I. Sapienza e forza dello spirito

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I. Sapienza e forza dello spirito
Sciamani, mistici e dottori
I. Sapienza e forza dello spirito
1. Il pir del dargah di Pattesah
Il dargah di Pattesah è una piccola, graziosa moschea costruita nel corso
del XVIII secolo in memoria di un santo sufi. Diversamente da molte altre
moschee e da altri templi simili a Delhi, al cui interno si trovano dei guaritori, questo luogo sacro ha acquisito un’importanza che supera la notorietà
locale grazie alla presenza di un vecchio hakim – il praticante di medicina
unani nel sistema islamico – le cui capacità diagnostiche, che esercita
usando il metodo tradizionale della lettura del polso, sono ampiamente
riconosciute in città. Il dargah, comunque, è una sorta di policlinico, nel
senso che vi risiede un secondo hakim, che opera all’ombra del suo collega
più famoso e ne raccoglie, per così dire, gli “avanzi”. Il mio interesse, comunque, era rivolto al terzo specialista del trio di guaritori del tempio – il
pir (il saggio più anziano) – il quale, dal momento che curava anche lui ciò
che oggi chiamiamo “disturbi mentali”, era un mio collega nella professione,
col quale avrei potuto trascorrere alcuni giorni osservando e discutendo la
pratica della sua arte.
La stanza dove il pir visita i suoi pazienti e gli altri postulanti si trova
all’ingresso della moschea, sulla destra; piccola, lunga non più di tre metri
e mezzo, con un’unica finestra schermata da una tenda di tela di sacco,
anche in una giornata luminosa e soleggiata vi filtra appena un filo di luce,
che non modifica granché la sostanziale oscurità in cui essa è immersa. La
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penombra è accentuata dal fatto che Baba1 – questo era il nome con cui di
solito ci si rivolgeva al pir – tiene la porta sempre chiusa, e accende l’unica
lampadina sospesa al soffitto solo se piove o se ha bisogno di più luce per
preparare i suoi talismani. Durante i mesi freddi Baba accende una stufetta
antiquata, e il cupo bagliore rossastro dei filamenti della stufa inonda Baba
e parte della stanza di una luce fioca, spettrale, come se provenisse da altri
mondi sotterranei, coi quali Baba sostiene di avere grande dimestichezza.
Oltre a essere oscura e tetra, la stanza è anche ingombra di una quantità
di materiali raccolti nel corso di una lunga vita professionale: fiale vuote e
bottiglie di tutte le forme e dimensioni, coperte di strati di polvere, sono
disseminate lungo le mensole di legno incurvato di un armadio appoggiato
precariamente contro il muro. Pareti e soffitto, imbiancati a calce, sono
scrostati, e le larghe chiazze screpolate lasciano intravedere i rossi mattoni
d’arenaria. Sull’armadio sono riposti un pestello di pietra e un mortaio di
forma ovale usato dagli erboristi e dagli altri guaritori della tradizione popolare per pestare e mescolare erbe, mentre un paio di fornelli a kerosene,
che non sembrano essere stati usati da molti anni, poggiano dimenticati in
una nicchia della parete. Nella stanza, oltre all’armadio, si trovano altri due
mobili: un lettino di corda su cui Baba siede (e dorme) e, di fronte, un divano
su cui i pazienti e i loro familiari vengono fatti accomodare. Il canapè,
vecchio e sgangherato, mostra al centro le molle che, avendo ceduto al
peso, fuoriescono dalla fodera di vinile nero, cosicché ci si deve sedere con
molta circospezione per evitare di farsi del male. Ai piedi del lettino un
recipiente di plastica, che un tempo conteneva una nota marca di olio da
cucina, serve ora da sputacchiera, mentre, sotto al lettino, una vaschetta di
stagno piena di mozziconi e di pacchetti vuoti di sigarette funge anche da
portacenere, quando Baba si ricorda di usarlo. Talvolta uno scoiattolo entra
nella stanza insieme a un paziente, e punta diritto verso la bacinella, andando
a rovistare tra i mozziconi di sigarette; Baba mi racconta che cinque o sei
mesi prima lo scoiattolo aveva partorito nella bacinella, e che da allora è un
visitatore assiduo, ma non mi illustra che ne è stato della figliata. Il pavimento, non troppo pulito, è cosparso di fiammiferi usati, cenere, mozziconi
di sigaretta e bidi; stando seduti sul divano di fronte alla brandina di Baba
si avverte un inconfondibile lezzo di orina proveniente dalla sua direzione.
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Letteralmente “nonno, vecchio, asceta”, usato in segno di rispetto.
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“Non sempre riesco a trattenermi”, dice Baba con un tono di realistica
constatazione. “Ecco perché non vado alla moschea per le preghiere e devo
recitarle a letto. Non fa niente se il letto si sporca; contaminare un luogo
puro come la moschea… quella sì sarebbe un’offesa atroce”.
La clientela di Baba, che arrivava da tutte le zone di Delhi e dagli stati
vicini, era povera e apparteneva agli strati sociali più bassi.
“Cerco di aiutare le persone. Non sono avido e sono contento di trascorrere i miei giorni in povertà. Vengono da me solo i poveri, nella speranza di
essere curati gratuitamente, mentre i ricchi non vengono mai qui”, disse una
volta Baba guardando malinconicamente, almeno così pensai, in direzione
del suo più famoso collega, che se ne stava fuori adagiato regalmente su un
lettino da campo, consultato dai ricchi come dai poveri.
Lo squallore e il fetore del luogo non sembrano comunque infastidire i
pazienti di Baba; tutto questo ha infatti un qualcosa di familiare: è identico
a quello che regna nelle loro abitazioni, ed effettivamente, tranne che in
poche isole privilegiate, quest’atmosfera pervade tutta l’India urbana. Anche
se forse l’oscurità tetra e l’armamentario del mago-guaritore contribuiscono
ad aumentare l’angoscia dei pazienti (e a diminuire la speranza di poter
essere curati), avverto invece che il disordine generale del luogo ha un
effetto notevolmente lenitivo: sotto il profilo terapeutico, questo misto di
familiare e inusitato colloca la stanza tra “questo” e “l’altro” mondo.
Baba è anziano, ha “tre anni meno di novanta”, come ci disse una volta
con un orgoglio che si fondava più sulla sua longevità che su qualsivoglia
illusione di giovinezza o di buona salute. Con la sua bocca sdentata e gli
occhi gonfi sotto le palpebre sporgenti, evoca in me per reazione lo stesso
atteggiamento protettivo che si ha nei confronti di un bambino indifeso; ma
questa prima impressione svanisce non appena l’occhio cade sulla sua
barba bianca incolta, e sul gran numero di rughe che gli solcano profondamente il volto. Durante il tempo libero, tra un paziente e l’altro, che può
durare anche ore, Baba riposa sdraiato per metà sul suo lettino: la sigaretta
incollata alle labbra, aspira fremendo profonde boccate avide, e borbotta
dentro di sé brevi frasi del tipo “La volontà di Allah. Lo sai. Va tutto bene.
Sii misericordioso...”.
Per tutto il tempo che siamo rimasti insieme ha sofferto di insonnia; inoltre
la perdita della vista gli crea grossi problemi, mentre spesso, preparando i
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suoi talismani, si smarrisce e necessita dell’aiuto del suo paziente per raccapezzarsi. Una volta, mentre rimetteva dentro una sacca le bustine di plastica
in cui avvolgeva i talismani, gli capitò che una di queste bustine gli rimanesse attaccata alla mano ogni volta che la tirava fuori; con aria preoccupata,
Baba si rivolse allora al mio collega e gli chiese: “Fratello, guarda per favore
se c’è qualche demone che mi gironzola attorno”. Dal momento che era
Baba l’esperto di dèmoni, il mio collega era allora messo a ridere, e aveva
risposto: “Baba, io non riesco a vedere i dèmoni, tu li conosci molto meglio
di me”, aiutandolo a liberarsi della bustina di plastica. Baba aveva allora
aggiunto, mormorando una benedizione: “È diventato tutto molto difficile
da quando soffro di cataratta”.
“Per quale motivo non ti fai curare gli occhi?”
“So di molti casi in cui è stata usata l’orina per preparare la surma.2 Con
l’orina si ha sicuramente un certo miglioramento, ma non voglio che i miei
occhi diventino impuri”.
“Ma se non si può preparare la surma senza l’orina, come farai a curarti
gli occhi?”
“Me la preparerò a modo mio, ma aspetto ordini da Allah. Sono brutti
momenti per me… Passeranno. Nei tempi antichi i nostri antenati avevano
il potere di far ritornare la luce degli occhi semplicemente poggiandovi
sopra le mani. Il mio baba (il suo insegnante e guru) ha curato molti pazienti
in questo modo”.
Come sempre quando parlava del suo baba, il viso gli si era ammorbidito ed era diventato ancora più infantile; sollevando gli occhi quasi
ciechi verso la finestra chiusa dalle tende, sembrava scrutare in un millennio futuro.
“Il mio baba, lo scià Abdul Vazir Sahib, è morto vent’anni fa, ed è da
allora che è cominciata la mia malattia agli occhi. All’epoca della sua morte,
baba mi disse che dopo vent’anni avrebbe lasciato la sua tomba, che il mio
corpo avrebbe ritrovato tutta la sua forza, che mi sarebbero ricresciuti i
denti in bocca e che la luce sarebbe ritornata nei miei occhi”.
Una delle sensazioni più forti che mi provoca la personalità del pir è la
strana mescolanza di umiltà e di orgoglio che manifesta apertamente, convinto com’è di distinguersi dal volgo comune. Pur ammettendo che la sua
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Polvere medicinale unani; di fatto polvere di antimonio.
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famiglia era caduta in disgrazia e che da due secoli fa oramai parte dei
poveri di Delhi, fa risalire il suo lignaggio a Shah Jahan, Imperatore Moghul
del XVII secolo; ha la convinzione di essere un eletto, prescelto da Dio per
una missione speciale, e tutto ciò è per lui ancora più certo delle sue origini.
“I miei genitori avevano tre figli, morti tutti durante l’infanzia, prima
che io nascessi. Quando nacqui mia madre chiese a mio padre di andare alla
moschea e lasciarmi lì affinché fossi sotto la protezione di Allah; lui mi
portò alla moschea e mi affidò al maulvi [insegnante di Arabo]”. Nel
raccontare la sua storia, le guance rugose di Baba erano solcate di lacrime.
“Quando la sera mio zio ritornò a casa e chiese di me, saputo quello che
era successo, andò alla moschea, mi ricomprò dal maulvi dietro pagamento
di dieci paisa,3 mi riportò da mia madre dicendole che da quel momento mi
considerava come un figlio, e che lei doveva prendersi cura di me nel
migliore dei modi. Da allora in poi lei non permise mai più che mi separassero da Allah”.
Il resoconto della sua nascita – reale o mitico che sia – ci ricorda la
tendenza, comune in tutto il mondo, di attribuire caratteri e circostanze
eccezionali all’evento della nascita dei guaritori; nel folclore nord-americano,
per esempio, i figli nati dopo la morte del padre vengono considerati fin
dalla nascita dei guaritori; nella tradizione medica popolare europea vengono
attribuiti straordinari poteri curativi al settimo figlio o al suo settimo figlio;
nelle isole britanniche, in Francia e in Olanda si crede che chi nasce con “la
camicia” possieda doti di guaritore, mentre nei Paesi di lingua romanza e
germanica sono i gemelli a godere di questa fama.4
“Non mi sono mai sposato”, continua Baba, “e in giovane età sono diventato il murid5 del mio baba, che a quell’epoca dirigeva la farmacia
dell’hakim Ajmal Khan. Ho lavorato per alcuni anni col mio baba nella
farmacia: preparavo le lamine d’oro e d’argento che servivano per i medicamenti. In seguito il mio baba, col consenso del suo guru, lasciò la
farmacia e venne a stabilirsi in questa dargah per poter servire meglio il
mondo. Anch’io sono andato via con lui per servirlo, provvedere ai suoi
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3
Moneta indiana.
W. D. Hand, “The Folk Healer: Calling and Endowment”, Journal of the History of Medicine,
26, 1971, pp. 263-275.
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Discepolo.
4
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bisogni e proseguire il mio apprendistato. La nostra stirpe di pir è davvero
antica: ha avuto inizio cinquecento anni fa col jenab Abd al-Qadir Jilani, il
nostro pesva,6 a Baghdad, dove si trova il suo santuario”.
La discendenza reale da lui rivendicata, gli avvenimenti drammatici e
straordinari accaduti immediatamente dopo la sua nascita, la rinuncia ai
consueti legami umani come il matrimonio, una professione che vanta un
antico lignaggio e un lungo apprendistato con un insigne pir: tutto ciò ha
contribuito a creare di Baba un’immagine (confermata dai suoi clienti) di
guaritore dotato di poteri eccezionali.
2. Il linguaggio della malattia mentale
Al nostro primo incontro, in un freddo mattino di gennaio, dopo avermi
dato il benvenuto ed essersi informato del motivo della mia visita, Baba si
immerge subito nella descrizione dei suoi casi. Nella mia veste di collega
clinico, e come accade a tutto il resto della nostra tribù sparsa in tutte le
parti del mondo, condividevo il suo entusiasmo per un’approfondita discussione dei vari casi clinici, e comprendevo il suo scarso interesse per le
questioni più teoriche e astratte.
