Il mito della Lega lombarda nella storiografia patriottica dell
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Il mito della Lega lombarda nella storiografia patriottica dell
Quaderno n. 7 – Switzerland Institute Paolo Amighetti Il mito della Lega lombarda nella storiografia patriottica del Risorgimento La “Storia della Lega Lombarda” di Luigi Tosti Introduzione. 1. Il caso italiano (Alle origini dell’idea di nazione italiana – La passione nazionale – La suggestione per il Medioevo – Il mito per eccellenza: la Lega lombarda). 2. Luigi Tosti e la Storia della Lega Lombarda (L’autore e l’opera – Latinità e germanesimo – La figura del Barbarossa – Il «memorando pontificato» di Alessandro III – La riscossa dei lombardi). Introduzione Alla domanda «che cos’è una nazione?» il filosofo francese Ernest Renan rispondeva, all’indomani della guerra franco-prussiana: Una nazione è un’anima, un principio spirituale. Due cose, che in realtà sono una cosa sola, costituiscono quest’anima e questo principio spirituale […]. Una è il comune possesso di una ricca eredità di ricordi; l’altra è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l’eredità ricevuta indivisa.1 Dopo aver vagliato ed escluso la validità di qualunque teoria della nazionalità che partisse da presupposti in vario modo naturalistici – l’unità della lingua, la conformazione geografica del territorio, l’etnia dei suoi 1 Ernest Renan, Che cos’è una nazione?, Roma, Donzelli 2004, p. 16. 1 abitanti, che allora veniva comunemente denominata “razza” – Renan rimarcava la necessità, per qualunque comunità nazionale, di un patrimonio di memorie condivise, e soprattutto della volontà di riconoscervisi. La nazione, dunque, trova la sua fisionomia nell’archivio dei ricordi che ne plasmano l’identità; d’altra parte, la memoria è importante almeno quanto l’oblio, giacché nessuna idealizzazione di una comunità politica può sopportare il ricordo della violenza e delle lotte che l’hanno invariabilmente tenuta a battesimo. «Nessun cittadino francese» argomenta Renan «sa se è Burgundo, Alano, Visigoto; ogni cittadino francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo, i massacri del XIII secolo nel Sud»2. La storia della nascita delle nazioni moderne – come ha confermato un filone di studi approfonditi, a partire da Comunità immaginate (1983) di Benedict Anderson – è legata indissolubilmente al fenomeno della riscoperta e della rilettura, spesso assai libera, e sempre orientata – politicamente, ideologicamente –, di un passato remoto percepito in diretta continuità con il presente. Tra la fine del Sette e l’inizio dell’Ottocento, l’Europa è colta da attrazione ossessiva per le proprie origini; tutto il continente adotta, per rinvenirle o «inventarle», le medesime strategie. «Nulla è più “internazionale” della formazione delle identità nazionali»3, può affermare Anne-Marie Thiesse in apertura del suo studio sull’argomento. Una rivoluzione estetica che rivaluta la genuina primitività popolare, tipica dei piccoli “borghi”, a scapito degli splendori di una civiltà squisitamente cosmopolita qual era quella francese del tempo; una rivoluzione culturale e linguistica che richiama l’attenzione agli idiomi popolari, che, codificati in grammatiche e vocabolari, si trasformano in lingue “nazionali” a tutti gli effetti; un gusto per l’antico e il decadente che alimenta una nuova creatività folkloristica. Il passato viene rievocato e rimodellato secondo criteri letterari ed artistici; s’intrecciano trame di storie nazionali che abbracciano più secoli. Le potenze già affermate ricostruiscono la storia della propria origine, glorificandola; comunità prive di sovranità politica si affidano al mito nazionale per darsi una forte identità ed affrettare l’ora del riscatto, traendo decisiva ispirazione dall’esperienza rivoluzionaria francese. 2 E. Renan, op. cit., p. 7. Anne-Marie Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, Bologna, Il Mulino 2001, p. 7. 3 2 Il Risorgimento si inscrive pienamente in questo contesto: la nazione italiana passa, nel giro di pochi decenni, da nozione geografica e culturale a idea cardine di un movimento politico deciso a sovvertire, con qualsiasi mezzo, l’ordine costituito. La forza suggestiva della causa della nazione viene alimentata – lo si vedrà – da una nuova produzione culturale ad essa tutta protesa, che influenza sensibilmente l’immaginario dei patrioti e risulta decisiva per la messa a punto di un armamentario nazional-patriottico di tipo simbolico, linguistico, ideale. La ripresa e la libera rielaborazione di episodi storici significativi, memorie di un passato quasi irrecuperabile, giocano un ruolo importante nel processo di elaborazione dell’identità nazionale. I «miti» cui si farà spesso riferimento non furono un’invenzione di sana pianta, quanto piuttosto un riadattamento e spesso uno stravolgimento in senso patriottico ed unitario – secondo criteri che la pratica storiografica ha abbandonato da molto tempo – di fatti e circostanze dotati di una loro indiscutibile storicità. La prima parte della trattazione si propone di ricostruire i caratteri di questo processo, con particolare attenzione all’influenza che le opere del «canone risorgimentale» esercitarono sull’immaginario patriottico. Tra i miti di maggior successo spicca, sin dal debutto della narrazione nazional-patriottica, quello della Lega lombarda e della vittoria di Legnano contro il Barbarossa. È pacifico – a proposito di libere rielaborazioni – che a Legnano l’esercito comunale sbaragliò quello imperiale; ma è altrettanto certo che i «congiurati di Pontida», unendosi nella Lega, non intendevano conseguire l’indipendenza e l’unità d’Italia, come anche qualche patriota dovette onestamente ammettere. Eppure dagli anni Venti dell’Ottocento fino al Quarantotto il ricordo della vittoria di Legnano, di quella «ceffata solenne» all’odiato tedesco, unì tutti i protagonisti del movimento patriottico, che vi videro una rivolta della nazione italiana contro l’oppressore tedesco: un’impresa che doveva prefigurare l’imminente cacciata dello straniero. Un’opera che testimonia efficacemente come quei fatti lontani siano stati rivisitati dalla cultura risorgimentale è la Storia della Lega lombarda del monaco cassinese Luigi Tosti, all’analisi della quale è dedicata la seconda parte del presente lavoro. 3 § 1. Il caso italiano 1.1 Alle origini dell’idea di nazione italiana Durante il Risorgimento la nazione occupa il centro della scena culturale italiana. Il pubblico dei teatri assiste entusiasta a opere come il Nabucco di Giuseppe Verdi; i giovani imparano a memoria le Fantasie patriottiche di Giovanni Berchet; Francesco Guerrazzi scrive L’assedio di Firenze, Massimo D’Azeglio dà alle stampe l’Ettore Fieramosca e dipinge quadri come La battaglia di Legnano. Dalla poesia al romanzo storico, dalla drammaturgia alle arti figurative: l’immagine della patria – dei suoi patimenti, della sua riscossa – è proposta secondo le più diverse modalità espressive. Le opere che lo storico del Risorgimento Alberto Banti ha annoverato nel ricco «canone risorgimentale»4 hanno un ruolo decisivo nel plasmare l’immaginario patriottico. La passione nazionale conquista nei primi decenni dell’Ottocento il gusto di un pubblico disposto a lasciarsi emozionare e coinvolgere tanto dalle suggestioni letterarie quanto dal pathos spettacolare5. Ma dei caratteri di questa vasta pubblicistica si renderà conto più avanti. Sarebbe vano, infatti, tentare di ripercorrere l’itinerario puramente letterario ed artistico che ha condotto all’elaborazione di un’idea precisa di “nazione” italiana, senza tenere in debito conto il carico di significati politici, ed anzi eversivi, ch’essa evocava nel contesto dell’Europa della Restaurazione. La nazione non poteva più apparire, allora, ideologicamente neutra: erano stati i giacobini francesi ad impossessarsene per farne una delle parole d’ordine della Rivoluzione del 1789; il Terzo Stato si era proclamato rappresentante per eccellenza della “nazione” ed aveva contrapposto il principio della sovranità “nazionale”, in nome della “volontà generale”, a quello della sovranità monarchica. 4 Alberto Mario Banti, La nazione del Risorgimento, Torino, Einaudi 2011, pp. 4546. 5 A questo proposito, specialmente in merito alla produzione teatrale, si veda il volume di Carlotta Sorba, Il melodramma della nazione, Bari, Laterza 2015. 4 Era stato proprio il teorizzatore di tale “volontà”, il filosofo ginevrino JeanJacques Rousseau, ad attribuire al concetto di nazione evidenti sfumature politiche, cariche di implicazioni sullo status quo dell’Europa delle monarchie dinastiche. Lo sottolinea chiaramente lo storico Federico Chabod quando afferma che l’appello «alla volonté générale è qualcosa di nuovo», giacché dalla «constatazione di un fatto, creato soprattutto dal passato, la nazione» si passa alla «“volontà” di “creare” un nuovo fatto, vale a dire uno Stato fondato sulla sovranità popolare […], ad uno “Stato nazionale”»6. Da queste premesse la Rivoluzione aveva tratto il suo bagaglio ideologico e il suo fascino dirompente. Vi si sofferma Lucien Febvre: […] arriva un’onda di fondo, una pressione, una spinta di fondo. Arriva una rivoluzione nazionale. Arrivano eserciti che non si battono più soltanto per la soddisfazione dei loro sovrani e per il punto d’onore, ma per il trionfo di certe idee, per l’affermazione di un determinato ideale, per la propagazione di una certa fede, condivisa […] da tutta la massa della nazione; viene la Rivoluzione e tutto è destinato a crollare. Tutto crolla, in effetti. E resta solo la nazione. Quale nazione? La nazione francese, e di fronte ad essa l’Europa, l’Europa ostile, l’Europa dei re, che si deve abbattere, l’Europa delle nazioni, che si deve riconvertire.7 Fino ad allora, il termine «nazione» era stato sinonimo tanto di una «origine» (la schiatta, l’estrazione familiare), quanto di una collettività «dotata di un habitus comune, fatto di usi e costumi differenziati rispetto a quelli di altre collettività appartenenti ad ambiti territoriali diversi». Nel Settecento si poteva parlare sia di «nazione napoletana» o «veneziana» che di «nazione italiana», quest’ultima intesa tuttavia come una comunità culturale, linguistica e letteraria. Il riconoscimento di una simile identità comune non implicava affatto il ripudio della lealtà verso i vari stati preunitari. Allo stesso modo, si consideravano «patria» sia la città o la terra d’origine, sia le istituzioni alle quali si doveva lealtà, a prescindere dal loro ordinamento politico, a patto che fossero regolate «dalla virtù di un buon principe o di un buon corpo di magistrati»8. La Rivoluzione, e la dominazione napoleonica in Italia che ne seguì, avevano riformulato radicalmente questo campo semantico. È ancora Chabod ad osservare che Federico Chabod, L’idea di nazione, Roma-Bari, Laterza 2011, pp. 55-56. Lucien Febvre, L’Europa. Storia di una civiltà, Milano, Feltrinelli 2014, p. 240. 8 Cfr. Banti, op. cit., pp. 4-7. 6 7 5 […] dopo il periodo francese c’è un quid novi, di profondamente nuovo, che […] dà l’impulso al vero e proprio Risorgimento, al Risorgimento «politico» dell’Italia, anzi, […] che dà origine al costituirsi di un’Italia politica, e non solo geografica, linguistica e culturale; […] lo spirito è profondamente mutato e dal riformismo settecentesco […] si trascorre alla «volontà» rivoluzionaria […]; dal richiedere riforme in questo o in quel settore, nell’amministrazione, nella vita economica, ecc. si passa a chiedere la libertà politica e l’indipendenza e poi l’unità politica della nazione.9 Il giacobinismo aveva fatto della “nazione”, a dispetto dell’ordinamento e della legittimità del potere d’Ancien Régime, la depositaria ultima della sovranità stessa dello Stato. Tutti i lemmi che descrivevano la sfera pubblica furono dunque subordinati alla “nazione”: il termine “popolo” ne divenne sinonimo; la parola “patria” evocava il risvolto affettivo del rapporto tra il cittadino e le nuove istituzioni (“amor di patria”, “fedeltà alla patria”). “Nazione” diventò così sinonimo di “repubblica”, dal momento che l’amor patrio che i giacobini avevano elevato a suprema virtù civica coincideva con l’amore quasi devozionale per «un singolo assetto costituzionale, ovvero quello di una repubblica dotata di istituti rappresentativi»10. Quando una simile concezione della “nazione” valicò le Alpi al seguito dell’Armata d’Italia negli anni ’90 del Settecento, il clamore che ne derivò, le passioni che suscitò animarono un triennio cosiddetto «giacobino» (17961800) di aperte discussioni e dibattiti politici: ne è un esempio il concorso per la migliore dissertazione sul tema Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia (1796) indetto dall’Amministrazione generale della Lombardia liberata11. In quegli anni, patrioti come Filippo Buonarroti rifletterono sull’opportunità di un’Italia unita come “repubblica sorella” della Francia, confrontandosi principalmente su quale fosse la forma di governo più adatta alle caratteristiche della nuova Italia, senza però soffermarsi a chiarire un punto fondamentale: quale fosse la fisionomia, per così dire, della nazione ch’essi chiamavano alla riscossa. 9 F. Chabod, op. cit., pp. 58-59. A. Banti, op. cit., p. 9. 11 Fermo restando che in molti tra i primi patrioti (Foscolo, Botta, Cuoco) la “nazione” evoca ancora un orizzonte regionale (Venezia, Lombardia, Napoli), a riprova di quanto fosse radicata l’idea localistica di “patria” dei decenni precedenti la Rivoluzione francese. 10 6 Da un lato, questo sorprendente disinteresse per un problema così rilevante dipendeva dal fatto che il caso italiano veniva spesso considerato come una semplice riproposizione di quello francese, del quale sovente si riciclavano lessico e simbologie; il berretto frigio e il fascio littorio divennero così attributi iconografici dell’Italia personificata a immagine e somiglianza della Francia giacobina. Dall’altro, tale curioso imbarazzo era dettato dalla consapevolezza che in fondo un autentico anelito d’italianità, al di là degli auspici degli intellettuali rivoluzionari, sembrava estraneo alla stragrande maggioranza della popolazione. Perché il sentimento nazionale conquistasse anche le masse era necessario, abbastanza paradossalmente, completare dapprima l’unità politica: l’opera pedagogica del nuovo Stato unitario avrebbe soltanto in seguito cementato una forte coscienza nazionale12. Alla luce di tutto questo, appare evidente come l’ideale patriottico dovesse fare i conti con una netta contraddizione tra gli obiettivi che si poneva e i suoi stessi presupposti: il programma dell’emancipazione nazionale si fondava naturalmente sulla convinzione che la nazione fosse una realtà viva, attiva, consapevole; in una parola, che esistesse una coesa comunità nazionale italiana. Ma tanta fiducia trovava nella realtà, tanto alla fine del Settecento quanto nei primi decenni dell’Ottocento, più smentite che conferme. Era arduo stabilire su quali basi si potesse condurre all’unità politica una penisola da sempre suddivisa in vari Stati, tra l’altro scarsamente integrati gli uni con gli altri, ed abituati a guardarsi l’un l’altro con diffidenza. Alla relativa omogeneizzazione istituzionale napoleonica, peraltro di breve durata, era seguita, in Italia come nel resto d’Europa, una generale restaurazione dell’assetto prerivoluzionario: sicché dinanzi agli occhi dei patrioti degli anni Dieci e Venti dell’Ottocento si stendeva ancora un mosaico di nove Stati indipendenti assai diversi per caratteri istituzionali e normativi. Notava nel 1814 Gian Pietro Vieusseux, in una lettera al filosofo svizzero Sismondi: «non vedo in Italia né spirito nazionale né italiani: io non ci vedo che dei napoletani, dei romani, dei lombardi, dei liguri, che si detestano reciprocamente»13. Né i traffici commerciali né il comune patrimonio culturale e linguistico14 potevano ridurre simili divergenze. L’interdipendenza economica tra i vari Stati italiani era pressoché nulla, 12 A. Banti, op. cit., p. 16. Cit. in Banti, op. cit., p. 26. 14 A. Banti, op. cit., pp. 24-26. 13 7 data la difficoltà delle comunicazioni e dello scambio di merci da una regione all’altra della penisola; tanto la seta lombarda quanto l’olio delle Due Sicilie – per fare un paio di esempi – erano destinate in gran parte alle piazze europee. La questione linguistica, poi, stava a cuore a una ristrettissima minoranza d’intellettuali; se gli italofoni ammontavano, considerando anche coloro che conoscevano la lingua parlata in virtù della comprensione dell’italiano scritto, ad una percentuale molto ridotta, la grandissima maggioranza della popolazione analfabeta usava il dialetto; le minoranze istruite di regioni come il Piemonte, poi, parlavano e scrivevano in francese. In un’Italia siffatta ebbe origine, nel contesto politico-ideologico della Restaurazione, il movimento risorgimentale, alla testa del quale si pose un gruppo eterogeneo di ex giacobini, giovani intellettuali, laureati disoccupati e nobili desiderosi di recuperare parte del prestigio perduto. Ma in che circostanze questi uomini maturarono la loro vocazione patriottica? La domanda non è così oziosa come potrebbe sembrare, dal momento che sin dai primissimi anni del secolo (1802-03) e fino alla metà degli anni ’40 non era possibile discutere pubblicamente di problemi politici; la repressione in questo senso accomunò le amministrazioni napoleoniche e quelle “restaurate” dei decenni successivi. Spentasi quindi la fugace fiammata del triennio giacobino, il dibattito attorno alla nazione e all’ordinamento politico che avrebbe dovuto assumere venne a rifugiarsi nel segreto delle Società clandestine; non certo il canale preferenziale per la diffusione di un messaggio che, invece, avrebbe avuto bisogno di un vasto pubblico. Di ben altra rilevanza per le sorti dell’ideale patriottico furono i contributi degli artisti, dei letterati, dei poeti, dei compositori, gli intenti e i sottintesi politico-ideologici dei quali potevano essere dissimulati più agevolmente15. Non che organizzazioni come la Giovine Italia non abbiano avuto alcun ruolo nella propaganda patriottica: ma dalla memorialistica di cui più avanti si farà qualche cenno emerge come tra i giovani patrioti l’esperienza «[…] sia per il mutamento di clima politico che per la scelta di un certo numero di intellettuali di prim’ordine, il tema della nazione si sganciò del tutto dall’ambito dell’ingegneria costituzionale […] e si proiettò nello spazio della produzione poetica, narrativa, melodrammatica o pittorica. In tal modo il discorso nazionalpatriottico poté avere una presa e un successo di pubblico che […] gli sarebbe stato negato quando fosse stato affidato esclusivamente al classico trattato politico […].» (A. Banti, op. cit., p. 29). 15 8 letteraria ed emotiva di una nazione oppressa abbia preceduto qualsiasi chiara consapevolezza politica. […] l’attimo dell’illuminazione nel quale i futuri giovani patrioti del Risorgimento “scoprono” la nazione italiana, riescono a figurarsela, capiscono che è per lei che è necessario lottare, anche a rischio della propria vita, scatta quando essi si trovano di fronte a testi che proiettano quell’idea su un piano emotivo e simbolico [il corsivo è mio].16 La “nazione italiana” trova dunque una prima formulazione ideale e suggestiva all’interno della produzione letteraria, drammaturgica, iconografica; la rievocazione di episodi spesso risalenti ad un passato quasi dimenticato, ai quali vengono tuttavia restituite solennità ed attualità, induce al coinvolgimento emotivo, all’accostamento al presente; la “riscoperta” di una patria viva e sofferente nel passato giustifica l’impegno per il suo riscatto nell’avvenire. La battaglia politica d’inizio Ottocento trasse dunque da quelle pagine, da quelle scene, da quei versi il proprio vocabolario e il proprio spirito; quelle opere contribuirono a mettere a fuoco per quale “nazione” si dovessero rischiare la libertà e la vita; infine, e questo è quel che qui più conta, il passato che quegli autori rievocarono divenne, come anticipazione della riscossa imminente, come testimone delle virtù innate del popolo, un pilastro dell’immaginario nazionale. Qual è dunque il medium formativo che svela l’esistenza di una comunità viva e sofferente, raccolta in confini geografici che travalicano quelli delle piccole patrie […]? L’illuminazione sembra arrivare – almeno per tutti coloro che lasciano testimonianze esplicite al riguardo – dalla lettura di testi di ispirazione nazionalpatriottica; e tra questi, i testi di carattere letterario (tragedie, poesie, romanzi) sembrano avere un impatto superiore a qualunque altra forma di iniziazione alla nazione17. Il giovane D’Azeglio si convertì alla causa nazionale leggendo Alfieri, che lo animò di un repubblicanesimo appassionato: «Chi non è stato più o meno cittadino d’Atene o Sparta o almeno San Marino quand’era studente? Chi, fra i quindici ed i vent’anni non ha più o meno ammazzato un tiranno, puro 16 17 A. Banti, op. cit., p. 44-45. A. Banti, op. cit., p. 37. 