Scuola di Formazione all Impegno Sociale e Politico
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Scuola di Formazione all Impegno Sociale e Politico
Patriarcato di Venezia 6FXRODGL)RUPD]LRQHDOO ,PSHJQR6RFLDOHH3ROLWLFR 9LD 4XHULQL $ 0HVWUH 7HO )D[ )HGH&ULVWLDQDH$JLUH6RFLDOH%HQH&RPXQHH/LEHUWj 'L *LXVHSSH *RLVLV Don Fabio Longoni: Il tema di questo incontro è "Fede cristiana e agire sociale: bene comune e libertà"; tema molto ricco quello del bene comune e della libertà che si collega bene con il tema generale di quest’anno, i diritti dell’uomo. Il 10 dicembre 1948 è stata approvata la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e quest’anno, come scuola, abbiamo deciso di sviluppare questo tema cercando di coniugarlo con i primi undici articoli della nostra Costituzione, che parlano proprio di diritti dell’uomo, unitamente ad approfondimenti di attualità, senza dimenticare che per una scuola di questo tipo rimane fondamentale la conoscenza dell’insegnamento che la Chiesa fa riguardo queste tematiche. Con un po’ di libertà, ma anche con una certa continuità, presenteremo, durante l'anno, alcuni documenti (o parti di essi): oggi presentiamo è il discorso "una politica per il bene comune", concetto presentato nella Gaudium et Spes, un documento scritto durante il Concilio Vaticano II, nel cui titolo si ricorda la gioia, Gaudium, e la speranza, et spes, la gioia e la speranza. Al numero 26 c’è scritto:"il bene comune della società consiste… alla giusta libertà anche in materia religiosa"; al numero 74 si definisce bene comune quel fine per cui la comunità politica esiste, cioè essenzialmente quell’insieme di condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e nelle associazioni, il conseguimento pieno e rapido della loro perfezione; il bene comune è il fine della vita politica, il bene comune coincide con la salvaguardia e la promozione dei diritti umani. Il tema che trattiamo ha questa cornice e questa sostanza. Lascio la parola al professor Giuseppe Goisis, ordinario di Filosofia della Politica all’Università di Venezia. Giuseppe Goisis: Comincio con una breve premessa che potrei intitolare: "ridare dignità alla politica". Il primo punto riguarda il senso dei valori che sono presenti nell’azione politica, che vanno ancora di più messi in evidenza, posti in rilievo; il secondo punto, capovolgendo l’ordine proposto, è quello della libertà, perché per mio giudizio la libertà è la prima esperienza, in un certo senso, che l’uomo trova di fronte; poi, terzo punto, la scoperta del bene comune. Sintetizzerei il discorso in questi tre punti che sono anche quelli proposti nel titolo. Il primo punto è quello che ci permette di avvicinarci a questo problema: non so se qualcuno di voi ha potuto seguire l’introduzione che sabato ha fatto il Patriarca, secondo me in modo molto profondo, ma il suo discorso ci fa capire come la dimensione politica non sia un’altra cosa rispetto al Vangelo, non sia una dimensione differente, ma sia una dimensione, invece, particolarmente esigente ed elevata che fa parte degli imperativi fondamentali che il cristianesimo propone. Ho purtroppo l’impressione che noi si abbia sempre qualche guaio quando cerchiamo di vedere la politica come dovrebbe essere e quindi la sua luminosità, la sua importanza per l’uomo, e vediamo invece la politica come è attualmente; un po’ come quando si parla della famiglia, per come è veramente, con i suoi problemi, con le sue gioie ma anche con le sue nevrosi e talvolta anche con autentici drammi che la punteggiano, e poi sentir dire "ma la famiglia è quest’altro… come risulta dai documenti…": sono come due binari che scorrono paralleli e bisogna vedere dove e quando questi due binari si toccano veramente. I dati che la fondazione Corazzin, che ha un osservatorio sulla politica veneta e sui giovani in particolare, ci fornisce danno la sensazione che l’interesse per la politica sia ancora tutt’altro che al primo posto nelle aspettative e allora la prima domanda è questa: perché questa disaffezione così forte? Qual è il tipo di politica che viene rifiutata e per quali ragioni? Incontro prima di tutto un problema, che anche un corso di questo tipo potrebbe proporsi in diversi punti, soprattutto nei cantieri, seminari, forum, dove la dialettica è probabilmente coinvolgente: la prima difficoltà è quella del linguaggio. Il linguaggio della politica è sempre un linguaggio opaco, oscuro, a volte inutilmente esibizionista, ammiccante ad alcuni per i quali è significativo e invece piuttosto impenetrabile e respingente per altri. In altre parole l’impressione è che si tratti di qualcosa fatta per gli addetti ai lavori, comunque non per persone che vivono nella semplicità della vita quotidiana, del lavoro. Questo è molto pericoloso perché impedisce di raccordare la politica con ciò che potremmo dire i mondi vitali, le esperienze che ognuno fa in altri ambiti e che sono tanta parte della vita; l’idea quindi che questo linguaggio copra SFISP Venezia una qualche