“Molti vengono da me da lontano. La prima domanda che rivolgo a tutti
è: ‘Cosa vedete nei vostri sogni?’ Oggi è venuta una donna che mi ha detto
di essere molto spaventata perché vede un altro uomo che, sotto le spoglie
del marito, vorrebbe fare con lei delle brutte azioni…”
Baba alza le mani, forma un cerchio col pollice e l’indice della mano
sinistra, ci infila l’indice della mano destra e muove entrambe le mani
avanti e indietro a simulare il coito.
“Migliaia di donne mi hanno detto la stessa cosa: nei loro sogni vedono
qualcuno che vuol fare delle brutte azioni con loro, e si spaventano a morte.
Poco prima che arrivaste ho avuto un caso interessante: una donna di
Chandigarh, che un tempo doveva essere stata molto bella, vede in sogno
un’altra donna che vuole fare brutte azioni con lei. Ora, ditemi, come può
una donna fare brutte azioni con un’altra donna?” E ripete la mimica con le
mani. “Ma questa donna del sogno continuò a fare brutte azioni con la mia
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Celebre Signore (jenab) Sufi, fondatore (pesva) della schiatta, nato nel 1077 e morto nel
1166 a Baghdad, dove aveva fondato un celebre monastero in cui si venerano le sue reliquie.
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paziente tutte le notti. In realtà, la donna del sogno è un demone (bala) che
le succhia il sangue, e a poco a poco le succhierà la vita. Ora la mia paziente
è magra come uno stecco, e tra dieci o quindici giorni morirà”.
“L’hai curata?”
“Non c’è cura per lei; se fosse venuta da me anche soltanto quindici
giorni fa avrei potuto salvarla. Certi dèmoni sono veramente molto testardi
e non mollano facilmente le loro vittime. A un’altra giovane donna appariva
tutte le notti in sogno un demone, che voleva fare l’amore con lei; combatté
contro di lui per due mesi e non gli permise di avere la meglio, nonostante
quello l’abbracciasse così stretta che lei riusciva a stento a controllarsi per
l’eccitazione. Due giorni prima che la donna venisse da me, il demone le
aveva chiesto nuovamente di fare all’amore, e al suo rifiuto le lanciò uno
sputo e andò via. La mattina seguente la donna ebbe un violento alterco col
marito, e lui la abbandonò; la lite era stata provocata dallo sputo del demone,
che voleva che il marito la lasciasse per poterla possedere. Oh, questi miserabili bala creano un sacco di guai agli uomini, e inventano ogni sorta di
trucchi per impossessarsi di una persona”.
“C’è poi il caso di un’altra ragazzina molto bella, e dall’aria innocente,
che di solito veniva col padre. Anche nei suoi sogni c’era un uomo che la
incitava all’accoppiamento; la fanciulla non voleva assecondare le sue proposte, ma di notte non riusciva a dormire per paura che l’uomo potesse
abusare di lei mentre dormiva. Le diedi dell’‘acqua benedetta’ e il suo stato
migliorò, ma dopo pochi giorni cominciò ad apparire nei suoi sogni un altro
uomo che le faceva le stesse proposte, e la ragazza rimaneva sveglia notte
dopo notte. Quando le chiesi di dirmi cosa le appariva in sogno, lei rispose
che vedeva un vecchio albero fuori della finestra, e su ogni ramo erano
accovacciati degli animali. ‘Stupratori di figliole!’, le dissi. ‘Ora capisco
perché non riesci a dormire e ti ammali giorno dopo giorno. Tutti questi
dèmoni aspettano il loro turno per penetrare nella sua casa!’. Raccomandai al
padre di farla sposare immediatamente: dopo il matrimonio, una volta insieme a un uomo, i dèmoni l’avrebbero lasciata in pace e avrebbero trovato qualcun’altra. Il padre seguì il mio consiglio e adesso la ragazza sta benissimo”.
Se esisteva ancora qualche dubbio nella mia mente sulla nostra affinità
professionale e sulla nostra comune opera, la descrizione di Baba di quest’ultimo caso l’aveva cancellata completamente; trovavo che fosse una bizzarra
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coincidenza che un’adolescente musulmana di Delhi del 1978 avesse lo
stesso insolito sogno di un bambino russo di quattro anni della fine del
secolo scorso. Mi riferisco, naturalmente, al sogno-chiave descritto in quella
che forse è la storia del caso clinico più importante e sicuramente più
complesso negli annali della psicoanalisi – il caso dell’“Uomo dei Lupi”.7
Ricordiamo che all’età di quattro anni questo paziente di Freud aveva
sognato di scorgere dalla finestra aperta della sua stanza da letto sei o sette
lupi accovacciati sui rami di un noce; il bambino, terrorizzato, aveva urlato
e si era svegliato. Per i successivi sei mesi aveva sofferto di ciò che gli
psicoanalisti chiamano isteria d’angoscia sotto forma di fobia per gli animali.
Senza entrare nei particolari affascinanti dell’interpretazione del sogno e
del suo puntuale accostamento agli eventi dei primi anni di vita del paziente,
lavoro di cui Freud si occupò per alcuni anni, mi preme dire soltanto che,
nel linguaggio psicologico che stava elaborando in quegli anni, egli mostrò
che quanto quella notte si era attivato ed era emerso dal caos delle tracce di
memoria inconscia del sognatore era l’immagine dell’accoppiamento del
padre con la madre. La posizione del lupo era quella assunta dal padre durante la scena primaria, e l’angoscia del paziente rappresentava il rifiuto del
proprio desiderio di ricevere piacere sessuale dal padre. La paura del lupo
era, in altri termini, la trasposizione del desiderio del bambino di accoppiarsi
col padre – desiderio che soccombeva alla repressione (e si ripresentava come
fobia) per le sue implicazioni inaccettabili: essere effeminato e castrato.
Se riconsideriamo l’ultima paziente di Baba alla luce del linguaggio psicologico freudiano, piuttosto che all’interno del suo quadro di riferimento
demonologico, possiamo forse azzardare l’ipotesi, cauta e sperimentale, che
sogni identici sognati da un bambino russo e da una ragazzina musulmana
potrebbero presentare una certa somiglianza per ciò che vi è sotteso. Per
dirla semplicemente: la paura della ragazza di andarsi a coricare equivale
alla sua paura dell’irrompere, durante il sonno, dei propri desideri sessuali
proibiti, forse particolarmente minacciosi per la loro forte coloritura incestuosa; i suoi tentativi di sostituire questi desideri con l’immagine degli
animali sull’albero non avevano avuto alcun successo. Si potrebbe inoltre
ipotizzare che, quando Baba usa l’espressione, per lui insolita, di “stupratore
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7
S. Freud, Dalla storia di una nevrosi infantile (Caso clinico dell’uomo dei lupi) (1914),
Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1975, Vol. VII, pp. 487-593.
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di figliole” riferita ai dèmoni, riconosca inconsciamente la natura incestuosa
degli impulsi sessuali della fanciulla. Sembra poi che, quando le altre
pazienti di Baba si lamentavano di provare dar (paura), si riferiscano a uno
stato che nelle varie classificazioni del linguaggio psicologico è definito
nevrosi d’angoscia, stato d’ansia o reazione ansiosa. Naturalmente, da psicoterapeuti post-freudiani, noi diremmo che lo stato d’angoscia femminile
nasce come risposta a una minaccia che viene dall’interno sotto forma di
spinta istintuale – sessuale, nei casi sopra descritti – anche se poi avremmo
bisogno di saperne di più sui sintomi della paziente e sulla sua storia
personale, per determinare con esattezza di quale tipo di aggressione o di
sessualità si tratti, e quale sia il suo particolare genere d’angoscia; se, per
esempio, nasce dalla paura di essere sopraffatta dagli impulsi, dalla paura
della punizione del “Super-io”, o se si tratta del riaffiorare dell’“angoscia
della separazione”.
Tutto questo per Baba, che mi ascoltava pazientemente mentre esponevo
le mie idee, significava ben poco.
“Vuoi dire che i cristiani la vedono così?” mi chiede.
“Beh, no…”, balbetto, “questo è il punto di vista della scienza occidentale in merito a queste questioni”.
“Sì, va bene, ma la scienza occidentale è un prodotto del cristianesimo”,
aggiunge, mettendo da parte la mia labile separazione tra scienza e cultura.
Poi, come tutti gli psicoterapeuti di qualunque parte del mondo, chiama
in causa l’evidenza clinica delle “migliaia di pazienti curati personalmente”,
oltre alla quantità di testimonianze e di tradizioni e al corpo dottrinario
della sua millenaria “scuola psicoterapeutica” islamica, che “prova” in maniera decisiva il ruolo svolto dai dèmoni nell’eziologia della malattia dei
suoi pazienti. Il suo atteggiamento vuole farmi intendere che, se è così che
concepisco la dar e le altre forme di malattia mentale, che Allah mi protegga se penso di poter aiutare qualcuno dei suoi pazienti!
Devo confessare che ero portato a condividere il suo tacito giudizio.
Effettivamente, se si parte da una concezione del mondo demonologica e
popolata di “dèmoni che divorano cadaveri, spettri, bestie dalle lunghe
zampe ed esseri che si aggirano a balzi nella notte”, qualunque indagine
sulla rimozione dei sentimenti verso il padre è irrilevante, e sicuramente
molto irriverente. Se, al contrario, ci si colloca in un contesto psicologico
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intessuto di desideri inconsci e di paure vorticanti in una caverna sotterranea abitata dalle immagini dell’infanzia, dai genitori e dalle figure
parentali, allora parlare di bala e di altri dèmoni è manifestamente assurdo,
e anche un po’ “folle”. È evidente che, prima di poter analizzare i metodi
curativi di Baba e di prendere in considerazione problematiche relative alla
maggiore efficacia terapeutica del linguaggio psicologico rispetto a quello
demonologico, e da quali condizioni individuali, sociali e culturali sia condizionato, è necessario comprendere in maniera più approfondita il significato
che Baba attribuisce alla possessione diabolica.
Mi è difficile condividere un atteggiamento diffuso in Occidente: quello
cioè di liquidare sommariamente le concezioni di Baba come errate, il
residuo di una modalità di pensiero di cui l’Occidente si è ormai sbarazzato
da molto tempo. Questa visione “progressiva” tratta con condiscendenza le
idee di Baba, e ritiene che appartengano a uno stadio iniziale e carente dello
sviluppo delle conoscenze psichiatriche occidentali.8 In quanto psicoanalista,
d’altra parte, mi è altrettanto difficile adottare la posizione “relativistica” di
molti antropologi, che considererebbero le idee di Baba sulla malattia
mentale un sistema sì coerente, ma derivato da premesse diverse e riferito a
scopi differenti dai nostri, che non riusciamo ad apprezzare ma che sono
altrettanto validi e preziosi dei contributi di Freud. L’ipotesi che preferisco
è piuttosto un’altra: rintracciare le conoscenze comuni ai due quadri di
riferimento, lo psicologico e il demonologico, che forse si nascondono dietro
le diverse terminologie. Oltre a questa sorta di “universalismo”, devo ammettere di aderire a un quarto modello, che lo psicologo-antropologo Richard
Scheweder ha definito “confusionismo”,9 e cioè confessare onestamente
che molte delle idee di Baba mi lasciano perplesso.
In molte parti del mondo, l’idea della possessione da parte di spiriti e
dèmoni è stata storicamente la teoria dominante della malattia, e specialmente di quella condizione che possiamo definire malattia mentale. Gli
arabi e i cinesi, gli ebrei e i greci, tutti hanno creduto in qualche forma di
possessione diabolica, e l’opera monumentale di Oesterreich, con le sue
centinaia d’esempi provenienti da tutte le parti del mondo e di tutte le
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8
R. A. Scheweder, E. G. Bourne, “Does the Concept of the Person Vary Cross-Culturally?”,
saggio inedito, Commity on Human Development, University of Chicago, 1980.
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Ibidem.
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epoche storiche, dimostra l’universalità di tali concezioni. 10 Quella che
viene indicata come possessione spiritica ha tradizionalmente una vasta
gamma di applicazioni, che vanno da un’alterazione dello stato di benessere
fisico e mentale della persona posseduta a quelle vistose manifestazioni di
trance e di altri spettacolari stati alterati di coscienza che, naturalmente,
hanno sempre esercitato un notevole influsso sull’immaginazione umana.