9 peccato di gola, beninteso?»18. Lo stesso Mazzini confesserà che la lettura giovanile dell’Ortis lo «infanatichì», tanto che sua madre ebbe timore che il figliuolo si togliesse la vita19. Anche i patrioti della seconda generazione, nati dopo il 1815, pur non trovando nella letteratura il solo veicolo della passione nazionale20, si lasciarono infiammare da quelle opere. Ricorda Marco Minghetti: […] ogni lettura che ispirasse amor di patria era una festa […] Che [dirò dell’effetto prodotto dalle] Mie prigioni di Pellico? Che dell’Assedio di Firenze del Guerrazzi? Affrontare per l’Italia ogni pericolo, soffrire l’esiglio, la prigione, dare la vita per essa, ci parevano corone di martirio invidiabile. Ed io credo che questi sensi fossero allora comuni, e che ad essi dobbiamo se fu possibile crearci una patria [il corsivo è mio].21 Per l’adesione di Giovanni Visconti Venosta agli ideali patriottici, poi, fu decisivo il ruolo del suo maestro Cesare Correnti, un riferimento per tanti giovani, professionisti, preti, «che si incaricavano del contrabbando patriottico dei libri e dei giornali e, alla fine, dei fucili»22: Questa direzione degli studi, veramente, non fu molto assidua, né molto efficace; in quell’anno [1847] le menti erano distratte da ben altre preoccupazioni, e gli animi cominciavano a commoversi al soffio di quelle vaghe aspirazioni, e di quei nuovi entusiasmi che preludevano al quarantotto. Ma se nel Correnti non ho trovato il maestro de’ miei studi, posso dire di aver trovato presso di lui la mia prima educazione patriottica. […] La coltura, la gentilezza dell’animo, l’ingegno immaginoso, che sapeva trovare per ciascuno il linguaggio più affascinante, gli davano un grande prestigio […]. Egli se ne valeva per infervorare tutti nell’amore all’Italia, e per tenerli pronti a qualsiasi audacia allo scopo di liberarla dagli stranieri.23 18 Ibidem. A. Banti, op. cit., p. 38. 20 Sempre Banti nota che, se i patrioti della prima generazione familiarizzano con la nazione prevalentemente attraverso la lettura di testi del «canone», i più giovani adepti del movimento risorgimentale furono educati al patriottismo da membri della famiglia e talvolta dai loro insegnanti; è il caso di G. Visconti Venosta. 21 Marco Minghetti, Miei ricordi, I: Anni 1818-1848, Roux, Roma-Torino-Napoli 1889, p. 70. 22 Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù, Cogliati, Milano 1904, p. 41. 23 G. Visconti Venosta, op. cit., pp. 38-39. 19 10 Ma anche per Venosta furono fondamentali le prime letture patriottiche: «[…] l’autore che prediligevo sopra tutti era il Berchet. Ne sapevo a memoria le poesie, le recitavo, le declamavo nella mia stanza, le ripetevo ai miei compagni, e se ne prendevano tutti insieme delle vere ubbriacature»24. Giacché questi non furono casi isolati nel panorama patriottico, si può concludere che i primi ad «immaginare»25 l’Italia furono scrittori e lettori, drammaturghi e spettatori, artisti e fruitori di opere d’arte. Dunque non resta, per meglio approfondire la questione, che indagare i tratti caratteristici del «canone risorgimentale». 1.2 La passione nazionale La produzione poetica, narrativa, drammaturgica che ha contribuito a delineare un profilo nazionale italiano ha visto la luce tra il 1801 e il 1849. Negli anni che vanno dalla dominazione napoleonica al «lungo Quarantotto» (1846-1849) si assiste all’elaborazione, alla diffusione, al consolidamento di una narrazione tanto coerente da suggerire l’esistenza di un vero e proprio «pensiero unico della nazione»26, benché la scena culturale patriottica sia ricca di voci e interpreti differenti27. 24 G. Visconti Venosta, op. cit., p. 39. Il riferimento è alla fortunata categoria storiografica introdotta da Benedict Anderson, autore nel 1983 del celebre saggio Comunità immaginate (ed. italiana Roma, manifestolibri 1996). 26 Cfr. Alberto Mario Banti, La nazione del Risorgimento, Torino, Einaudi 2011, p. 53. 27 Alcune tra le opere del «canone risorgimentale» enumerate da Banti nel suo La nazione del Risorgimento: tra le poesie patriottiche, quelle di Leopardi, Dei sepolcri di Foscolo, Fratelli d’Italia di Mameli, Marzo 1821 di Manzoni; tra le tragedie, Arnaldo da Brescia di Niccolini, Adelchi e Il Conte di Carmagnola di Manzoni; tra i romanzi, Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, L’assedio di Firenze di Guerrazzi, Ettore Fieramosca di D’Azeglio; tra i saggi storici, la Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789 di Botta; tra le opere di memorialistica Le mie prigioni di Pellico; tra i melodrammi L’assedio di Corinto di Rossini, Nabucco e I lombardi alla prima crociata di Verdi. Queste opere non sono che la «punta dell’iceberg» (Carlotta Sorba, Il melodramma della nazione, Roma25 11 Pur nella varietà delle forme espressive e delle inclinazioni personali di ciascun autore, emerge un quadro narrativo ben preciso, incentrato sull’immagine di una patria oppressa dallo straniero, divisa internamente in fazioni ostili, umiliata nella sua virtù, eppure alla ricerca di un eroico riscatto. La comunità nazionale si configura come una sorta di nucleo familiare che include tutto un popolo, etnicamente omogeneo, che parla una medesima lingua ed abita un territorio ben delimitato28, ma che si trova – ormai da secoli – in balìa dello straniero. Quasi assuefatto ad una servitù di lunga data, il «volgo disperso che nome non ha» può trovare il suo riscatto soltanto riconoscendosi oppresso e contrapponendosi all’invasore la cui lunga dominazione ha gettato la penisola nel declino più cupo. «È il riconoscimento fondamentale di quel passaggio, lo svelamento di un’oppressione contro cui mobilitarsi, a costituire la molla decisiva per la resurrezione […]»29; tant’è vero che buona parte del discorso patriottico si struttura in opposizione all’inquietante figura dello “straniero”, in quanto tale barbaro e dispotico, a prescindere da qualunque valutazione che non insista sull’alterità irriducibile tra la stirpe degli oppressi e quella degli oppressori30. Riconoscersi come popolo significava, nei primi decenni dell’Ottocento, ricostruire una trama, anche vaga ed elastica, di ricordi ed Bari, Laterza 2015, p. 139) di una produzione che impegnò naturalmente anche molti autori minori. 28 Gli stessi confini “naturali” d’Italia vennero ridefiniti col mutare dell’opportunità politica e degli equilibri di forza internazionali nei quali la penisola si trovava a barcamenarsi. Questo comportò sia rinunce significative sul piano territoriale – Corsica, Nizza, Savoia – sia la conseguente esclusione dal pantheon nazionale di alcuni personaggi dal forte valore simbolico: è il caso dell’eroina nizzarda Caterina Segurana, distintasi nell’assedio di Nizza del 1543, che perse qualsiasi “diritto di cittadinanza” nella mitologia patriottica dopo l’annessione della città alla Francia. 29 Carlotta Sorba, Il melodramma della nazione, Roma-Bari, Laterza 2015, p. 137. 30 Come annotava un veterano austriaco della guerra 1848-1849, «l’odio contro l’Austria corrose e si insinuò sì profondamente negli Stati italiani e nella vita del popolo che nell’anno 1848 faceva esplosione […]. Chi leggesse i giornali […] doveva credere che il paese fosse caduto con la dominazione austriaca nella più profonda barbarie.» (cfr. Sorba, p. 144). 12 episodi da far confluire in una memoria storica il più possibile condivisa, che preservasse così la storia patria dall’oblio31. Complice la moda letteraria del tempo, che apprezzava il genere del romanzo storico portato alla ribalta da Ivanhoe (1819) di Walter Scott, molte delle avventure destinate ad imprimersi nell’immaginario del pubblico erano ambientate in un passato – più o meno lontano, più o meno accuratamente ricostruito32 – nel quale il lettore facilmente tendeva ad immedesimarsi. A quell’epoca, ancora non s’era imposta una netta distinzione di metodo e di linguaggio tra la produzione letteraria e quella storiografica: Una porosità molto particolare tra i generi e le forme narrative distingue la produzione culturale del periodo, producendo continui adattamenti e riappropriazioni di intrecci e di personaggi tra letteratura di finzione e opere di storiografia, ma anche tra romanzo, poesia e teatro.33 In questo gioco di continui rimandi e riferimenti a personaggi e situazioni già prossimi alla mitizzazione, non era troppo importante trovare effettivi collegamenti tra episodi sovente molto lontani gli uni dagli altri: «non era necessario che fosse stabilito un qualunque nesso evolutivo tra Legnano (1176) e Gavinana (1530), perché quegli episodi assumessero un senso per la storia della nazione», purché si trattasse di «figure» che anticipassero, agli occhi dei patrioti, un imminente riscatto nazionale34. Talvolta la costernazione per gli eterni vizi dell’Italia – sempre incline, indifferente alle minacce esterne, a lacerarsi all’interno – trova diretta espressione, come nel romanzo Niccolò de’ Lapi (1841) di D’Azeglio: «[…] qual demonio dell’inferno» lamenta l’eroe Lamberto «ci saetta ne’ cuori il suo veleno, che sempre tra noi ci abbiamo a lacerare! tra noi fratelli! tra noi d’un istesso sangue, d’un’istessa lingua, d’un’istessa famiglia!»35. Non Si veda a proposito Adrian Lyttelton, “Creating a National Past: History, Myth and Image in the Risorgimento”, in Making and Remaking Italy. The Cultivation of National Identity around the Risorgimento, Oxford and New York, Berg 2001. 32 Molto spesso le vicende rievocate appartenevano ad un Medioevo dai tratti abbastanza elastici, che includeva il Cinquecento e, agli occhi dei patrioti, «traboccava di passionalità e di furore» (cfr. Sorba, op. cit., p. 137); se ne parlerà più dettagliatamente nel paragrafo 1.3. 33 C. Sorba, op. cit., p. 128. 34 A. Banti, op. cit., p. 76. 35 Citato in Banti, op. cit., p. 108. 31 13 doveva risultare difficile enfatizzare l’inutilità del massacro tra «fratelli», come fece anche Manzoni rievocando, nel suo Conte di Carmagnola (1820), le interminabili lotte tra Milano e Venezia. Dopo la battaglia di Maclodio del 1427, elevata a simbolo di eccidio catastrofico ed inutile tra consanguinei, lo straniero può scendere nell’Italia devastata dagli odi intestini per farsene signore. La patria è condannata dalla rissosa avidità dei suoi figli: Tu che angusta a’ tuoi figli parevi; / Tu che in pace nutrirli non sai, / Fatal terra, gli estrani ricevi: / Tal giudizio comincia per te. / Un nemico che offeso non hai, / A tue mense insultando s’asside; / Degli stolti le spoglie divide; / Toglie il brando di mano a’ tuoi Re.36 Nel tentativo di ricucire simbolicamente le ferite aperte dalle antiche rivalità cittadine, vi furono, negli anni successivi, iniziative originali di riconciliazione: negli anni Quaranta D’Azeglio suggerì che Genova restituisse a Pisa un antico trofeo che le aveva sottratto in una battaglia navale della fine del XIII secolo. L’operazione – che aveva incontrato la resistenza del popolo genovese, affezionato a simili cimeli – poteva fungere da esempio per analoghe cerimonie di simbolica pacificazione: […] sarebbe bene che tutte le città italiane che hanno di questi trofei vergognosi, li rimandassero donde furon tolti. Non sono gran cosa ma fanno buon effetto, e poi il mondo si muove più co’ fuscelli che colle stanghe.37 Una narrazione che insisteva sulla gravità insensata delle antiche rivalità suscitava evidentemente il bisogno di dar prova, alla vigilia di un riscatto che si sperava prossimo, della massima concordia; e faceva un «buon effetto» anche il cerimoniale seppellimento dell’ascia di guerra tra città tradizionalmente nemiche, per porre fine al banchetto dello straniero sulle spoglie di un paese diviso. Nella letteratura che prepara e segue il Quarantotto, si fa ampio uso di espressioni vivide ed impressionanti per descrivere l’oppressione; il registro melodrammatico ricerca l’enfasi nella raffigurazione delle violenze e dei 36 37 Citato in Banti, op. cit., pp. 78-79. Citato in C. Sorba, op. cit., p. 187. 14 crimini perpetrati da mano straniera. Si leggeva in un proclama bolognese del 1848: I barbari vittoriosi tutto vi rapiranno, tutto vi incendieranno: le vostre donne stuprate, i vostri figli scherniti e trafitti serviranno di sollazzo e di gioia alle sanguinarie loro brame.38 Una cronaca delle Cinque giornate a firma di Ignazio Cantù si abbandona così alla descrizione di indicibili sevizie sui bambini: Furono trovati molti bambini o infranti alle muraglie o calpesti sul suolo; un gruppo di otto era trattato a quel modo; due altri inchiodati a una cassa, due bruciati coll’acqua ragia, un altro per la bajonetta fitto a una pianta e lasciato là in un’ora di contorsioni sotto gli occhi materni […].39 L’uso insistito del pathos drammatico, l’enfasi sul dolore di madri e figli fanno parte di un repertorio di grande successo, che include non solo la memorialistica, la narrativa, la drammaturgia, ma anche la produzione storiografica. Nota a proposito Carlotta Sorba: Soldati austriaci o gendarmi italiani al loro servizio sono descritti mentre maltrattano vecchi accattoni agli angoli della strada, mentre prelevano dal proprio letto ammalati e moribondi per condurli in prigione, o mentre fanno scendere la sciabola sul capo di una bambina di sei anni. […] È interessante notare come anche in buona parte delle opere storiche pubblicate negli anni Quaranta – quelle più politicamente orientate – il linguaggio e l’articolazione narrativa risultino molto simili.40 Un’opera di cui si parlerà diffusamente più avanti, la Storia della Lega lombarda (1848) del monaco Luigi Tosti, risponde in pieno a questo registro dai tratti enfatici e patetici, docili ad essere trasferiti dalla pacifica fruizione di testi o spettacoli alla lotta politica eversiva. In opere storiche come quella del padre Tosti, ma anche nell’Assedio di Firenze (1836) di Francesco Guerrazzi, un linguaggio simile a quello delle memorie di Cantù si riscontra ad esempio nelle rievocazioni dei lunghi assedi a cui il tiranno di 38 Citato in C. Sorba, op. cit., p. 157. C. Sorba, op. cit., p. 162. 40 C. Sorba, op. cit., p. 158. 39 15 turno sottopone le città italiane: celebre è l’episodio dell’assedio di Crema, descritto dal monaco napoletano nella Storia della Lega. Tra gli ostaggi e i prigionieri che aveva, Cremaschi e Milanesi, [Federico Barbarossa] fece prendere alcuni e legare su per le facce di quel gatto o castello, onde accostato che fosse alle mura, quei della terra si tenessero dal trarre colle macchine per pietà de’ loro o congiunti o amici, che sarebbero stati sfracellati ad ogni gitto di pietra. Veniva accostandosi il terribile ingegno alle mura, e come ciascuno degli assediati poté ravvisare su di quello o il figlio o il fratello, fu un silenzio ed un fremito di pietà in tutti i cuori, che stavano in due tra la carità de’ congiunti e quella della patria.41 Qui l’amor patrio, che muove all’eroismo in battaglia, si dimostra più forte dell’affetto stesso per i propri cari: gli ostaggi immobilizzati sul «castello» semovente dell’esercito imperiale, pur sapendo che verranno colpiti a morte, incoraggiano i difensori a tirare; e questi ultimi, benché addolorati, non si sottraggono alla terribile necessità. Esempi del genere sono assai comuni. Nell’immaginario patriottico spicca d’altronde la figura dell’eroe guerriero42: un soldato, un cavaliere valoroso che ingaggia, da solo o a fianco dei commilitoni, una lotta all’ultimo sangue per l’onore delle armi italiane o l’indipendenza politica, che può concludersi soltanto con la vittoria – ancorché spesso inutile oppure vanificata da eventi successivi – o col martirio. Nelle sue Fantasie (1829), Giovanni Berchet immagina il patimento d’un ferito a morte a Legnano, il quale, sorretto dalle donne – «[…] Per tre ferite sanguina / rotto al guerriero il petto; / né tuttavolta il rigido / pugno l’acciar lentò» – si abbandona al rammarico per le sorti dell’Italia lacerata dalle discordie: Oh! Dannati que’ giorni quand’uomo / da qual fosse città peregrino, / per qual porta pigliasse il cammino, / uscia verso un’esosa città! / Non la siepe che l’orto Luigi Tosti, Storia della Lega lombarda, Montecassino, pe’ tipi di Montecassino 1848, p. 169. 42 Si veda, in merito alla narrazione dell’eroismo guerriero nel Risorgimento, Enrico Francia, “Eroi, popolo e soldati. Narrative patriottico-militari nell’Italia del Risorgimento”, in Piero Del Negro, Id. (a cura di), Guerre e culture di guerra nella storia d’Italia, Milano, Unicopli 2011. 41 16 v’impruna / è il confin d’Italia, o ringhiosi; / sono i monti il suo lembo; gli esosi / son le torme che vengon di là. Le fiumane dei vostri valloni / si devian per correnti diverse / ma nel mar tutte quante riverse / perdon nome e si abbraccian tra lor. / Così voi, come il mar le lor acque, / tutti accolga un supremo pensiere, / tutti mesca e confonda un volere, / l’odio al giogo d’estranio signor.43 Come nel Niccolò de’ Lapi, anche in questo caso l’appello alla concordia viene da un combattente; e il trasporto emotivo di simili esortazioni doveva risultare irresistibile, se Giosuè Carducci ha lasciato scritto nelle sue memorie che i versi di Berchet non si potevano leggere «senza ruggire»44. Certamente l’intreccio tra impegno civile, fascino del coraggio guerriero e patetismo delle passioni doveva suscitare forti emozioni e grande suggestione. Ma la narrazione patriottica non si esaurisce nella rappresentazione esplicita e semplice di antichi episodi gloriosi. Spesso la politica rimaneva sullo sfondo, a vantaggio di intrecci “privati”, di solito amorosi, che coinvolgevano un eroe, un’eroina, un traditore – quest’ultimo regolarmente al soldo dell’oppressore straniero. È il caso ad esempio del melodramma di Costanzo Ferrari Maria da Brescia ovvero l’amore e la patria (1849), che, pur non rientrando nel novero delle opere patriottiche più celebri, mescola in misura significativa impegno politico e amore romantico nella figura della protagonista Maria. In quest’opera, i personaggi «non sono eroi o celebrità politiche, ma figure quotidiane, modeste e sconosciute, che vivono tutto il dramma della persecuzione insostenibile a cui il paese è sottoposto»45. In molti altri casi quegli stessi episodi di valore ormai agevolmente riconoscibili dal pubblico – ad esempio Legnano – forniscono soltanto la cornice in cui si muovono i protagonisti: persone comuni che vivono al contempo la passione amorosa e l’impegno patriottico. Nell’opera verdiana La battaglia di Legnano (1849), per esempio, al cuore del dramma è posto il conflitto tra due amici cavalieri che, tra malintesi e colpi di scena, si trovano Giovanni Berchet, “Le Fantasie”, in Id., Opere, a cura di Egidio Bellorini, vol. I, Bari, Laterza 1911, p. 83, vv. 321-336. 44 Citato in C. Sorba, op. cit., p. 137. 45 C. Sorba, op. cit., p. 172. 43 17 a disputarsi l’amore della bella Lida; in tutto questo, il Barbarossa non ricopre che un ruolo marginale. In simili trame, è centrale il tema della purezza femminile: l’immagine degli «empi amplessi» delle donne italiane con l’oppressore straniero – prevaricatore della dignità nazionale come dell’onore femminile – è un’ossessione ricorrente nell’elaborazione patriottica di una nazione umiliata dall’altrui brutalità. Perciò «l’onore da difendere, l’onore offeso nella violazione della terra, l’onore offeso nella violazione della dignità delle persone, l’onore offeso nella violazione della purezza delle donne»46 rientrano a pieno titolo tra gli argomenti di massima suggestione del discorso nazional-patriottico47. Opere differenti, dunque, offrono contributi diversi all’elaborazione della questione nazionale italiana, arricchendola di più prospettive che, nel loro insieme, restituiscono un quadro coerente e coinvolgente. 1.3 La suggestione per il Medioevo Nel panorama ideale dei patrioti del Risorgimento, il Medioevo esercita un grande fascino. D’altronde, nel cuore della stagione del “medievalismo” ottocentesco, tutta la cultura europea si tuffa nei “secoli bui” alla ricerca di simboli identitari e motivi architettonici, letterari, artistici. Si pensi per esempio «alla enorme fortuna del romanzo e della pittura storica, agli orientamenti del collezionismo americano, alla diffusione dell’architettura neogotica negli Stati tedeschi […], al gusto per il facsimile»48. Un mondo scosso dai recenti sommovimenti politici, sociali ed economici si rifugia in un passato – inventato ex novo, beninteso – dai tratti rassicuranti ed evocativi. 