Le tragicomiche avventure di Timofey Pnin

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Le tragicomiche avventure di Timofey Pnin
ma universitario quale il nostro, molto più interessato
alla canonizzazione letteraria del passato che al commercio col presente; un commercio che, quando avviene, ha sempre il tono della celebrazione accademica, della lectio magistralis, della decantazione in vita
dell’autore e molto poco della discussione viva, nel
presente e del presente della letteratura, come sistema
e come mercato, con le sue colpe, i suoi meriti ed i
suoi inganni. Ed è forse anche per questo che da noi
sono pochi o recenti – di rado “interni” – i casi di
romanzo universitario, salvo non voler considerare tale
(e non sarebbe una suggestiva provocazione?) un testo come Il nome della rosa di Umberto Eco, con le
sue gelosie incrociate, i vari “furti di titoli” e le tensioni
concentrazionarie di un sistema chiuso su se stesso.
Ma torniamo oltreoceano. Dicevamo proprio della tensione centripeta e claustrofobica di molti campus novel
(non è forse un caso che alcuni degli autori di questi
testi, come Malamud, vantino radici ebraiche). L’ambientazione universitaria non genera e non stimola però
solamente romanzi costruiti intorno al mito della cittadella del sapere; essa attraversa anche – e qui vorremmo soffermarci brevemente – testi narrativi e filmici
agendovi come potente reagente dell’intreccio e dell’azione.
È il caso di un romanzo come Il mondo secondo
Garp (1978) di John Irving, storia picaresca della vita
di T.S. Garp, uno stralunato e parodico romanzo storico che pare canzonare nella sua poderosa macchina
narrativa – oltre 500 pagine – tutti i generi e sottogeneri,
alti e di consumo, della letteratura americana; e tra di
essi anche il campus novel. Se l’autore predilige la
narrazione umoristica – si veda Hotel New Hampshire
(1981) – e la costruzione di ambienti chiusi – come ne
Le regole della casa del sidro (1985) recentemente
portato sugli schermi – in Il mondo secondo Garp l’università ed il suo mondo – il suo “sottobosco” stavamo
per dire – vi acquistano un ruolo significativo. Garp è
uno scrittore e vive con Helen, docente universitaria,
seguendola nei suoi spostamenti tra campus più e meno
titolati della provincia americana. Il romanzo diviene
così il racconto – surrealmente autobiografico – del
rapporto tra scrittore e sistema universitario nell’America degli anni ’70, quegli anni posti tra contestazione
e riflusso nel privato in cui si agitano come ombre gli
attori di una cultura che aveva prodotto grandi innovazioni nel decennio precedente (si pensi a Susan
Sontag ed alla etichetta dissacratoria di Camp usata
per circoscrivere le nuove tensioni conoscitive “postmoderne”; oppure al movimento femminista). Garp,
con la sua sfibrata incoerenza e la sua visionaria purezza, finirà vittima – metafora avvelenata – dell’istinto omicida di una fanatica seguace del movimento radicale femminista delle Ellen-Jamesiane. Un rapporto
dunque critico, di conflitto e di scontro, quello ritratto
dal campus novel americano. Una liaison complessa
che traspare da una delle migliori (e non sono molte)
pellicole americane degli ultimi anni; alludiamo a Wonder
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Boys (2000) di Curtis Hanson, tratto dall’omonimo
romanzo di Michael Chabon, storia del romanziere in
eterna crisi Grady Tripp – un ottimo Michael Douglas
sullo schermo – e del suo confino nella università della
provincia americana.