Sappiamo inoltre dalla letteratura etnografica che credere alle possessioni è
un fenomeno ancora oggi diffuso nella maggior parte delle società umane;
Erika Bourguignon, per esempio, in una sua ricerca effettuata su 488 società
dell’Atlante Etnografico, ha dimostrato che tale credenza era presente in 388
società, quasi i quattro quinti della sua campionatura.11
Da buon musulmano, Baba crede che la sua teoria della possessione
diabolica risalga in buona sostanza al Corano, anche se talvolta si dimostrava
piuttosto confuso sui particolari esatti di tale collegamento. L’Islam individua
tre categorie di esseri che vivono “più in alto” dell’uomo: i farista (angeli),
gli shaitan (esseri satanici) e i jinn (dèmoni o spiriti); tra gli esseri spirituali
non umani i più comuni sono i jinn, quelli che è più facile incontrare nella
vita quotidiana. La caratteristica comune a questi esseri disincarnati è quella
di essere composti di un’unica sostanza, piuttosto che della combinazione di
sostanze che costituisce il corpo umano. I jinn, per esempio, i nemici
principali di Baba, bala con cui aveva a che fare tutti i giorni durante i suoi
interventi di guarigione, pare siano composti di fuoco. Non è necessario
addentrarsi maggiormente nel corpo del pensiero esoterico sui jinn, nelle
diverse descrizioni della loro origine, nelle loro varie classificazioni, nei riti
magici per esorcizzarli e nelle pratiche con cui possono essere resi schiavi;
tutto ciò si può trovare nella letteratura islamica sull’argomento, specialmente nei Tafsirs, i commentari sul Corano, e negli Hadis, le Tradizioni del
Profeta.12 Ci limiteremo qui a una breve presentazione delle concezioni
musulmane sull’essenza della natura del jinn.
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10
T. K. Oesterreich, Die Besessenheit, Lagensaltzach, 1922.
E. Bourguignon, “Spirit Possession Belief and Social Structure”, in The Realm of the
Extra-Human, a cura di A. Bharati, The Hague, Parigi, 1976, p. 19.
12
La credenza nel jinn e la sua tradizione di antica derivazione araba sono state modificate e
diffuse agli altri Paesi islamici. Si veda, per le antiche credenze arabe, la Encyclopaedia of
Religion and Ethics, 13 voll., a cura di J. Hastings, Edinburgh, 1908-26, vol. 1, pp. 669 sgg.,
voI. 4, pp. 615 sgg., per una descrizione generale dei demoni e degli spiriti musulmani.
11
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La parola jinn deriva dall’Arabo jann, e significa “coprire, copertura,
velare, oscurità”, ma indica anche qualcosa che sta nascosta nel ventre,
come l’embrione. La potenza e la sapienza del jinn sono immense, sebbene
siano anch’esse inaccessibili all’essere umano. Pochi sono i jinn benevoli,
mentre la maggior parte di essi sono distruttivi e amorali. Non è necessario
possedere grandi capacità deduttive per giungere alla conclusione che, dal
punto di vista psicologico, se si parla di qualcosa che sia potente e abbia
“conoscenze” oltre i limiti della razionalità umana, qualcosa di ardentemente
e ferocemente amorale, che rimanga velata nell’oscurità, ci si riferisce ai
nostri impulsi inconsci. Potremmo dire che il jinn, oltre ad avere una sua
propria logica all’interno del linguaggio religioso, appartiene anche alla parte
nascosta della natura umana che gli psicoanalisti chiamano Es; come il jinn
anche l’Es non crede alle “leggi”, e il suo originario nome tedesco, das Es,
“il Ciò”, esprime in maniera colorita la sua estraneità alla coscienza umana.
“Ogni essere umano ha il suo jinn”, sostiene Baba, “che nasce con lui e
rimane con lui fino alla morte. Quando gli angeli vengono a prendere l’anima
di un uomo buono, uccidono il jinn; questo è il motivo per cui noi musulmani
ne seppelliamo il cadavere mentre voi indù lo cremate: per essere certi della
morte del jinn. Talvolta, specialmente nel caso di un peccatore, accade che
il jinn riesca a fuggire e a nascondersi negli organi escretori, che sono impuri
e non possono essere raggiunti dagli angeli. Allora il jinn diventa una demone (bala) e va alla ricerca di una vittima per istallarsi nel suo corpo e
berne il sangue”.
Questi dèmoni, secondo Baba, aleggiano tutt’attorno a noi: sulla terra,
per aria, invisibili a tutti tranne che agli uomini dotati di “sapere” (ilm), nel
novero dei quali Baba conta il suo maestro ma, modestamente, non se
stesso. Nessun essere umano è completamente libero dalle attenzioni indesiderate e senz’altro spiacevoli dei dèmoni. Questo punto mi è stato chiarito
un giorno che mi ero lamentato di un persistente gonfiore alle labbra; Baba
aveva interrotto la nostra conversazione per chiedermi in tono preoccupato:
“Cosa vedi in sogno?”
Mi ero trattenuto a stento dallo scoppiare a ridere.
“Non preoccuparti, Baba, nessun dèmone si è impossessato di me”.
Ma Baba era paziente.
“Perché credi di non poter essere posseduto da un dèmone?”
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Sciamani, mistici e dottori
“Perché non credo di aver commesso peccati tali da meritare da Allah
questo genere di punizione”.
“Guarda che questi dèmoni non si impossessano soltanto dei peccatori.
Quale colpa ha commesso un neonato per dover essere posseduto da un
dèmone? La possessione avviene per due ragioni: o perché un mago che ha
un dèmone in suo potere lo rivolge verso un suo nemico o verso il nemico
di qualcuno che lo ha pagato per farlo, oppure perché, vagando per i cieli,
individua una sua possibile vittima”.
Ovviamente il fatto di attribuire la possessione a un caso fortuito o a puro
capriccio da parte dei dèmoni, piuttosto che al cattivo comportamento del
posseduto, lo libera dalla responsabilità dei suoi desideri “peccaminosi”. Ma,
a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, i dèmoni sono perfettamente
incoerenti anche nel loro modo di essere lunatici; i bala, avevo fatto notare
a Baba, sembravano preferire le fanciulle nubili, quelle che costituivano la
maggior parte della sua clientela. Baba aveva riflettuto un momento, per
poi precisare la sua precedente affermazione.
“I dèmoni possono possedere chiunque, è vero, ma ovviamente il sapore
del sangue fresco è migliore, e il sangue di una vergine è particolarmente
fresco”.
“Perché dopo il matrimonio il sangue invecchia, Baba?”.
“Quando un uomo versa la sua energia dentro una donna, questa forza si
mescola al sangue di lei e lo fa invecchiare”.
“E com’è che l’energia dell’uomo si mescola al sangue?”.
“Tu sai che quaranta gocce di sangue formano una goccia di sperma.
Quando questa goccia di sperma entra nel corpo della donna, si mescola al
sangue”.
In un’altra occasione Baba aveva parlato delle vie attraverso cui i dèmoni
penetrano nel corpo umano.
“Quasi sempre i dèmoni penetrano in qualche genere di cibo o bevanda
come il latte, fresco o cagliato, e la panna. Quando una persona mangia qualcuno di questi cibi, il dèmone le entra nel corpo e comincia a succhiarne il
sangue; poi, quando l’ha esaurito, passa al midollo e alla carne, e si ferma
soltanto quando la persona muore”.
Avevo chiesto spesso a Baba di descrivermi i diversi tipi di bala, ma di
solito non avevo ricevuto altro che delle risposte sbrigative: “Possono essere
!
31
Sudhir Kakar
di vario tipo, ma hanno tutti la stessa funzione, i miserabili: succhiare il
sangue degli esseri umani!”.
Evidentemente Baba sentiva che la distinzione dei diversi tipi di bala –
noi la definiremmo una diagnosi differenziale – non era un elemento importante ai fini dei servizi terapeutici che prestava. Questo è dovuto, come
vedremo, al tipo di pazienti che prendeva in cura, rispetto ai quali l’elemento
essenziale da stabilire era se il loro fosse o non fosse un caso di possessione,
e non di quale genere di possessione si trattasse. Tuttavia un giorno che
Baba era particolarmente di buon umore, ricordando la sua infanzia e il suo
apprendistato presso il suo amato maestro, era tornato sull’argomento dei
bala, e aveva iniziato spontaneamente a descriverne i diversi generi.
“Uno di questi è la jaljogini, che assume le sembianze di una bella donna
e richiama gli uomini col tintinnio dei campanellini che porta attorno alle
caviglie. Un tempo avevo un discepolo che aveva una gran passione per la
lotta. Ogni sera andava con un amico al Ferozeshah Kotla per allenarsi”. A
questo punto Baba si era raccomandato di stare attento quando mi recavo al
Ferozeshah, dal momento che le jaljogini vagavano ancora attorno alle rovine di quel forte.
“I lottatori avevano appena finito l’allenamento quando una jaljogini,
sotto le sembianze di una bella giovane, passò accanto a loro, ancheggiando
invitante. L’amico volle seguirla immediatamente, il mio discepolo l’avvisò
che si trattava o di una jaljogini oppure di una pichalpairi [coi piedi girati
all’indietro] e lo pregò di non seguirla, ma l’amico era impazzito di lussuria
e seguì la donna giù per i gradini che portavano a uno scantinato. Quando il
mio discepolo si accorse che era passato molto tempo e il suo amico non
ritornava, andò a cercarlo, e cosa vide quando giunse nello scantinato? Vide
il suo amico che giaceva morto; il suo cadavere era di un bianco gessoso, il
sangue gli era stato prosciugato fino all’ultima goccia, e aveva il pene
spaccato a metà. Ecco cosa aveva fatto la jaljogini: prima aveva lasciato
che il lottatore si accoppiasse con lei, poi, quando l’uomo era esausto, gli
aveva spaccato a metà il pene e aveva bevuto tutto il suo sangue”.
Avevo seguito affascinato la descrizione fatta da Baba di una delle fantasie più diffuse nella cultura indiana (comune, sembra, tanto agli indù
quanto ai musulmani), cioè l’orrifica visione di una travolgente sessualità
femminile che spossa, succhia e prosciuga fino alla morte anche il maschio
32 !
Sciamani, mistici e dottori
più potente. Ho già descritto altrove dettagliatamente questa fantasia,13
riferita al terrore provato dal bambino indiano per l’erotismo “demoniaco”
della madre, a causa del quale, in seguito, per molti che si ammalano e
hanno gravi crisi d’angoscia – ovvero, direbbe Baba, che vengono posseduti
dalla jaljogini – l’atto d’amore orgasmico può diventare un fenomeno terrorizzante e può essere trasformato da una normale “piccola morte” alla paura
di un annullamento permanente e di uno svuotamento dell’Io. Sembra qui
che nell’immagine della jaljogini e della pichalpairi il bala musulmano si
sia fuso con la churel [strega] indù, lo spirito femminile che appare sotto
l’aspetto di una bella donna seducente, riconoscibile dai piedi rivolti all’indietro, che rende impotente l’uomo che ha con lei dei rapporti sessuali.
“Un altro tipo di bala è il sirkata (senza testa). Una notte un poliziotto
stava bevendo dell’acqua da un pozzo vicino alla moschea di Jama Masjid
quando sentì alle sue spalle una voce. ‘Fratello, dà dell’acqua anche a me’.
Il poliziotto si girò con un secchio pieno d’acqua, e disse: ‘Eccoti, bevi’.
Ma con sua grande sorpresa vide accanto a sé soltanto il torso di un uomo
senza testa! Perciò gli disse: ‘Fratello, tu non hai la testa: come fai a bere?’
‘Versamela giù per il collo’ rispose il sirkata. Il poliziotto eseguì, ma il
sirkata aveva ancora sete, e lui continuò a versargli un secchio dopo l’altro
nel collo finché non fu stanco e, seccato, scagliò via il secchio. ‘Non temi
la mia collera?’ gli chiese il sirkata. ‘Senti’, replicò il poliziotto, ‘io mantengo l’ordine tutto il santo giorno picchiando la gente sulla testa. Perché
dovrei aver paura di uno che nemmeno ha la testa?’ Il sirkata se ne andò,
ma il poliziotto cadde ammalato quella stessa notte e venne curato dal
mio baba”.
“Un’altra specie ancora di bala è il bhutna, che appare spesso sotto forma
di fuoco. Una volta, quando avevo quattordici anni, stavo giocando con i
miei amici sul tetto della nostra casa quando vidi un vortice di fuoco salire
da terra verso di me. A quell’epoca non sapevo nulla dei dèmoni e ne fui
spaventato, ma all’improvviso il fuoco sparì prima di raggiungermi. Di notte,
tuttavia, udimmo strani suoni provenire dalla stanza di mio nonno, come se
qualcuno stesse cercando di strangolarlo; ci precipitammo nella sua stanza
per chiedergli cosa fosse accaduto. Il nonno minimizzò il fatto, ma mi diede
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
13
S. Kakar, The Inner World: A Psychoanalytic Study of Childhood and Society in India,
Delhi-New York, 1978, pp. 87-103, London: Oxford University Press, 1981.
!
33
Sudhir Kakar
cinque chiodi di ferro dicendomi: ‘Corri da Akhim Sahib’ – un saiana (stregone) che abitava nei paraggi – e chiedigli di soffiare sui chiodi; poi pianta
un chiodo in ogni angolo della stanza e il quinto al centro. Se c’è qualche
demone se ne andrà’. Molto tempo dopo mi raccontò di avere visto in
sogno un fuoco e di aver avuto improvvisamente la sensazione di essere
strangolato. Il bhutna, in realtà, aveva preso di mira me, ma fin dal primo
momento il Misericordioso mi aveva prescelto per questo compito (quello
di pir) proteggendomi dai dèmoni”.