46 A. Banti, op. cit., p. 93. A riprova del fatto che, come nota Banti, anche il patriottismo italiano abbraccia un’idea di comunità etnica, di sangue e parentela. Questo contrasta con l’opinione di Federico Chabod, il quale riteneva che alla base dell’idea di nazione italiana vi fosse il puro e semplice volontarismo – contrapposto all’altrettanto puro naturalismo germanico. 48 Ilaria Porciani, “Il medioevo nella costruzione dell’Italia unita: la proposta di un mito”, in Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino 1988, p. 164. 47 18 Sotteso a questo fenomeno stavano più in generale il senso di sbalordimento di fronte all’esperienza della rivoluzione industriale, percepita come irrimediabile rottura con un lunghissimo passato; la percezione, acutissima, della nuova civiltà delle masse […]; l’inquietante consapevolezza del volto anonimo del capitalismo finanziario; elementi che convergevano nel far sentire con forza la perdita di antiche certezze […].49 Gli uomini che immaginano l’Italia-nazione, che attingono a piene mani al ricco repertorio medievale, non fanno eccezione. A riprova del carattere internazionale di questo revival, è interessante notare come a ricercare nella penisola i tratti d’un passato variamente “medievale” siano stati, prima ancora degli italiani, gli stranieri50. Gli intellettuali europei di inizio Ottocento – la tradizione del Grand Tour non si era ancora estinta! – si recavano in Italia attratti non più o non soltanto dalle rovine dell’antichità romana, ma dal gusto del “pittoresco”: speravano di ritrovare, in un paese così estraneo per molti versi all’Europa moderna, un angolo dimesso di Medioevo. Sognavano un mondo popolato da «romantici briganti» sospeso tra un passato – tangibile – che sopravviveva ai secoli, e una modernità che faticava a prender piede: un paese il cui fascino stava in gran parte nella sua aura di nostalgico abbandono. Il disappunto li coglieva quando si rendevano conto che in Italia non c’era «dell’antico volto fiorentino [sic] neppure l’ombra»51 e che le loro romantiche aspettative erano destinate ad essere deluse. Al di là tuttavia dello scorno d’un John Ruskin e di altri più o meno illustri visitatori, va segnalato come la suggestione di un’identità italiana tipicamente medievale abbia catturato anche la pubblicistica risorgimentale, e come veri e propri miti patriottici destinati ad imprimersi nell’immaginario collettivo siano stati costruiti proprio a partire da episodi risalenti a quei secoli. Nell’elaborazione di una identità italiana ben distinta da quella delle altre nazioni europee, era di scarsa utilità il rimando alla 49 Ibidem. Cfr. Duccio Balestracci, Medioevo e Risorgimento. L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino 2015, al quale si rimanda anche per una presentazione del medievalismo in tutte le sue varie declinazioni, specialmente in relazione all’elaborazione d’una identità nazionale italiana. 51 Citato in Balestracci, op. cit., p. 24. 50 19 tradizione romana; il ricordo di un impero52 universale non poteva contribuire efficacemente al bisogno di una identità specificamente nazionale, senza contare che, nel suo sforzo attualizzante, la narrazione patriottica doveva far leva più sul dolore di un popolo oppresso che sulla pompa di una stirpe di dominatori. Scrive a proposito Adrian Lyttelton che «alle sue origini, il Risorgimento era soprattutto anti-romano, o al limite inteso a contrastare il continuo richiamo alla gloria imperiale di Roma»53. Beninteso, l’orgoglio patrio si sarebbe poi appropriato dell’eredità latina, ma soltanto dopo averne vagliato la sopravvivenza e la continuità lungo i secoli dell’età di mezzo, segnati – questi sì – da eventi particolarmente caratterizzanti un passato condiviso54: la dominazione longobarda, a proposito della quale sorse un’articolata querelle, come si vedrà in uno dei prossimi paragrafi; e la rinascita delle città con lo sviluppo dei liberi comuni55, le cui vicende non potevano lasciare indifferente una cultura Per gli stessi motivi il ricordo dell’antica Repubblica di Venezia non suscitò particolari emozioni, almeno in una prima fase. A giudizio di Adrian Lyttelton, era proprio lo status di grande potenza della Serenissima a renderne difficile il collocamento in un quadro unitario. Solo il dannunzianesimo saprà – molto più avanti, e in tutt’altro contesto storico – rievocarne suggestivamente il mito, in relazione alle nuove ambizioni italiane su Istria e Dalmazia. 53 Adrian Lyttelton, “Creating a National Past: History, Myth and Image in the Risorgimento”, in Making and Remaking Italy. The Cultivation of National Identity around the Risorgimento, Oxford and New York, Berg 2001, p. 44. «[…] in its origins the Risorgimento was predominantly anti-Roman or, at least, designed to combat the fixation on Rome’s imperial glory». La traduzione dall’inglese è mia. 54 Una simile prospettiva non era comunque destinata a durare. Tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento torneranno di estrema attualità il fascino di Roma e degli Stati moderni, più adatti a far da cornice storico-programmatica alle nuove velleità imperialistiche dell’Italia unita, desiderosa non già di riaffermare per la propria indipendenza – ormai raggiunta e consolidata – ma di imporsi quale grande potenza coloniale. «Del resto, in Italia, il giovane XX secolo sta già ricercando altre radici e Roma sta per soppiantare il retaggio medievale nella costruzione della cifra identitaria della nazione» (cfr. Balestracci, op. cit., p. 132). 55 Come si vedrà più avanti, il mito comunale poteva adattarsi bene al centro-nord della penisola, ma assai meno al mezzogiorno, il cui “corrispettivo” di Legnano, i Vespri siciliani, fu facilmente tinto di ghibellinismo; ciò a riprova dell’estrema varietà – e contraddittorietà – delle più o meno grandi epopee medievali, naturalmente impossibili da ridurre ad una trama coerente. 52 20 legata ad una dimensione comunitaria ed identitaria veracemente localistica56. Si può dire che la vera novità, la vera «invenzione» introdotta dalla pubblicistica risorgimentale sia stata infatti la trasposizione57 su scala nazionale di miti che fino ad allora si erano rivelati incapaci di superare le mura cittadine, ma che pure già contribuivano – ciascuno all’ombra del proprio campanile – a dar lustro alla memoria collettiva. Imprese e memorie che fino ad allora erano rimaste patrimonio cittadino o regionale furono elevate ad episodi culmine di una storia nazionale – peninsulare – che affondava le radici in un passato plurisecolare. Un simile collage58 era reso necessario dall’enorme ricchezza di eroi ed episodi di storia cittadina o regionale, emersi nella maggioranza dei casi dai lunghi secoli dell’evo medio. Scrive Ernesto Sestan a proposito del maggiore – ma tutt’altro che unico, né incontrastato – di questi miti, quello della Lega lombarda: Il ricordo di Legnano ebbe sempre un’estensione geografica alquanto limitata, essenzialmente all’Italia padana. I numi patriottici, segnacolo in vessillo, erano vari: il mezzogiorno aveva il suo Giovanni da Procida, Roma i Crescenzi e i Cola di Rienzo, la Toscana i suoi Pier Capponi e Ferruccio e magari la Lucrezia 56 «Tre fratelli, tre castelli» lamentava Carducci a proposito delle tante Deputazioni di storia patria, associazioni di storia locale nate all’indomani dell’unità, tutte – tra l’altro – incentrate sulla storia medievale. «Sono di per sé rilevanti i nomi di questi istituti, quasi totalmente preposti agli studi sul medioevo, eppure intitolati alla “storia patria” tout court, quasi che storia d’Italia e storia del medioevo fossero concetti esattamente sovrapponibili» (cfr. Porciani, op. cit., p. 165). 57 Cfr. Lyttelton, op. cit., p. 28. Va da sé che anche l’intera rilettura in chiave nazional-patriottica sia frutto di varie “licenze” che gli autori, consapevoli o meno – e che non sempre, anzi quasi mai erano storici di professione – si presero nelle loro ricostruzioni, che oggi appaiono anche per questo superate. 58 Compiuto con fin troppa disinvoltura da Goffredo Mameli col suo Canto degli Italiani, composto nel 1847 ed assurto molto tardi al rango di inno nazionale dell’Italia repubblicana. Vi è riproposta com’è noto un’ampia galleria di eroi e situazioni: da Scipione al Balilla, dalla Lega a Ferruccio. Si tratta di «una sorta di “confederazione dei miti patriottici”», come la definisce Cardini, nella quale convivono epopee spesso di segno contrapposto. Non si può dire, insomma, che il problema della coerenza storica togliesse il sonno agli entusiasti mitografi del Risorgimento. 21 Mazzanti, Ancona la sua Stamura, Genova il Balilla, il Piemonte Pietro Micca, Venezia democratica il suo Baiamonte Tiepolo. Legnano rimase sempre un po’ solo lombarda.59 Anche quello che diventerà il più importante dei miti patriottici, dunque, non godeva, prima della stagione risorgimentale, che di una risonanza locale. Alla luce di ciò è facile rendersi conto di quanto frastagliata apparisse la memoria collettiva della “nazione” italiana prima della sua moderna rielaborazione: o, per meglio dire, di quanto si presentasse difficile l’assemblaggio di un immaginario che di nazionale – nel senso risorgimentale del termine – aveva ben poco, legato com’era in fin dei conti alle antiche memorie delle “piccole patrie”. Neppure la semplice giustapposizione di nomi ed episodi, tuttavia, poteva dare forma apprezzabile al nuovo armamentario memoriale di cui la nazione abbisognava. A dare un decisivo contributo fu anche qui uno straniero, il ginevrino – di origini pisane – Jean-Charles Léonard Simonde de Sismondi60, la cui gigantesca opera sulle «Repubbliche» italiane del Medioevo dava finalmente una trama chiara ed accattivante all’intero passato comunale italiano, fondata sulla libertà e sullo spirito d’indipendenza dei comuni dei primi secoli dopo il Mille. I lettori italiani di Sismondi potevano finalmente trovare motivi d’orgoglio “patrio” nella riscoperta – emotivamente partecipata – di eventi che apparivano tutt’altro che remoti nella loro potenza evocativa, fortemente enfatizzata dalle molte rivisitazioni poetiche. Si legge a questo proposito nei “Ragguagli storici” che fanno da introduzione all’edizione del 1829 delle Fantasie di Giovanni Berchet: Chi legge la storia delle Repubbliche italiane al medio evo, per poco non si crede trasportato a’ tempi meravigliosi della Grecia libera. Così splendidi esempj di valore ne’ combattimenti, di fermezza nelle risoluzioni, di longanimità nei più disperati patimenti, quella secura fiducia dell’uno contro i dieci, meriterebbono bene che tanto si conoscessero, se ne scrivesse, se ne parlasse, quanto d’ordinario non si conoscono, non se ne parla, non se ne scrive. […] E per fermo, più che le Ernesto Sestan, “Legnano nella storiografia romantica”, in Id., Scritti vari, vol. III, Storiografia dell’Otto e Novecento, Firenze, Le Lettere 1991, p. 229. 60 A proposito di Sismondi e della sua opera che qui più interessa, la monumentale Histoire des Républiques italiennes du moyen âge (1807-1818), si veda più avanti il paragrafo 2.2. 59 22 glorie romane, da noi divise per lungo volger di secoli, per disformità di religione d’abitudini di lingua e di sangue, nostre sono veramente le glorie degli italici repubblicani, di cui si parla [il corsivo è mio].61 Il legame culturale e sentimentale con il passato è dunque assai sentito; ma non tanto verso i romani o i greci, dai quali l’Italia di allora si sentiva separata – oltre che dai molti secoli trascorsi dall’antichità – dalla religione, dalla lingua e dalla stessa stirpe62, quanto dagli «italici repubblicani», cioè dai cittadini medievali. Sono loro i “veri” antenati dell’Italia, coloro verso i quali la nazione ha un debito di riconoscenza; la loro epoca è accostata per grandezza agli stessi tempi della «Grecia libera», facendosi cornice di un’epopea ricca di importanza per il presente. Questa predilezione per il Medioevo comunale, per inciso, e non per quello feudale né potenzialmente neoghibellino dei Vespri siciliani63, è già indizio dell’importanza che assunse il mito di Legnano e della Lega lombarda nei circa trent’anni che vanno dal 1821 al 1848: le Fantasie di Berchet divennero, come si vedrà, fonte di immagini e suggestioni poi riversatesi nel grande mito della Lega. Allo stesso modo la Storia di Sismondi, eloquentemente citata in apertura dei “Ragguagli”, divenne presto un vero arsenale di scenari e motivi al quale attinsero artisti, poeti e letterati per le loro rappresentazioni, destinate ad imprimere il segno nel gusto artistico della borghesia italiana: ma non si trattava solo di estetica o di mode letterarie, giacché presto il pubblico si abituò a leggere in questo Medioevo attualizzato e rivisitato riferimenti politico-ideologici tutt’altro che disinteressati. Basti pensare all’opera pittorica di Francesco Hayez64, Massimo D’Azeglio e Amos Cassioli. Il Questi “Ragguagli storici” sono firmati dagli editori de Le Fantasie di Giovanni Berchet, Londra 1829. 62 In verità, come s’illustrerà più avanti, il problema di una continuità anche etnica con i latini venne tutt’altro che trascurato da molti autori risorgimentali, specialmente in rapporto alla questione longobarda. 63 Mito al quale, beninteso, non mancò un cantore appassionato: si tratta di Michele Amari, che pubblicò nel 1842 La guerra del Vespro (poi intitolata Un periodo delle istorie siciliane nel XIII secolo per motivi di censura e ripubblicata a Parigi con il titolo originale). L’opera di Amari fu intesa dal pubblico come una battaglia per la libertà «italiana», laddove invece in lui tutto nasceva «come epos della sicilianità» (Balestracci, op. cit., p. 73). Inizialmente federalista, Amari ricoprì in seguito incarichi importanti nei governi unitari. 64 Cfr. Balestracci, op. cit., p. 110-111. 61 23 primo, con quadri come Il bacio, i Vespri siciliani e Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri, si impose quale interprete per eccellenza della passione nazionale, rivestita, per così dire, di panni medievali; gli altri due furono autori, tra l’altro, di quadri sulla battaglia di Legnano, che trasportano su tela immagini letterarie divenute simboli di estrema efficacia: il Carroccio, il condottiero della Compagnia della Morte –identificato col mitico Alberto da Giussano –, e così via. Anche il genere del romanzo storico trasse ispirazione per lo più dal Medioevo, sulla scia della fortuna di Ivanhoe (1819) di sir Walter Scott: così, il livornese Francesco Guerrazzi pubblicava nel 1827 La battaglia di Benevento e nel 1836 L’assedio di Firenze, e Massimo D’Azeglio dava alle stampe nel 1833 Ettore Fieramosca. Romanzi simili, che godettero allora di enorme successo di pubblico, ripropongono le imprese di singoli eroi che, armi in pugno, riscattano l’onore nazionale. I cavalieri evocati da D’Azeglio, per la precisione, si battono nella celebre disfida di Barletta; vincono, spezzando così la protervia dei cavalieri francesi, e in questa singola rivincita sta il loro valore; ma non sono che dei masnadieri, il cui furore rimane in qualche modo fine a sé stesso; combattono in modo «tanto audace e temerario quanto privo di obiettivi politici più ampi»65. Vero archetipo di eroe patriottico diventa invece Francesco Ferruccio, che si batte, nell’Assedio di Guerrazzi, a difesa dell’indipendenza della Firenze minacciata nel 1530 dalle forze imperiali: qui il protagonista, volto com’è a preservare a tutti i costi la libertà della patria, è ben consapevole del valore civico dei suoi sforzi. Rappresenta perciò «un altro tipo di eroe, ossia colui che difende una nazione divenuta cosciente di sé e organizzata in forme politiche»66. Non, si badi, organizzata in una forma politica purchessia, ma in repubblica ostile al predominio signorile dei Medici e dell’Imperatore Carlo V: elemento che, assieme al resto, fece di Ferruccio un paladino della causa democratico-repubblicana cui lo stesso anticlericale Guerrazzi aderiva. Il Medioevo, tuttavia, si prestava a manipolazioni di vario segno; non bisogna dunque stupirsi se, esaurita la carica evocativa d’un immaginario medievale di tonalità democratico-repubblicane o neoguelfe – è il caso del Enrico Francia, “Eroi, popolo e soldati. Narrative patriottico-militari nell’Italia del Risorgimento”, in Piero del Negro, Id., (a cura di), Guerre e culture di guerra nella storia d’Italia, Milano, Unicopli 2011, p. 40. 66 E. Francia, op. cit., p. 43. 65 24 mito della Lega, di cui si parlerà più diffusamente nel prossimo paragrafo – trovò spazio, a unità già compiuta, un recupero di quei secoli in funzione puramente monarchica. Se il primo Risorgimento aveva visto l’esaltazione del comune cittadino – che si convertiva in un’aperta professione di libertà civica, estranea in genere a qualsiasi legittimismo monarchico –, nei decenni successivi prese piede, soprattutto ad uso dei manuali scolastici per tutte le classi, una narrazione celebrativa dell’antichità veneranda della dinastia sabauda, che aveva accompagnato la nazione – si affermava – lungo i secoli del suo passato profondo. S’introduceva così il mito sabaudo, radicato entro quello medievale: se la storia d’Italia era biografia nazionale, e se il re rappresentava la nazione, la dinastia regnante avrebbe avuto una parte enorme nel racconto storico […]. La dinastia si costituiva in primo luogo come serie ininterrotta, della quale si rivendicava l’antichità, anzi, l’origine in stretta connessione con i primi auspici di indipendenza ricercati e situati nel medioevo.67 Questa integrazione dell’elemento monarchico sabaudo nel passato della nazione lasciò il segno anche nella tradizione delle feste popolari, a loro volta contagiate dal fascino nostalgico del medievalismo. È il caso soprattutto del Palio di Siena, che proprio negli ultimi decenni dell’Ottocento smise i costumi settecenteschi per ispirarsi a fogge tardomedievali68; ebbene, in occasione della visita a Siena di re Umberto e della moglie Margherita nel 1887, le bandiere delle contrade adottarono ornamenti araldici regi o le iniziali dei regnanti, in un simbolico intreccio delle tradizioni cittadine con la devozione alla monarchia che aveva fatto l’Italia unita. Anche sul «Medioevo tricolore»69 veniva così impresso lo stemma sabaudo. 1.4 Il mito per eccellenza: la Lega lombarda 67 I. Porciani, op. cit., p. 176. Ne fanno fede i costumi e la Sfilata storica che precede ogni edizione; tutti elementi che oggi abbiniamo senz’altro alla celebre corsa senese, ma che in realtà furono introdotti solo negli anni Settanta dell’Ottocento (cfr. Balestracci, op. cit.). 69 Cfr. Balestracci, op. cit., p. 61. 68 25 Di suggestioni “medievali” – più o meno rielaborate, più o meno manipolate – è colma, come si è visto, l’intera cultura risorgimentale. Il successo soprattutto dell’epopea della Lega lombarda, «sino al ’48, non già uno dei miti del Risorgimento, ma il mito per eccellenza, quello in cui culmina la leggenda epica del nostro primo Ottocento»70, ne è un’evidente riconferma. Eppure, praticamente fino all’epoca del grande storico Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) la vittoria di Legnano, pur già debitamente romanzata, era rimasta ristretta a fatto locale71, di interesse più religioso che civile. Il prete di Vignola provvide a sottrarre Legnano e la Lega dal pericoloso limbo nel quale erano confinati, rendendone conto nelle Antiquitates e negli Annali: qui la vittoria sul Barbarossa era definita «memorabile», e l’Imperatore biasimato giacché «i buoni principi fabbricano le città e i cattivi le distruggono»72; non mancavano tuttavia giudizi severi sulla litigiosità e cupidigia delle città italiane, che non potevano trovare accoglienza in una pubblicistica successiva, dai tratti più marcatamente patriottici. In un autore del più maturo Settecento come Saverio Bettinelli (1718-1808), il cui Risorgimento d’Italia è datato 1775, si riscontra un vivo compiacimento per la vittoria dei comuni, i quali avevano impedito l’imporsi d’una tirannide imperiale così come le poleis greche si erano opposte al dispotismo persiano73. E sicuramente, avverte Mario Fubini, di simili letture non era digiuno Giuseppe Compagnoni, procuratore della pubblica istruzione della Repubblica cisalpina, che nella sua orazione Sulla pace74 interpretava l’ingresso sulla scena internazionale della giovane repubblica sorella come una riedizione del riconoscimento, da parte del Barbarossa, della “indipendenza” dei comuni. Alle antiche glorie – «Stanchi i nostri maggiori del lungo servaggio in che li teneva l’oppression de’ Mario Fubini, “La Lega Lombarda nella letteratura dell’Ottocento”, in Popolo e stato in Italia nell’età di Federico Barbarossa, Torino, Deputazione subalpina di storia patria 1970, p. 406. 71 Cfr. Franco Cardini, “Federico Barbarossa e il romanticismo italiano”, in Reinhard Elze e Pierangelo Schiera (a cura di), Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino 1988. 