Il ritorno della filosofia del boemo, gli ultimi sassolini nelle scarpe e
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Il ritorno della filosofia del boemo, gli ultimi sassolini nelle scarpe e
ANNO XVII NUMERO 36 - PAG IX IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 11 FEBBRAIO 2012 QUEL CHE RESTA DI ZEMANLANDIA Il ritorno della filosofia del boemo, gli ultimi sassolini nelle scarpe e un sogno colorato di neroazzurro e idee non invecchiano come il volto. Zdenek Zeman ha la faccia scavata dai suoi sessantacinque anni e dalle sigarette. E’ tornato. Diverso. Lasciate stare zemanlandia per una volta, perché questo è più il tempo dello zemanismo. Con lui lì in alto, col Pescara, riemerge qualcosa che era stato messo in un fascicolo da archiviare. Filosofia è troppo. Idea può funzionare. Perché lui si trascina un’identità precisa che se sconfina dal campo rischia di diventare fanatismo, se resta nel limite di uno stadio, allora è un progetto pallonaro. Zeman in corsa per tornare in A è una storia che bisogna raccontare parlando di gioco, non di sistemi o di sovrastrutture: c’è qualcuno che prima o poi gli farà solo e soltanto domande tecniche? C’è uno che tralascerà la sua battaglia sul doping? Se lo prendi come un santone, Zeman è passato: ha amici e nemici, amanti e detrattori. Uno che non ha mai unito, ma che ha sempre diviso. Un silenzioso in grado di fare più rumore dei caciaroni. Allora no. Non adesso. Questo è un tempo diverso: undici contro undici, senza il resto. Si gioca: si vince o si perde. Zeman così diventa ancora una storia. “Gli uomini? Nel calcio contano gli spazi; a me non mi hanno mai detto: quello è il tuo avversario, ma quello è il tuo spazio”. E’ l’idea, questa. La cultura calcistica non può essere la vicenda di un anticonformista che ha rischiato di diventare conformista. E’ il ritorno alla tecnica, alla tattica, al modulo. Tutto ciò che è stato messo in secondo piano per con Mourinho. Amici o nemici, bianco o nero. Con la stampa, con la gente, con i giocatori. Che poi a lui i calciatori non sono mai piaciuti. Per lui sono sportivi di serie B: faticano meno degli altri e guadagnano di più, non si allenano come i giocatori di pallamano o come quelli di pallavolo. Con lui sono ore di corsa, ripetute, balzi, palestra su palestra, poi ancora corsa e ripetute. Una volta con la Lazio era in trasferta per giocare una partita di coppa. I signorini erano scesi dall’aereo e si erano sistemati in camera. Pioveva, ma due ore dopo lui li chiamò uno per uno dalle stanze: “Venite”. Una seduta defatigante: flessioni sotto il diluvio. E mentre quelli impazzivano senza capire il motivo di tanta crudeltà, Zeman se ne stava zitto. Lui non è un tipo che ama ciacolare: “Con i calciatori parlo il meno possibile”. E già che quei chiacchieroni dei siciliani, al tempo in cui si sedeva sulla panchina del Licata, lo soprannominarono il “Muto”. E già che anche quando era uno studente a Praga, gli amici lo chiamavano “Pistone”: stava sempre in silenzio, ma attirava. Zitto se segnano i suoi, zitto se gli altri vanno in vantaggio. Nessun consiglio, nessun rimprovero. Quello che ha da dire lo dice in allenamento e non a tutti. Ancora di meno parla con quelli che hanno qualcosa in più: non ha voluto Roberto Baggio quando allenava il Napoli, non ha mai sopportato uno come Alen Boksic. Perché era un tipo senza continuità e senza voglia di lavorare. Non gli andava a genio neppure quando era in vena e in coppia con Signori era in grado di fare caterve di gol. Sadico, Zdenek. Sadico, ma anche masochista. Anche non volendo, Zeman ha contribuito alla sua trasformazione in ribelle, leader di una sua Occupy football Lo zemaniano crede. L’antizemaniano no. Bisogna scegliere. Come con altri: come con Sacchi o con Mourinho troppi anni e con la sua complicità: perché anche non volendo, Zeman ha contribuito alla sua trasformazione in ribelle, una specie di leader di qualcosa di simile a una Occupy football, una degenerazione emoticamente instabile della grande filiera dei nostalgici del passato calcistico, dei nemici della modernità a prescindere, dei custodi di un’ortodossia calcistica che doveva difendere l’autenticità perduta del pallone. Zdenek è un allenatore, basta. E’ quello che una volta disse al portiere di giocare fuori area: “Devi stare al limite, sempre”. Franco Mancini diventò un simbolo: guidava la difesa dalla lunetta. Da lì bisogna partire e lì bisogna finire. Lo zemanismo regge fino a quando non entra in gioco la storia dell’anti padroni. Numeri, quindi. Un punto di partenza solido, qualcosa a cui aggrapparsi per evitare di cadere nella trappola della trasformazione di un uomo in guru, di uno sportivo in totem. Prendi il Pescara di oggi: il miglior attacco di tutta la serie B con 55 gol in 25 partite. La difesa che funziona male come sempre con lui: solo cinque squadre in tutta la B hanno subito più gol. I punti: 51, con i quali guida la classifica, da sola. Funziona, allora. Funziona, per ora. E’ questo quello che conta, non può essere diversamente: per gli altri e per lui. Il resto è spiegazione. Come fa? Come gira questo Pescara? Quanto ha speso? Che giocatori ha? Gioca con Insigne, Immobile, Sansovini, Cascione, Capuano, Verratti, Caprari. Molti giovani non di proprietà e che sono lì con lui per essere svezzati. Attacco, pressione, pressing, corsa. Tutto quello che sappiamo, tutto quello che abbiamo visto. Il nuovo Foggia? Forse, vedremo. Lì, in Abruzzo vogliono quello che manca dal 1993, quando Van Basten con una quadripletta seppellì il Pescara e lasciandolo di fatto lontano dalla A per vent’anni. Zeman è la faccia di un progetto: invecchiato è invecchiato. Si vede. Ha ricominciato l’anno scorso da Foggia, per non lasciare che l’effetto mediatico del suo ritorno nel pallone, non fosse massimo. Aveva una logica e aveva anche un mercato: le scelte non sono mai casuali, neanche per lui. La prima volta che tornò in panchina fu a Cava de’ Tirreni: “Se il calcio è cambiato? Non direi, sono rimaste le porte, le linee e l’erba…”. In serie C, c’erano più giornalisti e telecamere di una partita di bassa classifica di serie A. C’era lui, in fondo. Notizia per tutti: mancava dal calcio italiano dal 22 dicembre 2006: esonero a Lecce. Da allora solamente l’inutile esperienza con la Stella Rossa di Belgrado: tre partite senza vittorie e le dimissioni. Silenzio. Rumore, ora. Perché Zeman primo in B con il 4-3-3, con le favole che tornano, con i nuovi Signori, Baiano, Rambaudi che nascono a ogni partita, ridà fiato allo zemanismo rimasto stordito dai fallimenti della metà degli anni Duemila. Ecco lui, ecco gli altri. Si dice che sia persi- Come quando lasciò il croato negli spogliatoi durante l’intervallo. Era una partita europea, si giocava in Francia. Boksic era in una delle giornate che non l’avrebbe fermato neppure un cataclisma. Nel primo tempo prese la palla tra i piedi e cominciò a divertirsi: dribbling, uno, due, tre uomini saltati, finta, tiro, gol: “Mister, hai visto che cosa ho combinato? Ti è piaciuto?”