impostura convenzionale, e qui il nostro moralismo si scatena, perché in ognuno cova un poco di moralista, che il Vangelo ci ha denudato in modo meraviglioso: non vediamo le travi nei nostri occhi ma vediamo le pagliuzze negli occhi dei vicini, come se la politica non ci riguardasse, come se non fosse in raccordo con la vita che facciamo quotidianamente. Il nostro moralismo ci dice: "attenzione, la politica serve quei pochi che la fanno". Questa è l’accusa più cocente che sentiamo muovere sempre. Però non si può perdere completamente l’idea di un’altra politica: nel discorso del Patriarca, che invitava a questa coerenza radicale, coglievo proprio questa idea magnanima di politica; mi sono annotato questa espressione che mi pare veramente efficace, ‘martirio bianco’; il martirio non ha bisogno di essere quello dei Bachelet, dei Moro, dei Ruffilli, che hanno pagato con l’effusione del loro sangue; anche un amministratore, anche un politico nel suo piccolo, inchiodato a tante contraddizioni, a tante routine, mal compreso, dileggiato, vive effettivamente una condizione di testimonianza radicale, perché di questo si tratta. Se poi andiamo al mondo antico, al pensiero antico, ecco lì gli antichi avevano un’idea differente di politica, alta di politica; che cos’era la politica? La politica era quel governo della città che è indissociabile dalla conoscenza e dal governo di sé. Qui c’è una bella lezioncina che ognuno può per suo conto cogliere: il politico non è che sia uno che possa dimenticare completamente i propri limiti, le proprie contraddizioni, anzi dovrebbe conoscerle molto bene, avere familiarità con le proporzioni dell’azione politica, proprio per non fare, per dirla alla buona, il passo più lungo della propria gamba. Allora tanto più la politica è alienazione, fuggire da sé stessi, tanto più spesso è una politica alienata. Se invece la politica nasce da un rapporto armonioso, anche con ciò che ci sta vicino, tanto più è una politica che rischia, nel senso buono del termine, di essere significativa, ricca di umanità. Nella modernità poi c’è una vertiginosa metamorfosi; la politica non è più espressione di un ambito personale e familiare, almeno in alcuni filoni, non in tutti, ma con Machiavelli, con Hobbes, con Baudin – scusate la citazione di questi tre nomi che non è un vezzo erudito ma è un tener presente, in qualche modo, altrettanti punti di riferimento decisivi – diventa politica concentrata sul potere, sull’acquisizione dei poteri, sulla dilatazione dei poteri, sul loro allargamento, sul loro ampliamento. Nel Principe Machiavelli dice chiaramente che tre sono i fini della politica: conquistare il potere, allargare il potere, conservare il potere; qui questa dimensione del bene comune, che era così importante per Aristotele, per Platone che non aveva il concetto ma ci andava vicino, ciò che riguarda tutti, che riguarda la dimensione della comunanza, la coinonia, termini venerabili che in qualche modo nascondono il seme di tutto il pensiero politico, non è più così, perché, per dirla con Schmidt, politologo tra i più celebrati, l’idea è 2 che la politica sia scontro. Non uno scontro e un conflitto per raggiungere un’armonia di tipo superiore, come uno dicesse che le dissonanze nella hanno funzione per arrivare ad una consonanza, non un conflitto che miri ad una pace che sia piena per l’uomo, che gli consenta di lavorare serenamente, di guardare al futuro in un modo ampio, ma proprio scontro, radicale, senza possibilità di mediazione, dove chi è più forte tende a sopprimere chi è più debole; voi comprendete che una politica di questo tipo è vicina alla guerra. Un teorico della guerra ha scritto: "che cos’è la guerra? Non è altro che la politica proseguita con altri mezzi"; un politologo ha scritto: "che cos’è la politica? Non è altro, in tempi di pace, che la guerra proseguita con altri mezzi". Dunque il discorso è reversibile, ma è un discorso tremendo, lo comprendete bene, e si capisce anche perché la politica abbia così poca buona accoglienza perché se la politica è questa è più fatta per generali prussiani che per uomini e donne comuni che vanno a fare la spesa, che hanno problemi di allevare figli, di vita quotidiana: qui non c’è vita quotidiana ma emergenza in continuazione. Purtroppo sapete le cose che stanno avvenendo anche in questi giorni, pare che volgano per fortuna a situazioni di maggiore accordo, però fan capire che la guerra è sempre un’esperienza incombente. Un conto è però rallegrarsi di questo, un conto accettare questo come l’orizzonte del tutto fatale delle nostre azioni, al quale orizzonte rassegnarsi, e un conto è combattere con tutta la passione, con tutta l’energia intellettuale di cui siamo capaci questo tipo di orizzonte. Noi allora abbiamo a che fare con questi precedenti della politica, con questa dimensione, che si potrebbe dire con una parola, tragica, della politica; ecco perché tanti, pensiamo ad esempio nel mondo cattolico, dopo l’assassinio di Bachelet, dopo l’assassinio di