72 Citato in F. Cardini, op. cit., p. 86. 73 Cfr. M. Fubini, op. cit. 74 Orazione composta in omaggio all’appena sottoscritta pace di Lunéville (1801) che riconosceva la Repubblica cisalpina. 70 26 Tedeschi, memori della libera schiatta da cui provenivano, invocarno dal coraggio e dalle armi un fine ai loro disastri: e l’ottennero» – egli sovrapponeva le recentissime: «Passerà di generazione in generazione il nome della pace di Lunéville; e non avrà esso a soffrire la crisi che con tanto danno d’Italia sciaguratamente sofferta avea la famosa Pace di Costanza»75. Qui per la prima volta il passato veniva orgogliosamente accostato al presente, secondo uno schema di coinvolgente continuità che sarebbe diventato tipico della letteratura e della poesia del Risorgimento vero e proprio. L’opera che segnò in questo senso uno spartiacque – se ne è già parlato, e vi si ritornerà – fu l’Histoire di Sismondi, il cui primo volume fu pubblicato nel 1807; essa, carica della sua suggestiva filosofia della storia, improntata ad un progresso propiziato dalla libertà di cui le città italiane erano state campionesse, fornì la base su cui il mito della Lega doveva trovare la sua formulazione liberale. Sia Silvio Pellico che Cesare Balbo accarezzarono negli anni seguenti l’idea di scrivere tragedie e romanzi sull’argomento76; Cesare Cantù diede alle stampe nel 1828 la novella Algiso o la Lega Lombarda, dedicata «alla lombarda gioventù cui stringe amore del loco natio»77. I fatti di Legnano e di Pontida attrassero poi la sensibilità d’un poeta come Berchet, già di suo tutt’altro che estraneo alle passioni patriottiche78. Da quelle antiche gesta egli traeva ispirazione nel 1829 per la sua romanza, dall’enorme successo, intitolata Le Fantasie: qui si proponeva di ridar lustro alla «epoca più bella, più gloriosa della storia italiana, la confederazione de’ Lombardi in Pontida», per rammentare che «nelle vene de’ nostri antenati non iscorreva poi tutto latte» e che «le soperchierie tedesche non erano in Italia ingozzate poi tutte come ciambelle calde»79. Una rievocazione poetica priva tra l’altro di qualunque pretesa di “storica” 75 Citato in M. Fubini, op. cit., p. 401. Cfr. Fubini, op. cit. 77 Cesare Cantù, “Algiso o la Lega Lombarda”, in Id., Poesie, Firenze, Successori Le Monnier 1870. 78 Fu tra i fondatori del foglio romantico “Il Conciliatore”, soppresso dagli austriaci nel 1819; dopo gli sfortunati moti del 1821 scappò in esilio a Parigi, poi a Londra e in Belgio. 79 Giovanni Berchet, “Agli amici miei in Italia”, introduzione a “Le Fantasie”, in Id., Opere, a cura di Egidio Bellorini, vol. I, Bari, Laterza 1911, pp. 52-53. 76 27 attendibilità80, nella quale all’esule appaiono come in sogno i congiurati di Pontida: L’han giurato. Gli ho visti in Pontida / convenuti dal monte, dal piano. / L’han giurato; e si strinser la mano / cittadini di venti città. / Oh spettacol di gioia! I lombardi / son concordi, serrati a una lega. / Lo straniero al pennon ch’ella spiega / col suo sangue la tinta darà.81 Versi che non potevano non animare gli spiriti patriottici, e che riemergono nelle memorie giovanili di Mazzini, Carducci e molti altri protagonisti del Risorgimento. A riprova del successo di Berchet, è da notare come un altro poeta, Terenzio Mamiani, gli dedicasse anni dopo i suoi versi sciolti A Dio in commemorazione della Lega Lombarda: In quest’Inno ch’io godo di intitolarvi e che raccomando all’umanità e amicizia vostra, io non ò dubitato di cantare dopo voi alcuni avvenimenti notabili della Lega Lombarda. […] volendo io colorare il meglio che per me si può la nobile e santissima idea della religione civile, non ò saputo chiuder la mente ad un subbietto in cui la pietà verso Dio e la carità verso la patria si meschiano e si unificano con perfetto accordo e con esempio solenne alle future generazioni [il corsivo è mio].82 Mamiani rievoca i fatti della Lega e di Legnano soffermandosi – come si evince anche dal titolo – sull’aiuto provvidenziale che i Cieli avrebbero riservato ai lombardi nella loro lotta di libertà. Lode al Signor, che l’ultime vendette / Sfrenò sull’empio, e come fragil verga / spezzò lo scettro d’Enobarbo! Osanna / A lui ch’entro i giurati accampamenti / 80 «Perché ho scritto quattro versi, mi corre forse per questo il debito, come allo storico, di provare la verità d'ogni cosa ch'io racconti con essi? […] Gli accidenti ch'io narro tocca al lettore di pigliarseli o come veramente somministrati dalla storia, o come consentanei ad essa e bene o male inventati. […] L'incumbenza mia, secondo l'obbligo che me ne impone l'arte, non è di rappresentargli un fatto storico quale precisamente fu, ma è solo di suscitare in lui qualche cosa di simile all'impressione, al sentimento, all'affetto che susciterebbe in lui la presenza reale di quel fatto» (G. Berchet, op. cit., p. 57). 81 G. Berchet, op. cit., p. 74, versi 49-56. 82 Terenzio Mamiani, dedica “Al chiarissimo Giovanni Berchet” dell’inno “A Dio in commemorazione della Lega Lombarda”, in Id., Poesie, Firenze, Le Monnier 1857, p. 135. 28 Mandò gli Angiol di guerra e trïonfali / Aure spirò nei liberi vessilli, / Dio de’ Lombardi! […]83 Questo componimento, datato 1842, segnò una svolta nella storia del mito della Lega: abbandonate le tinte liberali date loro da Sismondi, i congiurati di Pontida entrarono nel bagaglio ideale e retorico del neoguelfismo, orientamento che avrebbe di lì a poco fatto breccia negli ambienti patriottici “moderati”84. Vincenzo Gioberti nel suo Primato menzionava la Lega – «io non trovo nulla nella storia antica e moderna, che in epica maestà pareggi la confederazione lombarda»85 – giudicandola peraltro un eccellente tema per una epopea che fosse al tempo stesso nazionale e religiosa. Il quadro ideale che doveva ispirare il Quarantotto andava così definendosi: una lega “italiana” – ieri di città, oggi di Stati – doveva contrapporsi al tiranno straniero, senz’altro connotato come tedesco86, in una lotta di liberazione benedetta dalla giustizia divina. I neoguelfi non dimenticavano certo che a farsi paladino della causa lombarda era stato l’allora Pontefice Alessandro III; l’avvento al Soglio di Pio IX nel 1846 doveva suscitare – vi si ritornerà – le più fervide speranze. Anche l’idea di una “lega”, cioè di una libera alleanza tra eguali – ben diversa, in teoria, da qualsiasi logica di politica egemonica di uno Stato sugli altri – doveva ispirare coloro che credevano, con Gioberti, che l’Italia dovesse darsi un ordinamento confederale. L’epopea della Lega soddisfaceva, agli occhi dei patrioti, tutti i necessari requisiti: era stata una lotta di più città italiane – quindi con un po’ di buona volontà la si poteva definire nazionale – contro un tiranno straniero; era stata condotta sotto la guida spirituale di un Pontefice, che aveva benedetto i lombardi e scomunicato l’Imperatore; si era conclusa con un trionfo sul campo, benché la vittoria non si fosse concretizzata in una pace veramente vantaggiosa. Certamente la vicenda era macchiata da più d’un inconveniente: contro la Lega avevano combattuto molte altre città italiane Terenzio Mamiani, “Inno a Dio in commemorazione della Lega Lombarda”, in Id., Poesie, Firenze, Le Monnier 1857, p. 139. 84 Il Primato di Gioberti, sorta di manifesto del neoguelfismo, sarebbe uscito l’anno successivo (1843). 85 Citato in M. Fubini, op. cit., p. 410. 86 «È […] il patriottismo lombardo unito al montare dell’antigermanesimo […] a fare della Lega lombarda un episodio la cui emblematicità politica va forse al di là della […] sua effettiva importanza storica» (F. Cardini, op. cit., p. 85). 83 29 filo-imperiali; il Papa aveva abbandonato le città al loro destino dopo Legnano. Qualche spirito critico arrivò a sollevare – correttamente ed onestamente – più d’un dubbio sull’attendibilità della ricostruzione patriottica dell’intera vicenda87; ma il mito aveva preso l’aire. Doveva regalargli l’ultima eco in grande stile l’opera di un monaco napoletano di Montecassino, Luigi Tosti, che pubblicava nel fatidico 1848 la sua Storia della Lega lombarda. Questo a riprova della nuova popolarità, potenzialmente nazionale, dell’epopea: «Le speranze neoguelfe avevano guadagnato anche il Mezzogiorno: era la prima volta che uno storico meridionale, un napoletano, si interessasse di Lega Lombarda e di Legnano»88. Compendio delle passioni e delle illusioni del biennio 18461848, l’affresco di Tosti accoglie la lezione neoguelfa di Gioberti e Troya89 dandole – come si vedrà più dettagliatamente in seguito – un carattere epico e immaginifico, più che storiografico. La scottante attualità di un passato – pur lontano – in relazione ad un presente carico di aspettative faceva sì che lo spirito critico del monaco, immerso nella sua appassionata ricostruzione, venisse meno. Ne risulta un vero dramma a tinte forti, ricco di pathos: una sperticata glorificazione della causa patriottica neoguelfa, fiamma ardente destinata tuttavia a spegnersi90 assieme alle passioni e alle insurrezioni quarantottesche. Massimo D’Azeglio doveva rinunciare al proposito di stendere un romanzo storico patriottico sulla Lega dopo essersi avveduto dell’incongruenza tra i nudi fatti e la rielaborazione che se ne faceva: «È vero che cominciai anni sono un romanzo, la Lega lombarda, ma lo lasciai […] perché studiando il soggetto, presto m’accorsi che non faceva al caso mio. Noi moderni, con le nostre idee, abbiam fatto tanti eroi d’indipendenza de’ congiurati di Pontida, i quali, meglio studiati, si trovano ad essere stati vassalli (come tutti gli altri) in questione col loro signore, e che avrebbero dato del matto a chi avesse voluto metter innanzi che Federigo non era il loro vero padrone e signore. Perciò, o falsar la storia e lo spirito di quel secolo, o scrivere un libro dal quale l’idea di indipendenza italiana dovesse essere assolutamente proscritta [il corsivo è mio]» (Citato in F. Cardini, op. cit., p. 105106). 88 Ernesto Sestan, “Legnano nella storiografia romantica”, in Id., Scritti vari, vol. III, Storiografia dell’Otto e Novecento, Le Lettere, Firenze 1991, p. 232. 89 Cfr. Cardini, op cit. 90 A tal punto che Tosti non tornò più sull’argomento, neppure in occasione del settimo centenario della vittoria di Legnano, che come si vedrà ridestò forti polemiche tra laici e cattolici. 87 30 Passioni, peraltro, che allora raggiungevano anche il pubblico meno colto. Tra la primavera e l’estate del 1848, la tipografia torinese Baricco e Arnaldi dava alle stampe una serie di libretti di storia ad uso di quei lettori che non avevano «tempo di leggere i libri grossi»91: si trattava di agili resoconti, estremamente espliciti nel mostrare le ragioni per cui si dovevano «bestemmiare i tedeschi», «esecrata genìa»92 di barbari oppressori. Proprio alla Lega e al Barbarossa erano dedicati ben quattro di questi volumi: Il giuro di Pontida, Stamura di Ancona, L’assedio di Alessandria, La battaglia di Legnano. Felice poscritto alla stagione di massimo successo del mito fu un melodramma, anch’esso intitolato La battaglia di Legnano, il cui libretto – che recava la firma di Salvatore Cammarano – era stato musicato da Giuseppe Verdi. Messa in scena nella Roma mazziniana del 1849, fu accolta favorevolmente da un pubblico più che mai propenso a lasciarsi infervorare dalla lotta contro il «feroce» Barbarossa. Ma questi ardori, spenti dalla repressione, dovevano squalificarsi col fallimento della stagione insurrezionale; dopo il Quarantotto, il mito della Lega – lungi dallo sparire dall’immaginario collettivo, beninteso – perse in parte il suo fascino irresistibile. Lo compromettevano il sapore neoguelfo, ormai fuori tempo ed amareggiato dalla defezione di Pio IX, e in generale l’accostamento ad una impresa tanto attesa quanto sfortunata; rimanevano tuttavia i nomi e il prestigio di coloro che avevano partecipato alla sua esaltazione. Scrive a proposito Franco Cardini: Legnano serviva poco ormai alla causa unitaria, era un mito «datato» e in un certo senso compromesso, sospetto, e tuttavia faceva parte di un patrimonio ormai consolidato in cui entravano D’Azeglio, Berchet, Verdi e insomma un po’ tutte le voci più qualificanti che avevano preceduto e accompagnato il Quarantotto.93 Nel nuovo contesto, poteva farsi strada una critica storiografica un po’ meno succube delle recenti passioni e in qualche misura più pacata94. Emersero 91 Carlotta Sorba, Il melodramma della nazione, Roma-Bari, Laterza 2015, p. 149. C. Sorba, op. cit., p. 146. 93 F. Cardini, op. cit., p. 115. 94 Anche se tutt’altro che pacata era la stroncatura del libro di Tosti a firma di Francesco Monfredini, che nel 1877 oppose alla lettura guelfa del monaco una interpretazione “di rottura” fortemente impregnata del suo personale ghibellinismo 92 31 allora opere come la Storia diplomatica della Lega Lombarda dell’abate Cesare Vignati (1866), puntigliosamente redatta sulla base delle fonti documentarie, che sulla base di queste giungeva a mettere in dubbio l’effettiva storicità del giuramento di Pontida95. In occasione del settimo centenario della grande battaglia (1876), poi, il dibattito si tinse nuovamente di guelfismo o ghibellinismo: in un contesto storico e politico in profondo mutamento96, le passioni contrapposte, rinfocolate dall’anniversario, dovevano alimentare forti polemiche. […] da parte clericale, era breve ed agevole il passo ad additare nel mondo ufficiale del nuovo Regno d’Italia, mondo di liberali e democratici, di patrioti del Risorgimento, il rinnegatore delle più pure tradizioni patriottiche italiane, di rivendicare al papato di Alessandro III, al vecchio e nuovo guelfismo il più autentico patriottismo italiano […].97 Le commemorazioni di Legnano furono dunque compassate e di maniera da parte laica, vive ed entusiaste da parte clericale. Sulle colonne de “La Civiltà Cattolica” si esplicitava il significato, ormai puramente polemico, della celebrazione, ricordando come «Quella vittoria generò l’affrancamento italiano dal giogo tedesco […] in quanto la causa d’Italia trovossi congiunta colla causa della Chiesa»; tuttavia, ormai i liberali «stanno rimettendo l’Italia sotto il giogo tedesco; e ciò perché han separato la causa dell’Italia dalla causa della Chiesa, anzi messa l’una in opposizione all’altra»98. Il mito (cfr. Fubini, op. cit., p. 418). Un certo distacco s’imponeva tuttavia alla pratica storiografica, che si sarebbe via via fatta più fredda e scientifica, e sempre più lontana dalle ricostruzioni romantiche della prima metà del secolo. 95 Cfr. Sestan, op. cit., p. 237. 96 Nel 1870 con la presa di Roma si era aperta nella coscienza nazionale la ferita della questione romana; contemporaneamente era sorto il Reich bismarckiano, spauracchio, per via del Kulturkampf, del mondo cattolico, e applaudito – per lo stesso motivo – dai laici. A ciò s’aggiunga l’intesa politica che l’Italia aveva stretta con la Prussia e avrebbe ribadito con la Triplice (1882), nonostante nell’immaginario popolare i tedeschi rimanessero – austriaci o germanici che fossero – i nemici per eccellenza. 97 E. Sestan, op. cit., p. 238. 98 Citato in E. Sestan, op. cit., p. 239. 32 di Legnano, esaurita la sua fortunata parabola99, finiva così col diventare strumento d’accusa di alcuni italiani contro altri. Le tante anime del Risorgimento, dopo aver contribuito – a diverso titolo – all’unità della nazione, già cominciavano a contendersene la coscienza. § 2. La Storia della Lega Lombarda di Luigi Tosti 2.1 Vita e opere dell’autore «Il Lamennais italiano»100: così l’ha voluto definire il filosofo francese Ernest Renan. Per l’amico Silvio Spaventa, egli era piuttosto «il caro monaco delle tempeste»: un sanguigno, ingenuo cospiratore avvolto nelle lane benedettine. Il celebre segretario del conte Cavour Costantino Nigra, poi, ebbe a dire di lui che non aveva mai visto «anima più bella in corpo più trasparente». Al monaco cassinese Luigi Tosti certo non mancava la virtù dell’eclettismo: fu ad un tempo monaco e filosofo, storico e patriota. Sacerdote mai ondivago nella sua ortodossia, credeva che la scienza moderna ed il progresso non fossero incompatibili – anzi – con l’insegnamento di Cristo; fedelissimo al Papa, fu ciononostante un liberale, e la passione patriottica lo spinse ad abbracciare un fiero neoguelfismo; dopo il 1861 si impegnò fino al termine dei suoi giorni nel supremo tentativo di favorire l’imprescindibile Conciliazione tra Stato e Chiesa. Il padre Tosti fu, se non certamente uno dei protagonisti, una delle personalità più vivaci del neoguelfismo. 99 Ci si riferisce al ruolo puramente politico-ideologico del mito, legato soprattutto agli anni (1821-1848) del primo Risorgimento. Si tenga sempre ben presente che nella cultura popolare Legnano rimase sempre un simbolo evocativo di riscossa nazionale. 100 Alberto Forni, Lo storico delle tempeste. Pensiero e azione in Luigi Tosti, Istituto Storico per il Medioevo, Roma 1997, p. 16. Dal medesimo saggio – al quale si rimanda il lettore interessato ad un resoconto più approfondito della vita e delle opere di Tosti – sono tratti, ove non diversamente indicato o specificato, i riferimenti e le citazioni di questo paragrafo. 33 Nato a Napoli nel 1811 da nobile famiglia di origine calabrese, il giovane aveva fatto il suo ingresso nella badia all’età di otto anni. Gli si era aperto un mondo: la celebre abbazia rappresentava allora una vera oasi di liberalismo e modernità nel cuore di un regno – quello delle Due Sicilie – tra i più retrivi dell’Europa restaurata. Qui si era imbattuto presto negli sterminati archivi cassinesi: illustri studiosi facevano visita al monastero per potere accedere a quei preziosi documenti, sui quali egli stesso si sarebbe chinato di lì a pochi anni. Nel 1822 fu la volta di Georg Heinrich Pertz101; nel 1827 dello storico napoletano Carlo Troya. Quest’ultimo divenne anche uno dei primi veri maestri del giovane, che si indirizzò, da lui profondamente suggestionato, agli studi medievistici. La profondità e vivacità dei suoi interessi è testimoniata dalla lunga amicizia – condita sicuramente da colloqui assai proficui – che lo legò al giovane Spaventa, di cui fu maestro di italiano a Montecassino, e al futuro abate Simplicio Pappalettere, maestro di filosofia dello stesso Spaventa. I tre amici si confrontavano spesso su Hegel, Cousin e Vico, autori che consolidarono in Tosti quella fede nel progresso il cui razionalismo egli tentò sempre di conciliare col suo cattolicesimo: «veramente la ragione ne ha fatte delle grosse; ma pentita una volta, perché negarle l’assoluzione?»102. Nei primi anni Trenta, proseguì i suoi studi in teologia a Roma, venendo ordinato sacerdote nel 1833; nello stesso periodo si collocano le sue prime prove storiografiche, apparse sul giornale “Poliorama pittoresco”; racconti che, secondo De Sanctis, «stavano alla storia come la novella al romanzo». Nel corso degli anni seguenti Tosti si cimentò in un’opera di maggiore impegno, la Storia della Badia di Montecassino (1843). Lo storico Alberto Forni, autore di una dettagliata biografia intellettuale del padre benedettino, la considera – per la ricchezza della documentazione su cui poggia – la sua 101 Primo direttore (dal 1823 al 1873) della celebre collezione di fonti sul Medioevo mitteleuropeo Monumenta Germaniae Historica. 102 Un intelletto simile non poteva rimanere del tutto sordo alle sirene del liberalismo del cattolicesimo francese, tanto che, come si è detto, il filosofo francese Renan, visitatore entusiasta di Montecassino, si figurò il monaco Tosti – che pure non aveva potuto incontrare – come un Lamennais d’Italia. Un parallelo respinto in seguito dal padre, che non si sarebbe mai distaccato dalla devozione al Pontefice. 34 migliore opera scientifica, nonostante il suo tono militante, scritta com’è «a gloria del monachesimo e a sostegno della sua riforma». Molti sforzi egli dedicò poi alla figura di Bonifacio VIII: la sua Storia di Bonifazio VIII e de’ suoi tempi, pubblicata nel 1846, era una difesa a tutto campo della personalità e dell’operato di Papa Caetani e al contempo un inno alla maestà dell’istituzione pontificale, che per combinazione era risorta – agli occhi del monaco – proprio in quei mesi, con l’elezione di Pio IX. Tra il 1846 e il 1848, Tosti si concentrò sulla stesura di un’epopea storica che rivestisse di gloria quel neoguelfismo cui egli aderiva sin dalla lettura del Primato di Gioberti103: decise così di rievocare i fatti di Legnano in una grande Storia della Lega Lombarda dedicata proprio al nuovo Pontefice. Ho tolto dal volume delle italiane storie poche pagine, che narrano della Lega Lombarda al secolo XII. Io le lascio ai vostri piedi come cosa santa. Raccoglietele presto, o Padre Beatissimo, leggetele e rispondete all’Italia, che vi addimanda la parola della salute nell’agone che combatte sotto gli occhi di Dio. […] Con questo volume nelle mani affacciatevi, Padre Beatissimo, dalla mistica rocca della Chiesa: contemplate l’avvenire, interrogate il passato, palpate i nostri petti, e addimandate al palpito de’ nostri cuori se siamo figli di quei Lombardi, che, ammogliato il Romano Pontificato alla libertà della patria, seppero con immacolato sangue difenderlo.104 Con queste parole, il monaco cassinese rimetteva nelle mani del Pontefice le sorti della causa nazionale, invocando la sua partecipazione alle cose d’Italia e la verifica della virtù degl’italiani dell’oggi in confronto a quella degl’italiani del Medioevo. Non mancavano comunque riferimenti più diretti ed impegnativi: Restituiteci, o Padre Beatissimo, la bandiera, che il terzo Alessandro nel dì del trionfo sospese al sepolcro del Beato Pietro: restituite ai nipoti il retaggio degli avi.105 103 Edito nel 1843 e dal padre Tosti molto apprezzato. L. Tosti, Dedica “Alla Santità di Nostro Signore Papa Pio IX” (Storia della Lega Lombarda, Montecassino, pe’ tipi di Montecassino 1848). 