno del corso per “facilitatori-utenti della salute mentale” uscito dal magico cilindro del dottor Remigio buonanima (se fossi il Pangloss del Candido scriverei che tutto ciò è avvenuto per il meglio, in modo tale cioè ch'io potessi raccontarlo e divertirmi “coltivando il mio giardino”...). Mentre leggevo per i fatti miei una poesia di Alda Merini, fui scosso da una osservazione del medico docente il quale, magnificando il perfetto funzionamento della nostra unità sanitaria locale - lo scandalo del buco di 420 milioni era ancora ignorato da tutti, non solo dal governatore Rossi – dichiarò: “Siamo fortunati a vivere in una città nel cui ospedale non si pratica l'elettroshock. Poveracci quelli che stanno a Pisa!”. Qualsiasi sprovveduto sapeva che (1) se l'elettroshock fu uno strumento di tortura nell'ex Unione Sovietica non lo è mai stato in nessuna città universitaria italiana; (2) laddove l'elettroshock è praticato, gli elettrodi non vengono applicati a caso al primo che passa e che soffre di cefalea; (3) i colpi di sole, in psichiatria e neurologia, non hanno ancora alle spalle una letteratura e degli studi clinici convincenti nel lungo termine; (4) l'elettroshock insomma, non rappresenta un hobby né per chi lo pratica e nemmeno per chi lo riceve, ma rimane comunque un salvavita di documentata efficacia in certi casi, e tra questi non rientrano l'assenza di motorini e banche o la presenza di chitarre poco amplificate. Cosa stava “insegnando” quel medico, e perché? Rividi il moro (o bruno, o castano) dottor Guidi anni dopo, casualmente, in piazza Garibaldi. Gli domandai: “Scusa, ma come diavolo decidesti di prendere parte a quel delirio di corso per “utenti-operatori”, quindici anni fa?”. “Ma no, fu un'idea balzana di un collaboratore di Raimondi. Non se ne parla più, non se ne faranno più”, rispose tranquillamente lo psichiatra, con l'aria di chi ricorda catastrofi naturali accadute in lontane isole oceaniche ere glaciali fa. Nella piazza assolata, mentre una decina di vecchi in sedia a rotelle, accuditi da badanti rumene stanche di cambiare ogni mattina pannoloni smerdati, ascoltavano l'avvicinarsi della nera morte dai lunghi passi, alcuni bambini ridevano, giocando sulla giostra, e mentre la giostra girava, loro crescevano, crescevano senza esserne consapevoli e forse anche per questo essi entrano facilmente nel regno dei cieli... Alcuni mesi fa, una domenica pomeriggio, andai a Messa nel Santuario dei Quercioli. Mi sentivo più depresso del solito e la funzione liturgica si trasformò in una specie di esercizio di intensa ascesi che comportò l'ascolto di canzoni modernamente arrangiate e più brutte di quelle dell'ultimo Sanremo, uno scambio della pace caotico e festoso dove tutti si lanciavano da bancone a bancone per salutare ed abbracciare i più cari amici, evidentemente ritrovati per la prima volta in quella chiesa dopo decenni di forzata lontananza, ma prima venne la preghiera con l'elenco dei defunti e preghiamo per i nostri fratelli Mirco, Andrea, Rita, Anna, Arsenio, Giada, Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea: accoglili nel Tuo regno... ...e poi, dopo la Comunione con le armonie beat, pensai che la messa fosse finita e potessi andare in pace e invece no, si doveva ancora ascoltare l'omelia dell'associazione che salva i tossicodipendenti, e l'omelia di un tossicodipendente salvato dall'omelia che lo aveva preceduto, e poi ancora un'altra piccola predica prima degli applausi all'ex drogato e dei saluti finali con l'appello al portafoglio. La benedizione finalmente arrivò, tardi ma arrivò, mentre trattenevo lacrime di irritazione poiché esse avrebbero potuto essere interpretate dai presenti come lacrime di commozione, ed io preferivo l'incubo dell'incomprensione a quello del fraintendimento. In quella pomeridiana notte oscura dell'anima volle però visitarmi l'Angelo della Consolazione: appoggiato ad un