Moro, dopo tante vicende, e anche dopo lo spettacolo di una corruzione che sembra uccidere gli spiriti e non solo i corpi, si sono ritirati, più o meno in punta di piedi, più o meno in buon ordine. Il problema è vedere se la politica può essere solo questo, o se ci sono delle piste per potere riorientare la politica stessa. Vorrei tralasciare le considerazioni particolarmente dolorose che quasi si compiacciono delle difficoltà, perché a volte siamo lucidi ma non abbiamo quel realismo che ci da il colpo d’ala, che ci da lo slancio all’azione; penso che si abbia bisogno di questo oggi, ho colto anche qui un’espressione nell’introduzione, un realismo si ma accompagnato dallo spirito, che sia capace di slancio; cerco allora di dire delle piste, cioè gli elementi che a me sembrano positivi per tornare a costruire una prospettiva, non illusoria, non fallace, di impegno nel sociale e nel politico. Qui penso possiamo scoprire subito questa risorsa della persona. Se vi dovessi dire, nel campo della cultura politica, quali sono i tre elementi che si scoprono caratterizzanti la nostra epoca rispetto quella di una generazione fa, poniamo di trent’anni fa, per indicare un termine cronologico alla buona, direi che sono prima di tutto l’elemento della minor fiducia nelle Fede Cristiana e Agire Sociale: Bene Comune e Libertà ideologie, soprattutto nel loro lato schematico, cioè nella loro pretesa di ingabbiare tutto, di tutto voler chiarire, di volere per così dire distinguere chiaramente, perentoriamente, gli amici dai nemici, i vicini dai lontani, coloro verso cui tenere un atteggiamento di apertura e coloro verso i quali essere indisponibili; poi la minor credibilità della utopia, senza confondere utopia con speranza, il lato buono dell’utopia coll’utopismo, direi che l’utopismo oggi è sconfitto, le persone provano una sete di realismo, vanno alla ricerca del concreto, di quello che si può in qualche modo toccar con mano, la capacità di entrare nel vivo delle questioni, ed anche questo punto ha rapporto con il tema della persona, persona che rifugge da schemi, è flessibile, è capace di riorientarsi continuamente (il personalismo è la filosofia più antiideologica che esista). Infine la terza concezione, che oggi sta diventando dominante, cioè la minor fiducia nel progresso automatico, nel progresso meccanico, ha a che fare con le risorse della persona; oggi a ben pochi si può darla a bere circa uno sviluppo fatale, automatico, dell’umanità, affidato magari alle sole forze della scienza e della tecnica, senza che non vi sia un impegno appassionato dell’uomo; proprio qui interviene la persona, perché la persona è questa capacità di risorsa, è questa riserva di impegno, di dedizione, di entusiasmo, possibile; abbiamo scoperto che anche il sistema economico non funziona senza la dedizione della persona. Cominciamo a chiarire anche un’idea di bene comune non semplicemente come un automatico aggregarsi di una somma di tanti beni individuali, neppure un bene collettivo che non sia l’impegno di ognuno; provate a lasciare in modo generico ad una qualche comunità più o meno vaga, oppure ad un qualche apparato, un bene, una serie di beni, delle risorse… vedrete quale impiego distruttivo viene fatto; c’è una specie di dimostrazione gigantesca che i sistemi economici dei paesi a conduzione dirigistica, di pianificazione burocratica, sono terminati in un fallimento che presenta diversi piani ma soprattutto, all’ultima radice, fallimento di una economia che non stava più a cuore a nessuno, nel senso che la persona non era più coinvolta. I latini avevano un’espressione per dir questo:"una certa res publica – che non è il vero bene comune – come res nullius", cioè qualcosa che è di una comunità anonima e proprio perché non è presa in cura da nessuno è cosa di nessuno, quindi viene lasciata andare alla malora, non viene coltivata. In altre parole, tutte e tre queste tendenze, che si manifestano direi in modo prepotente nei nostri anni più vicini, la minor fiducia nelle ideologie, soprattutto nelle ideologie sistematiche, la diffidenza verso ogni utopismo, ed infine l’idea che non un progresso cieco e automatico ci farà andare verso il meglio bensì un impegno profondo, un coinvolgimento delle persone e dei gruppi sociali, tutti e tre questi punti sono legati al ritorno in campo, proprio come un rilievo centrale, del tema della persona. Ecco direi che la linea cristiana, con pensatori come Monnier, come Berghief, come Stefanini – in Italia – ma anche in genere proprio la tradizione sociale della Chiesa, l’insegnamento sociale della Chiesa, sono in questa linea, perché sempre si è tenuti alla dimensione personale, non c’è un cambio automatico delle strutture che propizi una migliore società; l’idea che è presente nasce anche da un’esperienza profonda, da un’osservazione profonda: quando si sostituisce una classe dirigente con un’altra, un apparato con un altro, un ceto burocratico con un altro, certamente qualcosa di importante muta, ma se il nuovo