Agnès VARDA

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Agnès VARDA
Agnès VARDA
L’avventurosa
AGNES VARDA
BIOFILMOGRAPHIE .
BIBLIOGRAFIA
SITI WEB
LA POINTE COURTE - FRANCIA - 1954
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6
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7
CLEO DE 5 A 7 - FRANCIA - 1961
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LE BONHEUR - FRANCIA - 1964
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L’UNE CHANTE L’AUTRE PAS - FRANCIA - 1976
15
SANS TOIT NI LOI – FRANCIA - 1985
17
JACQUOT DE NANTES - FRANCIA - 1991
19
LES GLANEURS ET LA GLANEUSE - FRANCE – 1999/2000
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CINEVARDAPHOTO : YDESSA, LES OURS ET ETC... - 2004
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ULYSSE - 1982
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SALUT LES CUBAINS ! – 1963
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AGNES VARDA
L’Associazione “L’occhio delle donne” propone quest’anno, sempre in collaborazione con i
Cineclub Ticinesi e per la prima volta con il Cinema Lux di Massagno, una rassegna dedicata alla
filmografia della regista francese Agnès Varda. Dalla sua vasta opera abbiamo selezionato otto
film, basandoci su un criterio cronologico e qualitativo, al fine di rappresentare in modo esaustivo
la sua carriera di regista.
Agnès Varda è definita la pioniera della Nouvelle Vague ed è considerata una protagonista
importante nella storia del cinema.
Approda al cinema dietro la spinta di una pulsione creativa e grazie alle sue conoscenze.
La sua formazione come fotografa influenza il suo stile cinematografico. Come lei stessa afferma :
“ciò che rappresenta la fotografia è essenziale nella mia vita: mi riferisco a quel che avviene in una
fotografia, al fatto che con un’immagine piatta, a due dimensioni, si è afferrato qualcosa che era
fermo, oppure una persona. Il cinema mi affascina non perché, come dicono alcuni, è l’esatto
contrario della fotografia. E’ qualcosa di altrettanto interessante, che ha a che fare con l’immobilità
della fotografia. L’immobilità, il piano fisso e il silenzio sono tutte componenti del cinema e tutto
questo è molto coinvolgente”. 1
Il suo percorso come fotografa e cineasta la porta a sviluppare un suo concetto personale: la
cinécriture, intendendo con questo lo scrivere direttamente per il cinema, avendo già in mente i
movimenti della cinepresa e la posa degli attori. Il gioco consiste nell’inventare una forma che è già
il film: non un libro adattato né un teatro filmato. E’ necessario cercare di trovare una scrittura
diretta, dal carattere specificamente cinematografico.
Abbiamo scelto Agnès Varda anche per il suo modo di essere donna, che traspare chiaramente
dal suo originale percorso artistico.
“E’ difficile trovare la propria identità femminile nella società, nella vita privata, nei rapporti con il
proprio corpo. Questa ricerca di identità ha un senso per una cineasta: significa anche girare in
quanto donna”.2
Nata a Bruxelles il 30 maggio 1928 da padre greco e madre francese, Agnès Varda è cresciuta a
Sète (Hérault). Prima di cimentarsi come regista, è stata fotografa al Théâtre National Populaire
(TNP), all’epoca di Jean Vilar.
Nel 1954 gira La Pointe Courte. Come lei stessa ricorda non possedeva una “carte professionelle”.
Per ogni film necessitava di una deroga del Centre national de la cinématographie (CNC) Questa
“carte professionelle” l’ha ottenuta solo dieci anni più tardi, dopo aver girato tre lungometraggi e tre
cortometraggi. E’ la regista numero 2197. Se ci fossero stati dei numeri separati per gli uomini e
per le donne, avrebbe certamente avuto un numero della prima decina. Fu pioniera senza averlo
voluto, semplicemente seguendo la scia dei suoi desideri.
Tra il 1962 e il 1977 realizza diversi cortometraggi e cinque lungometraggi: tutti ritraggono dei
momenti di vita e hanno in comune l’attenzione alle persone, come pure una certa disinvoltura
nella narrazione. E` con il film Cléo de 5 à 7 che Agnès Varda otterrà il suo primo successo e il
Premio Méliès.
Agnès Varda filma senza ambagi, in modo diretto, perché non c’è nulla di più fecondo che partire
dalla realtà, anche la più elementare, per tessere un’opera con i fili del proprio immaginario. La
realtà è inesauribile e, fortunatamente, nessuno sa cosa sia veramente. Agnès Varda non
pretende altro, se non qualcosa che manifesti una soggettività ludica. Qualsiasi occasione può
diventare pretesto per il soggetto di un film. Spesso la realtà filmata è già dell’ordine della
rappresentazione, dell’immaginario, sul quale l’artista innesta una regia, un discorso, felice
mescolanza di sapere, di fantasia verbale e di considerazioni personali.
Invitata a Cuba per un festival di cinema, ad esempio, Agnès Varda riporta dal suo viaggio 4000
fotografie. Ne seleziona 1500, che monterà per sei mesi, subito dopo il suo rientro a Parigi: sarà
Salut les cubains! (1963); oppure, preparando un’esposizione fotografica, si rende conto di aver
conservato per anni, sulla porta interna di un armadio, una foto che ritraeva, su una spiaggia, un
uomo ed un bambino con, in primo piano, una capra morta. Ulysse (1982) é nato da questa voglia
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imprecisata di esplorare le fluttuazioni della memoria a partire da questa fotografia scattata il 9
maggio 1954. Quando inizia le riprese del film, lei non sa dove la condurranno. Ora, partendo da
questa semplice fotografia, c’è tutto un mondo che riemerge, non solo i ricordi personali della
regista o quelli dei modelli ritrovati trent’anni dopo, ma un’epoca, il TNP, il quartiere della Rue
Daguerre, gli emigrati spagnoli…
Nel 1985 ritrova il successo grazie a Sans toit ni loi, che vince il Leone d’Oro al Festival di
Venezia.
I migliori momenti del cinema di Varda non hanno nulla a che vedere con un cinema programmato.
Le bellezze, i sensi suggeriti, i saperi distillati nascono nel corso del film, durante la sua
realizzazione. Passano innanzitutto attraverso la capacità di registrazione di una vecchia
macchina: la cinepresa. Quella di Varda ama lasciarsi sorprendere da ciò che la regista ha
piazzato davanti al suo obiettivo. L’incontro - ogni piano di cinema dovrebbe portarne la traccia - si
svolge davanti ai nostri occhi. Può essere provocato, sperato, talvolta mancato, ma mai scritto in
precedenza. Varda parla di cinécriture, intendendo l’insieme delle scelte e delle intuizioni - prima e
durante le riprese sino alla fine del montaggio - che definiscono la scrittura del film, il suo stile.
Jaquot de Nantes (1990) è un omaggio pudico e lacerante a Jacques Demy, suo compagno dal
1962 e scomparso durante le riprese di questo film.
Nel 2000 realizza Les glaneurs et la glaneuse opera che coniuga fiction e documentario. Sensibile
alle realtà sociali e politiche, ma anche ai dettagli della quotidianità, cerca di raccontare la densità
della vita, con la sua tristezza, il suo dolore, le sue gioie e le sue contraddizioni. Ottima sintesi
della continuità artistica della regista, dall’esordio come fotografa alla successiva carriera di
cineasta. Cinevardaphoto (2004) indaga sui nessi esistenti tra le due attività. Il ruolo dell’immagine,
l’apertura di significato che le è propria l’hanno sempre fatta riflettere: “La cosa più affascinante,
con le immagini, è che la gente non dice mai quello che ti aspetti, ognuno ha la propria visione. Poi
il contributo dell’osservatore scorre via, come un’onda, e resta solo la foto, con il suo mistero. E’
proprio questo rapporto con l’immagine che amo nella fotografia; un rapporto che il cinema riesce
a registrare. Una trappola per pensieri e sentimenti”.3
1
Agnès Varda, in: Sara Cortellazzo e Michele Marangi, Agnès Varda, Edizioni di Torino, Torino,
1990, p. 82.
2
Agnès Varda, in: Sara Cortellazzo e Michele Marangi, Agnès Varda, Edizioni di Torino, Torino,
1990, p. 85.
3
Agnès Varda in: (http://2004.pardo.ch/pardo/film)
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BIOFILMOGRAPHIE .
Naissance (1928) et petite enfance en Belgique. Adolescence à Sète puis à Paris. Bacs. Ecole du
Louvre. Un peu de fac. Cours du soir à l’Ecole de Vaugirard.
Photographe des débuts de Jean Vilar en Avignon, puis de la troupe du T.N.P., dont Gérard
Philipe, au Palais des Papes puis au Palais de Chaillot. Grands reportages en Espagne, en Chine,
à Cuba, etc... Exposition personnelle en 1954 dans une cour.
Passage au cinéma en 1954 sans aucune formation ni assistanat .LA POINTE COURTE, film
précoce d’un cinéma rajeuni, lui vaut le titre de “Grand-mère de la Nouvelle Vague”. Elle rejoint la
vague quand elle déferle en France (59-67). Ensuite navigue de son côté.