Fino a questo punto il tenore delle mie osservazioni, implicite nel resoconto delle conversazioni avute col pir ed esplicite nei miei commenti, è
stato quello di una certa corrispondenza – anche se ovviamente non di una
totale identità – tra l’approccio psicologico (freudiano) e quello demonologico (musulmano) alla conoscenza della malattia mentale. A mio avviso, i
bala sono la materializzazione di certe fantasie inconsce, maschili e femminili, che provocano una forte ansia nel contesto culturale indiano. Per Baba,
invece, le “fantasie inconsce” e gli “impulsi repressi” sarebbero delle
astrazioni per indicare i bala corporei con cui vive in così stretta intimità,
anche se in condizioni di perenne conflitto. Nonostante l’enorme differenza
di ricchezza dei rispettivi vocabolari, possiamo considerare la psicoanalisi
occidentale e l’esorcismo dell’India del Nord come due diversi linguaggi
del disturbo psichico che possono essere tradotti l’uno nell’altro, anche se
effettivamente tale impresa può diventare molto complicata, dal momento
che il bala non è un semplice riflesso dell’Es. Data la distanza storica e
culturale tra le due lingue, nell’una possono esservi parecchi concetti e
termini traducibili nell’altra solo in modo approssimativo, e alcuni possono
risultare pressoché intraducibili.
Prendiamo, per esempio, l’affermazione di Baba secondo cui i dèmoni
entrano nel corpo di una persona mentre è occupata a mangiare e bere,
specialmente latte e latticini. Nel linguaggio psicoanalitico si direbbe che
Baba si riferisca qui a quelle che Melanie Klein chiama le fantasie arcaiche
del divorare e dell’incorporare il seno materno, e la conseguente paura della
rappresaglia che accompagna queste fantasie. Questa traduzione non è l’applicazione meccanica di formule, ma è convalidata dall’esperienza clinica
che dimostra come le fantasie “orali” siano davvero prevalenti nello scenario
34 !
Sciamani, mistici e dottori
indiano – contrapposte, per così dire, alla prevalenza delle fantasie edipiche
nella cultura occidentale. Analogamente, come abbiamo visto, è abbastanza
facile comprendere l’idea di jaljogini e tradurla con una certa precisione,
mentre ciò non avviene con quella di sirkata. Anche l’idea di bhutna, che
fa riferimento al Bhuta, lo spirito della morte indù, sembra peraltro rappresentare più una paura collettiva dell’indiano musulmano che un’ansia
infantile individuale. Insieme alle altre entità sovrumane indù, alle devi e ai
devata, i bhuta sono considerati dai musulmani parte di una potente moltitudine. Un bhuta può essere scacciato con un sortilegio – come, per
esempio, quello di conficcare un chiodo – o con l’aiuto di un pir; il modo
migliore, come fa rilevare Katherine Ewing nella sua ricerca sui pir e sui
loro seguaci nel Pakistan, è però quello di essere un musulmano devoto e di
fare costanti attestazioni di fede, poiché chi muore da cattivo musulmano
può effettivamente diventare un bhuta.14 Tutto questo sembra esprimere la
paura principale di un indiano musulmano: quella di deviare in qualche
modo dalla via della fede e di lasciarsi riassorbire dall’insidiosa società
indù circostante.
La difficoltà insita nel comprendere un diverso linguaggio della malattia
mentale non può essere attribuita all’abisso culturale e alla distanza storica.
A questa conclusione sono arrivato un giorno che Baba era assente, e io
trascorsi un po’ di tempo col famoso vecchio hakim, la cui “clinica” non
era altro che un semplice lettino da campo sotto l’arcata di fronde di due
grandi pipal dal fitto fogliame che crescevano vicino l’ingresso della moschea.
Mentre lo osservavamo, meravigliati della perizia diagnostica che esercitava tastando il polso – diagnosticò, tra l’altro, una disfunzione tiroidea,
una malformazione uterina e un danno alle valvole cardiache, confermate
successivamente da esami clinici mirati – ci siamo messi a discutere di
malattie mentali, cogliendo l’occasione per porgli alcune domande sulla
possessione demoniaca nella medicina unani, di cui era un esperto rinomato.
“I dèmoni sono dei prodotti della falsa immaginazione”, disse l’hakim in
tono di scherno. “Perché un dèmone non si impossessa di me? Sono cieco e
non posso proteggermi da un assalto diabolico. E se ai bala piace bere il
sangue, dovrebbero leccarsi le labbra alla vista del mio corpo sano e forte.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
14
K. P. Ewing, The Pir or Sufi Saint in Pakistani Islam, tesi di laurea inedita, Dipartimento
di Antropologia, University of Chicago, 1980, pp. 53-56.
!
35
Sudhir Kakar
In realtà, certuni lavorano troppo di immaginazione e oltrepassano i limiti
della ragione, e allora certi nervi del cervello entrano in tensione. Di solito,
riesco a curare questi pazienti con le mie medicine e ottengo risultati
positivi”.
Queste osservazioni mi inducevano a riflettere sul fatto che il confine tra
le diverse attività terapeutiche e tra i diversi guaritori non è semplicemente
quello che separa il “tradizionale” dal “moderno”, l’”occidentale” dall’”asiatico”, o i guaritori appartenenti a culture differenti; la vera linea di
demarcazione, che attraversa tutte le culture e le epoche storiche, è piuttosto quella tra chi è maggiormente orientato ideologicamente verso il
paradigma biomedico della malattia, chi sostiene strenuamente l’empirismo
e la terapeutica razionale e ha di sé un’immagine che si avvicina a quella
del tecnico, e quelli che hanno un paradigma metafisico, psicologico o
sociale della malattia, che riconoscono più facilmente l’irrrazionalità della
loro pratica terapeutica, e che si considerano (e sono considerati dagli altri)
più simili ai sacerdoti. Questa linea di demarcazione può esprimere realmente
una dialettica antichissima nelle attività di guarigione; sappiamo, per
esempio, che lo sviluppo della medicina ayurvedica nell’antica India è stato
caratterizzato da questo stesso processo dialettico, e che ne è stato notevolmente influenzato.15 È facile immaginare come lo psicoanalista occidentale si
possa sentire professionalmente molto più vicino al pir del Dargah di
Patteshah che al collega neurofisiologo, il cui modello di malattia mentale
si basa esclusivamente sulle alterazioni dell’attività elettrica e chimica
del cervello.
3. I fondamenti della guarigione. Sapienza e
forza dello spirito
Prima di addentrarci nelle particolari tecniche di guarigione usate da Baba,
è necessario notare come questo sistema di terapia si fondi su un corpo di
conoscenze molto più ampio, di cui è parte integrante, che i musulmani
chiamano ilm-i-ruhani, ovvero “conoscenza spirituale”, sapienza dell’anima.
Sebbene le pratiche mistiche dei Sufi, le risposte filosofiche e religiose del-
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
15
D. Chattopadhyaya, Science and Society in Ancient India, Calcutta: Research India, 1977.
36 !
Sciamani, mistici e dottori
l’Islam agli interrogativi dell’uomo sulla nascita, la morte e la sofferenza
facciano a buon diritto parte integrante della sfera della conoscenza dell’anima, l’ilm-i-ruhani fa riferimento anche allo spiritualismo, specialmente
alle sue branche della magia bianca (ulwi, rahmani) e di quella nera (silfa,
shaitan, sihr, jadu). Nonostante la condanna coranica di queste arti magiche
(“chiunque vada da un mago, gli ponga dei quesiti sui misteri e creda a
quello che costui dice, in verità scontenta Maometto e la sua religione”16),
vi sono molti praticanti di arti magiche, chiamati sayana (saggio, astuto) in
grado di accontentare una vasta clientela. Oltre a occuparsi dei loro “propri”
compiti occulti – “comandare l’apparizione di jinn e dèmoni e ordinare loro
di compiere determinate azioni, creare amicizie o inimicizie tra due
persone, causare la morte di un nemico, migliorare la salute o aumentare lo
stipendio, far guadagnare denaro in maniera ingiustificata o misteriosa,
esaudire i desideri, temporali o spirituali”17 – questi sayana svolgono anche
la funzione di esorcisti. Le pratiche terapeutiche di Baba e degli altri pir
abbracciano soltanto una piccola parte dell’ampio spettro dell’ilm-i-ruhani:
a un’estremità troviamo le discipline mistiche “più elevate” dei Sufi, all’altra l’esercizio delle più disparate pratiche occultistiche. L’ilm-i-ruhani è
quindi un continuum che collega i sayana, i pir e i mistici Sufi.
Possiamo osservare questo collegamento se, per esempio, consideriamo
il rituale magico destinato a chiamare a raccolta jinn e dèmoni per eseguire
gli ordini del mago;18 il presupposto di questo rito, come di molti altri, è
che il mago sia puro di corpo e di mente, onesto e sempre sincero. Prima di
iniziare il rito vero e proprio, il mago si sottopone a una settimana di purificazione preliminare, rinchiudendosi in una stanza le cui pareti vengono
dipinte di ocra rossa; quindi stende per terra un tappeto da preghiera rosso
sul quale siede recitando i potenti nomi di Dio (ism-i-asam). Segue una
dieta rigidamente controllata e si nutre di cibi diversi, a seconda che ripeta i
terribili (jalali) o gli amabili (jamali) nomi di Allah. Terminato questo periodo, si isola per quaranta giorni in un luogo dove nessuno possa disturbarlo
e recita il Tashkir-i-Jinn, l’invocazione che serve a evocare il jinn, di-
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
16
Il Corano, ii, 96.
J. Sharif, Islam in India (1832), trad. di G. A. HerkIots, New Delhi: Oriental Reprints,
1972, p. 218.
18
Ibidem, pp. 228-9. Gli elementi essenziali di questo rito sono ancora oggi uguali a quelli
descritti da Ja’far Sharif quasi centocinquant’anni fa.
17
!
37
Sudhir Kakar
videndolo in quaranta parti da ripetere, una al giorno, per un totale di
contotrentasettemilaseicentotredici volte. Durante questa chilla, “dopo aver
cominciato a recitare la formula magica ogni notte o ogni settimana, si
verificheranno nuovi fenomeni, e l’ultima settimana arriveranno i dèmoni e
il jinn, assistiti dalle loro legioni”.19 L’importanza della purezza del corpo e
della mente, le puntuali istruzioni dietetiche, la reclusione temporanea e la
riduzione di tutti gli stimoli sensori, l’ipnotico continuo salmodiare dell’invocazione, molto simile alla recitazione del mantra nel mantra yoga,
stanno a dimostrare l’affinità esistente tra i riti magici e le “più elevate”
pratiche mistiche che fanno accedere a stati alterati di coscienza.
Baba era implacabilmente contrario tanto alla magia e alla stregoneria
quanto al misticismo; da musulmano devoto considerava la stregoneria un
abominio agli occhi di Allah.
“Personalmente non ho mai provato il desiderio di recarmi in un cimitero
e di imparare le arti stregonesche. Il mio baba mi ha insegnato a combattere i
bala e le altre forze del male, non a essere un loro alleato. Se qualcuno mi
chiede di evocare un jinn, io rispondo sempre che sono un umile devoto di
Allah che si tiene lontano da queste pratiche. Quella parte di sapere spirituale
che pratico è ciò che voi indù chiamate Jantar e noi musulmani Santar. È
molto semplice: si tratta, in sostanza, di invocare Allah per liberare una
persona dal bala se ne è posseduto, o per proteggerlo se ne è minacciato”.
L’idea che Baba aveva di se stesso come guaritore era quella di fungere
da canale e da tramite per l’Energia Divina che compiva la vera opera di
guarigione; si considerava semplicemente un intermediario, e non accettava
lodi per i suoi successi né si incolpava dei suoi insuccessi. Molte volte,
quando un paziente gli chiedeva ansiosamente che probabilità avesse di
guarire, Baba comunicava quest’immagine di sé usando metafore semplici
ma profondamente incisive: “Io posso soltanto bussare alla porta di Allah
da parte tua. Che poi ti lasci entrare oppure no è una questione che riguarda
te e lui ... Il mio compito è quello di portare la tua voce fino ad Allah. Se ti
ascolta, sarà perché tu avrai avuto fortuna … Io mi limito a suonare le note.
Se Allah vorrà trarre una musica dalla mia opera, lo sa soltanto lui”.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
19
Ibidem, p. 218.
38 !
Sciamani, mistici e dottori
Secondo Baba e la sua clientela, composta da anime timorate di Dio,
egli non possedeva alcuna particolare scienza o tecnica di guarigione, ma
solamente l’ilm, la capacità cioè di comunicare con la Divinità perché
intervenisse a favore di un’anima afflitta; che poi Dio ascoltasse la sua
preghiera e inviasse un drappello delle sue legioni per combattere le forze
del male non aveva, naturalmente, niente a che fare con la qualità di ciò che
Baba trasmetteva. In ogni caso, le vivide immagini che pervadevano il processo di guarigione – la “messa in scena” della terapia di Baba – non erano
quelle del prosaico conflitto tra gli impulsi della natura biologica dell’uomo
e le sue difese psicologiche, ma rappresentavano la lotta ben più imponente
tra le forze cosmiche del bene e del male, che avevano scelto come campo
di battaglia un individuo sofferente. È facile immaginare come, per la
maggioranza dei pazienti di Baba, persi nell’anonimato della società urbana
di massa e in continua lotta contro il paralizzante senso della propria
futilità, questa visione di ciò che accadeva dentro di loro potesse essere
un’esperienza particolarmente inebriante. Contrariamente a buona parte della
psicoterapia occidentale, che ruota attorno al sempre crescente valore
attribuito alla libertà di scelta, ritengo che le terapie musulmane e molte
altre terapie non occidentali si basino su una diversa esigenza dell’uomo:
quella del recupero del senso della sua centralità nel tempo e nello spazio,
che nella concezione del mondo occidentale è stato quasi completamente
distrutto dalle rivoluzioni copernicana e darwiniana.