ceto, la nuova persona, non ha un cambio profondo di metodi, di mentalità, di approcci, allora non c’è un cambiamento profondo, c’è piuttosto un cambiamento di superficie, un cambiamento apparente che viene rapidamente smentito, cambia tutto perché non cambi nulla, cambia apparentemente tutto ma la dinamica profonda dei fenomeni non è mutata. Quindi la prima possibilità per uno stile politico alternativo è data a mio giudizio proprio da un recupero pieno, quindi anche consapevole dal punto di vista teorico, di questa dimensione, di questa teoria – direi quasi – della persona. Il secondo punto è proprio la sfida formativa che concerne la politica; questo direi dovrebbe essere un tema molto caro a noi tutti qui, nel senso che si tratta di qualcosa che ha a che fare con noi: la politica va preparata, la politica va educata: è un paradosso, in ogni altro settore ci si prepara, è richiesta una certa dose di riflessione, di deontologia professionale, c’è specializzazione, a volte perfino eccessiva, nel senso che poi di fronte a fenomeni di riconversione ci si ritrova spiazzati, ma comunque non si accetta il dilettantismo. Spesso invece la cooptazione e il dilettantismo sono regole per quanto riguarda la politica; è vero che da molte parti si avverte un vuoto, si cerca di porvi rimedio, però sembra che questa formazione vesta per ora delle minoranze, gocce in un oceano, non riescono ancora a fare società, a fare costume, a cambiare le cose nella loro interezza. La formazione deve avere vari aspetti, far comprendere le capacità intrinseche di cooperazione dell’uomo, non riguardare, almeno come orizzonte generale, singoli temi, elementi di carattere erudito, che fanno si che una scuola di questo tipo sia esemplata su quella che è la scuola in generale, o le scuole in generale, ma qualcosa di più ampio, un orizzonte che fa maturare, che aiuta a sviluppare una certa vocazione, un certo interesse per la vita politica. Uso non a caso questo termine, vocazione; nelle nazioni che hanno conosciuto la riforma protestante questa idea è forse più definita, lo è meno forse da noi, ma la si sta riscoprendo; il politico non è un dilettante che sa un poco di tutto, che ha un’infarinatura di un poco di tutto e che si occupa della semplice gestione del potere; il dedicarsi alla cosa pubblica è una vera e propria vocazione che si esprime in un cammino di professione, in un’intensa professionalità. Capisco tutte le obiezioni che si possono fare all’idea di un politico professionale, l’idea che ne venga come una sorta di esperienza permanente, mentre un politico dovrebbe essere pronto anche alla rinuncia, anche all’abbandono, ma non intendo parlare 3 SFISP Venezia di una inamovibilità, intendo dire che per quei pochi anni, poniamo, in cui il politico si dedica, o l’amministratore, alla cosa pubblica, lì dev’esserci una precisa vocazione e non un atteggiamento dilettantistico, approssimativo, che tratta le cose all’ingrosso, ma la risposta veramente ad una dimensione più profonda che non può essere creata dal nulla, può essere semmai irrobustita; il terreno educativo non crea questa vocazione alla politica, semmai la corrobora, la rinvigorisce, da un quadro di motivazioni più profonde, quindi si lavora su un qualche cosa che a me sembra già esistente. Un primo tema può essere quello della libertà; ma come concepirla questa libertà? Abbiamo un modo un po’ schematico di concepire la libertà, pensiamo che la prima esperienza sia la scoperta di una libertà priva di confini; quest’idea di libertà è presente, ad esempio, in alcuni autori esistenzialisti, come Sartre, e entro questa libertà abissale si scopre anche l’impegno politico ma non come una progettualità ben definita ma quasi come un uscir fuori dalla propria pelle, quindi avvertire con nausea la propria esistenza e il cosiddetto salto nella politica come negazione della dimensione privata. Ho accennato prima come questa posizione sia matrice di scelte politiche non positive poichè non è dimenticando sé stessi ma conoscendo sé stessi e la realtà che ci circonda che si può fare una buona iniziazione alla vita politica. L’idea di libertà più autentica, più profonda, è l’idea di una libertà che si scopre originariamente pervasa di responsabilità; nell’atto stesso che noi scopriamo di essere liberi, proviamo una sete profonda di dedicare la nostra libertà a qualche causa, a qualche iniziativa che ci riempie. I filosofi che più profondamente hanno pensato la libertà hanno visto la responsabilità non come un secondo momento ma come un’immediata scoperta nel senso che la responsabilità sarebbe consustanziale, per dir così, alla libertà. La mia libertà si scopre non come un cono d’ombra, come una zona vuota, ma proprio come un qualche cosa che deve essere orientato, finalizzato, ad una dimensione di dedicazione, di impegno, di dono, proprio perché questa libertà non sia una libertà vuota di significato ma quella libertà che fa porre la domanda "per fare che cosa?", quella libertà che diventa un