105 Ibidem. 104 35 Qui il rimando era al Pontefice – Alessandro III – che aveva difeso i diritti delle città lombarde contro l’Imperatore Barbarossa; al medesimo cimento era chiamato Pio IX, la cui missione, agli occhi del neoguelfo Tosti, era di far da guida al movimento patriottico, ponendosi a capo dell’Italia libera dallo straniero. Ispirare la celebrazione d’un felice sposalizio tra Chiesa e Italia, tra Papato e nazione; questo il sogno del padre benedettino; questa la prospettiva in cui lo studioso moderno deve rileggere la Storia della Lega, la cui enfasi concitata tradisce spesso la passione patriottica e la fascinazione per il mito neoguelfo, del quale questa Storia «rappresenta la forma più compiuta»106. Il critico letterario Mario Fubini ha definito l’opera «una severa epopea primitiva» rilevando come ad un testo simile sia confacente un giudizio estetico ed artistico, prima ancora che storiografico107. D’altronde, lo spirito del monaco benedettino sarebbe «per giudizio concorde, eminentemente poetico»108, benché i commentatori appaiano unanimi pure nel riconoscergli un impegno di notevole erudizione storica109. Il suo linguaggio, mutuato in parte da quello dello storico Carlo Botta, in parte dai classici, è solenne e arcaicizzante; tale registro non abbandona mai la narrazione. Nella Storia della Lega, Tosti delinea in verità una storia d’Italia dalla caduta dell’Impero romano fino ai secoli centrali del Medioevo110: nel suo lungo resoconto introduttivo, egli ribadisce la sua venerazione per la missione storica della Chiesa, rinvigorita prima dal monachesimo e in seguito dal pontefice che della riforma sarebbe divenuto il simbolo, quel Gregorio VII capace di far valere la sua auctoritas sulla proterva potestas dell’Imperatore Enrico IV. Mario Fubini, “La Lega Lombarda nella letteratura dell’Ottocento”, in Popolo e stato in Italia nell’età di Federico Barbarossa, Torino, Deputazione subalpina di storia patria 1970, p. 416. 107 Cfr. M. Fubini, op. cit. p. 415. 108 M. Fubini, op. cit., p. 413. 109 Sia Franco Cardini che Mario Fubini sono di quest’avviso. Il primo riconosce nella sua Vera storia della Lega Lombarda che l’opera di Tosti, benché inevitabilmente superata, rimane «un venerabile monumento all’erudizione storica neoguelfa»; il secondo ammette che il monaco «ebbe tempra e vocazione di storico», e che anche questa sua Storia, pur così caratteristica, è stata «ricostruita con attento studio di fonti». 110 Tutto il Libro primo è dedicato al riassunto degli avvicendamenti caratterizzanti la storia italiana dal tardo Impero romano al XII secolo. 106 36 La forza teneva suggetti i vassalli a’ signori, questi al Re o Imperadore di Germania. Non era un tribunale di appello: ed era mestieri arrestarsi a capo chino innanzi al baronale e regio arbitrio. Ora un Re di Germania scalzo, vestito di ruvido sacco, che chiede umilmente perdono ad un Papa, e l’ottiene a stenti, era un dire al popolo, che anche su i Re fosse qualcuno che potesse loro riveder le partite, levar la voce a correggerli, punirli indocili; era un dirgli, che senza andar su fino al Cielo, trovavasi su la terra un uomo ministro del Dio della giustizia.111 Il Medioevo dipinto da Tosti, come si vedrà più approfonditamente in seguito, è tuttavia irrimediabilmente viziato dall’attualità: fu con un intento evocativo ed esortativo – scuotere gli animi dei suoi contemporanei suggerendo loro l’immedesimazione con uomini d’un passato lontano – ch’egli si pose all’opera. Come mette in chiaro Franco Cardini, la Storia fu «redatta sulla base di un impulso che solamente o principalmente storico non era»112. Sulla stessa linea si colloca il giudizio di Fubini: Tra passato e presente non v’è per il Tosti distacco ma identità, ed egli quei fatti narra con una partecipazione così piena ed assoluta da afferrare il lettore e da lasciargli allo stesso tempo dei dubbi sul carattere di questa Storia e di questo storico.113 Ecco dunque che la lotta tra i comuni e il «feroce» – per antonomasia – Barbarossa diventa la scena ideale per la riproposizione del tema della continua lotta del popolo italiano contro lo straniero, contro quel tedesco che molta pubblicistica patriottica indicava, nel trentennio 1821-1848, come il nemico “storico” della nazione. Tosti lavorò alla Lega dal 1846 al 1848; venne pubblicata nell’agosto di quell’anno, dopo aver ottenuto il placet di Pio IX. Gli eventi incalzanti obbligarono il monaco ad affrettare la stesura degli ultimi capitoli – e la differenza tra questi e i primi, assai più distesi e curati, si nota. Anche questo prova, comunque, che a dispetto del tema trattato quell’opera era considerata dall’autore di strettissima attualità, dato l’intento politicoprogrammatico che vi era sotteso. 111 L. Tosti, op. cit., p. 67. Franco Cardini, “Federico Barbarossa e il romanticismo italiano”, in Reinhard Elze e Pierangelo Schiera (a cura di), Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino 1988, p. 108. 113 M. Fubini, op. cit., p. 413-414. 112 37 Nonostante il Pontefice avesse approvato tanto la Dedica quanto il resto dell’opera, come a lasciar intendere che fosse persuaso della necessità di accoglierne il messaggio e le esortazioni, il suo mutevole atteggiamento nel corso del 1848 deluse – come si vedrà più avanti – le speranze patriottiche del monaco; in qualche misura, il mito neoguelfo di Legnano e della Lega era già compromesso quando Tosti lo elesse a tema della sua opera, ma fu lo sfacelo quarantottesco a segnarne nel complesso il declino. Lo storico cassinese scelse dunque il ritorno, negli anni successivi, allo studio del Medioevo, dando alle stampe la Storia di Abelardo e dei suoi tempi (1851), la Storia del Concilio di Costanza (1853), la Storia dell’origine dello Scisma greco (1856) e La contessa Matilde e i Romani Pontefici (1859). L’unità italiana si compiva al termine del decennio, ma solo grazie alle armi franco-piemontesi, quindi sotto le insegne sabaude; processo al quale il monaco, ormai disilluso, finì per rassegnarsi114. La chimera d’una sorta di confederazione italiana presieduta dal Pontefice svaniva; si apriva invece col 1870 la ferita della presa di Porta Pia e della subitanea estinzione – manu militari – del potere temporale dei papi. Tosti era da sempre convinto che il cattolico fosse «libero nell’esame delle ragioni che gli fanno giudicare su la opportunità di una forma non immortale che circonda il dogma dell’infallibilità papale», pur riconoscendo che «la caduta del dominio temporale non può dipendere esclusivamente dagli uomini»115; all’amico ed editore Vieusseux scriveva anche che da cattolico e uomo ragionevole riteneva che fosse meglio, per la Chiesa, «gittar via questo fardello del temporale», ma che la personale gratitudine116 e la devozione che lo legavano al Papa restava «genuflesso innanzi a quel non A differenza di Gioberti, che abbracciò progressivamente l’idea d’una unificazione di marca sabauda, sulla base magari di un Regno italico «della gran valle eridanica [padana]», Tosti era in origine scettico sulla necessità che fosse il Piemonte a prendere le redini del movimento nazionale: «Da che gli Italiani hanno incominciato a parlare di indipendenza, di nazionalità, di guerra agli austriaci, ho udito sempre una voce che ha predicata la necessità di un regno dell’alta Italia da regalarsi alla casa di Savoia. A dire il vero io non ho potuto mai trovare la ragione di questa necessità» (Citato in A. Forni, op. cit., p. 44). 115 Cit. in A. Forni, op. cit., p. 137, in riferimento ad un articolo apparso nel 1861 su una delle principali riviste inglesi che lasciava intendere come i monaci cassinesi fossero francamente favorevoli all’abolizione del potere temporale. 116 Anni prima, Pio IX l’aveva salvato dalla forca borbonica. 114 38 possumus»117. In questi anni, il timore che lo Stato liberale sopprimesse Montecassino – eventualità contro la quale il monaco si batté risolutamente, anche pubblicando nel 1861 il libello S. Benedetto al Parlamento nazionale – e il rovello assillante della conciliazione sottrassero Tosti alla sua attività storiografica. Da allora, il monaco si assunse seriamente l’impegno di favorire il risanamento della frattura che divideva il mondo cattolico dallo Stato liberale, persuaso come sempre dell’indivisibilità intima dei principî spirituale e nazionale, da nessuno dei quali la nuova Italia si sarebbe dovuta allontanare. Ebbe, tra gli anni Sessanta e Settanta, un ruolo non secondario – anche in virtù dei suoi buoni rapporti personali, ben noti, con Papa Mastai – nelle difficoltose trattative sottobanco con le quali si tentò, con più o meno convinzione, di raggiungere un punto d’incontro tra Casa Savoia e la Santa Sede. Tosti sperava personalmente che la Questione potesse trovare soluzione in un solenne incontro di pacificazione tra Re e Pontefice; ma anche questa speranza doveva cadere nel vuoto118. Il sogno conciliatorista svanì nel 1887, lo stesso anno in cui fu pubblicato un fervente libello a firma del monaco, La Conciliazione, che poteva sembrare in sintonia con la volontà della stessa Santa Sede, allora in trattative informali con importanti esponenti del governo italiano. L’avvento del nuovo segretario di Stato vaticano, cardinale Rampolla, diede tuttavia una sterzata intransigente ai rapporti con lo Stato italiano; ogni trattativa venne accantonata, e lo stesso Leone XIII – fautore di una prossima riappacificazione con lo Stato liberale – invitò caldamente il settantaseienne Tosti alla ritrattazione di quanto auspicato nell’opuscolo. La Conciliazione, insomma, doveva aspettare. Dieci anni più tardi il padre Tosti si spense, con il rammarico di non essere riuscito nella sua impresa più ambiziosa. 2.2 Latinità e germanesimo 117 Da una lettera a Vieusseux del 4 ottobre 1861, cit. in A. Forni, op. cit., p. 140. Mussolini ricorderà Tosti, all’indomani dei Patti lateranensi, in un discorso alla Camera: «Era un ottimo personaggio questo frate, ma apparteneva al genere di quegli uomini che sono espansivi al sommo grado, e panglossiani [sic] altresì; che credono che certe questioni grossissime possono essere risolte con una parola, con un gesto, con un sorriso. Egli pensava che un incontro tra Umberto ed il Papa avrebbe condotto alla pace, che tutto consistesse nel combinare questo incontro» (Citato in A. Forni, op. cit., pp. 195-196). 118 39 Lo schema narrativo della Storia della Lega poggia su una fondamentale contrapposizione: tra l’Italia, rappresentata in primis dai “liberi” comuni lombardi e dal Papa, e la Germania, che trova il suo campione nel tirannico Barbarossa. Questo motivo è in genere lasciato, per così dire, sullo sfondo rispetto agli avvenimenti concreti, data la sua evidenza – tanto per l’autore quanto per il lettore; ma è talora rimarcato ed arricchito da non brevi digressioni. Le vicende descritte da Tosti risultano comprensibili soltanto nella logica risorgimentale d’uno scontro tra nazionalità la cui inimicizia trascende la storia. Anzi, proprio tale rivalità fa da ponte tra passato e presente: “tedeschi” erano gli oppressori medievali, come “tedeschi” 119 son definiti gli stranieri che, mentre Tosti è all’opera nella sua Montecassino, dominano il Lombardo-Veneto ed ostacolano in ogni modo il movimento patriottico. Da ciò scaturisce l’importanza programmatica ed esortativa del libro, che, nel rievocare il ricordo di antiche lotte di libertà, spinge i patrioti a nuove imprese. Argomento di gioia e di dolore, che io imprendo a trattare in queste storie, perché la dolce commemorazione delle antiche virtù nostre rincori i domestici ad imitarle, gli stranieri a rispettarle.120 Proprio nel Prologo – da cui son tratte queste parole, assai eloquenti – si può rinvenire la chiave di lettura dell’intera opera: l’identità delle due nazioni è già marcata laddove al «materiale» feudalesimo germanico è contrapposto lo «spirito» di patria degl’italiani. Un cavaliere che tornava dalla guerra, a premio di valore riceveva dal principe il dominio di un castello, il diritto di far provare la schiavitù a’ suoi simili. La natura del premio avviliva la ragione della virtù. Non troviamo che i tornati dalla battaglia di Legnano ricevessero feudi. Per essi non fu d’uopo dell’artifizio de’ premi, bastava la fortissima voluttà d’aver fugato il Tedesco, d’aver francata la patria; così il premio, e la virtù si sorreggevano a vicenda all’altezza del principio agitatore [i corsivi sono miei].121 “Tedeschi” erano sbrigativamente definiti, in Italia, anche gli austriaci Asburgo (Sestan 1991). 120 Luigi Tosti, Storia della Lega Lombarda, Montecassino, pe’ tipi di Montecassino 1848, p. 10. 121 L. Tosti, op. cit., p. 18. 119 40 Il mondo germanico, ancorato alla materia, ha bisogno di un regime di illibertà come quello feudale; la stessa cavalleria, alla quale pure «molti profondono molto culto», non è che violenta giostra motivata dalla pulsione sensuale. Gli italiani, invece, «non ebbero Cavalleria; le loro patrie infondevano ne’ petti la virtù»122. Né in Italia è necessario il dominio di uno solo, come avviene in Germania, dove il re è la personificazione della «unità materiale»; qui da noi, argomenta Tosti, Le città si divisero, si moltiplicarono i confini, e ciascuna ebbe leggi e maestrato a sé, perché ognuna si teneva in punto di sovrana. […] gli animi erano desti e attenti, perché nel paese circondato dall’Alpe e dal mare non fosse un centro, che attraendoli, li dispogliasse di quella sovranità […]. Quindi accanite guerre municipali per tutto il paese, democrazia nelle città.123 Il padre non si nasconde: il pluralismo italiano ha significato anche continue lotte, ma ciò non toglie che esso sia «il documento più bello della ricca individualità morale degli Italiani»124. La gelosia di indipendenza che attizza la fiamma delle rivalità è infatti la medesima che permette la sopravvivenza, entro le mura cittadine, di una vera «democrazia». Non solo: gli eterni scontri tra i comuni più potenti – Milano e Pavia – si rivelano, in fin dei conti, utili esercizi per i cimenti dell’avvenire. Certo che è a lagrimare di dolore su questi bestiali furori, con cui si laceravano le italiane Repubbliche: ma pure un certo bene si cavò da tanto male, dico la esperienza delle cose guerresche, la virtù militare esercitata ed accresciuta, e quella attitudine a rannodar leghe tra molte città.125 Un tema imbarazzante come questo (dove riscontrare un sentimento di “fratellanza” in una Penisola dilaniata dalle lotte municipali?) viene così capovolto, a ribadire soprattutto l’indomabile anelito del popolo alla libertà. 122 L. Tosti, op. cit., p. 17. L. Tosti, op. cit., p. 12. 124 Eccezion fatta per i comuni filo-imperiali di Pavia e Como, le uniche «Repubbliche» che suscitano davvero lo sdegno di Tosti sono Venezia e Genova, che, affacciandosi sul mare, son votate più ai loro business mediterranei – e al patteggiamento con l’Impero – che alla lotta ad oltranza contro il Barbarossa. 123 125 L. Tosti, op. cit., p. 86-87. 41 Senza contare che, a confronto con il resto dell’Europa di allora, l’Italia aveva qualche ragione di vanto: Piegarsi a monarchia è facile, difficile il reggersi a comune; ed una ordinata Repubblica fu sempre l’opera di una consumata civiltà. […] Firenze, Milano, Venezia e cento altre città erano Repubbliche, quando tutta Inghilterra, Spagna, Francia, Germania erano monarchie. Gl’Italiani […] si sollevavano con la virtù dello spirito Romano ancora superstite, alla grande idea di una patria, e gli altri popoli morivano sotto la clava dello spirito germanico nella materiale idea di un Re.126 Dietro tanta ammirazione per la vivacità delle città italiane si celano molteplici influenze. Già Muratori aveva esaltato le libertates comunali, che avevano affascinato anche Romagnosi e Cesare Balbo. Grande, poi, era stato l’eco riscosso a inizio secolo dall’economista e filosofo ginevrino Sismondi, autore tra il 1807 e il 1818 d’un monumentale resoconto intitolato Histoire des Républiques italiennes du moyen âge127: opera in più volumi, nella quale i comuni appaiono quali fari di libertà e di progresso civile per l’Italia e l’Europa intera. A guidare il suo itinerario lungo i secoli medievali è il principio della libertà, esaltato dalla florida esuberanza delle «repubbliche» cittadine; libertà che la penisola avrebbe perduto con l’avvento degli stranieri e la stretta della Controriforma, ma che avrebbe potuto ritrovare se avesse attinto, dopo secoli di schiavitù, alle radici comunali della sua identità128. Sismondi fa così breccia nell’immaginario dei patrioti: Del Medioevo sismondiano si apprezza la potenzialità di costruire un modello «federalista» per l’Italia nascente: ammiratore dei piccoli Stati, nemico dell’accentramento amministrativo e della tirannia della burocrazia, […] il 126 L. Tosti, op. cit., p. 12-13. Risale al 1833 l’edizione italiana dell’opera, col titolo di Storia del Risorgimento, de’ progressi, del decadimento e della rovina della libertà in Italia, traduzione dell’edizione francese ridotta, pubblicata nel 1832. 128 Cfr. a questo proposito Duccio Balestracci, Medioevo e Risorgimento. L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino 2015, pp. 2733. 127 42 ginevrino propone un futuro italiano non basato sullo Stato nazionale «unico» […], ma valorizzatore delle tante patrie locali costituitesi nei secoli di mezzo […].129 Il sistema politico variamente rappresentativo che vale ai comuni medievali l’appellativo indistinto ed evocativo di «repubbliche» cattura naturalmente l’immaginazione di patrioti come Mazzini, pronti a individuare un barlume di democrazia in un’Europa nella quale spadroneggiavano i signori; anche Tosti, come si è visto, pone l’accento sulla «democrazia» dei comuni. A dispetto del suo liberalismo e dei toni anticattolici che si ravvisano nelle sue pagine – che non potevano piacere alla Chiesa, che infatti disapprovò la sua vasta opera – Sismondi riscuote simpatia anche in taluni autori neo-guelfi, come Gioberti e Rosmini, affascinati dall’idea che vero motore della storia sia la libertà spirituale. Tosti affronta in età giovanile l’autore ginevrino, deplorandone l’accantonamento del ruolo del Papato e della divina Provvidenza, che della Storia della Lega saranno invece i cardini130. A giudizio dello storico cassinese, la libertà spirituale – tipicamente italiana – ricopre la massima importanza. La Lega lombarda non fu che «l’aspirazione dell’individualità italiana al suo complemento»131: un’alleanza volontaria destinata a consacrare l’unità della nazione, pur nel rispetto della libertà di ogni sua componente. Niente a che vedere con la «unità materiale» tutta tedesca, che «uccide la individualità delle parti per vivificarle […] ed in una pazza contraddizione vanamente si affatica a produrre […] la libertà col servaggio, colla morte la vita»132. Tosti, dunque, asserisce in tutta certezza la differenza inconciliabile, l’impermeabilità reciproca, tra le nazioni italiana e germanica; l’una votata alla democrazia, alla libertà, alla patria, l’altra al feudalesimo, alla gerarchia, alla devozione ad un principe. Riflette David Laven nel suo saggio sul mito della Lega nel Risorgimento: Nell’analisi di Tosti, spicca la convinzione di una fondamentale superiorità degli italiani – specialmente dei cittadini delle repubbliche – rispetto ai tedeschi. Ai suoi 129 D. Balestracci, op. cit., p. 31. Cfr. Alberto Forni, Lo storico delle tempeste. Pensiero e azione in Luigi Tosti, Istituto Storico per il Medioevo, Roma 1997. 131 L. Tosti, op. cit., p. 19. 132 L. Tosti, op. cit., p. 20. 