Courts Métrages :
Ô SAISONS Ô CHÂTEAUX (1957) - L’OPÉRA-MOUFFE (1958) - DU CÔTÉ DE LA CÔTE (1958) SALUT LES CUBAINS (1963), Colombe d’Argent au Festival de Leipzig 1964 - LES ENFANTS DU
MUSEE (1964) - ELSA LA ROSE (1965) – UNCLE YANCO (1967) - BLACK PANTHERS (1968),
1er Prix au Festival d’Oberhausen 1970 - RÉPONSE DE FEMMES (1975) - PLAISIR D’AMOUR
EN IRAN (1976) - ULYSSE (1982), César 1984 - UNE MINUTE POUR UNE IMAGE (1982) - LES
DITES CARIATIDES (1984) - 7 P., CUIS., S. DE B. (1984) - T’AS DE BEAUX ESCALIERS, TU
SAIS... (1986) - LE LION VOLATIL (2003) – YDESSA, LES OURS et ETC… (42’ - 2004 ) 1er
volet de CINEVARDAPHOTO (I YDESSA ; II ULYSSE ; III SALUT LES CUBAINS – 2004)
Longs Métrages :
1954
1961
1964
1966
1969
1970
1975
1976
1980
1981
1985
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1987
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1994
2000
2002
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: LA POINTE COURTE Prix de l'Age d'Or Bruxelles (1955)
: CLEO DE 5 A 7 Prix Méliès (1962)
: LE BONHEUR Ours d’Argent au Festival de Berlin, Prix Louis Delluc,
David Selznick Award (1965)
: LES CREATURES
: LIONS LOVE (...AND LIES) (en anglais)
: NAUSICAA Disparu
: DAGUERREOTYPES (documentaire)
Prix du Cinéma d'Art et Essai (1975), Sélection Oscars catégorie Documentaire (
: L’UNE CHANTE L’AUTRE PAS Grand Prix Festival de Taormina (1977)
: MUR MURS (documentaire) Grand Prix Festival dei Populi Florence (1981)
Prix Josef von Sternberg Mannheim (1981)
: DOCUMENTEUR Prix du Public au festival du Film de Femmes de Bruxelles (1982)
: SANS TOIT NI LOI Lion d’Or au Festival de Venise (1985 ), Prix Méliès (1985)
: JANE B. PAR AGNES V.
: KUNG-FU-MASTER
: JACQUOT DE NANTES Sélection française, hors compétition, Fest. de Cannes
: LES DEMOISELLES ONT EU 25 ANS (documentaire)
Plaque d’Or Festival de Chicago (1993)
: L’UNIVERS DE JACQUES DEMY (documentaire)
: LES CENT ET UNE NUITS Sélection française au Festival de Berlin (1995)
: LES GLANEURS ET LA GLANEUSE (documentaire)
Sélection française (hors compétition) Festival de Cannes 2000. Prix Méliès et
Meilleur Documentaire Européen 2000 Autres prix.
: DEUX ANS APRES (documentaire)
Création en 1954 de la Société CINE-TAMARIS pour produire, en coopérative, LA POINTE COURTE.
Reprise des opérations en 1975, et depuis... la plupart des films d’Agnès sont produits à la maison,
y compris les films tournés à Los Angeles, où la famille a séjourné et travaillé de 1968 à 70 et de
1979 à 81. Agnès habite la même maison rue Daguerre à Paris depuis 1951,. Avec Jacques
DEMYdepuis 1958. Sans lui depuis octobre 1990. Deux enfants : Rosalie et Mathieu. Des chats.
Des plantes.
Le bureau de production est la porte voisine et de l’autre côté de la rue, une salle de montage, fait
aussi « boutik-DVD » depuis 2 002.
Un livre VARDA par AGNÈS Editions des Cahiers du Cinéma 1994
Une installation vidéo (3 écrans) PATATUTOPIA à la Biennale de Venise 2003
Sera exposée à Munich (Haus der Kunst) en octobre 2004 et à la Biennale d’Art de Taïpei
d’octobre 2004 à janvier 2005.
BIBLIOGRAFIA
-
André Bazin, Le Parisien libéré, 7 gennaio 1956
Sara Cortellazzo e Michele Marangi, Agnès Varda, Edizioni di Torino, Torino, 1990
Paolo Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film 2000, Baldini & Castoldi, Milano,
1999.)
Laura, Luisa e Morando Morandini, il Morandini, Dizionario dei film 2002, Zanichelli
editore, Bologna, 2001
Umberto Mosca, Cineforum n°316, 7.8.1992
René Prédal, Sans toit ni loi d’après Agnès Varda, Editions Atlande, Neuilly, 2003
Agnès Varda, Varda par Agnès, Cahiers du Cinéma, Paris, 1994
SITI WEB
-
(http://2004.pardo.ch/pardo/film)
-
www.festival-larochelle.org/fr/categorie.asp?id=68
www.humanite.presse-fr/journal/20004-04-07/20004-04-07-391494
www.chez.com/demy/54Pointe.htm
www.dickinson.edu/departments/frnch/varda.html
www.cinematografo.it/bdcm/bancadati-scheda.asp?sch=11540
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La Pointe Courte - Francia - 1954
Regia: Agnès Varda; Sceneggiatura: Agnès Varda; Fotografia: Louis Stein; Montaggio: Alain
Resnais; Musica: Pierre Barbaud; Interpreti: Philippe Noiret, Silvia Monfort, gli abitanti di La Pointe
Courte; Produzione e Distribuzione: Ciné - Tamaris
35 mm, b/n, v.o., 90`
La storia che Agnès Varda ci narra è la più semplice del mondo, ed è una storia d’amore. Un uomo
e una donna sono sul punto di separarsi dopo 4 anni di vita in comune. L’uomo trascorre le
vacanze nel suo villaggio natale, un borgo di pescatori vicino a Sète chiamato Pointe Courte. La
donna lo raggiunge prima della probabile separazione definitiva. Insieme fanno delle passeggiate,
ricordano il passato, confrontano i loro sentimenti alla ricerca di se stessi e della loro verità. Nel
frattempo, accanto a loro, il villaggio vive la sua vita. Quella dei pescatori di conchiglie negli stagni
fangosi, braccati dai funzionari di controllo dell’igiene. Un bambino muore, una coppia si sposa, nei
giorni di festa si fanno le gare sui canali di Sète. La coppia tesse il proprio destino in questa trama
umana. Al termine di questa sognante ricerca, si riunirà nuovamente.
(André Bazin, Le Parisien libéré, 7 gennaio 1956.)
‘’Voici bien longtemps qu’un film d’avant-garde (…) n’avait contenu autant de talent, révélé ce
désir de viser loin et haut. La règle veut que ‘’La Pointe Courte’’ soit vouée à une carrière
confidentielle. Je tiens le pari que dans dix ans, on le verra dans les cinémathèques‘’.
(F. Nourissier, Bref, dicembre 1955).
‘’Premier ouvrage d’une femme de talent,’La Pointe Courte est également le premier son de
cloche d’un immense carillon ‘’.
(J. De Baroncelli, Le Monde, juin 1955.)
********************************************************************
La Pointe Courte è il primo lungometraggio di Agnès Varda. Interamente scritto e diretto
da lei, prodotto con pochissimi mezzi, questo film si è potuto realizzare grazie all’aiuto di
amici tecnici e attori del Théâtre National Populaire, e grazie alla partecipazione gratuita
della popolazione della Pointe Courte, piccolo villaggio nei pressi di Sète.
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Alain Resnais si occupò del montaggio del film, apprendendo così quest’arte alla stessa
Varda, che non aveva nessuna formazione nel campo cinematografico. È stato un film per
imparare il mestiere di regista, senza dover passare per la trafila dell’assistanato.
La Pointe Courte sarà considerato un film d’amatore, impossibile da distribuire nel circuito
commerciale, in quanto opera fuorilegge: nessuno, cineasta per prima, aveva una carta
professionale, e nessuna autorizzazione è stata richiesta per girare il film. Sarà comunque
proiettato nei cine-club e in sedute private, e due anni dopo la sua realizzazione, nel 1956
passerà su grande schermo nella sala dello Studio Parnasse, sala dell’Associazione
francese dei cinema d’arte, di repertorio ed Essai, dove otterrà un discreto successo delle
critiche.
Nel 1954 Agnès Varda aveva visto pochissimi film, ma l’impressione che ne trasse fu che
il cinema si era arenato nella fiction e che non trattasse i problemi dell’esistenza. Per
questa ragione il cinema, secondo lei, stava perdendo il contatto con la realtà. Lei stessa
riconosce che in parte questa sensazione era dovuta al fatto che molti film non li aveva
visti; ma da esperta dell’immagine che è, percepisce che è anche nella forma che il
cinema non è libero.
Queste sue frammentarie considerazioni sul cinema, congiunte al sentimento che
qualcosa, la parola, mancava alla fotografia, le danno l’impulso di girare un film. E sarà il
suo spiccato interesse per la letteratura, che darà l’impronta a La Pointe Courte, così
come la vediamo oggi.
In effetti la struttura di questo film prende ispirazione dal romanzo di William Faulkner,
“The Wild Palms”, dove ogni capitolo è un’alternanza tra la storia di una coppia e la storia
del Mississippi. Varda riprenderà ne La Pointe Courte questa stessa struttura, alternando
le riprese tra il piano sociale (rappresentato dalla vita quotidiana del villaggio) e il piano
psicologico (l’evolversi dei sentimenti e del rapporto di coppia).
La vita del villaggio diventa dunque contrappunto simbolico a ciò che succede all’interno
della coppia. Se quest’ultima, intellettuale, cerca se stessa nel dialogo, sarà la presa di
distanza che il paesaggio e la vita dei pescatori offre, che permetterà loro di trovare una
soluzione.
La presa di distanza dà una più ampia percezione della vastità e della complessità delle
problematiche: così fa la coppia filmata, così è portato a fare lo spettatore.
Il film, accuratamente ritmato nell’alternanza tra le sequenze sulla coppia e le sequenze
sul villaggio, non permette di soffermarsi su uno dei due temi troppo a lungo. Bisogna
abbandonarlo per poi riprenderlo più tardi. È il principio della presa di distanza, creata da
Varda con mezzi cinematografici.
Ne risulterà un film tra il documentario e la fiction, un film con uno stile nuovo, testimone
che qualcosa si sta movendo nel cinema francese.