vuoto pesante che poi si riempie anche di scelte spesso contro l’umano, contro sé stessi o contro gli altri. L’idea di una libertà che sia straordinariamente pregna di responsabilità. Posso voltare le spalle a questo impegno, posso dire di no, posso infischiarmene, posso sbattere la porta, posso turarmi gli orecchi, ma ciò non può far si che questo appello che mi proviene dall’altro non ci sia. Paul Ricker, forse uno dei più profondi filosofi morali viventi, ha scritto delle pagine straordinarie, afferma che c’è un punto in cui l’etica comprende, in un certo senso, la politica, e ciò avviene quando mi pongo il problema della giustizia; l’altra persona che all’inizio tratto, essendo egocentrico, come meno influente rispetto a me, come remota rispetto a me, continua a battere alle porte della mia coscienza, e posso far benissimo a meno di rispondere, posso 4 chiudere le mie orecchie, posso far finta di non sentire, però non posso annullare questo appello, qualcosa di questo appello mi raggiunge. Cosa vuol spiegarci Ricker? Che la libertà è originariamente pregna di responsabilità; questo è un punto che forse non abbiamo sempre presente in modo straordinario perché la nostra società è molto malata di individualismo nel senso deteriore del termine. Padre Calvèert, non so se qualcuno l’ha sentito nominare, un gesuita oggi anziano che ha scritto molte cose interessanti, ha dedicato sulla situazione della libertà un bell’articolo in questa rivista – la Società – proprio nell’ultimo anno, nel ’98, e si intitola "Il terzo millennio, la Chiesa e la libertà"; la conclusione è questa, che la libertà che sembrava in un qualche modo nel corso dell’800 nemica, per molti versi, rispetto alle posizioni almeno ufficiali della Chiesa cattolica, in realtà vista bene, nelle sue cause più profonde oggi, non ha sostegno maggiore; questo non è uno sfizio apologetico, è la verità, della Chiesa stessa; Chiesa che ha scoperto per altri versi proprio essere la causa delle libertà autentiche, delle libertà responsabili, la stessa cosa, in un certo senso, del Vangelo, cioè che il Vangelo è libertà, mentre nell’800 sembrava piuttosto un’alternativa, il Vangelo o libertà; a volte sono i liberali, che nell’800 sembravano i paladini delle libertà, a rivendicare certi privilegi; molti uomini di Chiesa si chiedono perché non porre gli uomini con le medesime opportunità almeno come punto di partenza lasciando pure che nel lavoro e nel mercato avvenga anche un certo discernimento all’interno di queste dinamiche; ma oggi, all’interno del mercato, si va in una condizione di eguaglianza, o non è piuttosto la nascita, il possesso di certi beni economici molto spesso a determinare la fortuna o la sfortuna in campo economico? Un atteggiamento ciecamente antiinterventista, che non vuole che si faccia nulla in materia economica per correggere certi squilibri essenziali, non solo impoverisce la politica, perché dà alla politica un raggio estremamente ridotto e ristretto, ma soprattutto poggia su un equivoco teorico, che adesso brevemente accenno, ed è l’idea della naturalità del mercato, presente per esempio in Von Hayek, considerato oggi il paladino del cosiddetto anticostruttivismo in materia economica e sociale; c’è un equivoco di fondo, perché se si intende dire che il mercato si svolge lungo un corso storico lungo e complesso, pensate al primo capitalismo, alla prima rivoluzione industriale, quanto ormai sono lontane da noi, che in questo sviluppo c’è un’interazione fra i diversi fattori, tra cui il fattore umano, che questo gioco non deve essere manipolato e occultato e forzato dall’alto, allora in questo senso si che c’è una naturalità, nel senso che questa interazione è avvenuta a lungo senza l’intervento di fattori esterni alle dinamiche del mercato stesso; l’equivoco è tutto in questo aggettivo, naturale, perché il significato in cui io l’ho usato ora è "eguale a spontaneo", invece naturale come viene usato da Hayek spesso è sinonimo di evento della storia naturale, un po’ come la neve, la Fede Cristiana e Agire Sociale: Bene Comune e Libertà grandine, la pioggia, cioè un fenomeno al quale l’uomo non può porre rimedio neppure nelle condizioni più angosciose. Su questo elemento di naturalità c’è da fare una riflessione, non solo dal punto di vista cristiano, ma in un’ottica sacrale dell’uomo. Una piccola parentesi: spesso si parla di fede e politica mettendo fede eguale cristianesimo; oggi si comincia a vedere come la problematica sia frastagliata, c’è un problema di rapporto islamismo e politica, ebraismo e politica, buddismo e politica. Vi segnalo un libretto che è uscito da poco che si intitola "Angeli a Montecitorio", un titolo da fiction televisiva, in realtà contiene documenti su tutte le diverse religioni e la politica, non solo in una prospettiva ecumenica, ma addirittura inter religiosa. Per quanto riguarda la libertà io direi così, sintetizzando: la libertà è entrata a pieno titolo nel cristianesimo, il problema è che ci sono modi