Il Santar, la capacità di invocare la Divinità, è un’attività complessa.
Innanzitutto il pir deve conoscere i versetti del Corano (ayat) più adatti e
quel particolare nome di Allah, tra i novantanove, che deve essere usato per
un determinato disturbo. Il nome Al-Hefiz, “il Guardiano”, per esempio,
viene invocato per alleviare la paura, quello di Al-Muhyi, “lo Stimolatore”,
è usato per tener lontani dèmoni e fate, e ancora quello di Al-Qadri, “il
Signore del Potere”, elimina il dolore e l’angoscia, e così via. In secondo
luogo, per quanto riguarda la preparazione dei talismani, il pir deve riconoscere il giusto “rivestimento” dell’invocazione grazie a una conoscenza
approfondita dei molti tipi di quadrati mistici – binari, ternari, quaternari, i
quadrati di Eva, di fuoco, d’acqua, d’aria etc. –, dei valori numerologici dei
diversi nomi di Allah, derivati da un complesso sistema di rapporti tra le
ventotto lettere dell’alfabeto arabo, i dodici segni zodiacali, i sette pianeti e
!
39
Sudhir Kakar
i quattro elementi, e la corretta combinazione di una particolare invocazione
con un certo tipo di quadrato mistico. In terzo luogo deve conoscere la
maniera più efficace di usare un talismano: se dev’essere portato attorno al
collo come un ciondolo (tabiz) o annodato come un amuleto (ganda), se va
bruciato e il fumo va fatto inalare sotto forma di fumigazioni, o ancora se lo
scritto va sciolto in acqua e bevuto, o se dev’essere avvolto in un pezzo di
stoffa imbevuta di olio profumato e poi fatto bruciare usandolo come
stoppino di una lampada. Inoltre, se un pir non si limita a trattare casi di
“semplice” possessione ma cura ossessi in stato di trance, bisogna che
conosca l’arte (e il significato) di controllare il jinn tracciando intorno al
paziente determinati cerchi magici e altre figure geometriche, così come
deve essere a conoscenza delle proprietà delle varie erbe profumate che
vengono bruciate durante i riti esorcistici e di altre speciali invocazioni.
Nonostante le minuziose differenziazioni e le classificazioni quasi ossessive dell’ilm-i-ruhani, tutti quelli che lo praticano concordano nell’affermare
che la sapienza dell’anima rimane materia inerte senza il soffio vitale della
forza spirituale del guaritore, il suo ruhani-takat: il guaritore non possiede
la forza spirituale, ma è piuttosto l’energia divina che gli viene trasmessa
(quando è pronto per riceverla) mediante la grazia e l’intervento di quello
che i musulmani chiamano il murshid e gli indù il guru. Senza tale forza
spirituale, trasmessa personalmente da un maestro vivente, il sapere non
può essere “realmente” compreso né praticato con profitto. Già centocinquant’anni fa Ja’far Sarif, uno di predecessori di Baba a cui un chirurgo
dell’East India Company aveva chiesto di scrivere un libro sugli usi dei
musulmani in India, si era posto il problema di ciò che rendeva efficace
l’ilm-i-ruhani.
Fin da quand’ero giovane sono stato abituato a studiare esorcismi e incantesimi, a preparare amuleti e a formulare scongiuri, a consultare gli oroscopi e
a predire il futuro. Molte volte questo umile studioso è stato consultato da
pazienti indemoniati, che sono stati curati sia con suppliche sia con alcuni
miei accorti espedienti. Spesso nutrivo molti dubbi sull’effetto prodotto, ed
ero solito ripetere a me stesso: ‘Oh, mio Dio, che rapporto o collegamento
può mai esserci tra gli uomini e i jinn che fa sì che questi possano esercitare
un’influenza talmente potente sugli esseri umani o che possano essere
scacciati con gli incantesimi?’ Continuavo i miei studi sull’argomento con
tutti questi dubbi nella mente, consultavo sapienti e studiosi del divino,
40 !
Sciamani, mistici e dottori
leggevo classici sull’argomento come il Tafsir o Commentario sul Corano,
gli Hadis o le Tradizioni del Profeta e altri ancora per poter acquisire la
conoscenza su queste questioni.20
Una delle conclusioni a cui giunse Ja’far Sarif è che, per quanto si possa
imparare a recitare i potenti nomi di Allah, i suoi attributi divini e i versetti
del Corano, tuttavia
per comprenderli bisogna supplicare umilmente i grandi adepti in quest’arte,
ed essi li comunicheranno intimamente, da cuore a cuore, da mano a mano,
da orecchio a orecchio. Se sono scritti sui libri, non sarà mai con quella
necessaria precisione che li rende intelligibili.21
Anche Baba attribuisce poteri di guarigione alla forza spirituale che è,
potremmo dire, la consapevolezza della conoscenza.
“La forza spirituale si ottiene dopo anni e anni di servizio al guru e di
devozione verso Dio. Ci vuole molta pratica, ma una volta che si riceve la
forza spirituale si comincia a correre verso Allah ed è Allah stesso che
attira verso di sè. Una volta stabilito il rapporto, basta concentrarsi per far
sì che l’energia spirituale fluisca dentro di sé. Prima di sottoporre i pazienti
a un trattamento, chiudo gli occhi e cerco di visualizzare il mio baba; dopo
qualche tentativo, vedo il pir e mi dice cosa fare”.
“Che cosa ti dice, Baba?”
“Non posso rivelarlo, è un segreto tra il guru e il discepolo”.
“Ma ti ha dato delle istruzioni particolari prima di morire?”
Baba mi guardò con aria di compatimento.
“Noi non moriamo; ti ho detto che la sua forza spirituale è tale da mantenerlo vivo anche dopo la morte. In effetti”, continuò Baba ritornando
improvvisamente umile, “la mia conoscenza è ben poca cosa. Vent’anni fa
il mio baba mi ha dato questo incarico, mi ha spiegato cosa dovevo fare, e
da allora io seguo le sue istruzioni. Egli è una riserva d’energia spirituale
perché possiede il raaz-i-fanah [“il segreto dell’annientamento”]”.
Incuriosito, gli avevo chiesto cosa fosse il raaz-i-fanah che rendeva il
suo baba e gli altri pir delle incarnazioni di energia spirituale.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
20
21
Ibidem, p. 235.
Ibidem, p. 231.
!
41
Sudhir Kakar
“È il segreto della morte in vita. Ascolta questa storia. Una volta, un
uomo che cercava qualcuno che possedesse il raaz-i-fanah fu indirizzato a
un vecchio pir, che gli disse di recarsi da lui il mattino seguente. Ritornato
il giorno dopo, trovò che durante la notte il pir era morto; stavano componendone il cadavere per il funerale. ‘Com’è possibile che il pir mi abbia
detto una menzogna?’ si chiedeva l’uomo, scosso nella sua fede, quando vide
un cavaliere mascherato che si avviava nella direzione del corteo funebre. Il
cavaliere smontò da cavallo e, rivolto verso il cadavere, lesse la namaaz
(preghiera) e corse via al galoppo, facendo segno all’uomo di seguirlo.
Quando giunsero in un luogo solitario, il cavaliere si tolse la maschera e,
con grande meraviglia, l’altro si accorse che si trattava del pir. Ecco cosa
significa avere il raaz-i-fanah: leggere la namaaz al proprio funerale”.
“C’era un altro pir chiamato Firad che viveva al Chandni Chowk a Delhi.
Un giorno lo videro sulla porta di casa che cercava disperatamente qualcosa.
‘Che cosa stai cercando?’ gli chiesero. ‘Firad si è perso. Lo sto cercando’.
Anche questo è raaz-i-fanah: perdersi”.
Baba si era entusiasmato e parlava velocemente, visibilmente felice di
avere l’opportunità di spiegarmi con storie e racconti, il suo modo preferito,
quale genere di persona dovesse essere un guaritore.
“Per ottenere la forza spirituale ci vogliono parecchi anni di preparazione
interiore. Ti ho già detto quanto sia importante servire il proprio maestro e
avere fede in Dio”. E qui Baba usò una parola hindi: bhagwan-bhakti. “E
poi ci vogliono purezza, sincerità, e un grande spirito di altruismo e di
distacco. Ti racconto un’altra storia. Un pir era sposato e possedeva tanto la
‘sapienza’ quanto la ‘forza’. Un giorno arrivò da lui un giovane che voleva
diventare suo discepolo e gli chiese: ‘Come posso servirti?’ Il pir rispose:
‘Vai a casa mia e prendi del cibo per una persona’. Il giovane ubbidì. Poi il
pir gli ordinò: ‘Adesso porta questo cibo al mio collega che troverai seduto
in questo posto’. ‘Ma Guruji’, rispose il discepolo, ‘per andare là bisogna
attraversare un fiume, e non ci sono né un ponte né una barca. Come
faccio?’ Il guru replicò: ‘Dì al fiume che sei stato mandato da un uomo che
nella sua vita non si è mai avvicinato a una donna, e potrai passare’. Il
giovane pensò che il pir volesse prenderlo in giro, dato che questi aveva
moglie e figli; tuttavia seguì le sue istruzioni e, arrivato al fiume, ripeté ciò
che il maestro gli aveva detto. Con sua enorme sorpresa il fiume si divise in
42 !
Sciamani, mistici e dottori
due parti ed egli poté raggiungere a piedi l’altra riva, dove sedeva l’altro
pir. Dopo che il vecchio ebbe mangiato, il discepolo si accinse a raccogliere le stoviglie e a fare ritorno quando sorse un altro problema: come
avrebbe fatto a riattraversare il fiume? Il pir se ne accorse e gli chiese il
motivo della sua inquietudine. ‘Non c’è motivo di preoccuparsi per nulla:
dì semplicemente al fiume che sei stato mandato da un uomo che non ha
mai toccato cibo in vita sua’. Il giovane, ovviamente, dubitò della sanità
mentale del pir: aveva appena finito di mangiare e asseriva di non aver mai
mangiato! Tuttavia il discepolo volle mettere alla prova le sue parole; appena
giunto sulla riva del fiume ripeté il messaggio del pir, e ancora una volta il
fiume si aprì e lo lasciò passare. Ritornato che fu dal suo maestro, il giovane
gli confessò il suo smarrimento e chiese una spiegazione di tutti quei fatti
straordinari. ‘Non è l’azione in sé, ma lo spirito con cui viene fatta’, spiegò
il guru. ‘Io abito con mia moglie non per mia ma per sua necessità; i pir
non si nutrono perché ne hanno bisogno, ma perché gli altri desiderano
mantenerli in vita’. Questo è il nostro ideale di fakiri, distacco, in cui Allah
e il mondo terreno camminano sottobraccio”.
Disse una volta Novalis: “Ogni malattia è un problema musicale, e ogni
cura è una soluzione musicale”.22 In effetti la metafora musicale si adatta
molto meglio alla psicoterapia musulmana delle metafore scientifiche della
biologia, della psicologia o dell’elaborazione dei dati che dominano l’attuale
psicoterapia occidentale. Poiché Baba ha modulato il proprio sé come uno
strumento musicale dalle molte corde accordate secondo la tonalità voluta,
quando suona il suo raga [spartito] di guarigione non pratica una scienza,
ma ciò che Auden ha definito “l’arte intuitiva di corteggiare la Natura”;23 il
successo del “corteggiamento” dipende molto più dalla persona del guaritore
che dalla profondità delle sue conoscenze o dalle tecniche che usa. Nella
concezione del mondo di Baba e dei suoi pazienti, se un pir vuole corteggiare la natura con successo ed essere un musicista della guarigione deve
sviluppare certe qualità essenziali: innanzitutto coltivare certe virtù: la purezza del corpo e della mente, la sincerità, il distacco assoluto; inoltre deve
essere ciò che potremmo definire un “uomo di frontiera”, colui che sceglie
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
22
Citato da Auden in The Act of Healing, in W. H. Auden, Collected Poems, a cura di E.
Mendelson, Random House, New York, 1976, p. 627.
23
Ivi.
!
43
Sudhir Kakar
di vivere ai margini della società, di essere nel mondo ma non del mondo;
deve infine subire una trasformazione interiore che possa renderlo ricettivo
e collegarlo a ciò che la tradizione mistica Sufi chiama “forza spirituale”.
Inutile dire che nessuno di questi requisiti può sperare di trovare posto nel
tirocinio di uno psicologo clinico o nella formazione medica di uno psichiatra; l’unica analogia con la “trasformazione interiore del guaritore” che
possiamo rintracciare nella tradizione psicoterapeutica occidentale, vale a
dire quei processi riflessivi propri della lunga analisi personale alla quale
ogni aspirante psicoanalista deve sottoporsi, è diventata ormai in Occidente
un’antiquata rarità tra i tanti psicoterapeuti e psichiatri che sbocciano continuamente, paladini di una o più “tecniche” di terapia della malattia mentale.