Per questo motivo La Pointe Courte varrà ad Agnès Varda l’appellativo di pioniera della
Nouvelle Vague. Film nato dalla curioità artistica di una fotografa che desiderava dare
parole alle immagini, il film contiene nella sua realizzazione quegli elementi rivendicati
dalla Nouvelle Vague qualche anno più tardi: l’ascensione del cinema d’autore, dove il
realizzatore è anche scenarista, l’utilizzo di piccoli budgets e la trasformazione dei mezzi
di produzione.
Varda in effetti ha capito immediatamente che l’indipendenza artistica non può prescindere
dall’autonomia finanziaria. Ha creato quindi una cooperativa, la Tamaris-Film, per
finanziare la sua opera. In seguito creerà Ciné-Tamaris, tuttora esistente, società di
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produzione in tutto e per tutto, che le garantirà la libertà necessaria per restare fedele al
suo modo di fare cinema.
Bibliografia:
- Agnès Varda, Varda par Agnès, Cahiers du Cinéma, Paris, 1994
- René Prédal, Sans toit ni loi d’après Agnès Varda, Editions Atlande, Neuilly, 2003
- Sara Cortellazzo e Michele Marangi, Agnès Varda, Edizioni di Torino, Torino, 1990
- www.festival-larochelle.org/fr/categorie.asp?id=68
- www.humanite.presse-fr/journal/20004-04-07/20004-04-07-391494
- www.chez.com/demy/54Pointe.htm
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Cléo de 5 à 7 - Francia - 1961
Regia: Agnès Varda; Sceneggiatura: Agnès Varda; Fotografia: Jean Rabier;
Montaggio: Janine Verneau; Musica: Michel Legrand, Agnès Varda; Scenografia: Bernard Evein;
Interpreti: Corinne Marchand, Antoine Bourseiller, Dominique Davray, Dorothée Blank, Michel
Legrand; Produzione: Georges de Beauregard (Rome-Paris Films) Distribuzione : Ciné - Tamaris
35 mm, n/b, v.o., 90`
Il 21 giugno 1961, mentre attende il risultato di un esame radiologico, Cléo, una bella ragazza
viziata, si aggira per Parigi. Al parco Montsouris incontra un giovane soldato in partenza per
l’Algeria e da lui impara a guardare la vita in modo nuovo.
Opera pessimista e delicata (l’esito delle analisi cliniche non esclude la possibilità che Cléo abbia
un cancro), realizzata in un curioso stile a metà fra la ricercatezza linguistica e la semplicità del
documentario, il film racconta in tempo reale l’evoluzione interiore di Cléo che passa
dall’irrazionalismo della cartomante alla lucida presa di coscienza della propria identità.
(Paolo Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film 2000, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.)
“Agnès Varda en 1962 raconte déjà des histoires de femmes, des histoires de peur au ventre. Sa
caméra glisse dans les rues de Paris ; elle ne sait pas encore que l’errance sera dans 15 ans le
sujet même du cinéma pour toute une génération“.
(C. Devarrieux, Le Monde, 8 janvier 1986.)
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Cléo de 5 à 7, è il secondo lungometraggio di Agnès Varda. Girato nel 1961, il film
contiene le tecniche innovatrici della Nouvelle Vague (decori e luci naturali, dialoghi
improvvisati, impressione di mescolanza tra fiction e documentario) e mette in scena, in
maniera critica, come la società definisce la donna.
Cléo de 5 à 7 può essere definito un film-portait, ritratto di una donna moderna, che di
fronte alla paura della morte, realizza chi è realmente.
Durante il film siamo testimoni delle trasformazioni psicologiche di Cléo, dell’evoluzione
del suo personaggio, attraverso incontri e prese di coscienza.
Cléo si cura solo della propria immagine, costantemente preoccupata dallo sguardo altrui.
È notata, ammirata ma si ritrova ad essere completamente dipendente dagli altri per
nutrire la stima che ha di sé e per dare un senso alla sua esistenza.
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In questa sua superficialità ed equilibrio vulnerabile, si insinua un’emozione sconvolgente:
la paura di morire. Si direbbe che di colpo Cléo incarna sé stessa, incarna quel corpo
mortale, e diventa per la prima volta Soggetto. Se un tempo era lei ad essere sempre
notata, ora è lei che comincia a posare il suo sguardo sugli altri, conferendo loro
un’esistenza. Il film ritrae Cléo colta dall’ansia nell’attesa dell’esito delle analisi mediche,
ma la sua evoluzione prende inizio prima di conoscere tale responso. In quest’attesa
prende coscienza di sé, della sua condizione ed è accettando la possibilità di morire che
Cléo ultima la sua trasformazione: accetta la vita, sé stessa, gli altri, e diviene così
padrona di sé stessa.
Intraprende in questo modo i primi passi sul cammino dell’indipendenza e dell’autonomia.
Questo tragitto psicologico si rispecchia fedelmente a livello cinematografico, dove si può
constatare una differenza stilistica tra la prima e la seconda parte del film. “Nella prima
metà del film, la macchina da presa si adegua all’aspetto superficiale di Cléo, abbondando
di virtuosismi e, soprattutto, moltiplicando i dispositivi che rimandano allo schermo –
vetrine, specchi, finestrini d’auto…-assecondando la protagonista, completamente
preoccupata dall’immagine. Lo stacco avviene durante la scena centrale del film, quando
una lunga sequenza isola progressivamente Cléo dal suo contesto abituale (…). Da
questo momento in poi la macchina da presa segue Cléo con più naturalezza (…) e
doppia anche visivamente il diverso atteggiamento della protagonista: non si tratta più di
uno sguardo esteriore, dall’esterno, ma di uno sguardo più interiore, che pone maggiore
attenzione verso l’esterno.” (Sara Cortellazzo e Michele Marangi, Agnès Varda, Edizioni di
Torino, Torino, 1990, p. 59).
Anche i luoghi scelti per le diverse sequenze, mostrano il diverso stato d’animo di Cléo:
nella prima parte, gli esterni ritraggono momenti caotici della città, la moltitudine di
persone indaffarate nel consumismo e gli incontri suscitano inquietudine e sono vissuti da
Cléo come minacciosi; nella seconda parte la scena centrale si svolge in un parco, con
bambini che giocano, ruscelli e uccellini, dove il clima disteso traduce la minor tensione
interna di Cléo, e le permette di fare degli incontri che danno la possibilità di guardare al
futuro con fiducia.
La struttura del film, e lo si intuisce già dal titolo, è determinata dal tempo. “Il titolo stesso
indica l’importanza della durata e la precisa suddivisione in capitoli orari conferma non
solo l’essenzialità del continuum temporale, ma anche il legame tra il diverso valore dei
personaggi, il loro modo di vedere e lo spazio destinato loro dalla regista. (…). Ogni sua
tappa (di Cléo, n.d.r) ogni suo incontro possono essere registrati con precisione. Volendo,
si tratta di un bollettino medico in tempo reale che fornisce le indicazioni sul paziente in
ogni momento”. (Sara Cortellazzo e Michele Marangi, Agnès Varda, Edizioni di Torino,
Torino, 1990, p. 58).
Va aggiunto che questo film è stato girato nell’ordine cronologico delle sequenze,
permettendo così all’attrice, Corinne Marchand, di concentrarsi totalmente sull’evoluzione
del suo personaggio, sia a livello psicologico, sia a livello fisico.
Bibliografia
Sara Cortellazzo e Michele Marangi, Agnès Varda, Edizioni di Torino, Torino, 1990
Agnès Varda, Varda par Agnès, Cahiers du Cinéma, Paris, 1994
René Prédal, Sans toit ni loi d’après Agnès Varda, Editions Atlande, Neuilly, 2003.
pag. 11
www.dickinson.edu/departments/frnch/varda.html
www.cinematografo.it/bdcm/bancadati-scheda.asp?sch=11540
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Le Bonheur - Francia - 1964
Regia: Agnès Varda; Sceneggiatura: Agnès Varda; Fotografia: Jean Rabier et Claude Beausoleil;
Montaggio: Janine Verneau; Musica: W. A. Mozart ; Scenografia: Hubert Monloup; Interpreti: JeanClaude Drouot, Claire Drouot e i loro figli: Sandrine e Olivier, Marie-Françoise Boyer; Produzione:
Mag Bodard; Distribuzione : Ciné - Tamaris
35 mm, colore, v.o., 85`
In un sobborgo di Parigi il giovane falegname François vive felice e tranquillo con la moglie
Thérèse e due bambini. La sua felicità aumenta quando si innamora, ricambiato, della portalettere
Emilie. Nella speranza di essere compreso, lo dice alla moglie che non regge alla rivelazione. La
trovano annegata nel fiume. Qualche tempo dopo François si sposa con Emilie.
Il film ha vinto il Prix Louis Delluc, 1965 e l’Orso d’argento al Festival di Berlino nel 1965.
Tenero, struggente, gentile fuori e amarissimo dentro, di un bellezza formale che non è mai
formalistica e coniuga l’impressionismo con Mozart e la cronaca quotidiana. Il tema dell’egoismo
maschile è appena suggerito col pudore che è una delle qualità di questa piccola grande artista
(1928) dell’immagine, moglie del regista Jacques Demy (1931-1990).
(Laura, Luisa e Morando Morandini, il Morandini, Dizionario dei film 2002, Zanichelli editore,
Bologna, 2001).
“Avec un talent une autorité que nous n’avons jamais rencontrés, peut-être, chez une réalisatrice,
elle nous impose sa certitude que jamais rien ne finit".
(G. Charensoll, Nouvelles littéraires, mars 1965).
“Tout est joie, beauté et valeur profonde dans l’expression de l’amour physique…Regard d’un
grand peintre avec ce tout autre chose qui fait le cinéma“.
(R. Gilson, Les Cahiers du Cinéma, 1964).