. Boccata di sigaretta: “Alen, queste cose io non voglio vederle neppure al circo”. Al rientro in campo dopo l’intervallo, Boksic non c’era più. Non gli piacciono i fenomeni perché nel calcio vince il sistema e non la persona, perché “se un giocatore si sente singolo, ha sbagliato sport: doveva fare il pugile, o magari il tennista”. L’unico per il quale ha fatto un’eccezione è Francesco Totti: “Il migliore di tutti”. Lo dice ancora, ci crede sempre. Non c’è una spiegazione logica: Totti è l’anti Zdenek, però tra i due c’è un amore incondizionato e una stima infinita. L’illogicità di questo rapporto è una delle cose migliori di Zeman: sfugge alla catalogazione reciproca, è controintuitiva, è diversa. E’ quello che non t’aspetti e per questo speciale. L’abbiamo conosciuto come uno che pensa che la storia si faccia con Mancini, Petrescu, Codispoti, Picasso, Padalino, Matrecano, Rambaudi, Shalimov, Baiano, Barone, Signori. Poi, però, a ogni intervista parla della grandezza di Francesco. Umano anche Zeman, allora. Esce dal personaggio e diventa normale. L’altro Zdenek che non c’entra con questo: “Come ha fatto a vincere lo scudetto la Roma? Be’ ha speso 400 miliardi che ancora stanno cercando”. Quando fa così decide di rimanere quello che per forza non deve farti capire chi è e dove vuole andare. L’anno scorso si ripresentò così: “Dicono di me: parla, parla, ma non ha mai vinto niente. Me l’ha ripetuto pure uno degli avvocati della difesa al processo di Napoli. Bene: cosa hanno vinto, a parte Benítez, quelli che allenano in A in questa stagione? Ho valorizzato e mandato in nazionale più di 20 giocatori: quanti allenatori possono dire la stessa cosa?”. Come deve ripartire il calcio italiano dopo il disastro sudafricano? “Dal lavoro che è alla base dei successi. E oggi non si lavora tanto nel calcio, a cominciare dai settori giovanili. Servono strutture per consentire ai ragazzi di tornare a giocare, per ore e ore, sempre col pallone tra i piedi. Come si faceva una volta, da mattina a sera, per strada”. Perché in Italia è così precaria la figura dell’allenatore? “Da noi conta solo vincere, non importa come. Gli allenatori sono schiavi dei presidenti: io non l’ho mai fatto, e non lo farò mai”. Pescara forse gli ha tolto un po’ di incrostazioni. Foggia in C, con l’obbligo di confermare Zemanlandia era più complicata da gestire. Adesso meno. Si può fare. Non rivendica, non s’irrigidisce. Se non cede a se stesso lo zemanismo funziona. Il campo è migliore del resto. Sempre. di Beppe Di Corrado L Zdenek Zeman ha 65 anni. Oggi allena il Pescara in serie B. Al momento la sua squadra è capolista del campionato (foto Ansa) no il candidato principale alla sostituzione di Claudio Ranieri sulla panchina dell’Inter il prossimo anno. A Milano la voce è insistente e anche documentata. D’altronde Massimo Moratti lo adora e lo ha detto in più di un’occasione. Le forze interne al club sono molteplici: c’è chi lo vuole, c’è chi non lo sopporta. Il calcio in questo caso non è tutto. Perché in A e in una grande tornerebbe il santone più dell’allenatore. Lui e la sua battaglia che di- Dopo Foggia oggi c’è Pescara. Zeman è il ritorno alla tecnica, alla tattica, al modulo. E anche questo Moratti lo sa ce di non aver mai condotto. L’equilibrio è sottile fuori più che in campo. E lui non ha fatto in tempo a tenersi dentro, al limite tra l’attacco e la difesa, per avere la possibilità di spiegare chi è veramente: un profeta o un cialtrone, un esteta o un maniaco, un pazzo o un innovatore, un perfezionista o un menefreghista, un genio o un impostore, un simpatico o un antipatico, un poliziotto o un pentito, un coraggioso o un vile, un burbero o un guascone, un artista o una macchina. Se stai sul pelo dell’acqua, Zeman è duale: è il calcio più bello che ci possa essere oggi. Ma anche il più avvilente. Quello che perdi 0-2 e recuperi, 2-2. Poi vai avanti: 32, 4-2. Quello che ti fai riavvicinare: 4-3. Quello che ti fai riprendere: 4-4. Quello che ti fai superare: 4-5. Quello che all’ultimo minuto prendi il rigore del pareggio, con il portiere avversario che si fa espellere e non ci sono più sostituzioni e allora in porta deve andarci un altro e ci va un attaccante