La convinzione che sia la persona del guaritore e non il suo sistema
dottrinario o la sua particolare tecnica a essere d’importanza decisiva nel
processo di guarigione è peraltro un articolo di fede indiscutibile per la
maggior parte dei pazienti indiani. Uno dei pazienti di Baba, che prima di
scegliere un terapeuta aveva consultato l’uno dopo l’altro un medico
ayurvedico, uno psichiatra, un sayana, un tantrico, un bhakta e un pir (cioè
Baba), alla mia domanda su come riuscisse a conciliare nella sua mente le
diverse spiegazioni della causa della sua malattia mi aveva guardato senza
capire. Ritenevo che la scelta di una terapia tra quelle che gli erano state
proposte dai vari guaritori, i cui sistemi di pensiero derivavano da tradizioni
diverse – l’antica medicina indiana, la psicologia clinica occidentale, la
stregoneria musulmana, lo sciamanismo, il misticismo devozionale indù e
lo spiritualismo Sufi – dovesse essere particolarmente complicata.
“È la vishwas che un guaritore ispira a essere determinante”, aveva risposto, usando un termine hindi che indica allo stesso tempo la fede e la
fiducia. E come faceva un guaritore a ispirare la vishwas? Dai suoi incerti
tentativi di tradurre in parole ciò che certamente è più che altro una sensazione, riflettevo che, mentre un livello dell’interazione tra paziente e
guaritore è quello della discussione dei sintomi, della loro eziologia, dell’eventuale terapia e della prognosi, nello stesso tempo avviene un diverso
e forse più significativo scambio: in quest’altra conversazione, senza parole
e al di sotto della soglia della coscienza, il paziente registra accuratamente
se e come il medico che ha di fronte possa rientrare nella sua idea culturalmente determinata del guaritore ideale. La scelta del terapeuta è quindi
44 !
Sciamani, mistici e dottori
determinata dalla misura in cui l’uomo reale si adatta all’immagine ideale,
di cui ho prima delineato le caratteristiche principali. È altresì ovvio che
non soltanto il guaritore, ma anche il processo di guarigione deve essere
collocato ai margini della società, nel senso che le proibizioni di carattere
religioso e i tabù sociali vengono di norma sospesi per tutta la durata della
cura. I numerosi pazienti indù di Baba (alcuni dei quali bramini della casta
elevata), che normalmente nella loro vita quotidiana osservavano scrupolosamente i tabù di casta sulla contaminazione, non sembravano per esempio
essere disturbati dal fatto che l’acqua curativa che ricevevano da Baba e
che bevevano con evidente gratitudine provenisse dalle mani di un musulmano, e che era stata resa “potente” dalla ripetizione dei nomi di Allah e
dei versetti del Corano. La fratellanza nella malattia è, a quanto pare, infinitamente più universale di quella nella salute.
4. Pazienti e postulanti
Dalle conversazioni avute con Baba, penso di poter dividere quelli che si
avvicinano a lui per essere aiutati in due categorie principali: i pazienti e i
postulanti. Per pazienti intendo essenzialmente quegli individui con sintomi
nevrotici ben definiti, o anche quei casi che i manuali di psichiatria definiscono di “disadattamento coniugale”; nella categoria dei postulanti includo
coloro i quali vengono da Baba sperando di ricevere l’aiuto divino per
l’esito favorevole di situazioni incerte come vertenze giudiziarie, domande
pendenti di sussidi di disoccupazione e così via, o quelli che desiderano
potenziare il potere curativo delle medicine prescritte dai vari vaid, hakim e
dottori grazie alla devota intercessione di Baba presso la Divinità.
La classificazione di Baba dei suoi pazienti, per quanto mai esplicitamente espressa, è in certo qual modo differente, ed è la logica conseguenza
delle sue premesse teoriche. Credo che Baba divida coloro i quali si rivolgono a lui in tre gruppi principali: quelli che sono posseduti da un bala,
quelli che ne sono semplicemente minacciati, e quelli che ricorrono ai suoi
poteri spirituali piuttosto che alle sue prestazioni terapeutiche. La categoria
dei posseduti comprende tutti quelli che mostrano chiari sintomi di possessione (sintomi nevrotici, per dirla nel nostro gergo). Secondo la teoria di
Baba, i casi di crisi e disadattamento coniugale sono esclusi dalla categoria
!
45
Sudhir Kakar
della possessione, dal momento che egli attribuisce questi fenomeni ai tranelli e alle minacce messe in atto da un determinato dèmone (il chalawa)
che crea conflitti in seno alla famiglia, specialmente tra marito e moglie.
Questi casi di conflitto familiare, come peraltro quelli di vertenze giudiziarie
tra membri della stessa famiglia, fanno parte della seconda categoria, quella
di chi è “minacciato dai bala”, mentre il terzo gruppo è costituito dal resto
dei postulanti. Secondo la mia interpretazione, nella classificazione di Baba
le venti persone giunte da lui per essere aiutate nel corso della mia permanenza presso di lui sarebbero così distribuite: dieci posseduti dai bala, sei
solo minacciati, quattro postulanti; secondo il mio schema di riferimento
psicologico/psichiatrico la distribuzione sarebbe: otto casi di nevrosi d’angoscia, due di conversione isterica, cinque di disadattamento coniugale e
cinque postulanti. Come ho già fatto osservare all’inizio della mia ricerca,
tutti i pazienti di Baba appartengono agli strati sociali ed economici più
disagiati, e hanno poca o nessuna istruzione scolastica.
Le due diverse classificazioni – la psicologica e la demonologica – nella
pratica non sono quasi mai delineate così chiaramente come in teoria, poiché
la malattia di ogni singolo ammalato contiene invariabilmente delle zone
grigie, per non parlare di quelle opache. Consideriamo il caso di una coppia,
andata a consultare l’hakim per gli attacchi d’asma del marito e venuta poi
da Baba per farsi benedire le medicine che erano state prescritte. I due raccontarono a Baba che l’asma era iniziato dopo un grave incidente di moto e
che, stranamente e con loro grande costernazione, questi incidenti avvenivano a intervalli regolari. Baba aveva attributo senza alcuna esitazione ai
bala questa tendenza dell’uomo a essere soggetto agli incidenti.
“Il Sahib Hakim deve averti certo raccomandato una cura per l’asma”
aveva replicato Baba con un tono che insinuava sottilmente qualche dubbio
sulla correttezza della diagnosi e della terapia del collega, “ma in questo
caso i bala sono troppo potenti. Fino a quando prevale il loro influsso non
c’è medicina che possa farti guarire”. Dopo di che Baba aveva fornito una
breve spiegazione sui bala, che la coppia aveva ascoltato con sempre
maggiore convinzione, cosicché l’uomo, giunto come postulante, era poi
diventato un paziente entusiasta.
Se prendiamo in considerazione l’intera gamma delle malattie mentali,
troviamo che Baba è un guaritore relativamente più specializzato di uno
46 !
Sciamani, mistici e dottori
psichiatra o di uno psicoterapeuta occidentale, che opera su un segmento
più vasto di disturbi mentali. D’altra parte, la pratica terapeutica di Baba
copre evidentemente solo una parte dei “disturbi” presenti nell’ampio spettro
religioso-spirituale, che di solito nel corso della psicoterapia rimangono
nascosti e inconfessati. La reputazione che aveva Baba di specialista in casi
di “malattia da possessione” si era diffusa passando di bocca in bocca tra i
suoi pazienti soddisfatti della cura e ciò, naturalmente, faceva sì che gli
arrivassero i pazienti “adatti”, i quali, a loro volta, nutrivano particolari
aspettative e dimostravano una disponibilità alla cura che contribuiva enormemente al buon esito della terapia.24 In casi del genere, come dimostrano
lo studio di Erna Hoch sui guaritori tradizionali del Kashmir e la ricerca di
Obeyesekere sugli esorcisti dello Sri Lanka, tanto il guaritore quanto i suoi
pazienti erano perfettamente consapevoli delle particolari capacità del guaritore, dei suoi limiti, e delle differenze qualitative proprie delle varie forme
di malattia legate alla possessione.25 Per una malattia grave, per la cura
della quale sono necessari riti costosi e particolarmente elaborati, un malato
e la sua famiglia non ricorrevano a Baba, ma si rivolgevano direttamente a un
insigne specialista, o si recavano in un santuario famoso per le guarigioni,
come il tempio di Balaji a Mehndipur che descriverò nel capitolo seguente.
Il processo terapeutico è reso sicuramente più efficace dal fatto che il
quadro di riferimento demonologico è condiviso da tutta una cultura e che
il malato, i suoi parenti e i suoi amici hanno tutti la medesima concezione
dell’eziologia della malattia e dei mezzi terapeutici da utilizzare. Per prima
cosa coloro i quali ne sono in qualche misura coinvolti comprendono facilmente il senso della malattia del paziente, riescono a diagnosticare in maniera
grossolana di che si tratta e a raggiungere rapidamente un accordo sul tipo
di guaritore da consultare, dando al malato la sensazione rassicurante di
avere il problema sotto controllo. In secondo luogo, il linguaggio comune,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
24
L’esistenza di questo “effetto dell’aspettativa” – cioè delle aspettative di cambiamento nel
paziente (e nel terapeuta) che influenzano significativamente l’esito della psicoterapia – è
stata ampiamente documentata da un certo numero di ricerche, compendiate in ]. D. Frank,
“The Role of Rope in Psychotherapy”, International Journal of Psychiatry, 5, 5, 1968, pp.
383-95.
25
E. M. Hoch, “Pir, Fakir and Psychotherapist”, The Human Context, 6, 3, 1974, pp. 66876; G. Obeyesekere, “The Idiom of Demonic Possession: A Case Study”, Social Science
and Medicine, 1970, 4, pp. 97-111.
!
47
Sudhir Kakar
pubblico, della malattia, facilita la comunicazione tra l’ammalato, la sua
famiglia, la comunità e il guaritore, favorendo considerevolmente la cooperazione necessaria perché qualunque terapia abbia risultati ottimali.26 Nel
linguaggio della psicologia, al contrario, il trattamento è relativamente più
privato ed esclusivo e, forse, anche più mistificante; e dal momento che in
Occidente il linguaggio psicologico è di esclusiva competenza delle classi più
colte dei centri urbani, e confinato all’interno di quella cerchia, viene da pensare che anche l’efficacia terapeutica sia più elevata tra questi gruppi sociali.
5. Il confronto terapeutico
Nelle molte riflessioni fin qui condivise ho messo a confronto la concezione
psicologica e quella demonologica della malattia mentale e della guarigione
usando termini più o meno astratti. Passiamo adesso a osservare in azione
questi due differenti tipi di approccio prendendo in esame il caso di Sundar,
un giovane di ventisei anni che ha sperimentato entrambi i tipi di “dottore”;
lo psicoterapeuta in questione ero io, e Baba era il guaritore religioso che
avevo raccomandato al paziente quando mi aveva espresso l’intenzione di
interrompere la psicoterapia. Dopo alcune sedute difficili (per entrambi), il
giovane mi aveva comunicato la sua decisione di recarsi da un guaritore
tradizionale, che credeva sarebbe stato più adatto a occuparsi del dèmone
da cui era posseduto. Devo ammettere che, per quanto riguarda la velocità
della recessione della specifica sintomatologia di questo paziente, il punteggio è di uno a zero per la demonologia.
Dal momento che in India la ricerca di un terapeuta per un caso di
malattia mentale è un affare che riguarda la famiglia e la collettività, accade
spesso che questi debba ascoltare la versione della malattia esposta dai vari
membri della famiglia prima di poter avere un contatto diretto col paziente;
e questo è quanto mi è accaduto con Sundar. Il padre era venuto a consultarmi un giorno che il figlio aveva avuto una serie di crisi simil-epilettiche;
questo tipo di attacchi era preannunciato di solito da un tic al labbro
inferiore, seguito da una forte sensazione di torpore alla mandibola che si
andava diffondendo lentamente alle braccia e poi a tutto il corpo, finché il
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
26
Si veda Obeyesekere, “The Idiom of Demonic Possession: A Case Study”, cit., p. 104.
48 !
Sciamani, mistici e dottori
giovane non cadeva sulle ginocchia in uno stato di semi-incoscienza. Durante
il suo primo attacco, avvenuto tre mesi prima che il padre lo conducesse da
me, Sundar aveva avuto delle convulsioni ed era rimasto svenuto per qualche
minuto; i successivi attacchi non raggiunsero mai l’intensità del primo, e
Sundar era in grado di controllarli sdraiandosi immediatamente e stringendo
con forza le mascelle. La paura che queste crisi potessero sorprenderlo per
strada finì per confinarlo a casa, e il giovane, che amava stare fuori con gli
amici, si trasformò in un invalido.
Dopo il primo attacco il padre di Sundar, sospettando la presenza di uno
spirito maligno, portò il figlio da un esorcista delle vicinanze che praticava
il jhar-phook, una forma meno elaborata del tradizionale rituale esorcistico.
