Il fascino invisibile della mitica Timbuctu
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Il fascino invisibile della mitica Timbuctu
società ................................................................................................................................................................................................................. ............................................................................................................................. testo di Marco Aime foto di Bruno Zanzottera / Parallelo Zero Il fascino invisibile della mitica Timbuctu ELOGIO della lentezza n’insegna metallica, svirgolata da qualche autista distratto, nasconde nella sua piega arrugginita la scritta Mission Culturelle de Tombouctou. Lì di fianco il liceo Mahamane Halassane Haïdara è un viavai continuo di ragazzi e ragazze. All’ombra dei pochi alberi che resistono al calore, piccole bancarelle vendono biscotti, caramelle, medicinali. La città intera è un elogio della lentezza, lo notava già il capitano Marc-Schrader, che nel 1908 ne fu il primo sindaco francese: «Il ritmo degli affari in questo Paese non ha mai nulla di febbrile». «Quando torno dall’Europa, semplicemente sposto l’orologio sul XV secolo», dice Ismaël Diadié Haïdara, storico e scrittore tombouctien. «Qui, tutto è lento». Forse perché, come mi ha detto Baba Mama, anziano professore di storia: «Timbuctu è vecchia e stanca, per le guerre e per le siccità. Più o meno ogni sessant’anni qui U «Una città mediterranea piantata nel Sahara» la definisce un intellettuale locale. Un antropologo rivisita in un libro di golosa lettura - di cui proponiamo un estratto l’antico mito di Timbuctu. Che seduce e delude... 32 africa · numero 3 · 2009 c’è una siccità. Ogni generazione ne ha conosciuta una». Belare di capre, voci di bambini, raschiare d’altoparlanti che sprecano la voce dei muezzin: questi i suoni di Timbuctu, se chiudi gli occhi. I muezzin hanno però perso la penetrante limpidezza del loro canto, affidandosi all’altoparlante, che fa a pezzi la loro voce, ridotta a suono di marmitta di un motore scarburato. Mi rendo conto che è difficile per noi accettare Timbuctu, perché è un’Africa che «non è Africa». Sfugge a quasi tutti i nostri cliché su questo continente. È una città e per giunta antica, questo già basta per turbare la All’interno della casa dove fu ospite René Caillé durante la sua permanenza a Timbuctu tra il 20 aprile ed il 4 maggio 1828 oggi si trova una scuola coranica africa · numero 3 · 2009 33 società ................................................................ ................................................................ La sfida, folle e affascinante, di Ismaël Diadié Haïdara L’uomo che vuole fermare il deserto È scrittore, poeta, storico, filosofo. E convinto ambientalista. Un raffinato intellettuale del Mali che ha deciso di piantare migliaia di alberi per salvare la sua città assediata dalla sabbia. Lo abbiamo incontrato a cura di Marco Aime o percorso più volte le piste saheliane. Ogni volta il paesaggio era differente. Le piogge condizionano in modo visibile il territorio, pennellandolo di verde brillante e intenso oppure sbiadendolo in una coltre polverosa e opaca. Qui, al confine tra Sahara e Sahel, sorge una delle città più celebri d’Africa. Con le sue strade invase dalla sabbia, Timbuctu sembra davvero essere l’ultimo avamposto di una battaglia perduta contro il deserto. E non era molto diverso nel passato. «D’intorno non v’è giardino né luogo niuno fruttifero». Così Leone l’Africano descriveva la Timbuctu del XIV secolo: nessun orto, nessuna pianta. Oggi, grazie alle opere di irrigazione e ad alcuni interventi della cooperazione, ai margini della città si vedono orti e giardini, ma di alberi ce ne sono pochi, e quelli che si sforzano di fare ombra sulla sabbia sono tutti recenti. La gran parte degli alberi della città venne fatta abbattere nel 1590 dal pascià marocchino Jouder per far costruire la sua flotta da guerra sul Niger. Ma la scomparsa definitiva del verde potrebbe essere più recente, se è vero quanto racconta un mercante di Tetouan che nel 1787 si spinse fin qui: «A est della città si estende una vasta foresta dove vivono numerosi elefanti. Gli alberi sono così grandi che due uomini non possono abbracciarli». Oggi la legna è un bene prezioso a Timbuctu. Per questo c’è allegria questa mattina, qui nel polveroso quartiere di Bela Farandi. Decine di mani spostano la sabbia. Altre infilano le piantine nei buchi, altre ancora li riempiono d’acqua. «Assieme ai ragazzi di un’associazione locale ho preso l’impegno di piantare degli alberi», spiega Ismaël sorridente. Ismaël Diadié Haïdara è un personaggio affascinante: scrittore, poeta, storico, filosofo. Un raffinato intellettuale dai modi gentili, con quegli occhiali tondi che lo fanno sembrare un Gandhi dalla pelle nera. Giunto ai cinquant’anni, Ismaël ha deciso di spendere gran parte delle sue energie e del suo tempo per ripiantare alberi