Fin qui la letteratura, il cinema. Oggi però il mito
del campus vive prevalentemente di un’altra scrittura
e di un altro schermo. È infatti la televisione a veicolare
potentemente il mito del campus con prodotti seriali di
consumo (Charmed e Buffy, the Vampire Slayer sono
alcuni dei titoli) di eccezionale successo negli States
ed oggi anche in Europa (in Italia, seguendo un copione
consolidato, Mediaset ha per prima acquisito i diritti di
alcuni di questi Series, subito seguita dalla Rai). In questi
telefilm la struttura è pesantemente manichea. Il campus
universitario è il luogo di uno scontro tra forze del
bene e agenti del male (streghe, demoni e vampiri) in
cui tornano – come zombies – paure che credevamo
superate (una acuta sessuofobia, per esempio) ed il
mito del campus si svela per ciò che è, nell’America di
oggi: il veicolo di una serrata campagna pubblicitaria
che pone lo studente al centro di spinte educative verso
un sistema selvaggiamente concorrenziale. Lo studente
dunque come “consumatore” e futuro cittadino del
sistema statunitense. Non abbiamo lo spazio (ma ci
vorrebbe) per una lettura dei miti e delle paure che
questa narrativa popolare veicola. E sarebbe il caso di
discuterne, anche da noi, dove l’università non è forse
più un mito, un luogo di riferimento simbolico, eppure
rischia di scivolare nello status di provincia di un
campus – quello americano – che non è più quello
degli anni ’60. Per valutare il rischio basta poco.
Accendere lo schermo, in prima serata, e guardare
una di queste serie. “Come se” avessimo sedici anni.
Le tragicomiche
avventure di
Timofey Pnin
Salvatore Marano
D
ue domande farebbe bene a porsi in via
preliminare il lettore di un qualsiasi scritto in
prosa o in versi di Nabokov: la prima è legata
al genere del testo in esame, la seconda alle trappole
autobiografiche – ovvero: di biografia literaria –
che vi sono annidate. Il rischio di imbarcarsi in una
speciale/l'accademia immaginata
lettura che ignori il caveat di cui sopra è quello di
perdersi senza rimedio nei meandri di una fabulazione
beffarda, elusiva, in ultima analisi fuorviante. Oggi,
forse, non sarebbe possibile scambiare Lolita per un
romanzo pornografico, e nemmeno sovrapporre alla
figura di Humbert Humbert – intellettuale émigré che
affida a un diario la sua ipnotica narrativa in prima
persona – quella dell’autore reale. E tuttavia la
tentazione di ridurre Pnin al romanzo del commiato
alla carriera universitaria negli Stati Uniti è grande, se
non altro per la graffiante ironia con la quale vi è dipinta,
dall’interno, l’accademia americana degli anni
cinquanta.
Fra il ’40 e il ’58, infatti, Nabokov insegna a
Stanford, Cornell, e Wellesley – il Waindell College di
Pnin. Come il protagonista del romanzo, lo scrittore
sfuggito alla Germania nazista a un ventennio esatto
dall’addio alla Russia rivoluzionaria accetta incarichi
precari e mal pagati fra il New England e la California.
Come il colto e sensibile Timofey Pnin, insomma, anche Vladimir Nabokov è costretto a improvvisarsi insegnante di lingua – e, naturalmente, di letterature comparate – in un panorama dove all’approccio semplicistico ma efficace dei parlanti nativi (“quelle stupende
signore russe che si trovavano un po’ dovunque nell’accademia americana, le quali, senza alcuna formazione professionale, per intuito, loquacità, e una
sorta di energia tutta materna, in qualche modo e come
per magia riuscivano a infondere a un gruppo di studenti dallo sguardo ingenuo la conoscenza della loro
lingua bella e difficile, in un’atmosfera fatta di canzoni
sulla Grande Madre Volga, caviale rosso, e tè”), fa da
contraltare il sapere iniziatico dei linguisti, sacerdoti di
“quella consorteria ascetica di fonemi, quel tempio dove
a giovanotti diligenti si insegna non la lingua in sé, ma
il metodo per insegnare ad altri lo stesso metodo”.