pilone laterale dell'edificio sacro, accanto ad un altare minore, intravidi di spalle un uomo alto, di buona stazza ma tutto sommato non sovrappeso. Indossava un giubbotto di pelle, come quello di Fonzie ma più chiaro ed elegante di quello indossato dal mito di Happy days. Si voltò e rimasi folgorato da un'improvvisa bionditudine: era il dottor Guidi che aveva radicalmente cambiato look ed ossigenato i capelli, oppure li aveva semplicemente sottoposti a dei colpi di sole. Il mio interiore ed irritato pianto mutò dunque in riso: desideravo solo ridere apertamente e beatamente, e lo feci, senza considerare che gli altri avrebbero potuto addebitare la mia allegria al drogato recuperato dalle omelie associative. Sarei corso ad abbracciare il dottor Guidi, mi sarei avvinghiato al suo collo e singhiozzando dal ridere gli avrei detto: “Togli almeno dal curriculum che hai diretto un programma di formazione interno per pazienti stabilizzati: stabilizzati non significa niente, gli “stabilizzati” non esistono, lo sai benissimo. Comunque grazie, Alessandro, grazie per il tuo nuovo look: una risata mi ha aggiustato questa domenica bestiale. Ale, lo sai che quando sparavi quelle cazzate sull'elettroshock e sulla nostra asl io stavo leggendo una poesia di Alda Merini? Lo sai che nel 2007 ho parlato con Alda Merini, una sera a Sarzana? Alda Merini era anche un nome. Sai cosa significa “essere un nome”? E' dura, molto dura essere un nome. Assistei ad uno spettacolo in cui lei veniva sottilmente sfruttata, all'insaputa di (quasi) tutti da un tizio che cantava con la poetessa seduta in mezzo al palco, e il cantante pareva Gesù in terra quando stava bene, coi capelli lunghi, lunghi, trattati forse con dei colpi di sole: amava tanto i suoi capelli lunghi, lunghi, e se li lisciava spesso raccogliendoli, con gesto chissà quante volte studiato, all'indietro, esibendo il carisma proprio degli scemi. Sai che impressione mi fece, la Merini, Alessandro? Mi parve una ciminiera svapante veramente fuori, fuori, fuori di melone e secondo me tutta quella gente che applaudiva ogni suo sospiro non le faceva tanto bene, e nemmeno quel Gesù benestante ed a lei impetuosamente, disinteressatamente devoto le faceva tanto bene. Avrei desiderato chiedere ad un legale se sussistevano gli estremi per una denuncia per circonvenzione di incapace. La stessa estate, Ale, conobbi uno scrittore che molti anni prima aveva vinto il premio Strega: soffriva tanto per non essere più famoso come un tempo e parlammo di poesia, anche se per me la metrica è una cosa da geometri. Raccontai allo scrittore sofferente che un mese prima avevo scambiato due parole con Alda Merini, e sai cosa mi disse lo scrittore una volta famoso? Mi disse, giuro, mi disse: “Cosa pensa di me Alda Merini?”. Ale, non sapevo se ridere o se piangere. Ci pensi? Io gli dico che ho parlato con la Merini e lui cosa risponde? Mi domanda cosa ne pensa di lui, Alda Merini. Non è pazzesco? Non ho più incontrato uno scrittore così self centred. Secondo te cosa avrei dovuto rispondere? Minchia, che conflitto! Sai che me la sono data a gambe, per non rispondere? Ho fatto finta che qualcuno mi chiamasse da lontano e ho detto ad alta voce: “Sì, arrivo subito! Mi scusi, professore, un attimo solo eh...”. Non l'ho più rivisto. So che campa racimolando pochi euri elemosinando articoli sopra i principali quotidiani e con una scuoletta di scrittura creativa. Ultimamente s'è schiarito i capelli: qualche colpo di sole, come te”. Ma non abbracciai il dottor Guidi, e non gli raccontai le mie straordinarie peripezie ai margini della letteratura psicopatica. Risi solamente, risi di gusto pensando che non è sempre vero che le risate seppelliscono: una risata a volte resuscita. Temo però che this way il mio elogio dei colpi di sole possa parzialmente non essere frainteso. Se così fosse, lo dedico al mio amico P. Enrico. Giancarlo A. Nicolini