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Un giorno Agnès Varda, come lei stessa racconta, percepì una strana emozione
sfogliando delle fotografie di famiglia. Da queste fotografie si possono vedere gruppi di
persone seduti attorno un tavolo, sotto ad un albero, che brindano e sorridono guardando
l’obbiettivo. Osservando le fotografie ci si può porre una domanda: questo è “bonheur”?
Poi riguardando più attentamente può sorgere il dubbio: come è possibile che un gruppo di
persone, ritratte nella fotografia, siano contemporaneamente felici? O allora cosa è la
felicità, se tutti hanno l’aria così gioiosa? E apparenza di “bonheur”, o è anche “bonheur”?
Agnès Varda parlando di “bonheur” dice: « il y a du malheur dans le bonheur. Du pire
malheur peut-être même, comme dans le suicide. Mais la vie et le bonheur peuvent
subsister. Le bonheur, c’est une clarté. »
La regista per « le Bonheur » utilizza il colore, perché il sentimento di « bonheur » non
poteva essere in bianco e nero. Si è ispirata ai dipinti del periodo Impressionista, dove le
tonalità della luce e il colore corrispondono a una certa definizione di “bonheur”, per cui ha
ripreso la gamma cromatica: blue-verde-giallo-violetto con rosso-rosa e arancio, niente di
troppo brillante, lo scopo di Varda era quello di liberare il sentimento.
“J’admire qu’après cette irruption de la tragédie dans la trame d’une vie quotidienne, le
tissu un instant déchiré, se reconstitue tout naturellement. Avec un talent, une autorité que
nous n’avons jamais rencontrés, peut-être, chez une réalisatrice, elle nous impose sa
certitude que rien jamais ne finit. La vie de François continuera donc avec une nouvelle
femme qui, comme la première, prendra soin des enfants, usera ses journées aux travaux
ennuyeux et faciles. Il fallait un grand courage pour trouver les moyens d’aller jusqu’au
bout sans abandonner le ton très simple, très naturel maintenu tout au long du film.
L’auteur sait nous imposer une situation qui, traitée avec moins de discrétion, aurait pu
être odieuse. Mais Agnès Varda a su, comme Barrès, placer le mystère en pleine
lumière. »
( Georges Charensol, Nouvelles litteraires, 4 mars 1965.)
« Ce qui choque ici, c’est d’abord et avant tout une liberté « par rapport aux notions
traditionnelles de culpabilité ». Presque chaque spectateur a été dans sa vie plus ou
moins tragiquement victime d’un « complexe de culpabilité », il trouve honteux, immoral
que les trois héros du « Bonheur » n’en souffrent pas, n’y pensent même pas… Le vrai
scandale du film est qu’une blessure n’implique pas la cessation du bonheur et que le
bonheur ne soit pas considéré par Agnès Varda comme un « bon point », comme une
prime accordée aux personnes hautement méritant. »
(Georges Sadoul, Les Lettres françaises, 4-10 mars 1965.)
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pag. 14
L’une chante l’autre pas - Francia - 1976
Regia: Agnès Varda; Sceneggiatura: Agnès Varda; Fotografia: Charlie Vandamme, Nurith Aviv;
Montaggio: Joëlle Van Effenterre; Musica: François Wertheimer et Orchidée; Scenografia e
costumi: Frankie Diago; Interpreti: Valérie Maitresse, Thérèse Liotard, Robert Dadiès, Jean-Pierre
Pellegrin, Ali Raffi, François Wertgeuner et Orchidée; Co-Produzione: Ciné - Tamaris e Soviété
Française de production, Institut national de l’audio-visuel e Contrechamp; Distribuzione : Ciné Tamaris
35 mm, colore, v.o., 120`
La storia di due ragazze che si conoscono nel 1962, si perdono di vista e si ritrovano nel 1972. La
cronaca delle loro vite parallele, verso la felicità di essere donne. Il film racconta, nel modo più
semplice e naturale possibile l’identica presa di coscienza di due donne differenti: una che rompe
subito con le convenzioni per realizzarsi, l’altra che lentamente esce dal suo vittimismo, per
realizzarsi. Suzanne e Pomme, eroine di questa narrazione, realizzano un femminismo adatto a
loro. Una riconquista, se non una conquista, della forza vitale femminile, con i suoi privilegi,
problemi e altre gioie specifiche.
(Agnès Varda, in : Sara Cortellazzo e Michele Marangi, Agnès Varda, Edizioni di Torino, Torino,
1990.)
“Elles ont expérimenté la phrase de Simone de Beauvoir qui termine le générique: on ne naît pas
femme, on le devient“.
(Agnès Varda, Varda par Agnès, Editions Cahiers du Cinéma et Ciné-Tamaris, Paris, 1994).
“A la fois comédie et mélodrame, fiction romanesque et témoignage du vécu d’une époque (des
années 60 à nos jours), où la condition féminine a considérablement changé. On y rit, on y pleure,
on y chante“
(J. Siclier, Le Monde, octobre 1977).
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pag. 15
« L’une chante, l’autre pas » é un film fatto da donne, sulle donne e sulla presa di
coscienza di due donne. E una commedia e nello stesso tempo melodramma : si ride, si
piange e si canta.
“J’ai tout fait passer dans les chansons. Décision tactique. Un discours on ne l’écoute pas.
Une encyclopédie, on ne la lit pas. Le vécu, le chanté, le senti, j’ai pensé que ce serait
plus tonique, plus efficace »
(Agnès Varda in : Jean Narboni, Serge Toubiana, Dominique Villani, Cahiers du cinéma,
n°276, mai 1977.)
Il film funziona su una visiona ludica, articolata di sostanza e forma o immagine e testo
come il retro delle cartoline. Le visioni di viaggio: Amsterdam e i suoi canali, l’Iran e le
moschee blu di Ishafan ne sono il volto sorridente e assolato, ma la maggior parte delle
situazioni rinviano ugualmente a un “riconoscimento codificato” dello spettatore: si
intendono gli spettatori destinatari gauchista-femminista del ’68.
“S’il y a une lutte racontée dans ce film c’est celle pour la contraception, pour la liberté
sexuelle ou corporelle des femmes. Dans l’histoire de cette lutte, Bobigny est plus
important que ‘68 4 »
4
Le procès Bobigny-celui d’une jeune fille mise en prison pour avoir avorté, avec l’accord de sa mère- a
mobilisé les féministes sur les thèmes du droit à la contraception et de la justice de classe. Me Gisèle Halimi
a gagné le procès qui a fait jurisprudence et a catalysé la loi Simone Veil autorisant la contraception.
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pag. 16
Sans toit ni loi – Francia - 1985
Regia e sceneggiatura: Agnès Varda; Fotografia: Patrick Blossier; Montaggio: Agnès Varda e
Patricia Mazuy; Musica: Joanna Bruzdowicz; Scenografia: Jean Bauer e Anne Violet; Interpreti:
Sandrine Bonnaire, Macha Méril, Stéphane Freisse, Jolande Moreau, Patrick Lepczynski, Yahiaoui
Assouna, Joël Fosse, Marthe Jarnais
Produzione: Cine-Tamaris
35 mm, colore, v.o, 105`
Il film è dedicato a Nathalie Sarraute. Scrittrice e autrice drammatica francese. Leone d’oro al
Festival di Venezia del 1985 e César per la migliore interpretazione a Sandrine Bonnaire.
All’alba di un giorno invernale, in un campo coltivato nel sud della Francia, un contadino scopre il
cadavere di una ragazza. La polizia non riesce a identificarlo e ritiene che la giovane vagabonda
sia morta per il freddo e per gli stenti. Il film è costruito con una serie di flash-back. Parlano le
persone che avevano conosciuto la ragazza prima della sua inspiegabile morte. Dalle
testimonianze emerge il ritratto doloroso e commovente di una giovane ribelle, che aveva scelto di
vivere “senza tetto né legge”.
“Film vagabondo di grandi virtù stilistiche, con un linguaggio che ha la forza di essere semplice e la
tenerezza rispettosa verso un personaggio raccontato ma non giudicato.”
(Laura, Luisa e Morando Morandini, il Morandini, Dizionario dei film 2002, Zanichelli Editore,
Bologna 2001).
“Sans toit ni loi est un chef-d’œuvre qui n’a pas volé son Lion d’or au dernier Festival de Venise. Et
ce n’est pas un hasard si Agnès Varda l’a dédié a Nathalie Sarraute. Même importance accordée à
l’instant, au rapport furtif entre les êtres, à l’errance (physique chez Varda, psychique chez
Sarraute“.
pag. 17
(Claude-Marie Trémois, Télérama, n° 1873, 4 déc. 1985).
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TRAMA
Francia del sud. Mona è una ragazza senza dimora, che si sposta senza meta in autostop.
Nel suo errabondo vagare s'imbatte in tante persone diverse, che le danno la possibilità di
avere un tetto per la notte e a volte un lavoro e una sistemazione provvisoria. Ma Mona
non riesce a fermarsi in un posto per tanto tempo e quasi subito riprende il suo girovagare,
finchè una mattina viene ritrovata morta lungo la strada.
TRACCIA TEMATICA
Mona non è un'emarginata per necessità, ma per scelta. Il suo rifiuto di una vita normale è
totale e allo spettatore non è dato sapere quali motivi (se ne esistono) l'hanno indotta a
ciò. A differenza di tanti esclusi cinematografici (pensiamo al genere “road movie”) è
antipatica e scostante, nemmeno si fa portatrice di un'idea alternativa di esistenza, come
gli hippies di vent'anni prima.
Forse non ha nemmeno un passato, è un personaggio astratto e simbolico, come sembra
suggerire l'immagine che ce la mostra uscire dal mare, quasi comparisse in quel momento
nel mondo a esprimere l'idea di una ricerca di libertà assoluta (libera cioè da ogni
limitazione e condizionamento), che, però, come le dice il filosofo-capraio, non può non
avere come esito finale che la solitudine e la morte.