arbitrari, capricciosi, prepotenti di concepire la libertà, che falsano lo stesso ideale di libertà; quando dico libertà, ma intendo la mia volontà di potenza, la mia capacità di prendere a calci sugli stinchi o a zittire i miei interlocutori, non dovrei chiamarla libertà, dovrei avere l’onestà di chiamarla volontà di potenza. Può essere un problema serio, intendiamoci bene, una cosa con cui l’uomo deve fare i conti, perché non è facile svellere dalle radici queste componenti. Un grande studioso di politica francese, Alain Besançon, forse il più noto in Francia, il più interpellato, afferma che il ‘900 non è l’epoca dei nuovi mali, ma è l’epoca – molto più sottilmente – della falsificazione del bene; i totalitarismi sono insidiosi perché hanno detto che il loro obiettivo è il bene assoluto, e questo bene è stato deformato, si è presentata alla gente un’idea manipolata di bene, questo è il punto radicale della questione. Per quanto riguarda le buone libertà, direi che già Maritain lo affermava in una splendida pagina del ’66, veramente è sempre più presente ai cristiani quest’idea che la libertà, nel senso più profondo, genuino, sia la garanzia più forte della ricerca libera della verità; in questo modo si esulta al pensiero che la giusta idea di libertà, libertà a cui l’uomo aspira dal più profondo del suo essere, sia una delle caratteristiche dello spirito ormai riconosciuta e messa in onore tra le grandi idee direttrici della sapienza cristiana; già nello stesso libro Maritain era costretto a mettere in guardia rispetto ai fraintendimenti della libertà, una libertà che non è niente facile per l’uomo riuscire a gestire in modo di dedica. Per quanto riguarda il tema del bene comune questi sono i passaggi: mi scopro come libero, ma questa libertà è pervasa di responsabilità; sento che ho bisogno di dedicare questa libertà- responsabilità ad una causa che vada anche oltre al breve giro dell’esistenza terrena che ha un certo numero di anni per intraprendere qualcosa di discreto però non permette visioni di lunghissimo periodo, quindi bisogno di andare oltre gli impegni proprio nella quotidianità più immediata; attraverso questo scopro anche il bisogno di un rapporto che non sia puramente un rapporto mercantile. I rapporti di scambio hanno grosso modo questi tre modelli: un rapporto di scambio dare- avere in cui ci sia un attento computo del dare e dell’avere, il modello cosiddetto del mercato che certo è il modello dominante ma non esclusivo nell’attività economica; il secondo modello è quello della reciprocità, dove il discorso è molto più sfumato e ci può essere una forma anche legata a possibili benefici materiali, a possibili benefici futuri: per esempio molte persone che si dedicano al volontariato dicono "faccio questo non per trarne un utile, non ho un profitto, però desidero lasciare il contesto in cui mi trovo, il mio gruppo, la mia esperienza, un poco migliorati, un poco risanati rispetto a come io li ho trovati". Infine c’è il rapporto di dono vero e proprio, quindi un altro modello, che è il modello più forte, il modello legato a quelle beatitudini di cui parlava il Patriarca avvertendoci però che abbiamo il compito difficile di una mediazione, spiegando molto bene che non si tratta di stemperare le esigenze del radicalismo evangelico ma di vederne le compatibilità cioè di leggere profondamente una determinata situazione. Non si tratta di mettere in mora o di stralciare – ha usato questa espressione forte – il Vangelo, nessuno può mettere in mora il Vangelo e le sue esigenze, quanto piuttosto di vedere realisticamente, soprattutto nel quadro legislativo ed amministrativo, quanto di queste esigenze così brucianti può essere in qualche modo realizzato. Proprio l’imperativo dell’ amari nemici è il punto in cui l’etica tradizionale balbetta, trema, cioè ci arriva l’etica rivelata, il Vangelo lo dice in modo chiaro, ma arrivarci col puro strumento della ragione… si può arrivare a non far male al proprio nemico, nel senso che si può fare un ragionamento perfino di tipo utilitaristico, per il quale se faccio male al mio nemico ne riceverò male e dunque posso fermarmi a questa soglia, ma ciascuno di noi, se medita, comprende che l’amare il proprio nemico implica qualcosa di molto più radicale. Mi pare bellissimo non nascondere la radicalità, e proporre incessantemente tuttavia una mediazione che, ripeto, riguarda piuttosto il contesto giuridico- politico che sé stessi, perché in realtà queste beatitudini a cui siamo chiamati, con difficoltà, con dramma a volte, non riusciamo neanche a viverle. Il bene comune oggi conosce una doppia crisi, di carattere teorico, ben spiegata nelle colonne del dizionario di politica Campanini - Berti, e anche pratica, nel senso che c’è qualcosa nel nostro modo di vivere comune, e perfino nella nostra Italia, che è particolarmente ostico al discorso del bene comune. Tralascio un momento l’elemento teorico, che forse è più complicato da esprimere, e mi fisso brevemente su quello pratico, facendo