A ogni buon conto, per accertarsi che non vi fossero delle componenti
organiche legate al cervello – i “dèmoni” della medicina occidentale – lo
condusse pure in ospedale perché fosse sottoposto a una serie di radiografie
al cranio e agli elettroencefalogrammi di rito; queste, insieme ad altre
indagini neurologiche, fecero scartare l’ipotesi dell’esistenza di lesioni cerebrali. Ricevuta conferma nella sua diagnosi iniziale e visto che il jharphook non aveva sortito l’effetto desiderato, il padre portò Sundar da un
guaritore tantrico che godeva di grande fama di esperto in disturbi dovuti a
possessione demoniaca; la diagnosi del guaritore tantrico fu che un nemico,
di Sundar o del padre, aveva provocato con mezzi magici lo stiramento di
un nervo nel cervello del giovane. Dopo aver eseguito solennemente il suo
rituale, il tantrico diede a Sundar tre pacchettini di “cenere benedetta”: uno
doveva essere tenuto addosso, un altro andava conservato a casa in un
luogo sicuro, e il terzo doveva essere sciolto in acqua e bevuto. Inoltre proibì
a Sundar di bere latte e mangiare latticini, e gli raccomandò di restare in
casa durante le successive sei settimane, tranne che per ritornare da lui a
ritirare altri pacchetti di “cenere benedetta”. C’era stato un netto miglioramento nelle condizioni di salute di Sundar, mi riferl il padre, ma di tanto in
tanto il figlio aveva ancora qualche attacco. Poiché il mio ufficio si trovava
nello stesso edificio in cui il padre di Sundar lavorava come portiere, e dato
che aveva sentito dire che ero un “medico del cervello”, pensò che sentire
un altro parere sulla malattia del figlio non poteva che essere utile.
Molti anni prima, quando Sundar era ancora piccolo, la sua famiglia,
che apparteneva alla casta elevata dei bramini, era stata costretta per ragioni
!
49
Sudhir Kakar
economiche a trasferirsi dal villaggio sulle colline di Garhwal a Delhi. Il
padre di Sundar dovette accontentarsi di un lavoro sottopagato e si trovò in
grosse difficoltà finanziarie per mantenere la famiglia, che era composta
dalla moglie, da Sundar e da un fratello e una sorella più piccoli di lui, di
cinque e di sette anni. Il padre aveva stabilito, fin da quando Sundar era
piccolo, che a tutti i costi avrebbe fatto seguire al figlio gli studi superiori;
pensava che la cultura fosse l’unica àncora di salvezza che potesse impedire
il verificarsi della possibilità sempre incombente che la famiglia fosse rigettata nella miseria da cui era riuscita a stento a sottrarsi. Il padre di
Sundar non era l’unico a nutrire questo terrore folle: circondati da un oceano
di povertà e dalle tangibili manifestazioni della degradazione umana create
dall’indigenza, la paura inconsapevole e inespressa di poter affondare in
quest’oceano era uno spettro che tormentava tutti quelli che vivevano nelle
città dell’India.
Sundar era un ragazzino intelligente, ma fin da piccolo si era rifiutato
ostinatamente di intraprendere gli studi con la serietà che il padre si aspettava da lui; le recriminazioni, le minacce e talvolta le bastonate erano
all’ordine del giorno, e Sundar le sopportava con l’animo gonfio di cupa
rassegnazione, e con la silenziosa complicità della madre. Spinto dal sogno
paterno di avere un uomo colto in famiglia, il giovane era arrivato alle soglie
del diploma, ma non aveva superato gli esami finali. Per due volte il padre
si era fatto prestare i soldi per pagare le tasse scolastiche e offrirgli la
possibilità di un altro tentativo, ma tutte e due le volte Sundar aveva speso
il denaro “mangiando e bevendo con gli amici”, attività che preferiva a
quella di stare chino sui libri di studio; se avesse superato gli esami, commentava il padre malinconicamente, suo figlio sarebbe stato il primo in
quel villaggio ad avere un titolo di studio superiore.
Sundar si era poi impiegato, ma per un motivo o per l’altro succedeva
sempre che litigava con i suoi datori di lavoro e veniva licenziato; negli
ultimi cinque anni aveva lasciato quattro impieghi, durati da poche settimane
a pochi mesi ciascuno. Su quest’argomento a casa sua c’era continuamente
tensione; non che Sundar mancasse di rispetto al padre: anzi, non ribatteva
mai quando il padre lo rimproverava (ciò che accadeva di frequente) per la
sua abitudine di allontanarsi da casa a tutte le ore del giorno e della notte e
di non prendere sul serio né il suo lavoro né le sue responsabilità verso la
50 !
Sciamani, mistici e dottori
famiglia. Aveva un’età in cui avrebbe dovuto essere sposato da un pezzo, e
rendere nonni orgogliosi suo padre e sua madre. Ma, naturalmente, tutto
questo ormai non aveva più importanza, si rammaricava il padre; la sua unica
preoccupazione era che il figlio stesse bene. Nonostante le sue molte lamentele nei confronti di Sundar, avvertivo tutta la sua preoccupazione e l’orgoglio che provava per quel figlio colto, che restava ancora l’unica speranza per
la famiglia di risollevarsi dalla sua condizione piccolo borghese.
La settimana seguente, quando lo incontrai, Sundar mi confermò la
descrizione paterna della sua malattia. Non sembrava eccessivamente preoccupato dei sintomi, ne parlava come se appartenessero a qualcun altro e
noi fossimo due colleghi (lui molto più giovane e deferente) intenti a
formulare insieme una diagnosi. Era un giovane di bell’aspetto, vestito alla
moda secondo lo stile occidentale, che sicuramente si preoccupava molto
del proprio aspetto. Sì, era sempre rispettoso nei confronti del padre, anche
quando questi lo rimproverava di non assumersi la sua parte di responsabilità familiare – mi disse compunto, con l’atteggiamento del “ragazzo
beneducato” e ubbidiente. Si rendeva conto che il padre lo sgridava soltanto
perché aveva a cuore la sua (di Sundar) felicità. Talvolta il padre perdeva le
staffe, e dato che lui non voleva perdere la testa non gli restava altra scelta,
quando il padre si arrabbiava, che uscire di casa. Aveva avuto sfortuna con
i suoi datori di lavoro, che pensava nutrissero una sorta di malanimo nei
suoi confronti. Poco prima di cominciare a soffrire dei suoi attacchi, il suo
ultimo principale voleva mandarlo a fare il venditore nei villaggi dell’Uttar
Pradesh; lui non voleva andarci perché credeva di riuscire bene come
venditore a Delhi e, in ogni caso, si diceva che in quei paesi stesse imperversando una micidiale epidemia di encefalite. Ovviamente, a causa della
sua malattia, era stato costretto a lasciare il lavoro, nonostante il principale
lo avesse invitato a prendersi un lungo periodo di congedo e restare a
riposo tutto il tempo necessario per ristabilirsi.
Parlando di sé, Sundar ammetteva di essere anche lui ambizioso e di
voler migliorare il proprio status; stava pensando di dare gli esami l’estate
seguente ma, ancora una volta, la malattia aveva intralciato i suoi piani,
almeno per quell’anno. Comprendeva il desiderio paterno di vederlo sposato
e sistemato, ma, ahimè, per il momento questi piani dovevano essere
accantonati. Inoltre, accennò, sebbene le ragazze lo avvicinassero spesso,
!
51
Sudhir Kakar
lui prendeva le distanze dai loro tentativi di approccio, poiché desiderava
avere con l’altro sesso soltanto dei rapporti platonici. Sei mesi prima dell’inizio delle crisi era stato coinvolto in un grave incidente stradale, nel
quale erano morti due suoi intimi amici, mentre lui se l’era cavata senza
seri danni, soltanto la perdita del pollice destro. Al racconto dell’incidente
seguì immediatamente dopo quello di un sogno ricorrente che Sundar faceva
sin da bambino.
“Sto dormendo nel mio letto quando vengo aggredito da un’ombra. Mi
dibatto ma cado dal letto. Mia madre mi tira su. Quando mi sveglio, mi sento
teso, contratto, come se avessi fatto la lotta”.
Mentre insistevo per avere altri particolari del sogno, mi accorgevo che
Sundar diventava improvvisamente pallido, faceva fatica a respirare e tratteneva con tutte e due le mani la mascella inferiore.
“Mi sta venendo un attacco”, disse con voce stranamente calma, “mi porti
dell’acqua, per favore”. Poi si era alzato dalla sedia per sdraiarsi sul lettino,
serrando a due mani la mandibola.
Uscito per prendere dell’acqua, ero rientrato con il padre, che aspettava
fuori della stanza; lui gli aveva sollevato la testa con sollecitudine e portato
alle labbra il bicchiere colmo d’acqua.
“Vede, dottore, ecco cosa succede… Forse è stato un errore portare qui
Sundar nonostante le precise raccomandazioni del tantrico”.
Qualche minuto dopo Sundar si era ripreso, tanto da potersi mettere di
nuovo a sedere, pallido in viso ma padrone di sé.
“Sto di nuovo bene”, mi diceva in tono rassicurante, “ora può chiedermi
tutto quello che vuole”. Ma sapevamo tutti e due che, in realtà, il colloquio
era terminato. Sundar era riuscito a suscitare dentro di me un senso di colpa
misto a un bisogno di protezione simile a quello che, probabilmente, suscitava nel padre (e forse anche nel suo datore di lavoro), e aveva fatto fallire
ogni mio tentativo di approfondimento con la stessa efficacia con cui aveva
dato scacco alle insistenze del padre e ai progetti del suo principale.
Chiunque conosca il linguaggio psicologico dei disturbi mentali avrà
potuto facilmente notare come la sintomatologia di Sundar gli permetteva
di scansare le responsabilità più pesanti e di ricevere protezione, aiuto e
attenzione. I suoi sintomi, compresa la belle indifférence verso di essi, il loro
modo di apparire e sparire in risposta agli stress ambientali, la sua avversione
52 !
Sciamani, mistici e dottori
per la sessualità etc. sono tutti sintomi di una conversione isterica. Possiamo
inoltre percepire come vi siano connessi dei fattori psicodinamici latenti,
specialmente laddove emergono nel suo atteggiamento verso il padre (e
verso di me nel corso del colloquio) di una deferenza tutta esteriore, segno
di rabbia interiore, che assume una forma drammatica nel sogno dell’ombra
che lo aggredisce. Possiamo ipotizzare che le mascelle gli si intorpidiscano
per impedire che possano sgorgarne fuori torrenti di rabbia e di insulti, e che
le braccia si indeboliscano per evitare di colpire; il senso di colpa e l’angoscia sono sentimenti di ostilità che, insieme al profondo attaccamento edipico
alla madre, si può dire costituiscano il nucleo primario del suo disturbo.
Quando Sundar andò da Baba non fornì – né Baba gli chiese – alcuna
precisazione sui sentimenti che provava né sulla sua storia personale, limitandosi alla pura e semplice esposizione dei sintomi.
“Cosa vedi in sogno?” gli chiese Baba che, come sempre, iniziava il colloquio con questa domanda standard.
Sundar aveva esitato un momento, per poi rispondere che faceva tanti
tipi diversi di sogni.
“Vedi una donna, un uomo, un bambino, un serpente, una scimmia o
qualche animale feroce?” chiarì Baba, usando la sua solita sequenza, e se il
paziente rispondeva che in un suo sogno ricorrente appariva una figura
umana o un animale, Baba chiedeva cosa stesse facendo quella figura.
Normalmente la prima domanda era sufficiente a rompere la barriera di
riservatezza dei pazienti (specialmente se erano donne) e a spingerli a descrivere con ricchezza di particolari la figura che appariva in sogno e cosa
faceva. Baba ascoltava con aria interessata e piena di partecipazione e di
tanto in tanto annuiva, come a voler sottolineare il fatto che le parole del
paziente non facevano che confermare ciò che lui aveva sospettato fin dal
primo momento. Alla fine del resoconto emetteva il suo verdetto definitivo:
“Sei posseduto da un bala”. Per quanto a prima vista possa apparire stereotipato, questo iniziale scambio di battute dà tuttavia al paziente l’opportunità
di comunicare il proprio conflitto primario mediante un simbolismo (onirico), un mezzo di comunicazione che in tutta la storia dell’umanità è stato
utilizzato nella letteratura, nell’arte, nei riti, nella mitologia e nel folclore, e
anche nella vita quotidiana. Nonostante il ristretto numero di simboli
!
53
Sudhir Kakar
“proposti” da Baba – uomo, donna, bambino, serpente, scimmia, bestia
feroce – e il contesto limitato in cui vengono collocati (“Cosa fanno nel
sogno?”), essi bastano comunque a comunicare i principali conflitti dei suoi
pazienti. Esaminiamo un sogno fatto da moltissime donne: uno sconosciuto
rivolge loro delle pressanti profferte amorose. L’affiorare proprio di questo
sogno in una casistica talmente vasta e con una tale monotona regolarità va
messo in relazione a due fenomeni culturali: il primo è che nell’India
urbana alle giovani donne è severamente proibito esprimere la propria
sessualità, un tabù che è altrettanto forte (se non di più) tra le donne musulmane di quanto non lo sia tra le indù; l’altro è che qualsiasi tipo di
sessualità che sfugga alla censura di questo tabù viene generalmente
esercitato all’interno della famiglia (contrariamente all’aggressione, che
deve essere sempre espressa al di fuori della famiglia).27 Tutto ciò può
suscitare notevoli sensi di colpa; nella ben nota modalità del funzionamento
onirico, questo sogno tipico della donna fa sì che i suoi desideri sessuali,
che la caricano di sensi di colpa, siano resi sopportabili spostando questi
desideri e attribuendoli all’uomo, il quale, “naturalmente”, deve essere un
perfetto sconosciuto.