VALUTAZIONE CRITICA
La Varda sceglie una cifra stilistica fenomenologica, vicina al documentarismo (vale a dire
interessata esclusivamente all'osservazione distaccata dei comportamenti e all'oggettiva
registrazione delle testimonianze, senza cercare assolutamente di guidare lo spettatore
verso un'interpretazione e, tantomeno, un giudizio dei fatti) e per questo il linguaggio del
film appare scarno ed essenziale, come la personalità enigmatica di Mona e il monotono
paesaggio invernale della Francia meridionale. Non c'è partecipazione al dramma della
protagonista (ammesso che come tale sia da lei avvertito) e nemmeno simpatia nei suoi
confronti, Senza tetto né legge è un film che interroga e che non dà risposte.
Unica invenzione formale è il carrello orizzontale, che si sposta da destra verso sinistra a
separare una sequenza da un'altra e mettendo così anche la macchina da presa on the
road, cioè sulla strada, con un movimento contrario a quello della lettura (che va da
sinistra a destra), che crea disagio e disorientamento nello spettatore, di cui mette in crisi
le normali modalità di percezione, così come Mona, con la sua presenza aliena e
disturbante, turba coloro che entrano in contatto con lei.
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pag. 18
Jacquot de Nantes - Francia - 1991
Regia e sceneggiatura Agnès Varda; Fotografia: Patrick Blossier; Agnès Godard e Gorge Strouvé,
Montaggio: Marie-Jo Audiard; Musica: Joanna Bruzdowicz; Scenografia: Robert Nardone e Olivier
Radot ; Interpreti: Philippe Maron, Edouard Joubeaud, Laurent Monnier, Brigitte De Villepoix e
Daniel Dublet ; Produzione : Cine-Tamaris
35 mm, colore e b/n, v.o. - st. ingl., 118`
C’era una volta un ragazzo allevato in un garage dove tutti amavano cantare. Era il 1939, egli
aveva 8 anni, amava le marionette e le operette. Poi volle fare cinema, ma suo padre gli fece
intraprendere un’altra professione. Si tratta di Jacques Demy e dei suoi ricordi.
Il film è la cronaca dei suoi anni giovanili, trascorsa con il fratellino e i suoi compagni, i loro giochi,
gli scambi di oggetti, la visita di una zia di “Rio”, gli amori infantili e i primi tentativi di filmare …
E’ raccontata un’infanzia felice e un’adolescenza ostinata malgrado gli avvenimenti di quel periodo.
E’ l’evocazione di una vocazione filmata dalla Varda, che Jacquot incontrò nel 1958 e con la quale
condivise la sua vita fino alla morte.
“E’ un film di rara bellezza, dove arte e vita si intrecciano senza retorica e con molta emozione”
(Paolo Mereghetti, Il Mereghetti dizionario dei film 2000, Baldini & Castoldi, Milano, 1999).
“C’est d’abord et surtout un film, triste et gai, enchanté de souvenirs et de soif de vivre, d’exister,
de faire du cinéma. C’est simple comme bonjour l’artiste“.
(Le Monde, mai 1991).
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Lo scrivere direttamente per il cinema, inventando una scrittura cinematografica diretta, da
un lato, e il problema della comunicazione con lo spettatore, anch'essa la più diretta
possibile, sono i motivi dominanti del fare cinema di Agnès Varda. O forse sarebbe meglio
dire del fare con il cinema, dato il carattere particolare che assume ogni film della cineasta
belga di nascita e francese di adozione, radicato in modo così forte nella realtà tanto che
la mdp, per coglierne le complesse sfumature, è obbligata ad un continuo lavoro di
creazione, di svelamento. Svelamento e creazione sono la stessa cosa, azioni che si
chiamano in causa reciprocamente: mano a mano che si modula il movimento della
cinepresa o che si cura l'aspetto degli attori, si affida a questi elementi il compito di
smascherare immagini e suoni che sono sempre stati soffocati o rimasti allo stato latente e
che ora devono uscire allo scoperto, affrancati da cliché e stereotipi reinventati
dall'immaginazione. È il cinema che dà vita alle cose.
pag. 19
Il cinema scrive la vita, reinventandola la rifornisce della linfa vitale, di interesse e
curiosità. In Garage Demy il primo livello di scrittura è quello dell'`infanzia di Jacquot. Qui è
come se la mdp fosse lo spirito buono della casa, la sua divinità protettiva, e insieme il
garante della sicurezza e della felicità del bambino: le fughe da casa sono sempre
provvisorie, furtive, subito ricondotte allo spazio sicuro del cortile. E anche quando Jacquot
esce dalla città è subito riaffidato ad un'altra dimensione familiare, quella dello zoccolaio e
della moglie, sulle sponde della Loira.
Scrittura che è anche dello sguardo: durante la proiezione Jacquot è felice come se il film
fosse suo. L'interesse per la vita cresce di intensità e si moltiplica con la possibilità di
reinventarla, di scoprirla secondo nuovi punti di vista. La scrittura cinematografica diventa
elemento vitale, dà al giovane artista-artigiano la sensazione epidermica di realizzare
qualcosa di magico, che fa trattenere il respiro: è la meraviglia della creazione. Qualcosa
che si deve provare costantemente, poiché con la fine del lavoro per un film si perde
anche la ragione di vivere. Immergersi nel lavoro è il solo modo per sottrarsi alla morte.
Scrivere, dunque, per continuare a vivere. Agnès dà un corpo alla sceneggiatura scritta da
Jacques sui suoi ricordi di un'infanzia felice e serena, scritti freneticamente, con cura
maniacale nelle descrizioni giorno per giorno durante la malattia. Agnès si spinge oltre:
scrive direttamente il corpo di Demy, le sue mani, i suoi occhi, le sue rughe, le
increspature della pelle. Inventa delle immagini-carezza che riproducono sensazioni tattili
e macrosguardi totali; poi ne individua la corrispondenza con il leggero scivolamento della
risacca sul bagnasciuga, dove il corpo nudo è la sola sceneggiatura, qualcosa da
riscrivere di nuovo ogni volta, seguendo questa o quel a linea della pelle. Nelle primissime
immagini de film la mdp si sorprende ad esplorare una tela dipinta da Demy: un uomo e
una donna sono coricati in un abbraccio. Dice la Varda: “Per me il nudo è il punto
d'incontro tra l'orizzonte del bello formale e del bello morale. Il corpo nudo è la misura
della bellezza”. Per esprimere la bellezza di un affetto era necessario che si trovasse una
forma espressiva che rispondesse alle particolarità del mezzo-cinecamera e che nello
stesso tempo fosse la più diretta possibile. Cosi Agnès ha scritto di Jacques scrivendo sul
suo corpo traiettorie d'amore.
Ha imbastito sulle immagini-documento dell'uomo-Demy le immagini-finzione del
personaggio-Jacquot, facendo in modo che entrambe prendessero vita dalla medesima
realtà, una realtà superiore che va oltre la sterile distinzione tra fiction e documentario e di
cui si possono cogliere gli ingredienti soltanto nella variabilità delle dosi in cui si trovano
mescolati. Si può fare un film con più documentario che finzione - Elsa la Rose (1966),
Jane B. par Agnès V. (1987) - e lo si può rifare invertendo i termini - Les créatures (1966),
Kung-Fu Master (1987). L'importante per la Varda è costruire la fiction come se si
trattasse della realtà; non esistono la vita e il cinema: essi si fanno insieme, allo stesso
tempo.
La regola secondo cui Agnès Varda improvvisa gli esterni giorno per giorno, scegliendo i
luoghi per le riprese a seconda della sensibilità del momento, può aver costituito un
problema nel caso di Garage Demy. Il film infatti è costruito interamente sulle pagine
scritte in cui Demy annotava freneticamente ogni particolare, anche i più piccoli. Quello
che possiamo non fare a meno di notare è l'assenza pressoché totale dei momenti del
viaggio, dei percor-si di spostamento: gli spazi sono quelli delle partenze e degli arrivi, mai
quelli di mezzo. Per il resto la Varda è rimasta fedele al suo stile di esploratrice, di
percorritrice della finzione come se si trattasse della realtà, fedele a quel “mentir vero” che
solo assicura la piena comprensione delle cose.
Costretta come sempre a dover fare i conti con il budget a disposizione - salvo rare
eccezioni la sua Ciné-Tamaris ha prodotto i suoi lavori sin dai primissimi esordi de La
Pointe Courte (1954) e de L'Opèra mouffe (1958) -, qui la regista e il suo scenografo
risolvono problema dello spazio storico con grande coerenza. Consapevoli di non poter
mettere in scena un film in costume, organizzano il profilmico in modo che esso venga
pag. 20
colto attraverso gli occhi di Jacquot. Il portone del cortile, oltre il quale raramente si spinge
l'immaginarlo del ragazzino, diventa lo schermo attraverso cui mostrare la Storia: nei
momenti avventurosi, come quando il padre Raymond aiuta alcuni soldati in fuga dai
nazisti; nel ricordo colorato della Liberazione, con le bandiere e i fazzoletti al collo della
gente. E il fuori della Storia visto dal dentro dello sguardo di Jacquot.