riferimento a questo testo "Identità nazionale, democrazia e bene comune", documento preparatorio della 42° settimana sociale, edito dalle Edizioni Paoline, perché vi ho trovato una notazione che mi sembra particolarmente interessante; si parla di un certo venir meno della solidarietà sul bene comune, cioè la disponibilità dei vari soggetti sociali ad accettare le regole della convivenza, e principalmente la regola fondamentale: fare certi 5 SFISP Venezia sacrifici – anche sforzi – per dare senso alla cittadinanza comune; in sostanza se si nega di avere in comune, come società, valori e interessi di base; se non ci si riconosce più, o non in modo adeguato, in questi referenti, la solidarietà sul bene comune si inaridisce, viene cioè meno sia nella sua componente naturale di vincolo, che dovrebbe unire nella storia e nella vita, sia in quella di vincolo voluto, cercato, per conseguire obiettivi di interesse comune, in base a regole e procedure che sono assunte, accettate e praticate non per costrizione ma per libera scelta. In sostanza, che cosa accade? La solidarietà diventa orizzontale, diventa solidarietà tra gruppi di potere, consorterie, oligarchie, mafie, e non è affatto una virtù, ha il nome della virtù, la solidarietà, ma non è la solidarietà più profonda, non è la solidarietà a tutto campo, anzi, è una solidarietà per chi sta dentro ed è uno spirito di esclusione verso chi sta fuori; questo è il pericolo grandissimo che mi pare si vada a denunciare, cioè questa tendenza al venir meno. Questo è anche affermato dai politologi; non so qualcuno ha visto questo "Fede, libertà e intelligenza", vi sono un paio di interventi, è il forum del famoso progetto culturale, dove alcuni, per esempio Paolo Pecorari, fanno questa osservazione: anche il maggioritario, che sembrava in sede politica una specie di bacchetta magica, di panacea per risolvere tanti problemi della nostra società politica, ha bisogno di un consenso minimo ma essenziale su alcuni valori di cittadinanza totalitari; per accettare facilmente di scivolare in minoranza, lasciare il gioco alla maggioranza che sopravviene, senza mugugni, senza diatribe, senza traumi, senza gridare alla fine del mondo o alla morte della repubblica, occorre un’abitudine ad una cittadinanza di bene comune, cioè non l’idea che la mia parte detenga il monopolio della verità e della giustizia, ma che sia possibile proseguire e lasciare il campo senza che questa appaia una ferita irrimediabile. Occorre un sistema di garanzie perché, diceva Gandhi, si vede la qualità di una democrazia non dal modo in cui è trattata la maggioranza ma dal modo in cui è trattata la minoranza. Leepart ed altri studiosi di politica sostengono che il consociativismo ha una ragione di fondo ma non è una ragione consolante; le società politiche che hanno il consociativismo lo hanno non per caso ma perché esiste, o è esistita al loro interno, una frattura ideologica, etnica, talmente profonda che senza questa ammissione strisciante della minoranza al potere in realtà la comunità politica si sarebbe rotta. Esempio tipico è il Belgio, classificato, almeno per il passato, tra i regimi a forte tasso di consociativismo, e la ferita è costituita dalla lotta a morte tra le due comunità, Valloni e Fiamminghi, ciascuna delle quali, ogni sei mesi, grida almeno di volersi riprendere la propria libertà. La cosa poi non riesce perché ci sono degli elementi di contrappeso, di riequilibrio; in Italia è esistito qualcosa di simile, il problema della lotta a morte tra – soprattutto nel periodo della guerra fredda – comunisti e anti comunisti, ce n’era abbastanza per avere interpretazioni 6 diverse sulle basi stesse del vivere insieme. Dunque il bene comune può voler dire anche la costruzione di una cultura e di una vitalità in cui l’altro non sia colui che viene a incrinare la sicurezza stessa della vita politica, in cui non l’ammissione dell’altro al potere sia il criterio – consociativismo – ma il dialogo continuo, il confronto continuo, quindi un clima, faccio un esempio tra i tanti che però tocca la coscienza cristiana in modo profondo, in cui l’insulto, la delazione, la denigrazione non siano le armi della politica quotidiana, come sono oggi. Credo che oggi il nome più profondo di bene comune da ricostruire, da ritessere contro i mali antichi dell’Italia sia proprio questo recupero di una solidarietà non intesa in modo retorico (oggi la solidarietà ha una cattiva fama proprio perché si è abusato di lei) ma nel modo profondo, quindi un tema centrale, il tema del ripensamento dello stato sociale, campo molto delicato; lo stato sociale ha rivelato crepe di inefficienza e di inefficacia, nel senso che raramente i servizi sono giunti a molte persone, a molti gruppi, con calibratura, col senso di equità che uno stato sociale ben funzionante avrebbe richiesto; inefficienza invece nel senso dello spreco, a volte, di alcune risorse, nell’allocazione delle risorse, soprattutto per quelle erogate “a pioggia”. Però vi invito