130 43 occhi, le forme di governo derivavano direttamente dalle caratteristiche proprie di ciascun popolo: i tedeschi erano dunque estranei incivili e brutali […]133. Più nello specifico, quando Tosti parla di «spirito Romano», vuole rimarcare il carattere “latino” dell’istituzione comunale. Essa sarebbe riemersa a suo parere solo dopo l’anno Mille, al termine di un lungo oblio sotto la dominazione longobarda e franca, grazie anche al contributo della Chiesa di Gregorio VII. Questi [i grandi feudatari] non avevano più ombra di Italiano: eransi imbestiati e fazionati alla tedesca, avevano l’animo tutto impaludato nel presente; paghi del comando, non li toccava memoria del passato, speranza di avvenire. […] La vena delle tradizioni romane seguitava il suo corso nelle menti popolane: perciò alla caduta dei grandi feudatari il popolo […] non interrogò alcuno intorno alle civili ordinazioni […]. Per naturale conforto si ordinò a comune. […] Risorsero i consoli in queste città […]. Dentro il governo era tutto alla Romana, e Romano fu anche il senno con cui le città grandi si misero a trattare con le città minori, con le terre e le castella che erano nel compreso del loro territorio […]. Se li assoggettarono; ma li chiamarono al godimento della loro cittadinanza […].134 Tosti esprime dunque il suo parere su un tema che ha molto interessato la pubblicistica patriottica: determinare l’origine etnoculturale delle istituzioni comunali, prime indubitabili testimonianze di italianità nella storia, non era compito ozioso per studiosi dalle idealità patriottiche. Scrive a proposito Ernesto Sestan: L’interesse per il Medioevo […] proietta le sue luci su due linee distinte: l’una, più erudita, alla ricerca del processo di composizione etnica della nazione italiana e sulla persistenza della romanità […]; l’altra linea, sentimentalmente non diversa dalla prima, ma meno aulica […], era intesa a ricercare le origini e gli sviluppi David Laven, “The Lombard League in Nineteenth Century Historiography”, in Stefan Berger, Chris Lorenz (a cura di), Nationalizing the Past. Historians as Nation Builders in Modern Europe, Palgrave Macmillan 2010, p. 380. «Central to Tosti’s analysis was a belief in the fundamental superiority of Italians – especially citizens of the republics – to Germans. […] Tosti clearly saw the forms of government as actually stemming from the inherent characteristics of different peoples: Germans were uncivilized, brutal aliens […].» La traduzione dall’inglese è mia. 134 L. Tosti, op. cit., p. 69. 133 44 delle libertà comunali italiane interpretate – e qui il legame con l’altra linea – come riscossa di latinità contro germanesimo.135 Se il Medioevo aveva dato i natali alla nazione, bisognava perlomeno chiarire in che misura l’intreccio etnoculturale causato dalle invasioni barbariche avesse realmente diluito – o spento – la supposta “latinità” delle genti italiche. Nell’ottica di un programma di sovvertimento dell’ordinamento politico-dinastico “tedesco” imposto dalla Restaurazione, era allettante la proposta di una eterna contrapposizione tra italiani e stranieri, tra latinitas e barbaritas. Tuttavia, se davvero le dominazioni barbariche avevano mostrato il volto più irriducibile della ferocia dei nuovi venuti, i quali avrebbero distrutto ogni traccia di romanità, come rinvenire una continuità tra l’antichità latina e l’esperienza comunale? Viceversa, se quest’ultima veniva considerata il prodotto di una originale commistione di elementi latini e germanici, giocoforza cadeva ogni radicale contrapposizione. Il problema presenta i caratteri di una vera e propria «aporia», come nota Balestracci136, di difficile – né univoca – risoluzione. Secondo Alessandro Manzoni, ad esempio, non si può affatto parlare di assimilazione tra italiani e Longobardi, i quali, conquistata la penisola, vi si comportarono da dominatori: Una nazione armata ne sottomette un’altra, e s’impadronisce del suo territorio; si stabilisce in questo, con possessi e privilegi particolari, che riguarda come il frutto della conquista; mantiene o crea per sé sola dell’istituzioni particolari, destinate a conservarli; trasmette quell’istituzioni di generazione in generazione, usando ogni cautela per evitar la confusione e la mescolanza, perché queste equivalgono a perdita de’ privilegi stessi: per qual ragione un tale stato di cose non potrà durare tre, quattro, dieci secoli? […] I Mori non diventarono Spagnoli, i Turchi non son diventati Greci, dopo occupazioni molto più lunghe di quella de’ Longobardi alla fine dell’ottavo secolo.137 Ernesto Sestan, “Legnano nella storiografia romantica”, in Id., Scritti vari, vol. III, Storiografia dell’Otto e Novecento, Le Lettere, Firenze 1991, p. 226. 136 Per una illustrazione più dettagliata del problema, si veda D. Balestracci, op. cit., pp. 53-60. 137 Alessandro Manzoni, “Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia”, in Id., Opere varie, Milano, Fratelli Rechiedei 1881, p. 106. 135 45 Dunque nessuna mescolanza, nessuna graduale omogeneizzazione tra conquistatori e conquistati; nessun «popolo» inteso nella sua unità. Nella sua radicalità, Manzoni sa che le sue opinioni confliggono con quelle di autori come Machiavelli, Denina e Muratori138, al quale pure tributa a più riprese tutto il suo rispetto. Anche lo storico Gino Capponi sostiene una tesi analoga: ma una simile posizione deve fare i conti con le considerazioni di chi, come lo studioso Pietro Capei, è convinto che il “risveglio” italiano risalga all’età ottoniana, e si avvalga di elementi giuridici di origine germanica o addirittura longobarda, allogeni rispetto alla pura componente “latina”. In questa annosa controversia è significativo il contributo di Pasquale Villari, il quale, ne L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica (1861) individua nei Franchi il punto d’incontro tra l’antichità romana e le stirpi germaniche139: essi, in quanto primi barbari a convertirsi al cristianesimo, ebbero il merito, con la fondazione dell’Impero carolingio, di operare una sintesi tra le due stirpi e culture. Tuttavia, Villari propone una volta di più la teoria della suddivisione etnica tra feudatari tedeschi e città italiane, intrise di romanità: quando le tiranniche signorie succedono ai comuni si assiste alla rivincita, a suo giudizio, del sangue tedesco su quello latino. Anche Tosti si affretta ad attribuire una natura “germanica” («eransi imbestiati e fazionati alla tedesca») ai feudatari e profonda consapevolezza di latinità al popolo, costituitosi pressoché spontaneamente in comune poiché memore delle proprie radici romane. A spegnere qualunque forma di virtù romana e cittadina in Italia erano stati i Longobardi, che calarono nella penisola «distruggendo nel nostro paese quanto era di vivo»; imposero così la feudalità, «e per quella furono al tutto estinti i Comuni»140. Eppure, per curioso paradosso, era stata proprio la frammentazione feudale, pur nella sua brutalità, a consentire la risurrezione dell’istituzione comunale. La legislazione imperiale, fortemente osteggiata dal padre, «uccide tutto, 138 Cfr. Balestracci, op. cit., p. 55. Tosti è invece assai critico verso l’Impero carolingio, dal quale discende, in linea diretta, l’Impero ottoniano: «“A Carlo piissimo Augusto, coronato da Dio, grande e pacifico Imperadore vita e vittoria” gridò il Pontefice; e con queste parole incominciò la storia delle italiane sventure.» (Storia della Lega, p. 34). 140 L. Tosti, op cit., p. 43, 44. 139 46 perché tutto viva nella vita del capo», cioè nell’Imperatore141; la monarchia longobarda, «feudale», era riuscita quantomeno a salvare l’individualità – e la pluralità – dei duchi: «Per la qual cosa la vita non essendo imprigionata in uno solo, più facilmente poteva distendersi e distribuirsi nel corpo de’ popoli»142. Tale frammentazione – tipica dei secoli altomedievali – aveva reso possibile, mercé anche il sostegno del clero, il recupero popolare del vecchio spirito “romano”. Presupposto di questa rinascita era evidentemente la sopravvivenza di una qualche forma di legge “romana” anche sotto gli stessi Longobardi; di questo Tosti è convinto, anche a costo di dissentire dal suo maestro, lo storico napoletano Carlo Troya, sostenitore del completo annientamento di ogni traccia di romanità sotto i Longobardi. Su questo tema, allievo e maestro avevano già dibattuto all’indomani della pubblicazione della Storia della Badia di Montecassino di Tosti (1843): Tosti […], pur professandosi «un povero diavolo», rispose al maestro [Troya] quel che pensava al riguardo, ossia che le badie e le chiese usavano la legge longobarda non perché essa avesse vietato la romana, ma perché i giudici ignoravano questa, essendo appunto longobardi. […] Non solo: se è vero che l’Editto di Rotari, nel prologo e nella conclusione, dichiara abolite tutte le altre leggi, esso non fa esplicito riferimento a quella romana […].143 Nella Storia della Lega poco spazio è dedicato a queste riflessioni, al di fuori del Libro primo, che dà conto di tutta la storia dal declino dell’Impero romano fino al secolo XII. Tosti ripropone all’interno dell’opera il contrasto tra popolo “latino” e nobili “germanici”, lasciando più volte intendere che, anche quando la gran parte delle città si è levata contro lo straniero, i signori feudali restano fedelissimi sostenitori della causa imperiale; vere “quinte 141 Per Tosti, solo Augusto fu un giusto Imperatore. Si legge nella Storia della Lega che la Provvidenza ne aveva disposto il comando del mondo al fine di riunire le genti, per dare loro la cittadinanza romana e consegnarle al Cristianesimo «conquistatore dell’umanità» (p. 28). Per cui, «quando Cristo rigenerò il mondo non vi furono più corone imperiali» (p. 29), e «da Tiberio ad Augustolo fu un delirio d’Impero in Occidente» (Ibid.). Da qui la repulsione di Tosti per la legislazione imperiale, «diritto fabbricato di vecchie leggi pagane, e di qualche legge cristiana da Teodosio II e Giustiniano» (p. 44). 142 L. Tosti, op. cit., p. 45. 143 A. Forni, op. cit., p. 25. 47 colonne” della dominazione teutonica. La complicità tra loro e Federico è piena: Concedersi ad un di questi [ad un feudatario] dall’Imperadore un pezzo di terra, un castello era un premiarlo; scemarli nella roba e nei diritti di signoria era un punirli. Ma per le repubbliche italiane non in altro che nella libertà era il guiderdone e la pena. […] Spoglio un Conte del suo feudo, non era più Conte: spogli i Milanesi anche dalla material patria dal Barbarossa, furono sempre Milanesi.144 In un’opera come questa non poteva non trovare spazio uno dei temi che più stavano a cuore ai patrioti e agli studiosi “impegnati” nel movimento nazionale; anzi, la contrapposizione – perentoria, al di là dei paradossi145 – tra i comuni e il feudalesimo s’intreccia evidentemente con le suggestioni di una lotta eterna tra la “latinità” e la “barbarie”. Come si è visto, questi erano problemi che interessavano anche – e soprattutto – i dotti. Ma Tosti, pur nella sua erudizione, si limita qui a servirsene per costruire un antefatto, per sommi capi, del suo dramma. 2.3 La figura del Barbarossa Si potrebbe quasi dire che il volume di Tosti non abbia, della «storia», che il titolo146; almeno per il lettore moderno. Lo si capisce – tra le altre cose – dal trattamento riservato alla figura dell’Imperatore. Federico assume, qui come nel resto della pubblicistica nazional-patriottica negli anni tra il 1821 e il 144 L. Tosti, op. cit., pp. 69-70. Tosti riconosce l’importanza della frammentazione feudale longobarda e franca nella lenta risurrezione dei comuni e dello spirito “latino”; ma per coloro che, ai suoi occhi, rappresentavano nel XII secolo il feudalesimo, egli non ha alcuna comprensione. 146 Franco Cardini nota, a margine della sua Vera storia della Lega Lombarda che «Oggi nessuno, se non gli studiosi del Risorgimento, ricorre più alla Storia della Lega». Ernesto Sestan, dal canto suo, la definisce «estremamente lontana dalla storiografia nostra contemporanea», rimarcandone appunto perciò il grande interesse. 145 48 1848147, il ruolo dell’antagonista in quello che s’interpretava come la lotta dei comuni per la loro indipendenza. Eloquente, a questo proposito, la descrizione che il poeta Giovanni Berchet gli dedica nell’appello introduttivo alle sue Fantasie (1829): […] un tempo nell'elenco de’ tormentatori dei popoli venne a collocarsi un Federigo Hohenstaufen, soprannominato il Barbarossa e facente il mestiere d'imperatore; […] questo tale Hohenstaufen, superbo e ruvido come Caino, seccafistole per eccellenza, calato e ricalato in Italia co’ suoi manigoldi, angariò principalmente la Lombardia colla prepotenza d’una volontà feroce, con tutti quei soliti bei modi di chi scende di là a padroneggiarci, a raspar quel che è nostro […].148 Il profilo è quello, senza mezzi termini, d’un tiranno. Dalla poesia all’opera: il coro della Battaglia di Legnano (1849, libretto di Salvatore Cammarano, musiche di Giuseppe Verdi) evoca, al levarsi del sipario, il nome dell’imperatore, e lo chiama «feroce», intimandogli di temere l’imminente riscossa dei comuni. Viva Italia! Un sacro patto / Tutti stringe i figli suoi: / Esso alfin di tanti ha fatto / Un sol popolo d’eroi! / Le bandiere in campo spiega, / O Lombarda invitta Lega, / E discorra un gel per l’ossa / Al feroce Barbarossa.149 Tosti, che pure si propone di comporre un’opera di erudizione storica, mette subito in luce ciò che del «feroce Barbarossa» gli preme evidenziare: Aveva le membra esercitate alla fatica delle armi in guerra, in pace a quelle della caccia, di che era perdutamente vago. […] Traeva coll’arco a meraviglia. Rispondeva l’animo alla virilità del corpo; […] poco o nulla rammollito dalla gentilezza delle lettere, aspro, superbo, rotto agli sdegni, incorrigibile dalla pietà. Non sapeva di latino; la favella tedesca era la sola che parlava. Assaporato ben per Cfr. Franco Cardini, “Federico Barbarossa e il romanticismo italiano”, in Reinhard Elze e Pierangelo Schiera (a cura di), Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino 1988. 148 Giovanni Berchet, “Agli amici miei in Italia”, introduzione a “Le Fantasie”, in Id., Opere, a cura di Egidio Bellorini, vol. I, Bari, Laterza 1911, p. 53. 149 Citato in Alberto Mario Banti, La nazione del Risorgimento, Torino, Einaudi 2011, p. 58. 147 49 tempo il dolce della gloria, la quale appresso i Tedeschi non veniva che dalla forza trionfatrice della forza [sic], amava ed anelava alla guerra [il corsivo è mio].150 Egli è dunque un valoroso guerriero; ma è rozzo («non sapeva di latino»), superbo, violento. La sua virtù militare ne fa un formidabile cavaliere; e in queste vesti è rievocato anche dal poeta e filosofo Terenzio Mamiani, nell’Inno a Dio in commemorazione della Lega Lombarda (1842): […] ivi più ch’altri audace / E gagliardo su tutti e infra le pugne / Feroce e formidabile cresciuto, / Il fulvo Federico, uso tra il vampo / E l’eccidio passar delle disfatte / Città latine […].151 Assetato di sempre nuova gloria, Federico è punto da «una sterminata ambizione; per cui con tutti gli sforzi della mente si dette ad incarnare l’idea dell’Impero Romano»152. D’altra parte, è tedesco: è incline, per “natura”, alla glorificazione della forza bruta, e all’abuso del potere. La sua incoronazione a re di Germania ha posto fine alle lotte dinastiche, poiché lo svevo Federico è imparentato con i Welfen; il che ne fa un pacificatore domestico. Ma sull’Italia egli vuole ristabilire, se necessario con la forza, gli antichi diritti imperiali; perciò il suo regno è segnato dallo scontro con le città lombarde, ormai abituate a comportarsi come se a sud delle Alpi l’Impero non esercitasse alcuna giurisdizione, se non puramente simbolica. Ma non basta: la suggestione di essere a tutti gli effetti un successore degli Imperatori romani convince Federico della sua superiorità rispetto al vescovo di Roma. Tosti enfatizza dunque la duplice natura del Barbarossa, spesso apostrofato semplicemente come «il Tedesco»: da un lato, egli è un tiranno, poiché pretende di calpestare le franchigie che le città italiane considerano ormai diritti acquisiti; dall’altro, è uno scismatico, che ispira la rottura dell’unità della Chiesa sostenendo vari antipapi e corrompendo uno stuolo di vescovi, in una tardiva riproposizione della vecchia “lotta per le investiture”. Luigi Tosti, Storia della Lega Lombarda, Montecassino, pe’ tipi di Montecassino 1848, pp. 88-89. 151 Terenzio Mamiani, “Inno a Dio in commemorazione della Lega Lombarda”, in Id., Poesie, Firenze, Le Monnier 1857, pp. 143-144. 152 L. Tosti, op. cit., p. 89. 150 50 In un contesto come questo, non v’è soluzione di continuità tra il Federico tiranno e il Federico scomunicato. I due aspetti anzi si completano a vicenda: il nemico della Chiesa non può perciò stesso non essere anche nemico dei Comuni, e viceversa […].153 Questa caratterizzazione non è casuale. In Federico il lettore deve vedere l’immagine della «tedesca rabbia», non una figura nella quale le luci si combinano con le ombre, giacché altrimenti verrebbe meno la sua valenza simbolica. Ma il Barbarossa non è solo un “barbaro” furioso: sa anche incutere il rispetto che si deve ad un sovrano, con la sua pompa e le sue solenni ostentazioni di ricchezza e forza. L’immagine dell’Imperatore a Roncaglia – tanto per fare un esempio – è molto suggestiva. Piegata una prima volta Milano154 e convocata la famosa Dieta (1158), egli si rimette al giudizio di noti giuristi bolognesi – quei “legisti” ai quali il padre non risparmia il suo disprezzo155 – e, forte della loro legittimazione, avanza le sue pretese sull’Italia: Milano era doma, le altre città non si muovevano per timore degli ostaggi, che erano in man di Federigo. Questi poteva a suo piacere palleggiarsi il globo con la croce sopra, simbolo della universale signoria. Vi andarono [a Roncaglia] tutti gli Arcivescovi, Vescovi delle città che formavano un tempo il Regno Italico; Conti, Duchi, Marchesi, Valvassori a stormi vi accorsero allegri; dolenti vi si accostarono i Consoli delle Repubbliche. […] nereggiava un pugno di uomini chiamati Dottori in Legge. […] Questi legisti erano il Carroccio di Federigo. Questi li convocò, perché sentenziassero su le ragioni, che poteva avere uno Imperadore di Lamagna sull’Italia [i corsivi sono miei].156 Molti dettagli balzano qui all’occhio. La gaiezza dei nobili signori è contrapposta allo scorno dei consoli, «dolenti», dei comuni – definiti con 153 F. Cardini, op. cit., p. 108. Arresasi nello stesso anno 1158 dopo un mese di assedio. L’assedio che causerà la distruzione della città è posteriore (1162). 155 Cfr. Tosti, op. cit., p. 134-135: «Due generazioni di uomini sono formidabili ai Principi: i preti e i legisti. […] I legisti tra i sapienti formarono, e formano una casta distinta. Sempre ebbero un’arma micidialissima, il sofisma; con cui distinguendo, notomizzando quello che è immutabile e assoluto, il Diritto, si sforzano di distruggerlo» (Storia della Lega, p. 135). 156 L. Tosti, op. cit., p. 148. 154 51 disinvoltura «repubbliche». Tosti non indulge a sfumature: tutti i «signorotti» sono solidali con l’Imperatore, tutti i rappresentanti dei comuni gli sono ostili. Le città appaiono davvero «un tutto indistinto, con una comune passione, senza varietà di stimoli e di fini»157. Tra i convenuti si distinguono i giurisperiti, addirittura definiti «il Carroccio» del Barbarossa, cioè il baluardo estremo delle ragioni del suo potere; in effetti il loro responso, ispirato ai principî del diritto romano, è che le pretese di dominio “assoluto” di Federico siano legittime. […] nella forma del Romano diritto trovarono che Federigo, come legittimo successore di Augusto, fosse veramente donno e padrone del Mondo. Non rimaneva più a sapersi se lo fosse anche dell’Italia. Il trovato fu mirabile; incredibile l’onnipotenza dei Dottori; stupenda la fede di Barbarossa a quel Vangelo.158 La stessa connotazione nazionale del sovrano («di Lamagna»), che porrebbe il problema di quali «ragioni» potesse avere un “tedesco” sull’Italia, ha sapore romantico: l’Italia non era certo un corpo estraneo nel contesto dell’Impero, bensì sua parte integrante; e Federico era già stato incoronato non solo re di Germania, ma anche d’Italia, e Imperatore dallo stesso Papa Adriano. Qui come altrove, dunque, Tosti tenta di porre il contrasto tra Federico e i comuni sul solo piano della nazionalità. Per lui, l’Imperatore rimane, in ogni caso, uno straniero, e pertanto un tiranno, non diverso dal «tormentatore» evocato da Berchet. Giustamente Mario Fubini ha denunciato «l’incapacità [di Tosti], o meglio il rifiuto pregiudiziale […] di intendere le ragioni dell’altra parte»159. In guerra, il Federico descritto dal benedettino è capace di clamorose crudeltà, che a più riprese ne mettono in luce la barbarie; ogni sua mossa è dettata da sete di potere, o dal dispetto, o da puro calcolo. All’inizio del libro terzo, lo vediamo esultare per l’umiliazione inflitta nel 1160 a Crema, città tutto Ernesto Sestan, “Legnano nella storiografia romantica”, in Id., Scritti vari, vol. III, Storiografia dell’Otto e Novecento, Le Lettere, Firenze 1991, p. 233. 