E proprio questo desiderio di vedere dal di dentro ha portato la Varda nel cortile al numero
9 del vecchio Quai de Tanneurs, a Nantes. Ribadendo quel legame profondo che univa la
mdp ai personaggi di alcuni lavori precedenti - la Elle de La Pointe Courte, la Cléo di Cléo
de 5 à (1961), la Mona di Senza tetto né legge (1985), la Jane B. di Jane B. par Agnès V.,
sceglie di esplorare il mondo dell'infanzia del marito con estrema discrezione e rispetto. La
cinepresa sale la scala che porta nella soffitta dove Jacquot fabbricava i suoi filmini
animati, ma si ferma sulla soglia, lo sguardo si blocca sull'ultimo scalino: bisogna essere
iniziati alla magia della creazione. Bisogna evocare la straordinarietà della situazione se si
vuole comprendere appieno l'uomo che l'ha vissuta. E la disponibilità lieve verso le cose
da parte del personaggio a guidare la mdp, riproduce lo sguardo del bambino che a casa è
sin troppo protetto e che quando esce lo fa con lenta progressione. Anche quando
riprende situazioni che avvengono ad una certa distanza dal mondo del cortile e del
garage, la cinecamera si muove con discrezione, trattenendo il respiro, come se si fosse
allontanata furtivamente, di nascosto.
Dei dintorni di quel garage di Nantes si è nutrito tutto il cinema di Jacques Demy, l'intero
suo universo poetico. La vicina di casa incinta è la Catherine Deneuve di Les parapluies di
Cherbourg, la cantante incontrata a cena con la zia ricca venuta dal Brasile è la Ainouk
Aimée di Lola. Così come apparten-gono ai colori e alle sensazioni dell'infanzia i
personaggi de I saltimbanchi e di Pelle d asino, mutuati dall'operetta e dallo spettacolo dei
burattini del Theatre Guignol. Il Nino Castelnuovo che lavora in officina e la Deneuve che
prepara la pasta per fare il dolce sono il padre Raymond e la madre Marilou. Nei film di
Demy la famiglia è sempre qualcosa di particolare: non ci sono mai soltanto delle coppie,
c'è sempre un nucleo più ampio, non si trovano mai cose come padri assenti e
irresponsabili o madri e figli che si affrontano. La Varda non ha potuto prescindere da
questi dati per creare la sua casa Demy. E lo spettatore resta francamente stupito quando
si accorge che è riuscita a comunicare tutto questo facendo a meno del colore per la
maggior parte delle immagini del film, di come il mondo del piccolo Jacquot ricreato
attraverso le interpretazioni di tre differenti attori, brilli tutto delle tinte che si colgono di
tanto in tanto dagli spezzoni dei film di Demy. È sufficiente farle precedere dalla figura del
dito disegnato vicino al garage, per esprimere la contiguità tra Arte e Vita; contiguità che è
disponibile a diventare identità nel momento in cui prescinde dalle tradizionali coordinate
spazio-temporali.
Tuttavia l'uso del colore non si limita alle sole immagini girate da Demy, e interviene ogni
qual volta il piccolo Jacquot è investito, o anche solo sfiorato, dalla visione artistica. Allora
ogni cosa subito prende colore, attraverso la soggettività del ragazzino. I suoi sensi
tinteggiano il mondo circostante e il cinema è più colorato del resto, come accade con le
locandine di Biancaneve affisse al cinematografo di quartiere.
Film che racconta la scoperta dell'amore per il cinema, le tappe di una vocazione, Garage
Demy parla oltre che per immagini, anche di immagini, di come queste possono essere
costruite, conservate e addirittura riscritte, riutilizzate. Da un lato, infatti, alcune situazioni
simboliche, come il baratto tra la figura colorata del transatlantico Normandie con il pezzo
di pellicola, rimandano alla formazione dell'immaginario di Jacquot, al passaggio dall
'immagine fissa a quella in movimento. Le tappe progressive che vanno dal collezionismo
- la passione per gli oggetti del cinema, vecchi proiettori, piccole cineprese scambiate con
un meccano, fino alla prima Eresam che Demy mostra ancora con l'attenzione di un
ragazzino - al dilettantismo - le attualità a disegni animati! - e al professionismo dei film
realizzati dopo i corsi di cinematografia all'Ecole de Vaugirard a Parigi. D'altro lato, come
pag. 21
si può notare, Garage Demy è un film sul fare il cinema, sul costruire artigianalmente e in
modo epidermico la propria pellicola, sulle emozioni del bricoleur. Sulla pazienza
smisurata che permette di costruire un rudimentale carrello montato su un pattino a rotelle,
per filmare Attacco notturno. Il cinema fatto in soffitta si avvale di una struttura teatrale,
palcoscenico e scenografia finta, ma ripresa con l'occhio del cinema, mobilitando il punto
di vista. “Ora che ho finito il mio film non so più cosa fare”, confessa Jacquot: ritorna
quell'urgenza di lavorare che lo aveva portato, senza alcuna esitazione
sentimentaleggiante, a cancellare nell'acqua calda il filmino di Charlot e a sostituirlo con la
sua primissima fatica, Le Pont de Mauves, attualità a disegni animati sugli aerei che se ne
vanno dai cieli della Francia. Jacquot compra il manuale “On tourne” e gira Le avventure di
Solange, sperimentando la direzione degli attori, travestendoli e trascinandoli come pesi
morti sul set, alla ricerca dei loro personaggi. La sua esperienza della vita procede di pari
passo con quella del cinema.
Il mondo è per Jacquot una grande occasione di scoperta, a patto che sia sostenuto dalla
curiosità e dallo stupore che sono insiti nell'atto del riprodurlo, del fissarlo attraverso un
lavoro artigianale che metta in gioco tutti i sensi dell'individuo: mentre impara ad intagliare
il legno dallo zoccolaio, egli lascia capire che il suo lavoro artigianale (che è immediato
sinonimo di passione) sarà quello di fare le sceneggiature per il teatro, il cinema, le
marionette. Anche la temporalità attraverso cui Jacquot cresce è quella del cinema: egli
diventa più grande nel lungo periodo di tempo impiegato a realizzare Attacco notturno e
Jacquot 2 è sostituito da Jacquot 3.
Il piccolo Demy cresce anche per mezzo della musica, cantata dal padre in qualsiasi
momento della giornata, ascoltata al fedele grammofono, che si porta in soffitta ogni volta
che vi lavora. I suoni della canzone francese d'autore, da Trenet a Edith Piaf, mescolati a
motivetti fischiati come la Cucaracha, sono colore allo stato puro; prevale in essi una
ritmicità risolta, fluente, dove ogni spigolo è sempre soltanto un breve episodio, quasi un
pretesto per ritornare in un batter d'occhio ad una armonia mai scomposta, che bene
esprime una disposizione d'animo coerente e priva di incertezze. Da qui Jacquot approda
alla musica classica, scelta come accompagnamento per il suo lavoro e vissuta proprio
nella funzione che può apparire più banale, quella di veicolo di equilibrio e concentrazione,
garante di una situazione di mistica adesione alle cose.
Dicevamo che se un polo del cinema di Agnès Varda è quello della scrittura filmica, l'altro
investe senz'altro il problema della comunicazione. La scommessa di Garage Demy era
quella di scrivere gli affetti di una donna per il proprio compagno scomparso, tentando di
restare coerente con il proprio lavoro, e rispettando quindi pienamente l'Altro, il suo
segreto più profondo, lasciando che fosse soltanto lui a spiegare, con la scrittura del
proprio passato. I frammenti di immagine che mostrano Demy scavato dalla malattia
esemplificano bene quel modo di avvicinarsi agli altri con l'approccio documentaristico di
chi nutre grande rispetto per le cose che filma, partendo dal presupposto che mai esse si
conoscono completamente. La mdp deve limitarsi a rievocare nel modo più discreto
possibile, a mettere in scena senza tanti clamo-ri, e poi deve soltanto stare a guar-dare
cosa succede. Il punto di vista dell'Autore-donna-Agnès Varda lo si può registrare sempre
e mai, vive della lievità della camera quando è alle prese con la rapprentazione dell'
assenza e del desiderio, quando scorre sull'acqua senza più trovare il corpo che ha
sempre cercato.
Eppure è soltanto lì che può ancora cercarlo, sulle rive di quell'Oceano che, poiché è un
non-posto, non esi-ste e non ha bisogno di adattamen-to, pone la regista in una sorta di
stabilità nei confronti di se stessa, come il personaggio di Emilie che lavora davanti al
mare in Docu-menteur (1981). È l'esilio dal peso di ogni affetto. “Una rievocazione scrit-ta
da Agnès Varda dai ricordi di Jacques Demy”, dice una scritta sui titoli di testa. Torna alla
mente Elsa la Rose, dove la gioventù di Elsa Triolet era raccontata dal suo aman-te-poeta
Louis Aragon, con le memo-rie della stessa Elsa.
pag. 22
Garage Demy è un grande atto d'affetto, un cinema del cuore che disintossica da quello
dei buoni sentimenti.
Autore critica: Umberto Mosca
Fonte critica: Cineforum n.316
Data critica: 7-8/1992
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pag. 23
Les glaneurs et la glaneuse - France – 1999/2000
Regia e sceneggiatura: Agnès Varda; Fotografia: Stéphane Krausz, Didier Rouget, Didier
Doussin, Pascal Sautelet e Agnès Varda; Montaggio: Agnès Varda; Musica: Joanna Bruzdowicz,
Pierre Barbaud, Isabelle Olivier (Ocean), François Wertheimer, le Rap de Bredel e Klugman;
Mixage: Nathalie Vidal;; Produzione: Cine - Tamaris
Documentario, 35 mm, colore, v.o., 82`
C’era una volta la spigolatura. Così potrebbe iniziare la recensione di questo splendido
documentario della Varda. Perché grazie all’uso di una handycam digitale l’autrice visita
nuovamente un mondo di emarginazione e di miseria che vive accanto a noi. Nella tradizione
letteraria italiana esiste una poesia risorgimentale intitolata “La spigolatrice di Sapri”. In quella
francese domina il quadro di Millet esposto al Museo d’Orsay. Ma quasi più nessuno ricorda cosa
sia la spigolatura, cioè il raccogliere i chicchi di grano rimasti dopo la mietitura. Oggi la spigolatura
avviene quotidianamente nei mercati, nei cassonetti delle immondizie, nei campi dopo che, ad
esempio, le patate sono state “calibrate” perché in vendita vanno messe solo quelle con un certo
aspetto e dimensione. Gli spigolatori di oggi sono persone che hanno fame e che per assurdo,
grazie agli sprechi di una civiltà dei consumi sempre più cieca e indifferente, possono sperare di
sopravvivere. La Varda li segue e li riprende con lo stesso sguardo, malinconico e solare al
contempo, con cui inquadra le rughe delle sue mani o la fragilità dei propri capelli. Perché questa è
una lezione di cinema girato in video che unisce una grande libertà a una passione forte e matura.