alto un metro e settanta. Tiro: parata. Successe una volta, con il Lecce. Gli chiesero: che è successo mister? “Be’, non è mica colpa mia se Ledesma ha sbagliato il rigore. Io dico che abbiamo giocato bene”. Poi la settimana dopo vince tranquillo tre a zero. Tu sei contento: finalmente anche tu hai visto che cos’è Zemanlandia, adesso sì che si ragiona. “No, a me la mia squadra non è piaciuta, possiamo fare di più. Dobbiamo fare di più”. Mentre lo dice, e ti viene voglia di spaccare il televisore, ha quel ghigno. Una cosa a metà tra un sorriso e una smorfia di nervosismo. Un’espressione che non ti dà neppure la possibilità di chiedergli se ti sta dicendo quello che pensa, oppure se ti sta prendendo in giro. Tu sei costretto a trovarti una soluzione tua. Tanto lui non cambia. Il rebus di quest’uomo non l’ha sciolto alcun ultrà, alcun presidente, alcun calciatore. Tantomeno i cronisti che hanno provato ogni volta a spiegarlo: “Se io non mi capisco con mio figlio perché un giornalista dovrebbe capire me?”. Con Zeman sei sempre al punto di partenza. Ti tocca ripartire dallo zio Cesto, dagli anni 60, dalla fuga prima involontaria e poi obbligata da un paese che stava per diventare definitivamente una colonia sovietica e che lui riuscì a lasciare prima che si trasformasse in un presidio militare. Devi riprendere per forza da lì, dall’unica volta in cui quest’uomo che aveva un futuro da medico o da insegnante di educazione fisica ha fatto in tempo a salvarsi. E allora ricominci: 1968, 21 anni. Praga, l’università, lo sport: hockey, pallavolo, pallamano, calcio. Con il pallone tra i piedi era stato un centrocampista delle giovanili dello Slavia. Niente di che, uno come tanti, ma abbastanza per essere l’onore di Cestmír Vykpálek, uno dei giocatori più forti della storia della Cecoslovacchia, che poi arrivò in Italia per allenare nel campionato più bello del mondo. Cestmír, lo zio. Quello che Zdenek andò a trovare in estate in Sicilia per le vacanze insieme con la sorella. Cesto nel 1969 stava a Palermo e accolse i nipoti in arrivo da Praga sulla spiaggia di Mondello, mentre Breznev mandava i carri armati a casa loro. “Jamilia, tu vai. Io non torno più”. Lì è cominciato Zdenek. Quello che dice di sentirsi più italiano degli allenatori italiani e che qualche tempo fa a Malcom Pagani ha detto il contrario: “Per cinquant’anni mi sono sentito boemo. Ero più preciso, metodico, meno flessibile. Poi mi sono scoperto italiano e ho imparato qualcosa del vostro carattere”. Insegnamenti? “Non sempre positivi, ma capaci di cambiarmi. Tornando ai giornalisti, è vera un’altra cosa”. Quale? “Che molti allenatori gli telefonano per essere aiutati”. Disapprova? “Affronto il problema diversamente. Mi illudo che possa aiutarmi solo il campo”. Zeman non ha i rapporti giusti? “Non so cosa significhi “rapporto giusto”. Pescara è l’ultima occasione? “In che senso? Non sono ancora morto”. Lei ha 64 anni. “Oggi sono qui. Penso di restare anche domani. Dopodomani si vedrà. Non ho più ambizioni. Le soddisfazioni che potevo ottenere le ho già ottenute tutte”. Il rebus di quest’uomo non l’ha sciolto alcun ultrà e alcun calciatore. I cronisti a volte ci provano. I risultati li conoscete Non esageri. “Ho avuto offerte da Real Madrid e Barcellona e ho declinato l’invito”. Perché? “Avevo preso un impegno, dato la mia parola, promesso. Ha idea di quanto sia fondamentale riconoscersi?”. Ha rimpianti? “Neanche l’ombra. Per me è come esserci stato. Ho allenato le migliori squadre al mondo”. Soggetto, predicato, complemento. E’ un’essenzialità che non sai se è naturale o costruita. Qui c’è uno dei grandi misteri. Qui c’è la fede: lo zemaniano crede. L’antizemaniano no. Bisogna scegliere in fondo. Come con altri: come con Sacchi o