Ma ecco come appare, nella finzione, quell’“istituto
alquanto provinciale” che nell’improbabile pronuncia
di Pnin è il Vandal College: il laghetto artificiale al centro
del campus, il dozzinale busto di Venere, decorato in
apertura di trimestre “con un finto bacio applicato col
rossetto”, i ritratti murali degli insegnanti, immortalati
“nell’atto di passarsi la torcia del sapere da Aristotele,
Shakespeare e Pasteur”; e poi, ancora, l’ennesimo
numero del bollettino d’ateneo sul Problema dei
Parcheggi Riservati ai Docenti… e, ovviamente, i
docenti. Impegnati, nella loro affannosa rincorsa ai titoli
e alla carriera, a recensire i volumi dei colleghi più
prolifici, a tramare nell’ombra contro i loro mentori, o
a brigare per ottenere finanziamenti da favola “allo
scopo di studiare le abitudini alimentari dei cubani” o
di approntare “bibliografie di opere edite e inedite
dedicate negli ultimi anni a un esame critico delle
influenze dei seguaci di Nietzsche sul pensiero
moderno”, vantano nomi fantastici (come la Dottoressa
Rosetta Stone, vale a dire “Stele di Rosetta”, o il povero
Professor Poore) e non si peritano di fare professione
di ignoranza; come il Direttore del dipartimento di
Lingua e letteratura francese, l’incomparabile Leonard
Blorenge, nemico giurato di Pnin che “detestava la
letteratura, e non sapeva una sola parola di francese”.
Di là dalla cornice a tratti grottesca nella quale si
iscrive la storia, è possibile indovinare qua e là particolari di prima mano e perfino – ma è proprio il caso
di stupirsi? – un certo numero di personaggi reali. E se
il presidente di un College femminile, Frank Reade,
compare nel ruolo di sé stesso in un raro quanto affettuoso omaggio a un uomo che lo scrittore trovava affascinante, nella figura di Blorenge è presa di mira la
bête noire di Nabokov a Cornell, Gordon Fairbank, un
associato di lingua niente affatto turbato dalla circostanza, da egli ammessa candidamente, di studiare il
russo a mano a mano che lo insegnava ai suoi allievi;
in modo analogo, la silhouette (vera) del direttore del
Dipartimento di russo a Harvard, Samuel Hazzard
Cross, si staglia dietro quella (fittizia) dell’anonimo
“direttore del Dipartimento di lingue slave presso una
Università molto più importante di Waindell, un venerabile impostore il cui russo era una barzelletta” che
“aveva generosamente concesso di firmare”, ma non,
ovviamente, di compilare, il volume degli assurdi esercizi di grammatica usato in classe da Pnin.
Il romanzo sarebbe dunque, dopotutto, un campus
novel a sfondo autobiografico? A fugare ogni dubbio,
ancorché ingenuo, sulla sua vera natura, interviene
nell’ultimo capitolo il narratore – V. N., doppio autoriale
e a un tempo personaggio fra i personaggi e funzione
del testo –, col duplice ruolo di contribuire alla rovina
di Pnin e di rendere al contempo inattendibile l’intero
edificio del racconto. A conclusione del party organizzato in vista della tenure che ormai crede a portata
di mano, infatti, Pnin vede svanire l’illusione di sfuggire al destino da outsider dell’esule allorché si rende
conto di aver perso il posto per colpa del perfido V.
N.. Col suo chisciottesco antieroe in eterna guerra con
speciale/l'accademia immaginata
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gli oggetti, deriso dai colleghi per le gaffes, i modi impacciati e l’American English da immigrato, Pnin è
insomma un’operetta morale che a partire dal caso
particolare dell’etica professionale invita a meditazioni
di ben altro respiro, come testimonia la frase pronunciata in un istante epifanico dal personaggio preferito
di Nabokov: “La storia dell’uomo è la storia del dolore”; dove con dolore si traduce qui pain, il lucido e fin
troppo serio gioco di parole sul nome del protagonista
che svela la natura tragica dell’intera vicenda.