(Giancarlo Zappoli in: www.mymovies.it/francecinema/art/glaneurs/glaneurs.asp)
“A la fois rigoureux et impressionniste, ce très beau documentaire se transforme peu à peu en un
autoportrait bouleversant “.
(S. Blumenfeld, Le Monde).
“Dans ce documentaire simple et sensible, Agnès Varda capture l’insolite, l’injustice, la misère,
mais aussi la symbiose avec la nature, le plaisir de vivre au grand air, les gestes simples et
immémoriaux de la cueillette“.
(François De Backer, 6bears Magazine).
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La glaneuse et sa caméra, ou la réinscription de la subjectivité par le numérique
Le dernier film d'Agnès Varda a pour cadre la société de consommation. Les gens qu'elle
filme ne sont toutefois pas ceux qui jettent, qui gaspillent, mais ceux qui ramassent, qui
vivent de nos restes: ce sont ces glaneurs et ces glaneuses, à l'image de ceux que
peignait Millet, ramassant les épis de maïs ayant échappé aux moissons. Mais les
glaneurs et les glaneuses de Varda ne sont pas que ceux qui glanent par pauvreté, pour
pouvoir manger ou survivre à défaut de pouvoir se payer un repas de luxe. Ils sont aussi
ces artistes et ces gens, croisés au hasard de l'objectif de la petite caméra digitale, qui
glanent pour créer ou juste pour la beauté éthique de la chose: pour glaner, tout
simplement.
Mais le film d'Agnès Varda dépasse ce cadre politique des plus actuels pour également
toucher, de façon profonde et lucide, au médium et aux modes de représentation du
documentaire: un genre intrinsèquement et organiquement construit autour du glanage luimême, et ce d'une des façons des plus probantes depuis le direct des années 1950-60.
Débarrassant la production cinématographique de son appareillage lourd et pompeux, les
nouvelles technologies du son et de l'image permirent alors, autant en France (avec Jean
Rouch), au Québec (avec Perrault, Groulx, Brault et les autres) qu'aux États-Unis (surtout
avec Wiseman) et ailleurs, de filmer avec beaucoup plus de malléabilité (grâce entre
autres à l'apport d'une équipe de tournage réduite). Le hasard devenait un facteur de
production inaliénable et un élément esthétique central. Avec LES GLANEURS ET LA
GLANEUSE, Agnès Varda revisite ces sentiers battus mais quitte toutefois le mode
d'exhibition du cinéma d'observation direct (ou cinéma-vérité) pour abonder vers un
cinéma documentaire réflexif (1). Mais il s'agit ici d'un cinéma réflexif renouvelé par son
médium d'expression, la caméra numérique, dont Varda, jamais dupe, cherche à nous
montrer l'apport à l'intérieur de ce processus de rénovation numérique du cinéma: une
caméra qui enregistre le réel pro-filmique en plus de nourrir le sujet du film puisqu'elle
devient l'outil privilégié du glanage et de la glaneuse elle-même.
Sur la postmodernité et les nouvelles technologies de l'image, Germain Lacasse affirme
que sont maintenant opposés aux fonctions globalisantes des premières images
cinématographiques (voire ses caméras montées sur des avions et servant à tenir les
cartes militaires) les images créées par les nouvelles technologies d'imagerie médicale où
la miniaturisation de l'appareillage permet d'envahir le corps (des échographies jusqu'aux
endoscopes), imposant dorénavant un tout nouveau rapport du sujet face à son corps et
son identité (2). Varda, grâce à la nouvelle DV, entretient un discours similaire, puisque la
caméra ne lui sert pas simplement d'outil invisible pour capter des images servant ses
idées de façon transparente, mais elle devient plutôt le sujet réflexif d'un film qui aurait tout
aussi bien pu s'appeler: «Comment la caméra numérique me permet d'établir un rapport
privilégié et personnel avec le glanage et les glaneurs». Car inévitablement, la petite
caméra d'Agnès Varda sous-entend non seulement un nouveau rapport face au cinéma,
mais aussi un nouveau rapport face à soi-même puisque du lourd appareillage
institutionnel du 16mm et du 35mm (le 16mm, quoique plus accessible, impose toujours
un appareillage de laboratoire, de montage et de mixage important), la cinéaste passe au
numérique, qui lui permet d'entrer en relation beaucoup plus organique avec chacune des
étapes de la création. Le tout nécessite et rend davantage possible une approche où le
hasard et l'improvisation deviennent matériau, permettant une écriture directe et
personnelle où le film ne peut plus faire abstraction de la subjectivité de son auteur. En
effet, l'image passe alors du macro au micro et impose du fait une nouvelle relation au
corps; ce corps vieillissant que Varda étudie avec sa petite caméra numérique, soit ses
ridules creuses et ses cheveux grisonnants et fuyants qu'elle scrute avec son objectif.
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En somme, Agnès Varda, en étudiant l'histoire et la contemporanéité du glanage, nous
présente à la fois une étude sociologique et une leçon sur le cinéma et son essence
changeante dans l'univers postmoderne de la consommation et de l'individualisme. Sans
complaisance, elle filme les glaneurs. Mais davantage, elle se filme elle-même, sans
narcissisme, se regardant filmer et regardant sa main filmer son autre main. Elle parle à sa
petite caméra, nous parle avec elle, la regarde parler et découvre comment elle parle et
comment elle, la cinéaste, arrive à parler à travers son objectif qui, comme l'artiste, devient
glaneur. Agnès se filme glanant des patates en formes de coeurs, glanant des images,
des gens, des artéfacts et des trouvailles de bazar qui constitueront en bout de ligne un
film en processus arbitraire de construction. LES GLANEURS ET LA GLANEUSE, c'est
donc la petite histoire d'une caméra réinscrivant la cinéaste dans la communauté et jouant
du hasard sans se l'approprier, afin de parler du réel, du cinéma et de soi.
Le hasard étant donc roi dans cette nouvelle approche du réel, il permet à la cinéaste non
pas que de glaner des objets particuliers (elle trouve une toile d'amateur sur le glanage,
ainsi qu'une horloge sans aiguille, où le temps s'arrête, au-delà de la vieillesse), mais
aussi de croiser des gens extraordinaires qui, s'approchant ou non de la thématique
centrale du glanage, sont insérés à l'intérieur du film puisque la seule logique narrative
constitutive n'est pas ici le thème ou le discours, mais bien la subjectivité et la sensibilité
de la cinéaste qui dévoile son travail. Ainsi tombe-t-elle sur un psychanalyste hors du
commun, sortant du «Soi» pour parler de «l'autre», ainsi que sur un ancêtre d'Étienne
Jules Marey, inventeur de la chronophotographie, qui viendra ouvrir cette petite narration
sur le glanage et proposer à Varda une réflexion à la fois profonde et ludique sur l'origine
et la fascination provoquée au cours des âges par l'image cinématographique (dont la
caméra numérique constitue la dernière révolution). Ainsi, où la décomposition du
mouvement et sa projection sur écran devenaient, de Marey jusqu'au cinématographe
Lumière, source de fascination (puisque ce n'était pas le sujet du film mais la reproduction
en mouvement de l'objet du réel qui devenait spectacle), Varda, en redécouvrant le
cinéma au travers de l'aspect ludique et arbitraire de son nouveau médium, nous permet
de revenir à ce spectacle des origines où l'objet banal, lorsque plaqué sur pellicule ou
bande magnétique (devenant ainsi image), acquiert une nouvelle vie, une nouvelle forme,
une nouvelle essence. C'est alors qu'en oubliant d'arrêter sa caméra, le bouchon
pendouillant de l'objectif devient pour Varda prétexte à une diversion ludique lorsque cette
petite erreur, insérée dans le produit final (le film), devient objet de spectacle: soit ce
bouchon dansant au bout de sa corde au rythme de la musique, atteignant une vie et une
existence autonome (autonomie rendue possible par son statut d'image).
Bref, plus qu'un instrument idéologique, le cinéma documentaire, de par sa réflexivité,
devient pour Varda objet de découverte de soi. Le sujet «officiel» de l'oeuvre (les
glaneurs), jamais dictateur de la forme et du contenu, devient alors, grâce à la caméra DV
et à sa nouvelle approche du corps et des gens, un point rassembleur cohérent mais flou,
laissant place au hasard et à l'impulsion subjective de l'artiste. Chez Agnès Varda, le
discours ne saurait se faire sans un constructeur d'image qui, en parlant autant du sujet de
sa narration que de lui (elle)-même et de l'écriture de son film, vient réécrire et réinventer
de façon toute personnelle le cinéma. Agnès Varda affirmait à ce sujet: «C'est un morceau
de vie, faire un film, puis l'accompagner. C'est le cinéma d'auteur, responsable de tous les
choix: Quels sujets, quelles caméras, quel montage, quelle affiche, quelle façon
d'accompagner le film. C'est ça la cinécriture (3)».