158 L. Tosti, op. cit., p. 150. 159 Mario Fubini, “La Lega Lombarda nella letteratura dell’Ottocento”, in Popolo e stato in Italia nell’età di Federico Barbarossa, Torino, Deputazione subalpina di storia patria 1970, p. 414. 157 52 sommato di secondaria importanza; Tosti si sofferma ad immaginarne il giubilo meschino. La resa e distruzione di Crema levò in grande superbia l’animo di Federigo, il quale come se quella cittaduzza fosse stata tutta l’Italia, spedì lettere per l’Imperio recatrici di cotanta vittoria. Andò in Pavia con l’esercito a celebrarla con isplendido trionfo; e con pubbliche supplicazioni ne riferì grazie a Dio.160 La notizia della morte di papa Adriano IV, il quale aveva posto le basi per una futura alleanza con le città lombarde, rinfranca ancor di più l’Imperatore, che non sa ancora a quali pericoli stia andando incontro: La morte di Adriano lo aveva liberato dal terrore di vedersi innanzi minacciosa ed unita quella Lombardia, che già credeva fermata sotto i suoi piedi; e gli apriva la via ad intrudersi nella Chiesa […]. Come adoperasse il malo ingegno in questa pessima opera, e dove gli riuscissero gli sforzi, io conterò con molta soddisfazione nell’animo. Imperocchè apparirà chiaro dalle cose a narrarsi, come questo Imperadore Tedesco per recarsi nella turpe soggezione questa nostra Italia, dovette nientemeno che venire a cozzo con Dio stesso, e mettergli a sbaraglio la Chiesa [il corsivo è mio]161. La nefasta «intrusione» ha inizio con il sostegno al cardinale Ottaviano, eletto antipapa col nome di Vittore: Prestavagli [a Vittore] l’ardimento […] l’Imperadore Federigo, che lo rincalzava a reggersi su di un seggio, che papale non era: anzi esso Ottaviano, com’è l’uso de’ preti cortigiani, non vergognava apertamente affermare, per favore della imperiale maestà avere afferrato il Papato. Una simile usurpazione necessita della forza per trovare anche una parziale accettazione; tanto più che la stragrande maggioranza dei vescovi si è pronunciata a favore del vero Papa, Alessandro III162. Il «Tedesco» prende subito i suoi provvedimenti: 160 L. Tosti, op. cit., p. 186. L. Tosti, op. cit., p. 186-187. 162 Cfr. Tosti, op. cit., pp. 199-200. 161 53 […] Federigo si gittò scapestrato in ogni maniera di persecuzioni contro coloro che si tenevano fedeli a Papa Alessandro. […] Queste furie del Barbarossa giovarono grandemente alle cose Lombarde. Imperocchè […] anche i forestieri, che non sapevano o non curavano delle cose italiane, tenendosi fedeli al vero Papa, abbracciavano ad un tempo la causa de’ Lombardi, la quale incominciò a non più distinguersi da quella della Chiesa. […] l’odio delle Repubbliche verso l’Imperatore era da lui stesso santificato: chi combatteva per queste entrava in un comune agone co’ ministri della Religione; e la voce di chi confessava morendo in battaglia la santa libertà della patria, trovava un eco nel santuario sul labbro de’ confessori della fede [i corsivi sono miei].163 Lo scisma è rinnovato costantemente da Federico, che difende, dopo la morte di Vittore, le ragioni degli antipapi Pasquale e Callisto; il Barbarossa insiste nella sua «bestiale protervia nel prolungare la lagrimevole divisione nella Chiesa di Dio»164 al fine di indebolire il Pontefice – favorendo così il dominio imperiale sull’Italia. Il “braccio di ferro” tra le due massime autorità della Cristianità ha fine soltanto con la pace di Venezia siglata tra Alessandro e Federico nel 1177; fino ad allora, il conflitto tra l’Imperatore e le città lombarde e il perpetuarsi dello scisma rimangono strettamente intrecciati; l’uno è funzionale all’altro, e viceversa. Della lunga lotta tra i comuni – Milano in testa – e il Barbarossa Tosti rievoca, con dovizia di particolari e di ricostruzioni impressionistiche, una lunga serie di episodi; dalle guerricciole che Federico conduce contro piccoli comuni per semplice ripicca, ai vari assedi di Milano, culminanti con la distruzione della città nel 1162. Queste sortite e le sembianze che davano i Milanesi di volersi reggere a petto di tutta quella smisurata oste, invelenirono l’acerbo animo del Tedesco, il quale con ogni più efferato consiglio disfogava la rabbia che il rodeva su i prigioni Milanesi […]. Di questi ne scelse cinque, cui fe’ cavar gli occhi e li dette a condurre a Milano ad un sesto scemo d’un occhio e delle nari. […] A questi infernali furori prorompeva il Barbarossa […]. Non credo sia nelle storie esempio di pari ferocia e matta prepotenza in un solo uomo.165 163 Ibidem. L. Tosti, op. cit., p. 235. 165 L. Tosti, op. cit., pp. 214-215. 164 54 Come potrebbe Tosti sottoscrivere il giudizio di Sismondi, il quale, pur naturalmente duro col Barbarossa, riconosceva ch’egli «amava la giustizia, manteneva la parola data, aborriva da ogni volontaria crudeltà»166? Lo storico cassinese nega a Federico perfino queste – parziali – concessioni. L’Imperatore da lui descritto è alieno da simili virtù “cavalleresche”; la sua empietà si manifesta tanto in guerra, quanto in pace. Si dà infatti per scontato che oltretutto egli sia al corrente delle angherie dei podestà, da lui stesso nominati, e che in cuor suo approvi il loro operato: […] dirò che i delitti de’ ministri sono sempre del Principe; e il non addarsi del puzzo che quelli tramandano, è indizio di animo vecchio nelle corruttele […]. Ma Federigo sapeva tutto, e lasciava fare.167 E quando al suo cospetto giungono i cittadini che lo pregano d’intervenire per porre fine al malgoverno, egli finge indignazione, e non si comporta come dovrebbe un buon amministratore. A folla accorrevano […] i Lombardi; chi con le croci in mano, chi senza, gridando misericordia ai loro mali, giustizia contro gl’inumani ministri […]. Federigo fu fedele all’andazzo de’ Principi pari suoi. Diè le viste della maraviglia; disse, non sapere di quelle tirannidi; volersene certificare; volerle punire. Non se ne certificò, perché sapeva; non le punì, perché le voleva; ed i Lombardi rimasero colle croci in mano.168 Da simili esempi risulta chiaro come l’Imperatore sia ridotto, nelle pagine di Tosti, ad uno stereotipo. In effetti, nella Storia della Lega trova la sua più eloquente riconferma il mito risorgimentale del crudele imperatore169 nel quale si identificano senza mezzi termini i dominatori “tedeschi” (austriaci) del Lombardo-Veneto. Culmine di una tendenza che ha preceduto e Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, Storia del Risorgimento, de’ progressi, del decadimento e della rovina della libertà d’Italia, tomo I, p. 59, Firenze 1849. 167 L. Tosti, op. cit., p. 237. 168 L. Tosti, op. cit., p. 251. 169 Cfr. Raoul Manselli, “Introduzione”, in Id, Josef Riedmann (a cura di), Federico Barbarossa nel dibattito storiografico in Italia e Germania, Bologna, il Mulino 1982. 166 55 preparato le passioni patriottiche tra il 1821 e il 1848170, questa interpretazione viene gradualmente messa da parte quando, spente le passioni del Quarantotto, compromesso dal fallimento il mito neoguelfo della Lega, i toni della ricerca si fanno più sereni. Compaiono allora, come già accennato, opere come la Storia diplomatica della Lega lombarda di Cesare Vignati (1866) e La battaglia di Legnano di Francesco Bertolini (1876), che correggono pesantemente la fisionomia “mitica” delle passate letture. Tuttavia tali studi – benché di notevole spessore scientifico – non cancellano l’eredità delle vecchie passioni. […] nella cultura diffusa dell’Italia unita […] Legnano manteneva intatto il suo mito, e quindi il Barbarossa restava quel che Giovanni Berchet e Giuseppe Verdi avevano descritto: un tiranno.171 Il “mito” si è dunque rivelato più forte delle rettifiche degli addetti ai lavori. Figure come quella del truce Barbarossa, elaborate in una particolare stagione di ideali ed intenti, e fuori da questa incomprensibili, si dimostrano capaci di influenzare a lungo, se non la ricerca degli studiosi, certamente la cultura popolare; e la caratterizzazione del tedesco Federico quale prototipo dell’oppressore ha contribuito ad alimentare una leggenda gravida di conseguenze – quella della “secolare inimicizia” tra l’Italia e la Germania172. 2.4 Il «memorando pontificato» di Alessandro III Se nella Storia della Lega al Barbarossa è assegnato il ruolo dell’antagonista principale, a papa Alessandro III spetta quello dell’eroe positivo; i comuni gli rubano spesso la scena, quando si combattono l’un l’altro, od impugnano finalmente le armi contro il «tedesco»; ma è Alessandro il personaggio individuale al quale, malvagio Imperatore a parte, sia data più rilevanza173. 170 Cfr. Cardini, op. cit. F. Cardini, op. cit., p. 126. 172 Cfr. Cardini, op. cit. 173 Le «Repubbliche» mantengono sempre un che di indistinto; non vi spiccano personaggi di rilievo; Tosti descrive le missioni dei legati, i patimenti e le «risurrezioni» del popolo; cita, sì, la figura di Alberto da Giussano, il quale 171 56 Vero “regista” dell’alleanza delle città lombarde, capo autentico della Cristianità che il tiranno scismatico ha gettato nella discordia, il Pontefice ingaggia – contrapponendosi specularmente alla sua nemesi imperiale – una duplice battaglia: a difesa dell’unità e della libertà della Chiesa e a sostegno dell’indipendenza italiana. Per Tosti, benedettino sì, ma acceso patriota, la causa ecclesiastica e quella nazionale vanno a braccetto, unite strettamente nell’opposizione all’arroganza di qualsiasi potere che voglia farsi indipendente dalla morale e dall’insegnamento di Cristo. Come al solito, la prima descrizione che il padre benedettino fa di un suo personaggio basta a delinearlo, nei suoi tratti essenziali, come una figura spiccatamente positiva o negativa; e se del Barbarossa egli mette subito in risalto la ferocia e l’incultura, del cardinale Rolando Bandinelli – proclamato papa alla morte di Adriano IV nel 1159 – fa emergere principalmente le doti: Alessandro, detto innanzi Rolando, era Sanese di patria, della casa de’ Bandinelli. Il Pagi [Antoine Pagi, francese; storico francescano seicentesco] lo vuole di Savona, ed il Panvinio [Onofrio Panvinio; storico agostiniano cinquecentesco] della stirpe de’ Paperoni. Qualunque la gente e la città cui apparteneva, era Italiano, e basta. […] Austero nei costumi, e di gentile anima da entrare facilmente nel cuore altrui; colto, e assai facondo parlatore, temperato in tutto, e ad ogni ufficio di cortesia e di carità inchinato per natura; nelle cose poi attinenti allo spirito, uomo tutto di Dio. […] Attinta l’altezza del Romano Pontificato, gli concedettero i Cieli concepirne tutta la idea, incarnata e quasi palpabile nelle ragioni della Italiana indipendenza. Era uomo fatto a sedere sul primo seggio della terra, ed a resistere ad uno indisciplinato e potentissimo Imperadore, che si cacciava sotto i piedi ogni divina ed umana ragione.174 La doppia qualifica di Alessandro è così esplicitata sin dalle prime battute: egli è «uomo tutto di Dio», ed anche «Italiano». Sono i Cieli ad indicargli l’identità della causa italiana e papale; in lui entrambe trovano un energico paladino. Ma la sua elezione è insidiata da un «tristo prete», il cardinale Ottaviano de’ Monticelli, il quale, con «plebea ribalderia», si proclama a sua volta papa comunque appare solo a Legnano, per poi scomparire. Le personalità dominanti della Storia della Lega sono senza dubbio Federico e Alessandro. 174 Luigi Tosti, Storia della Lega Lombarda, Montecassino, pe’ tipi di Montecassino 1848, pp. 191-192. 57 col nome di Vittore IV. Sono pochissimi i porporati che lo sostengono, giacché la stragrande maggioranza dei cardinali è con Alessandro; nulla è la sua legittimità agli occhi del popolo, che gli grida: «“Ecco qua quel maledetto: non la vincerai ad esser Papa: vogliamo Alessandro eletto da Dio; maledetto eretico”»175. Eppure, la sua candidatura trova un puntello nel Barbarossa. Convocato un Concilio – al quale si presentano solo pochi vescovi – Federico domanda loro di pronunciarsi a favore di colui che essi considerano il legittimo Pontefice; e i convenuti, pur con qualche reticenza, «si chinarono a definire vero Papa il presente Ottaviano»176. La Chiesa è così «orribilmente sconvolta» dallo scisma: su di essa ha steso la mano un Imperatore desideroso di spadroneggiare in Italia servendosi d’un clero succube. Va da sé che i pochi sostenitori, in Italia ed altrove, del cardinale Ottaviano siano considerati spregevoli non meno dell’usurpatore del trono di Pietro, come evidenzia Alberto Forni: Anche allora ci furono chierici vili e monaci infami, come quelli che, dopo la resa di Milano, sostituirono nella basilica ambrosiana i canonici che non vollero riconoscere l’antipapa Vittore. Per non parlare del clero d’oltralpe, di Ottone di Frisinga, buon tedesco, ma pessimo vescovo, del pastore di Magonza, Arnaldo, votato alla terribile fine di essere ucciso dal proprio gregge.177 «L’Italia, che il Tedesco voleva violentemente recarsi sotto i piedi, e che le stava innanzi in punto di resistere, fu la sola cagione, per cui Federigo si gittò al disperato partito di far la guerra a Dio coll’Antipapa»178. Per Tosti, abituato a considerare unite le sorti del Papato e della nazione, appare evidente come la foga anti-papale del Barbarossa sia tutta in funzione della sottomissione dell’Italia – e in particolare, di quelle «Repubbliche» lombarde che già danno a divedere di volersi scrollare di dosso il capestro imperiale. Al loro fianco si schiera presto Alessandro, il quale, benché sostenuto da gran parte dei vescovi, anche stranieri, si trova pur sempre in lotta con un rivale – Vittore IV – che gode del favore dalla massima autorità 175 L. Tosti, op. cit., p. 189. L. Tosti, op. cit., p. 197. 177 Alberto Forni, Lo storico delle tempeste. Pensiero e azione in Luigi Tosti, Istituto Storico per il Medioevo, Roma 1997, p. 58. 178 L. Tosti, op. cit., p. 197-198. 176 58 laica della Cristianità. Non resta al Pontefice, in una congiuntura in cui la sua autorità è apertamente in discussione, che perseguire con determinazione la politica di amicizia verso le città lombarde già inaugurata dal suo predecessore Adriano: allo stesso tempo, egli gioca la carta – di grande efficacia – della scomunica. Estromettendo dalla comunità dei fedeli sia l’Imperatore scismatico sia il suo antipapa, sciogliendo qualunque obbligo di fedeltà verso di loro, Alessandro pone le basi per rivolgimenti ancora più decisivi per le sorti della lunga lotta: da questa sanzione, infatti, «più che da altra cagione, è a derivare quell’unito e stretto consenso delle città Lombarde, che ordirono la famosa Lega»179. Ma il giuramento di Pontida è ancora di là da venire. Prosegue intanto la guerra in Lombardia: il Barbarossa fa radere al suolo Milano, e sembra sul punto di trionfare. L’Italia non è più un luogo sicuro per il vero Pontefice, che abbandona la penisola per trasferirsi in Francia: da qui intende «adunare i favori di Luigi VII di Francia e di Arrigo [Enrico] II d’Inghilterra per raffermarsi il seggio contro l’Antipapa Vittore; e poi con un grido potente svegliare alla vita gli asserviti Lombardi»180. I vescovi francesi ed inglesi tributano fedeltà ad Alessandro, non riconoscendo nel suo rivale che un fantoccio dell’Imperatore. Nel 1164 muore Vittore IV; gli succede Pasquale III, acclamato «dai pochi scismatici accorsi di Germania»181. L’anno successivo, Alessandro torna a Roma; liberata la città dagli scismatici che nel frattempo vi si sono insediati, i suoi sostenitori lo riaccolgono trionfalmente. «Alessandro rimesso in seggio, diè nuova vita all’Italia ed alla Chiesa; poiché della vicina Lega Lombarda affrettava il salutevole giorno»182. Di lì a poco, i rappresentanti delle città ribelli si sarebbero dati appuntamento in Pontida per stringersi nella celebre Lega183. Ormai padrone della città eterna, Alessandro si affretta a convocare un Concilio lateranense. In questa sede rinnova la scomunica a Federico, indirizzandogli parole di fuoco: «[…] gl’imprecò dal Cielo, che gli fallisse 179 L. Tosti, op. cit., p. 201. L. Tosti, op. cit., p. 230. 181 L. Tosti, op. cit., p. 235. 182 L. Tosti, op. cit., p. 247. 183 Avrebbero anche fondato, nel 1168, una nuova città in omaggio al Pontefice: Alessandria. Tosti spende parole di alto elogio per la grande opera: «Queste creazioni di città sono un bel segno della sovrumana vigoria che la morale unità mette ne’ popoli» (op. cit., p. 300). 180 59 sempre la vittoria nelle guerre co’ Cristiani, fino a che pentito, non fosse ritornato in ufficio». E in effetti, a seguito del severo monito, Federico toccò […] ignominiose sconfitte; e l’Italia da serva che era gli balzò innanzi minacciosa e libera. La papale sentenza fu un tuono che risvegliò le Lombarde contrade: il Cielo si manifestava propizio; per bocca del Pontefice il giuramento di Pontida era santificato, e l’altare della patria addiveniva quello di Dio [il corsivo è mio].184 È, questo, un momento solenne: Tosti si abbandona alla retorica – non è la prima volta – per enfatizzare la potenza e l’influenza del Papa nell’attimo in cui, congiungendo l’altare della patria con quello di Dio, porta a compimento la sua missione. La storia – meglio: l’epopea – segue così il suo corso: gli eventi precipitano, a Legnano i comuni umiliano l’esercito del Barbarossa, e le parti in causa decidono di intavolare finalmente dei negoziati. A Venezia Imperatore, Pontefice e legati comunali danno avvio alle trattative di pacificazione: l’esito è quanto mai imbarazzante per Tosti, costretto a segnalare come l’irreprensibile Alessandro giunga ad un accordo di pace con il Barbarossa, di fatto disinteressandosi della sorte delle città lombarde. La causa pontificia e quella patriottica si separano sul più bello poiché nel Papa convivono due anime, di Vicario di Cristo e di principe terreno; come Pontefice egli ha il diritto di «sentenziare su Federigo», ma come principe terreno si trova al cospetto dell’interlocutore «non come giudice, ma come parte». La sua è dunque una decisione scomoda, di Realpolitik, dettata dal timore che le trattative naufraghino prima di raggiungere un accordo soddisfacente. Egli che fortemente erasi persuaso del come i destini della Chiesa non si dovessero separare da quelli dell’Italia; egli che provò gli effetti di questo ottimo avviso nel potente rincalzo che si ebbe dai Lombardi nel caldo delle imperiali persecuzioni […] ruppe in Venezia quell’unito procedere co’ Lombardi, separando gl’interessi propri dai loro.185 Tosti prende atto della scelta di Alessandro con monacale reverenza ma silenzioso dispiacere, come testimonia qui la sua prosa piuttosto asciutta; nota Mario Fubini che se «di parzialità egli poteva peccare era piuttosto 184 185 L. Tosti, op. cit., p. 285. L. Tosti, op. cit., p. 355. 60 parzialità di italiano che di uomo di Chiesa».186 Ricomposto lo scisma – Callisto III, terzo antipapa, si sottomette ad Alessandro l’anno dopo la pace di Venezia – e ritrovata l’armonia con l’Imperatore, che gli rende gli omaggi di prammatica, il Papa «Italiano» esce di scena a cavallo d’un candido mulo. Al netto di questa “diserzione”, l’immagine che Tosti vuol restituirci è quella del Pontefice che, dalla cattedra di Pietro, guida una sorta di crociata nazionale contro lo straniero: esattamente ciò che si attende da parte dell’Alessandro dei suoi giorni, Pio IX187. Spettatore partecipe188 dei rivolgimenti del 1848 – culmine e tradimento di qualsiasi idealità neoguelfa – il padre sostiene la necessità «di un potere morale, che stia come centro [della nuova Italia libera dallo straniero], e che per la sua natura psicologica non partecipi della peccabilità delle parti»189: le iniziali aperture in senso liberale di Papa Mastai convincono molti patrioti – Tosti compreso – che il riscatto nazionale sotto l’alto patronato del successore di Pietro sia imminente. È facile rinvenire in simili auspici le suggestioni giobertiane d’una confederazione italiana sulla quale al Pontefice, che vi avrebbe esercitato una morbida giurisdizione, sarebbe stata riconosciuta una rinnovata primazia «civile»190. Di qui le passioni che mescolano la devozione religiosa al trasporto patriottico: a Pio IX, come si è detto, è dedicata l’intera Mario Fubini, “La Lega Lombarda nella letteratura dell’Ottocento” in Popolo e stato in Italia nell’età di Federico Barbarossa, Torino, Deputazione subalpina di storia patria 1970, p. 417. 187 Per una panoramica sul neoguelfismo si veda Francesco Traniello, “Religione, nazione e sovranità nel Risorgimento”, in Id., Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino 2007. 