nella regione della sua città, quegli alberi che le siccità e la mano dell’uomo hanno fatto sparire. H Sopra, una giovane Tuareg di origine nobile acconciata per la festa di fine Ramadan. A fianco, Moctar Sidi Yahia della famiglia Al Wangary, una delle più antiche della città, con un baule di antichi manoscritti appartenenti alla sua famiglia e conservati nella biblioteca Al Wangari a Timbuctu visione comune di un’Africa fatta di villaggi rurali o di metropoli sgangherate, cresciute caoticamente come male imitazioni delle nostre. I primi ci lasciano immaginare una vita intrisa di culti ancestrali, di tradizioni radi34 africa · numero 3 · 2009 cate, di un non ammesso primitivismo. Le seconde, nel suscitare spesso la nostra antipatia, se non una vera e propria repulsione, ci appaiono come il segno del degrado culturale e sociale innescato dal colonialismo. Perché piantare alberi a Timbuctu? Un giorno, i bianchi che stavano nel villaggio di Dire decisero di disboscare la zona. Iniziarono ad abbattere tutti gli alberi per costruire delle imbarcazioni. Un uomo, vedendoli morire uno dopo l’altro, si legò a uno di quegli alberi e decise di morire con lui. I bianchi con i loro fucili e le loro fruste nulla poterono contro la serena determinazione di un uomo che voleva morire o sopravvi- vere con quell’albero. Lo lasciarono lì. Lui costruì la sua casa ai piedi dell’albero. Sposò una donna che gli diede molti figli e anche loro costruirono le loro case lì attorno. Così nacque il villaggio di Defirchima. Il nome deriva dal francese défrichement, l’azione che rende un terreno incolto pronto a essere lavorato. Un terreno considerato morto dai bianchi, ma che il gesto di quell’uomo ha invece nobilitato, dando a questa parola di morte un senso obliquo. Defirchima è così diventato sia il nome di un luogo sia l’azione di salvare gli alberi. Un nome che evoca speranza... Siamo tutti piantatori di alberi, figli di un uomo di cui ignoriamo il nome e persino il giorno in cui si è legato a un albero, lo ha abbracciato per salvarlo, anche a costo della sua vita. Piantare un albero per me significa partecipare alla vita. Costruire, dice Heidegger, è «fare abitare»; piantare un albero è perciò rendere possibile la vita che oggi il nichilismo tecnologico e l’avanzare del deserto negano. Come è stata accolta la sua idea di rimboscare? Con entusiasmo e scetticismo. Per molta gente è una bella follia, perché il deserto avanza fatalmente e non ci si può fare nulla. Io però sono certo che l’uomo possa spostare le montagne: basta volerlo. Ho scritto una lettera al Presidente della Repubblica per chiedergli di permettere che io paghi le mie tasse piantando alberi. Poi ho fatto un appello chiedendo alla popolazione di aiutarmi. Oggi ci sono 1070 piantine nel vivaio e 2000 già piantate. Ci sono punti di contatto tra la sua attività intellettuale e questa nuova iniziativa? Certo. Io discendo da una famiglia che ha raccolto migliaia di manoscritti che vanno dal X al XIX secolo, e che io sono riuscito a riunificare. Per me ogni manoscritto vivente viene da un albero morto. Ho 7026 manoscritti, quanti alberi devo piantare per ricompensare la terra? Chi prende alla terra senza restituire, un giorno finirà per ucciderla. Suona come una cupa profezia… Lo scopo di ogni essere vivente è di perseverare per ritornare al tutto dell’universo. La ricerca del piacere in Occidente è stata una fuga verso un godimento egoista e suicida. Il piacere non può essere intero se non quando è condiviso. Per questo piantare alberi non è estraneo al mio pensiero, perché credo che non si possa gioire della vita, se non donando vita. Che cosa potrà pensare un bambino, in futuro, di tutto questo? Che le belle follie ci aiutano a sperare nell’uomo. I costi dell’iniziativa sono molto bassi. Una piantina costa 100 franchi Cfa (0,15 euro), un quinto di un pacchetto di sigarette «Città senza razze» Timbuctu è invece una città antica che per giunta conosce il suo passato e lo conserva in parola scritta. Nel continente che tutti amano pensare della tradizione orale, Timbuctu è piena di libri e manoscritti. Ha una storia «vera», fatta di fonti tangibili, non di volatili recite, di leggende affidate alla memoria di anziani griot. Il suo essere da un millennio circa una città islamica spiazza un’altra volta il visitatore: l’Africa, quella vera, è animista. In tempi come quelli che stiamo vivendo, l’islam tollerante e aperto di Timbuctu finisce per diventare un ulteriore elemento estraniante di riflessione. Nemmeno la presenza rassicurante di quelle etnie, che danno vita al nostro mosaico mentale africano, arriva a confortarci, a darci prova di essere davvero nella terra dei Dogon, dei Peul, dei L’attuale proprietario della casa dove fu ospite a Timbuctu l’esploratore tedesco Heinrich Barth, tra il 1853 ed il 1854. Al suo interno vi ha realizzato un piccolo museo con foto, dipinti e documenti del viaggio di Barth Bambara. Qui più che di etnie si parla di caste, di