Ainsi, regarder LES GLANEURS ET LA GLANEUSE, c'est évoluer vers un cinéma de
l'honnêteté: honnêteté envers soi et envers son sujet, mais aussi envers le spectateur,
puisque la subjectivité de l'artiste ne saurait s'effacer derrière son médium au profit d'un
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discours transparent. Avec l'aide de cette petite caméra numérique, non contente
d'introduire de la sincérité au sein de la communauté qu'elle observe, Agnès Varda
parvient aussi, en tant qu'artiste, à se réinscrire elle-même au coeur de cette
communauté. Que demander de plus, si ce n'est que d'en redemander encore et encore!
(1) Tel que défini par Bill Nichols, Representing Reality, Bloomington: Indiana University
Press,
1991.
(2) Germain Lacasse, «La postmodernité: fragmentation des corps et synthèse des
images»
dans
Cinémas,
Vol.7,
no
1-2,
automne
1996,
pp.167-183.
(3) «Entretien avec Agnès Varda» (Propos recueillis par Réal La Rochelle) dans 24
images, no 105, hiver 2001, p.9.
Bruno Cornellier
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Agnès Varda, une " glaneuse " résistante
Chez Agnès Varda à Paris, rue Daguerre, bien sûr... il y a une pendule sans aiguilles
soutenue par deux chats en céramique. Dans son film les Glaneurs et la glaneuse aussi.
Ce sont d’ailleurs les mêmes. Agnès aime les pendules sans aiguilles et le cinéma, qui a
l’art d’arrêter le temps... en filmant son temps. Depuis plus de quarante-cinq ans.
Celle que l’on peut considérer comme la fille de Georges Rouquier et la grande sour
d’Alain Resnais, et de ceux de la nouvelle vague, a depuis son premier film la Pointe
courte, en 1954, conjugué l’art du documentaire, su être à l’écoute des vrais gens tout en
réussissant à exposer les états d’âme de personnages de fiction. Réalité extérieure et
virtualité intérieure.
Agnès Varda est une de nos rares cinéastes à passer de l’une à l’autre, à mêler l’une et
l’autre sans cesse, sans discrimination ni hiérarchie. Toujours avec émotion, cour et un
certain caractère résistant. Les Glaneurs et la glaneuse est un film libre, sur une tradition
ancestrale (le glanage et le grappillage, voire la récupération), la peinture d’une société en
marge d’une autre " société qui mange à satiété ", comme le dit Agnès. Avec une
coloration proche de la jubilation, telle que l’illustre François, l’homme aux grandes bottes,
vrai seigneur des rues : " Moi, je vis cent pour cent récup... Je me nourris cent pour cent
poubelles depuis dix ans. Eux jettent et moi je ramasse. ".
Cette grandeur, cette noblesse presque, de ceux qui " ramassent pour ne pas gaspiller ",
qui font du film d’Agnès un portrait troublant de l’humanité, n’a pas échappé à Gilles
Jacob, le directeur du Festival de Cannes, qui a décidé de l’y présenter avant même qu’il
ne soit terminé. Avec modestie, Agnès dit : " Je ne m’y attendais pas du tout, je tournais
ce film calmement depuis septembre dernier et, tout à coup, il a fallu régler en toute
vitesse les problèmes de son, de musique, faire des copies 35 mm. " Agnès Varda a en
effet filmé les Glaneurs et la glaneuse avec une caméra DV digitale. " Une bonne partie du
film a été tournée par des opérateurs avec une caméra numérique professionnelle, mais
moi, j’en ai fait " un bon peu " à Sète, avec ma petite caméra digitale... Je n’ai pas tourné
beaucoup ces derniers temps, et c’est alors que je me dis qu’il fallait que je fasse un
documentaire, car il n’y a que cela de vrai. Et surtout j’ai retrouvé ce procédé que j’avais
utilisé en 1957 pour l’Opéra-Mouffe. Cela donne un vrai coup de jeune. À l’époque, je
tournais moi-même avec une petite caméra 16 mm Paillard, qu’on remontait à la main,
que m’avait prêtée Anne Philipe. J’ai ainsi tourné tous les plans, sauf une scène
d’intérieur, montée sur une chaise pliante. C’est très rigolo de se retrouver presque
quarante-cinq ans après dans les mêmes conditions, avec cette même liberté de tourner,
d’arrêter pour monter le film. Cette fois encore, j’ai fait tout de façon sporadique, avec des
plans de travail d’équipe rigoureux, mais sur trois ou quatre jours. Sinon, entre-temps, je
prenais ma caméra, la sortais de mon sac et, tac, je faisais des plans. On ressent alors
une forte sensation de vivre en filmant ou de filmer en vivant. C’est l’artisanat du cinéma,
une écriture qui me plaît beaucoup, que je travaille ensuite au montage. Avec ce mélange
de structuré et de spontané que j’aime, je suis repartie tourner des plans qui me
manquaient jusqu’à la dernière minute. "
Pour Agnès Varda, la petite Grecque de Smyrne, née en Belgique, qui a passé sa
jeunesse à Sète, puis est montée à Paris pour devenir la photographe du TNP de Jean
Vilar, qui a retrouvé un jour son oncle du côté de San Francisco - d’où le film Oncle Yanco
(1967) - , rien n’est jamais acquis. " J’aime particulièrement réaliser des documentaires
parce que je me mets à chaque fois en situation de modestie et de risques. Lorsque
j’écoute les gens, je ne sais rien. Je découvre des choses que je n’imagine même pas et
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j’essaye alors d’en rendre compte sans aucun goût du sensationnel. J’ai donc passé un
hiver instructif et passionnant. Franchement, je m’étonne de me passionner encore... Mais
je suis toujours fascinée, sans attirance morbide, par les gens qui vivent de rien, qui n’ont
pas de toit ou pas assez à manger, qui se débrouillent... Disons, que si les Glaneurs et la
glaneuse est un hommage à quelque chose, c’est à l’énergie des démunis et à leur
générosité. La communauté des pauvres est extraordinaire. Il apparaît dans le film
quelqu’un qui ramasse des vieux objets, les répare, et les donne à ses voisins. J’ai
vraiment beaucoup appris à montrer ces gens, à les approcher avec discrétion, à les faire
témoigner tout en trouvant au film ce que j’appelle une cinéstructure et une cinécriture. "
Cette cinécriture est propre à Agnès Varda, qui se met elle-même en scène avec une
certaine confraternité avec les " glaneurs ", s’exposant en " glaneuse " de la vie qui passe
et des " grains " de pellicule oubliés dans le champ du monde pour les engranger dans
" celui " de sa petite caméra.
Propos recueillis par Michèle Levieux
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Cinevardaphoto : Ydessa, les ours et etc... - 2004
Ulysse - 1982
Salut les cubains ! – 1963
Regia: Agnès Varda; Distribuzione : Ciné - Tamaris
35 mm, colore, v.o, 96’
In tre cortometraggi girati nell’arco di 40 anni, Agnès Varda esplora diversi modi di combinare
fotografia e cinema. Il primo, Salut les cubains! (1963), è frutto di un lungo lavoro di montaggio su
foto scattate durante un viaggio a Cuba nell’inverno 1962-1963. Il film testimonia l’entusiamo della
regista per la recente Rivoluzione, è uno sguardo affettuoso sul paese in movimento. L’artista
trasforma le immagini fisse in fotogrammi, facendole scorrere al ritmo di un frenetico cha cha cha.
Il secondo cortometraggio, girato nel 1982, ha per titolo il nome di un ragazzino fotografato da
Agnès Varda nel 1964, Ulysse. Accanto al bambino, una capra morta e un uomo nudo di spalle.
Non ricordando l’occasione in cui è stata fatta la foto, la regista scava nella memoria, tentando di
dare un senso all’immagine. Rintraccia Ulysse, ormai adulto, e chiede a vari sconosciuti di
commentare lo scatto, che ogni volta si rinnova attraverso i loro occhi, evidenziando così l’apertura
di significato, tra universalità e vacuità, dell’immagine isolata. Ydessa, les ours etc... (2004) è una
visita ad una mostra della collezionista Ydessa Hendeles, la quale ha raccolto diverse migliaia di
foto, tutte di orsi di peluche. Agnès Varda intervista la donna nel tentativo di comprendere il
rapporto tra la collezionista e le sue fotografie, cercando di scoprire ciò che si cela dietro questa
accumulazione e di confrontare la tenerezza del soggetto ritratto – rassicurante, protettivo – con la
scomparsa della maggior parte degli uomini e delle donne che circondano i peluches nelle foto. La
mostra restituisce gli scatti al flusso della storia e della vita, ricostruendo il mondo attorno a questi
istanti congelati.
(www.2004.pardo.ch)
“Per me ogni foto è un fermo-immagine; parlarne, commentarla, raccontarla, significa dire ciò che
viene prima e dopo, ciò che c’è intorno, vuol dire restituirle il movimento del cinema“.
Agnès Varda
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Il cortometraggio “Ydessa, les ours, etc…” è basato sul progetto “Teddy Bear” dell’artista
canadese Ydessa Hendeles. L’esposizione è composta da migliaia di fotografie ritraenti
delle persone con in braccio dei “teddy bear”. Alcune fotografie ritraggono dei
sopravvissuti dell’Olocausto che Hendeles ha comprato, nell’arco di un decennio, dalle
figlie di queste persone, che hanno perso i ricordi d’infanzia. Queste immagini
rappresentano, metaforicamente, la traccia dell’infanzia, della sicurezza e delle relazioni
amorose. Questa mostra è stata definita come pionieristica. Le domande che Hendeles si
pone rispetto all’identità nazionale e all’identità personale sono integrate nel contesto
storico dell’Olocausto: la vita civile. in questo determinato periodo storico, è presente
quanto la guerra, le atrocità, le persecuzioni e le espulsioni.
Personale ed originale, questo documentario di Varda presenta un affascinante ritratto di
questa graffiante, provocante artista canadese.
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