Bisogna inoltre ricordare che la comunicazione degli eventi psichici –
disturbi mentali compresi – mediante il racconto dei sogni è una notissima
tecnica usata in tutto il Subcontinente indiano. L’induismo e il mondo islamico hanno sempre creduto che i sogni trasmettano messaggi importanti e
vantano, di conseguenza, un’attiva tradizione nel campo dell’interpretazione
dei sogni. Milioni di persone consultano avidamente manuali divulgativi
sull’interpretazione dei sogni che, nel caso dei musulmani, sono tratti dal
più antico trattato arabo sull’argomento, al-Qadiri fi’t ta’bir, scritto nell’anno 1006. Questi manuali enumerano migliaia di oggetti e centinaia di
situazioni che si verificano nei sogni, a cui attribuiscono dei significati
standardizzati. Comunque, come ha rilevato Katherine Ewing nel caso dei
musulmani del Punjab, è ormai accettato da tutti che l’interpretazione dei
“simboli” onirici è puramente indicativa.28 La vera e propria interpretazione
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
27
Devo questa intuizione ad A. Roland. Si veda il suo saggio “The Familial Self, the
Individualized Self, and the Transcendent Self: Psychoanalytic Reflections on India and
America”, The Psychoanalytic Review, 1987.
28
K. P. Ewing, op. cit., p. 48.
54 !
Sciamani, mistici e dottori
del sogno è un procedimento complesso, che richiede la conoscenza delle
sensazioni vissute dal sognatore, della maniera in cui si combinano i
simboli che appaiono nel sogno, delle caratteristiche personali di chi sogna
– età, sesso, professione, abitudini, preoccupazioni, e così via. Accade
spesso che un sogno che il sognatore considera significativo venga sottoposto per la sua interpretazione a un esperto, solitamente a un pir; i più
abili tra loro si sforzano di far emergere dallo stesso sognatore la fonte
della tensione che può aver prodotto il sogno, ponendo spesso delle
domande relative ai rapporti coniugali e ai problemi familiari. Il fatto è che
nell’ammalato vi è una sorta di certezza assoluta, instillatagli come dato
culturale, che il pir sarà in grado di comprendere la natura dei suoi problemi attraverso il modo in cui si sono manifestati nel sogno.
Il metodo usato da Baba per interpretare i sogni è abbastanza diverso da
quello degli altri pir: l’uomo, la donna, il bambino, il serpente o la scimmia
che appaiono in sogno sono tutti, per lui, degli orrendi bala che succhiano
il sangue del suo paziente. Il motivo per cui pone delle domande sul sogno
è in certa misura diagnostico: si tratta di decidere se l’ammalato è o non è
posseduto. Ma il racconto del sogno agisce ancor più come una leva terapeutica, dando modo al paziente di descrivere simbolicamente il proprio
conflitto e di ottenere in tal modo una “abreazione” nei confronti delle sue
violente emozioni, riducendone l’intensità degli effetti. Senza voler fare
alcuna affermazione categorica, ho l’impressione che Baba abbia spesso
una conoscenza intuitiva e inconscia del significato simbolico dei sogni, e
che possieda il dono della divinazione dei sogni più di quanto non abbia
dato a vedere durante i nostri incontri. Una volta che un paziente gli raccontò
di aver sognato un lago trasparente e puro, si rivolse verso di me commentando che sognare acqua chiara era buon segno, mentre sognare di
affondare nel fango o nella melma era di cattivo augurio. Io avevo assentito
con convinzione, senza che in ciò vi fosse nessuna forma premeditata di
cortesia poiché, in molte culture, il simbolismo legato all’acqua rappresenta
la potenziale capacità vitale e rigeneratrice della psiche. Questo è ciò che
gli indù intendono quando paragonano il chitta inconscio a un lago melmoso, che deve essere ripulito se si vuole ottenere l’autorealizzazione, o ciò
che Buddha intendeva quando, nel suo discorso di Assapuram, considerava
il lago montano – le cui acque trasparenti rivelano il fondo sabbioso, le
!
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Sudhir Kakar
conchiglie, molluschi e pesci – come il cammino della redenzione.29 Nella
psicoterapia (come nel rito del battesimo), l’acqua è spesso un simbolo di
nascita a una nuova vita, ed esprime la speranza del rinnovamento e della
rinascita mediante il processo terapeutico che rende trasparenti le profondità.
Il sogno di Sundar di lottare contro un’ombra non rientrava precisamente in nessuna delle categorie della maggior parte degli altri sogni.
“Ah, ecco, quell’ombra è un bala che ti attacca”, aveva sentenziato
Baba, sicuro di sé.
Poi si era fatto dare da Sundar la bottiglia d’acqua che il giovane aveva
con sé e chiuso gli occhi per qualche istante in meditazione: recitava i
versetti del Corano che riteneva più adatti al caso muovendo appena le
labbra senza emettere alcun suono, e tenendo la bottiglia tra le mani. Di
tanto in tanto riapriva gli occhi, soffiava energicamente sull’acqua e continuava a recitare silenziosamente le sue preghiere.
“Bevi tutti i giorni un po’ di quest’acqua”, aveva detto alla fine del rito,
“e ritorna la settimana prossima. Ti ‘leggerò’ un’altra bottiglia d’acqua”.
Sundar aveva ringraziato, messo sul lettino una banconota da due rupie
– Baba non chiede mai onorari – e se ne era andato. Poiché Baba agisce nelle
vesti di emissario di un potere divino più elevato, si dà per scontato che
l’effetto delle sue guarigioni verrebbe ostacolato dalla richiesta di un compenso; tuttavia accetta i doni in denaro, se vengono offerti spontaneamente.
Sebbene talvolta Baba “legga” anche lo zucchero, la sua terapia preferita
nei casi di possessione è la “lettura” dell’acqua. Di tanto in tanto decide di
celebrare anche il jhara, il cui rituale è piuttosto simile, solo che invece di
che sull’acqua il soffio è rivolto sul volto dell’ammalato. Rimasto solo, e
quando se ne rammenta, Baba recita spesso una breve preghiera del tipo:
“Dio, non deludere queste povere anime. Mantienile sane e di umore sereno”.
La spiegazione data da Baba del potere che ha l’“acqua benedetta” di
scacciare i dèmoni è molto semplice: l’acqua, sostiene, ripulisce il sangue
dell’ammalato, cosicché il bala non può più berlo ed è costretto a lasciare
quel corpo. L’acqua, come qualunque altro talismano dato a un ammalato
in un santuario Sufi, pare che contenga una parte dell’essenza stessa del
santo, e che abbia perciò la benedizione divina (barakat) come se la si fosse
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
29
E. Cirlot, A Dictionary of Symbols, New York: Philosophical Library, 1962, p. 347.
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Sciamani, mistici e dottori
ricevuta dal santo stesso; è evidente che in tal modo viene suggerita simbolicamente l’idea che l’acqua sia un potente mezzo di depurazione, carico
delle energie purificatrici provenienti da Dio. “Conserva la bottiglia in un
luogo puro”, consiglia spesso Baba al paziente. “Con la grazia di Allah-pak
(Allah il Puro) l’acqua ti ripulirà all’interno”. L’acqua pura, arricchita dalla
barakat, non deve essere mai versata per terra o negli scarichi, ma va
sempre bevuta.
Poiché, come già osservato, tendiamo a interpretare l’angoscia dei
pazienti di Baba come il risultato del senso di colpa inconscio legato ai loro
desideri sessuali e agli impulsi aggressivi (specialmente nei confronti dei
membri della famiglia), la suggestione indotta da Baba che l’acqua benedetta
purifichi le loro “parti interne” ha un significato squisitamente psicodinamico. Oltretutto i risultati lusinghieri ottenuti da Baba con la sua cura per
scacciare i bala fanno pensare che i pazienti indiani vivano la colpa come
una sensazione di sporcizia e inquinamento interiori. Teoricamente, questa
differenza ipotetica del modo in cui gli indiani e gli occidentali vivono il
senso di colpa potrebbe anche spiegare in parte il motivo per cui gli indiani
– individualmente e socialmente – sono sempre stati ossessionati dal problema della purezza e dell’impurità, a differenza, per esempio, delle società
giudaico-cristiane, nelle quali la principale preoccupazione è quella del
peccato e della morale.
Ho già detto che Baba di solito prepara dei talismani per i casi di
“minaccia di possessione”, che generalmente si manifestano con liti familiari o situazioni conflittuali di coppia; in tal caso, insieme al talismano,
egli dà talvolta dello zucchero “benedetto”, che uno dei due coniugi – la
parte lesa – deve sciogliere nel tè dell’altro. Una delle ragioni principali per
cui in Occidente si richiede l’aiuto di un professionista è il “disadattamento
coniugale”, e lo stesso accade in India: il numero di uomini e donne che
chiedono aiuto a Baba per risolvere i loro problemi matrimoniali, le crisi o
il fallimento del rapporto, le percosse, l’abbandono del tetto coniugale,
costituiscono la seconda categoria in ordine di importanza e quantità dei
pazienti di Baba. Come avviene anche in Occidente, una seduta terapeutica
di coppia ha aspetti tragici e comici al tempo stesso.
Un giorno Baba era stato avvicinato da un uomo di trent’anni che gli
raccontò che pochi mesi prima la moglie era scappata da casa, ma che era
!
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Sudhir Kakar
poi ritornata portandosi appresso un giovane di vent’anni che, secondo lei,
doveva assolutamente rimanere a casa con loro; diceva di amare il ragazzo,
ma di non esserne l’amante. Baba gli aveva risposto di ritenere che quanto
da lui esposto non sembrava essere un attacco dei bala, e di ritornare l’indomani insieme alla moglie, in modo da avere il tempo di preparare per
loro alcuni amuleti e anche di cercare “di farla ragionare”.
“Ma lei deve fare qualcosa per la sua virilità”, lo aveva avvertito Baba,
“perché quasi sempre le donne vanno via di casa quando il compagno non
le soddisfa sessualmente”.
L’uomo insisteva che riguardo a quello lui era a posto, ma Baba sembrava
ancora nutrire dei dubbi; ed era andato a casa.
“Non gli credo. Guardalo: secco come un filo di paglia! Una volta mi
capitò un caso di un uomo che aveva due mogli che picchiava tutti i santi
giorni. Quando i loro genitori sentirono come trattava le loro figliole
chiesero alle ragazze di ritornare a casa, ma esse non ne vollero sapere e si
impuntarono per restare col marito, sostenendo di essere felici nonostante
le percosse perché l’uomo riusciva a soddisfarle. Come si sa, per la donna
la soddisfazione sessuale è assolutamente indispensabile, molto più di
quanto non lo sia per l’uomo”. Io avevo annuito senza pronunciarmi.
L’indomani mattina la coppia era tornata e Baba ebbe la soddisfazione
di vedere confermata la sua diagnosi dalla moglie stessa: alla presenza del
marito, spiegava con semplicità che il suo compagno non la appagava sessualmente, e che lei si sentiva molto infelice. Per essere assolutamente
certo che non ci fossero dei bala di mezzo, Baba le aveva posto la solita
domanda su cosa vedesse in sogno. Lanciando al marito un’occhiata
velenosa, la donna aveva risposto con foga che vedeva se stessa che spaccava
la testa al marito senza alcun timore, aggiungendo che il marito voleva
portarsi a letto il ragazzo che lei aveva condotto con sé, e che questo era un
altro motivo di lite. L’uomo contestava la versione della moglie e ci fu un
alterco furibondo; dopo che Baba riappacificò i due, preparò dei talismani,
“lesse” lo zucchero, e li esortò a essere timorati di Dio e a non abbandonarsi
a pratiche sessuali perverse. I due andarono via e Baba mi pareva scoraggiato e pessimista sull’esito dei suoi sforzi; anche se il talismano e lo
zucchero fossero serviti ad attivare le pure energie divine a favore della
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Sciamani, mistici e dottori
coppia, avevo l’impressione che pensasse che nella coppia la morsa della
sensualità fosse troppo potente perché la si potesse allentare.
Pare che il successo nella soluzione dei conflitti matrimoniali dipenda
anche dal “temperamento innato” della donna; Baba descrive come segue
questa tipologia, a seconda della resistenza alla terapia.
“Innanzi tutto c’è la yar-marani. Qualunque genere di marito abbia e
per quanto questi possa trattarla male, questo tipo di donna non guarderà
mai un altro uomo come eventuale amante. Poi c’è la pet-marani: è sempre
affamata e andrà a letto con chiunque possa soddisfare la sua brama. Per
terza abbiamo la hirs-marani, che imita tutto quello che fa la vicina in fatto
d’abbigliamento, di moda e d’amanti. Come quarta vi è la kus-marani, che
ha bisogno di tre o quattro uomini: per essere soddisfatta deve sentire
sempre la vagina riempita da un pene”.
Baba mi stava spiegando la sua discutibile prognosi: aveva la sensazione
che la donna che era appena andata via fosse una kus-marani. Restammo
entrambi a sedere in partecipe silenzio, contemplando ciascuno i limiti delle
rispettive tradizioni terapeutiche.
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