Un mondo piccolo:
la trilogia accademica
di David Lodge
Iain Halliday
A
nni fa, durante l’inverno dell’ultimo anno di
secondary school feci il classico giro dei
colloqui di ammissione alle cinque università
inglesi alle quali avevo fatto domanda. Rimasi molto
colpito da quanto fossero diversi i campus dei vari
atenei britannici: a Manchester c’era quel misto di town
and gown che prometteva una vita universitaria
movimentata ed interessante; a Warwick il campus
nuovo era bello ed attrezzatissimo ma sembrava
potenzialmente alquanto claustrofobico ed isolato; a
Norwich, dove il dipartimento dell’University of East
Anglia al quale avevo fatto domanda era gestito dal
padre del campus novel, Malcolm Bradbury, non ci
sono mai arrivato per via di una forte nevicata, e tuttora
non conosco Norwich.
Poi c’era Birmingham, l’università dove David
Lodge lavorava. Forse le mie impressioni sono state
influenzate dal fatto che avevo già deciso per Manchester, ma mi ricordo un campus, come quello di Manchester, che faceva parte della città; c’era anche però
anche tanto grigiore, e uno studio cupo e mal illuminato abitato da un prof dall’aria molto annoiata, quasi
insofferente. Forse in quel momento il prof in questione stava fremendo dalla voglia di mettersi a scrivere
un po’ piuttosto che intervistare scolari per il suo corso di laurea in American Studies.
Credo sia lecito chiedersi se l’umorismo dei campus
novel di Bradbury e Lodge non sia anche una reazione
agli aspetti più noiosi e sedentari della vita universitaria.
Le avventure, per esempio, dei protagonisti di Changing
Places [Scambi] (1975), Philip Swallow e Morris Zapp,
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entrambi professori di letteratura inglese, il primo
dall’University of Rummidge (chiaramente Birmingham
– “Brum” – per il lettore anglofono), il secondo dalla
State University of Euphoria, California, forniscono una
serie di situazioni comiche con scambi non soltanto di
lavoro, ma di modi di vivere, modi di vedere e vivere la
politica, e persino uno scambio di mogli. Uno dei motivi
per il successo di questo romanzo sta nel fatto che va
ben oltre il campus per sondare il vecchio tema
anglofono di due paesi divisi da una lingua comune: le
differenze culturali tra Gran Bretagna e Stati Uniti.
Il fascino della diversità di un popolo che parla la
stessa lingua è notevole e gli scambi di docenti tra
università britanniche ed americane sono molto
stimolanti. Fu infatti un periodo di lavoro in California
che ispirò Lodge per questo romanzo, il primo di una
trilogia nel genere che si completa con Small World [Il
professore va al congresso] (1984), e Nice Work [Ottimo
lavoro, professore!] (1988). Tale fu il successo dei due
protagonisti di Scambi che compaiono nuovamente in
Il professore va al congresso con ulteriori sviluppi delle
loro storie e carriere mentre introducono e istruiscono
un giovane collega ai modi di quel che Lodge ha definito
il campus globale. L’ultimo campus novel di Lodge
ancora porta il lettore off campus con un placement
(uno stage) nel mondo del lavoro: l’imprenditore Vic
Wilcox si trova in una relazione improbabile con la prof.
dr. Robyn Penrose, post-strutturalista e femminista,
assegnatagli per un semestre.
Ambientazione e personaggi a parte, la scrittura di
Lodge è anche accademica in un senso meno prosaico, essendo spesso supportata da sofisticati riferimenti
ed allusioni letterarie; parte integrante della struttura
portante de Il professore va al congresso, per esempio, è la ricerca del Sacro Graal e le leggende arturiane.
Il valore letterario dei due romanzi che completano il
ciclo universitario è indicato dal fatto che entrambi
furono selezionati per le rose finali del prestigioso
speciale/l'accademia immaginata