a ripensare quella che era l’idea chiave di lord Everidge e di altri, che non erano certo dei pericolosi bolscevichi, che avevano pensato lo stato sociale con l'idea che le risorse dalla periferia potessero, in parte almeno, affluire ad un centro che fosse in grado, in modo rigoroso, in modo equo, il più possibile efficace, di ridistribuirle soprattutto a vantaggio delle situazioni di intollerabilità, il cui livello esistenziale era un livello di dolore profondo, di sofferenza profonda. Notate anche le ragioni per cui lo facevano, dice lord Everidge, che non ci sarà mai collaborazione sociale accettabile e dunque sviluppo pieno, uno sviluppo che faccia società, non quello sviluppo che è effimero, se la forbice tra i ricchi e i poveri, tra coloro che non hanno e coloro che hanno moltissimo, si divaricherà sempre di più, perché questo prepara in realtà conflitti insanabili e dunque una situazione in cui alla lunga uno sviluppo non fa società. In conclusione l'idea, che è presente anche in questo documento che don Fabio ha presentato sabato – "Le comunità cristiane educano al sociale e al politico" – è di riscoprire la vera solidarietà. La vera solidarietà non è solo una necessità di costrizione, ma è anche una categoria morale; possiamo vivere in una situazione di condominio, scontrarci, alla lettera, con i vicini in ogni momento, però non sentire per loro una briciola di vera solidarietà, perché magari desideriamo scappare in fretta, perché non ci sono simpatici, perché non abbiamo mai fatto lo sforzo di capire che noi probabilmente siamo meno simpatici a loro che loro a noi; secondo: non è una scelta effimera – la solidarietà – ma va tradotta in una capacità di stabilire dei vincoli; noi spesso siamo sciolti da tutti i vincoli, salvo poi non trovarci tanto bene in questo librarci nel vuoto, in tutto quello che succede, anche di tragico, intorno a noi e ci Fede Cristiana e Agire Sociale: Bene Comune e Libertà dimostra che non si sta poi così bene; invece la responsabilità ci induce ad assumere vincoli molto precisi, la solidarietà è il risvolto socio- politico di quella che è la virtù più profonda che il Vangelo induce in noi, e cioè la carità, un’espressione, quasi, di carità, in movimento. Ultimo punto: in un momento in cui lampi venti di guerra ci toccano da vicino, anche se qualche notizia ci induce a pensare a qualche soluzione armistiziale, sapete che i balcani, cui siamo vicini, è come un vulcano che aspetta di risvegliarsi in ogni momento, la solidarietà produce come effetto la pace; quindi un’attenzione continua al bene comune che è difficile per il politico cristiano, perché ognuno è guidato, è eletto, è sorretto, da lobbies di ogni tipo, di carattere sociale, non soltanto di lobbies di privilegiati, che ha bisogno veramente di pregare per questo, non perdendo poi di vista che rappresenta non solo la parte che lo sospinge, per così dire, ma tutti, e questa è la cosa che il Vangelo ci mette di singolare, una provocazione, in senso buono, di quelli che hanno meno voce, di quelli che non hanno mani per scrivere, di quelli che non hanno occhi e soprattutto non hanno voce per far sentire le proprie esigenze, che gridano con rabbia in modo che può sembrare maleducato rispetto certe buone maniere ma è bruciantemente sincero. Credo quindi che il politico abbia questo carico, ma non è volontarismo il suo, perché se è sorretto dalla chiarezza di questa prospettiva, direi una libertà che si scopre responsabilità, un cammino di formazione che purtroppo non raggiunge ancora tanti, però che non è neppure un’isola felice, dalla capacità di curare un bene almeno come apertura, almeno come intenzione, che sia di tutti i cittadini e dunque fare questo non attraverso solo la buona volontà ma una mediazione culturale, credo sia la parola chiave e il lavoro difficile a cui ci si invita, che non vuol dire stemperare ma avere questa capacità di analisi comparata dei fenomeni del proprio tempo. Comparata perché se pensate ad una città composita, ai vari aspetti che bisogna tenere presenti, a tutte le voci, il problema non è banalmente di non scontentare, ma di avere un progetto in avanti che promuova secondo modalità differenti queste varie componenti. Sapete qual è stato il grande errore delle classi liberali? Che hanno voluto un modello uguale per tutta l’Italia; Sturzo aveva capito benissimo questo: occorrevano per le varie parti d’Italia differenti linee di sviluppo che tenessero conto delle realtà economiche locali, delle risorse, delle energie, delle infrastrutture, delle tradizioni culturali. Questa ansia di omogeneità, lo Stato che vuol fare tutto, ha portato al tentativo di industrializzare a tappe forzate il sud, dove era possibile forse anche uno sviluppo diverso: questa, se permettete, è anche la grande verità del vero federalismo, il quale non vuole omogeneizzare tutto ma vuole in qualche modo articolare tenendo presente il bene comune, ma articolare dando voce a tutte le risorse, a tutte le tradizioni locali. 7