classi sociali. «È la città senza razze», scriveva Londres. «Qui non sono più i bianchi che hanno lasciato i loro meticci, ma gli arabi, i Tuareg, i tutti neri. È un crogiolo». Settant’anni prima di lui già Heinrich Barth aveva descritto il brassage etnico di questa città, nata e cresciuta grazie a genti venute sempre da fuori. Scriverà poi Marc-Schrader: «Percorrendo le strade di Timbuctu si rimane colpiti dallo straordinario mescolamento di razze che offre la africa · numero 3 · 2009 35 società ................................................................................................................................................................................................................. ................................................................................................................................................................................................................. Il libro Marco Aime, antropologo, collaboratore di Africa, è un conoscitore di Timbuctu, città che osserva con sguardo ammirato e disincantato. Nel suo libro ad essa dedicato - un reportage denso anche di incontri e di riferimenti storici - porta per mano il turista «deluso» facendogli scoprire il fascino che la città possiede ma che rimane spesso nascosto. Soprattutto perché il viaggiatore, anche quello più avvertito, vi si reca con un suo immaginario. Si aspetta... altre cose. Timbuctu è edito da Bollati Boringhieri (2008, pp. 190, € 10,00). popolazione della città. Si incontrano di volta in volta tutti i tipi di neri del Sudan, come anche un buon numero di quei bianchi dell’Africa del Nord. Tra i due estremi sfuma una vasta gamma di colori infinitamente variegati». Occidente capovolto Timbuctu è sempre stata una città aperta, dove tutti hanno lasciato le loro tracce. Il turista ama più l’etnia, con i suoi costumi «tipici», ben definiti, magari enfatizzati ad hoc per lui. È più facile, più prevedibile, più previsto. Le sale interne ed una porta d’ingresso della moschea di Djinguereiber, la più antica di Timbuctu, realizzata nel XIV° secolo dall’architetto andaluso Es-Saheli, che venne a Timbuctu al seguito dell’imperatore del Mali Kanka Musa di ritorno dal pellegrinaggio alla Mecca 36 africa · numero 3 · 2009 Il meticciato affascina meno, fa perdere il senso della diversità, diluisce l’altro - di cui abbiamo bisogno - in una nebulosa sfuggente che, anche se inconsciamente, percepiamo essere più moderna. E questo, un po’, ci dispiace. Studiosi e poeti andalusi hanno portato qui le conoscenze di Cordoba e Granada, le carovane che arrivavano da nord portavano idee da Tunisi, Fès, Ghadames e Marrakech. I pellegrinaggi alla Mecca iniziarono Timbuctu alla perfezione del Cairo. Lo stile delle sue case è segnato da influenze andaluse, le porte borchiate e istoriate sono marocchine, sui mercati si trovano collane fatte di tubetti di pasta di vetro che qui chiamano «pietre di Venezia», si beve tè che oggi arriva dalla Cina. L’abitudine del tè è stata introdotta dai marocchini e in passato arrivava via Casablanca o via Saint Louis, importato dagli inglesi in quantità ingenti e preparato per il gusto degli indigeni. Timbuctu è anche «una città mediterranea piantata nel Sahara», come dice Ismaël. Magiche FORME «Ecco la moschea e il suo cono trafitto da pezzi di legno come le guance d’un fachiro lo sono d’aghi». Così in Terra d’ebano lo scrittore francese Albert Londres, nel 1928, descriveva la grande moschea di Timbuctu. L’edificio risale agli anni subito dopo il 1325, quando il celebre sovrano maliano Kanka Musa andò in pellegrinaggio alla Mecca. Nella città santa dell’islam la sua strada si incrociò con quella di un esule andaluso, Es-Saheli, già noto in patria come compositore di affascinanti poesie. Tornato a casa, il sovrano del Mali decise di far costruire una moschea e diede l’incarico al poeta andaluso, che si gettò nel progetto. Alla moschea seguirono altri edifici e fu l’inizio di una tradizione. Quelle linee morbide, che successivamente avrebbero ispirato Gaudí, quei pinnacoli simili a termitai divennero gli elementi caratterizzanti dello stile architettonico conosciuto come sudanese. Sopra, venditrice di terrecotte a Kourioné, l’attuale porto fluviale di Timbuctu dopo l’abbandono del più antico porto di Kabarà dovuto all’insabbiamento. A sinistra, il centro mdi ricerche “Ahmed Baba” a Timbuctu conserva una ricca collezione di antichi manoscritti dell’epoca gloriosa della città Un diamante sfaccettato e multicolore, che non risponde ai modelli un po’ schematici che spesso ci portiamo dietro. «Finché il leone non avrà una sua storia, il cacciatore sarà sempre l’eroe», recita un proverbio africano. Timbuctu però non è un leone cacciato, la storia vista dal basso, dalla parte di chi perde: è un leone che è stato cacciatore; per questo ci confonde. Timbuctu racconta la storia vista da un’altra parte di mondo che assomiglia al nostro. È una specie di Occidente capovolto. africa · numero 3 · 2009 37