188 Alberto Forni racconta di come Tosti si raccomandasse al suo corrispondente ed editore Vieusseux di devolvere il ricavato della sua Storia alla Venezia insorta contro gli austriaci: «Il prezzo degli esemplari […] che venderete, vadano a benefizio di Venezia. Io non ho altro, perché son povero. Ma l’amore della mia patria, e le memorie di una città prodigiosa in tutto che la riguarda mi fa ricco di quel poco, che potrò darle delle mie fatiche letterarie». (Citato in A. Forni, op. cit., p. 65, nota 122). 189 Estratto di una lettera di L. Tosti a Gian Pietro Vieusseux del 29 novembre 1848. Citato in A. Forni, op cit., p. 64, nota 120. 190 F. Traniello, op. cit., p. 76. 186 61 Storia191; a lui il padre rivolge il pensiero quando scrive di Alessandro. Proponendo tale parallelismo, egli vuole accostare un gigante del passato all’eroe dell’avvenire: «Le Chiavi, che oggi impugna il Massimo Pio, sono ancor calde della vita del Terzo Alessandro», si legge nel «manifesto» della Storia della Lega192. Anche a fronte di un così illustre predecessore, il valore dell’attuale Pontefice non teme ridimensionamenti: anzi il “liberale” Pio IX, nota Alberto Forni, «[a giudizio di Tosti] ha perfino fatto meglio di Alessandro III il quale, ad un certo momento, dopo la vittoria, si comportò da principe terreno distinguendo i propri interessi da quelli dei comuni italiani»193. Pio IX può rivelarsi l’uomo adatto per un vero rinnovamento del Papato, caduto più in basso che mai sotto Gregorio XVI, il quale – impiegando il suo potere temporale a sostegno della Restaurazione – ha «prostituito»194 il Soglio. Il Papato è dunque il perno dell’attuale crisi della penisola, ma al tempo stesso – nella persona di Pio – l’unica sua ancora di salvezza. L’allocuzione del 29 aprile 1848, il fallimento della guerra d’indipendenza e il naufragio graduale delle insurrezioni del 1848-1849 segnano in generale un deludente ritorno allo status quo, e in particolare il tramonto del progetto neoguelfo di un connubio tra Papato e nazione. Per quanto amareggiato dalla piega che hanno preso gli eventi, il padre benedettino non rinnega la sua fedeltà a Pio IX, dicendosi sempre «papalissimo»195; preferisce tuttavia tornare ai suoi studi medievistici, non dopo aver personalmente condotto una sfortunata trattativa volta alla conservazione della Repubblica romana con a capo lo stesso Pontefice196. A nulla son valse le sue esortazioni: del «Terzo Alessandro», Pio IX non ha voluto essere degno emulo. Con lui, anzi, tra la Chiesa e il venturo Stato nazionale si aprirà la frattura della questione romana; per ricomporla, Tosti tenterà ogni sforzo. Il suo impegno Nell’opera, Pio non trovò «nulla di reprensibile», mostrandosene soddisfatto; tra il giugno e il luglio del 1848 diede il permesso a Tosti di pubblicarla fuori dai confini dello Stato della Chiesa. 192 Citato in A. Forni, op. cit., p. 54, nota 84. 193 A. Forni, op. cit., p. 57. 194 Ibidem. 195 Citato in A. Forni, op. cit., p. 76. 196 A. Forni, op. cit., p. 66. 191 62 per la conciliazione lo consegnerà alla storia, «assai più che la Lega Lombarda»197; ma sarà vano. 2.5 La riscossa dei lombardi Dei cinque libri di cui si compone la Storia di Tosti, due soli – gli ultimi, e tra i più brevi – son dedicati alla riscossa dei lombardi. È questa la grande impresa alla quale la narrazione, sin dal Prologo, è tutta protesa. Gli eventi luttuosi che la precedono sembrano contenerne i germi e le giustificazioni: il popolo lombardo, stufo del dominio straniero, umiliato nel suo orgoglio civile e patriottico, derubato delle ricchezze e succube di un principe crudele, trova sul campo di battaglia la sua giusta vendetta. La suggestione romantica per questo successo è ben motivata da Ernesto Sestan: Primo: perché era una vittoria militare di italiani contro stranieri, non una delle innumerevoli battaglie di italiani contro italiani […] Secondo: era la vittoria non di una singola città, ma di una lega confederale di città, che poteva essere interpretata, con un po’ di buona volontà, come una vittoria di tutta l’Italia contro lo straniero. E terzo: quello straniero non era né il francese, né lo spagnolo […], ma era il tedesco, fatto, un po’ sbrigativamente, sinonimo dell’austriaco […].198 Il Libro terzo della Storia della Lega si chiude con una scena a metà tra il drammatico e il grottesco. Giunti a Roma nell’agosto del 1167, gl’imperiali hanno imposto sulla cattedra di Pietro l’antipapa Pasquale, costringendo il vero Papa, Alessandro, alla fuga in Benevento. I tedeschi sono ormai padroni della città, ma presto li coglie «un nero rimorso, ed il presagio di celesti vendette»199, come se si rendessero conto dell’enormità del loro gesto, e del castigo che li attende. Difatti, li assale un morbo «che si avventava irrimediabilmente sui corpi, e li sfaceva per febbre»200. La ritirata degl’imperiali è penosa: «[Federico] Raccolse tosto le reliquie del disfatto esercito; affidò gl’inermi alla pietà de’ Romani, e con quelli che ancor 197 A. Forni, op. cit., p. 59. Ernesto Sestan, “Legnano nella storiografia romantica”, in Id., Scritti vari, vol. III, Storiografia dell’Otto e Novecento, Le Lettere, Firenze 1991, p. 227. 199 Luigi Tosti, Storia della Lega Lombarda, Montecassino, pe’ tipi di Montecassino 1848, p. 259. 200 Ibidem. 198 63 reggevano a portare armi, lesto si ritrasse per la Toscana a guadagnare le alture dell’Appennino»201. Cala dunque il sipario sulle armate del Barbarossa infiacchite dalle febbri, che a fatica risalgono la penisola per tornare in Germania; è ormai vicina l’ora della «risorrezione» dei lombardi. Sotto la sferza dei podestà imperiali, gl’italiani dimenticano presto le antiche rivalità. Nel 1162 erano stati cremaschi, cremonesi, pavesi, lodigiani a radere al suolo Milano, arresasi al Barbarossa dopo lungo assedio; ma la suprema soddisfazione delle gelosie municipali aveva coinciso con l’inasprirsi dell’oppressione straniera, contro la quale, distrutta Milano, nessuna città poteva più levarsi efficacemente. L’eccidio di Milano riempì di spavento tutta Italia: disperarono le repubbliche che si affidavano ai milanesi destini; gioivano le città imperiali. Ma brevi le allegrezze di queste, corto il disperare di quelle, perché terribile il giogo che era per imporre a tutti il Tedesco. Questo sol bene accompagna sempre la tirannide nei paesi divisi: risvegliare per disperazione gli oppressi ad incredibili fatti, affratellarli per comunanza d’infortunio. E così avvenne ai Lombardi.202 Tosti non ci risparmia neppure la scena dolorosa degli esuli milanesi che, miseri, impietosiscono perfino i vecchi rivali: Oh! Quante volte forse il Cremonese, il Pavese co’ suoi figli e la sua donna pendevano impietositi dalle labbra dell’esule Milanese, che assiso ad uno stesso desco, contando degli antichi tempi della sua Repubblica, e del come la sprofondasse l’ira tedesca, comperava il pane dell’esiglio col racconto de’ dolenti casi!203 È un tema classico. Non c’è più motivo di covare rancori, di tramare vendette contro i vicini: la vittoria del «Tedesco», la resa di Milano, significano l’annullamento delle libertà di tutti; la divisione ha rafforzato lo straniero, e indebolito tanto le città che si opponevano a Federico, quanto quelle che gli si proclamavano fedeli. La distruzione di Tortona per mano dei pavesi, ai quali Federico ha dato il nulla osta in cambio di una lauta somma, è «l’ultimo sfogo delle municipali vendette»; di lì innanzi, altre 201 L. Tosti, op. cit., p. 260. L. Tosti, op. cit., p. 225. 203 L. Tosti, op. cit., p. 280. 202 64 vendette saranno consumate, «ma santissime, perché di tutta una gente contro la tedesca rabbia»204: chiara anticipazione dei fatti di Legnano. È più che mai necessario reagire alla oppressione del Barbarossa: a tal fine bisogna mettere da parte qualsiasi reciproca ostilità per «collegarsi» e, nell’ottica del Tosti, far trionfare la causa della «libertà italiana» e quella della Chiesa –che sono congiunte, poiché entrambe si oppongono al superbo arbitrio dell’Imperatore. Unione, dunque. Nel 1164 era stata Venezia a patrocinare una prima Lega anti-imperiale, la cosiddetta Lega veronese: «Le città […] come Padova, Treviso, Verona, Vicenza ed altre città minori, erano opportune a rompere il sonno del Tedesco, venute che fossero in federazione»205. Si tratta del primo tentativo di alleanza di città italiane decise a contrastare l’egemonia imperiale. All’inizio del Libro quarto, vediamo gli emissari della Lega incitare i lombardi alla riscossa. Quella prima lega di città della Marca Veronese, recò finalmente il sospirato frutto. Veronesi messaggi si sparsero celatamente per le altre città Lombarde. Andavano spiando i moti degli afflitti spiriti, ragionavano della crudissima schiavitù, mettevano un caldo fomento alle ire che ribollivano nel segreto dei cuori.206 La Lega veronese prepara il terreno alla più celebre Lega lombarda: ne è, se si vuole, la “prova generale”, oltre che il nucleo originario. A questo proposito, Tosti narra un episodio significativo di come, ai suoi occhi, la concordia predicata da quei primi collegati avesse già fatto breccia nei lombardi ben prima del giuramento di Pontida. Nel 1164, Federico aveva spedito contro le forze della Lega un esercito composto dai suoi fedeli pavesi, cremonesi e lodigiani; ma al momento decisivo, questi avevano evitato lo scontro. Andarono [le truppe delle città fedeli all’Impero] ad oste contro i Veronesi; le conduceva Federigo. Caddero nelle loro mani espugnate alcune castella; ma come improvviso si parò loro innanzi l’esercito de’ collegati, che animosamente chiedeva la giornata, sostarono, abbominando lo scellerato fratricidio. I collegati venivano a 204 L. Tosti, op. cit., p. 233. L. Tosti, op. cit., p. 240. 206 L. Tosti, op. cit., p. 281. 205 65 nome non di una città, ma dell’Italia conculcata dallo straniero, e la loro vista dovè concitare sotto le armadure de’ nemici un palpito che italiano era207. L’appartenenza ad una medesima patria, insomma, aveva prevalso sulla fedeltà stessa all’Imperatore, sul giuramento di obbedienza a Federico. Gli uomini che si fronteggiavano sul campo di battaglia si erano riconosciuti fratelli; i filo-imperiali, anch’essi di stirpe italiana, comprendevano che la causa dei veronesi era quella dell’Italia conculcata dallo straniero; avevano dunque preferito sottrarsi allo scellerato fratricidio. È un precedente eloquente; persino gli ultras, per così dire, del Barbarossa si rifiutavano di spargere il sangue dei “compatrioti”. Lo spettacolo aveva impensierito il «callidissimo» Federico, che subito aveva tentato di assicurarsi la fedeltà delle città che non gli erano ancora apertamente ostili con astute concessioni: I sospetti e le paure intenebrarono l’anima di questo truculento Imperadore; e disperando potere disarmare i nemici, intese a raffermare nella fede gli amici […]; Incominciò a dispensare favori, a largir privilegi, sperando con queste grazie principesche sedare i bollori di un popolo che aveva sete di libertà. […] Concedeva con le pergamene quello che le Repubbliche già afferravano con le spade in pugno.208 Ma «per la Lega già incominciata in Verona, e certo tramestio che già sentiva nelle altre città»209 egli avvertiva che la sua autorità era ormai a rischio: si era così precipitato in Germania per «adunare il consueto esercito e tornar poi con questo a soffogare le scintille del temuto incendio»210. Il tiranno, ch’è un meschino oppressore, si comporta anche qui come il lettore si aspetta da lui: cerca di ottenere con la corruzione, in spregio a qualsiasi valore (l’amor di patria, la devozione a Dio) ciò che non riesce a prendersi con la forza bruta; lo vediamo disposto ad ingannare e attirare a sé con lusinghe e favori dappoco coloro che non riesce a sottomettere con la spada; e naturalmente si premura di riorganizzare le sue schiere per ripristinare colla violenza, il prima possibile, la sua supremazia. 207 L. Tosti, op. cit., p. 241. Ibidem. 209 L. Tosti, op. cit., p. 242. 210 Ibidem. 208 66 L’Imperatore ha dunque valicato le Alpi; ma i podestà stranieri son rimasti, e la loro presenza non è meno dispotica. Già da tempo le città soffrono le angherie di questi avidi funzionari, che lo straniero ha imposto loro all’indomani della distruzione di Milano. La loro arroganza è determinata per Tosti dalla stirpe: essi sono oppressori in quanto tedeschi. «Niente di santo per que’ ladroni; nulla campava dalle boreali libidini [il corsivo è mio]»211. Ancora: «Quelli servidori fedelissimi di quel padrone erano veramente giunti a tale, che ad incrudelire sui popoli avanzava loro il talento, non bastavano più le forze»212. Ma la loro scriteriata sopraffazione ha un risvolto positivo, poiché chiama i lombardi alla emancipazione; Dio stesso infonde negli oppressi la virtù della concordia e il coraggio di ribellarsi ad una dominazione ingiusta. Il malgoverno dello straniero fa maturare dunque la necessità di superare le antiche inimicizie per congiungersi in lega contro un nemico comune. Dissi, che i Lombardi agognavano a morte, ed era vero; ma a quella morte, che è vita pei generosi sforzi che la precedono. […] Quando le tirannidi trasandano alcuni confini, che i Cieli dispongono a termine della loro giustizia, avviene, che i tiranni s’accechino, e che gli oppressi acquistino un acume di veduta veramente incredibile.213 «Non che tutto sia chiaro nel Tosti» nota Sestan «come si venga […] componendo l’unione di passione individuale e collettiva e come si traducano in volontà ed azione politica e militare»214. Ma è evidente che i dubbi che può ben nutrire il lettore contemporaneo non sfioravano il nostro studioso nella stesura della sua Storia, che lo stesso Sestan considera «documento quanto mai caratteristico della storiografia romantica in Italia» proprio per la «priorità romantica delle ragioni del cuore su quelle della mente»215. Una simile propensione al pathos e alla suggestione non poteva venire meno nella rievocazione del giuramento di Pontida, che dà vita, finalmente, alla Lega lombarda. 211 L. Tosti, op. cit., p. 236. L. Tosti, op. cit., p. 242. 213 L. Tosti, op. cit., p. 237. 214 E. Sestan, op. cit., p. 233. 215 Ibidem. 212 67 Spuntava il dì settimo di Aprile: e i deputati di Bergamo, di Cremona, di Brescia, di Mantova, di Ferrara, e delle quattro borgate milanesi celatamente convennero alle porte del Monastero di Pontida. Vennero intromessi ne’ solinghi claustri; e mentre supplicavano a Dio i salmeggianti monaci, perché della tribolata patria si ricordasse, quelli pietosamente si accostavano ai supremi consigli. Prima i deputati Milanesi tolsero a dire, forse lagrimando, come ad ogni altro pensiero dovesse andare innanzi quello di Milano; […] ponessero il partito di rilevare innanzi ogni altra cosa le mura della città loro; rilevassero quel propugnacolo della Lombarda libertà […].216 Nel 1167 viene dunque siglata l’alleanza delle città che da sempre si sono opposte all’Imperatore, e da sempre hanno visto in Milano la loro paladina. La ricostruzione della città è il primo proposito dei convenuti a Pontida e il primo atto della Lega lombarda finalmente costituita. «Prontamente [i collegati] si misero con incredibile ardore a rilevarne le mura, a ricavarne i fossati. Vegliava alla pietosa opera l’esercito della Lega, perché non venissero a turbarla gl’imperiali»217. Ma nel monastero bergamasco i rappresentanti delle città pattuiscono anche i termini di una alleanza duratura, nerbo della lotta aperta al Barbarossa negli anni a venire: Entrarono poi nella deliberazione del gran negozio della Lega; e come vollero benigni i Cieli, con concordissime sentenze statuirono «Stringersi le città Lombarde in una sacra federazione per venti anni, a rivendicare e tutelare i loro privilegi goduti al tempo di Arrigo IV fino all’assunzione di Federigo al trono; tutte obbligarsi con sagramento a scambievole difesa, i pericoli e i danni di ciascuna esser di tutte, tutte paratissime a propellerli […].» Giurarono i deputati, e dalla papale sedia italiana mano li benedisse.218 Il patto di alleanza di Pontida verte soprattutto sulla difesa dei privilegi acquisiti dalle città lombarde, che il Barbarossa, deciso a ripristinare una potestà della quale in Italia si era perduto il ricordo, intende avocare a sé. Tosti non nega che i termini della controversia tra Imperatore e Comuni fossero, in sostanza, proprio questi; tanto è vero che sono correttamente riportati nella sua rievocazione del celebre giuramento. Ciò non gli 216 L. Tosti, op. cit., p. 283. L. Tosti, op. cit., p. 286. 218 L. Tosti, op. cit., p. 285. L’italiana mano che benedice il giuramento è ovviamente quella di Alessandro III. 217 68 impedisce di dare alla contesa una coloritura nazional-patriottica che, come si è visto, pone piuttosto l’accento sul contrasto tra i caratteri «italiano» e «tedesco» e sottolinea una marcata contrapposizione morale tra le parti in causa. Di questa lunga lotta tra repubblicanesimo e Impero, libertà e servaggio, patria e feudalesimo, cristianità e scisma, Legnano è «il climax catartico: il momento in cui il Davide delle fragili città lombarde ha la meglio contro il prevaricatore Golia teutonico»219. Al suo ennesimo ritorno a sud delle Alpi (1174), Federico trova un’Italia largamente ostile. La Lega ha ingrossato le sue fila; alcune città si sono «collegate» per amore, altre – come Lodi – per forza; Como, invece, prima fedele all’Impero, poi entrata nella Lega, torna sotto le insegne del «Tedesco» al suo arrivo. Simbolo tangibile della nuova baldanza dei comuni “ribelli” è una città, di recentissima fondazione, che deve il suo nome al vero Papa: Alessandria. Contro di essa muovono le schiere dell’Imperatore; ma un assedio di molti mesi non basta a piegarla. Giungono in soccorso degli alessandrini le truppe della Lega, che per eccesso di prudenza evitano una battaglia che avrebbe «anticipato d’un anno quella di Legnano»220. L’appuntamento si rinnova nel maggio dell’anno successivo, «il settantesimo sesto anno del secolo di perpetuale memoria, nel quale tali cose avvennero, che il ricordarle in questa italiana patria con religione di cerimonia sarebbe santo e salubre provvedimento»221. Federico dirige le sue schiere verso il castello di Legnano, nel Seprio; per impedirne il congiungimento con quelle pavesi, l’esercito dei «collegati» gli si fa sotto. Il grosso delle forze è composto da milanesi; ma nelle file della Lega si trovano anche piacentini, bresciani, veronesi e novaresi. Il misterioso Alberto di Giussano, «aitante e torosa persona», guida la Compagnia della Morte stretta attorno al Carroccio, ch’è per Tosti il vero simbolo della patria e della comune causa di libertà per la quale combattono i lombardi. Le insegne e bandiere militari usarono sempre tutti i popoli negli eserciti: il Carroccio fu solo degl’Italiani. […] Era questo Carroccio un carro di grandi forme che andava su quattro ruote massicce tratto da altrettante paia di buoi. Recava […] un gonfalone bianco con croce rossa, e finiva in cima con un globo d’oro Duccio Balestracci, Medioevo e Risorgimento. L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento, Bologna, il Mulino 2015, p. 69. 220 L. Tosti, op. cit., p. 338. 221 L. Tosti, op. cit., p. 340. 219 69 sormontato da una croce anche d’oro. Le cose più sante e più gravi venivano solennemente amministrate sul Carroccio. […] Adunque il Carroccio non era solamente una materiale insegna che serviva a condurre le milizie, ma era una morale rappresentazione della patria […].222 Sul Carroccio si sarebbe manifestato, alla vigilia del combattimento, un fausto prodigio: tre colombe si sarebbero posate sulla sua antenna, «quasi messe da Dio ad annunziare la vicina vittoria»223. Sulla storicità del fatto, che Tosti comunque non dà per certa, anche un poeta come Berchet si riservava più d’un dubbio224. Nel cuore della battaglia, è proprio il Carroccio a rianimare i suoi difensori: «Questo simbolo della patria, che torreggiava tra i Lombardi, sorresse mirabilmente gli animi, e da lui fu tutta da derivarsi la vittoria che conseguirono»225. A Legnano va dunque in scena l’atto di valore che pone fine ai tormenti dell’Italia intera; tormenti dei quali la prosa patetica del Tosti ha ripetutamente fatto partecipe il lettore. Un singolo fatto d’arme riscatta in toto le umiliazioni che il «tedescume» ha inflitto all’Italia sin dai tempi degli Ottoni. La Lega trionfa non soltanto delle schiere del Barbarossa, ma vendica una volta per tutte un servaggio plurisecolare. A Legnano [le truppe dei Comuni] mescolarono le mani colle imperiali mani, fugarono Cesare, lo dispogliarono d’ogni cosa, lo credettero morto, ne recarono in trionfo lo stendardo: la fede all’Imperadore si smarrì allo spegnersi di ogni prestigio, che circondava la persona del successore de’ Carli e degli Ottoni. Perciò non fu solamente vinto in quella battaglia Federigo Barbarossa da’ Lombardi, ma l’Impero dalle Repubbliche; lo che valeva un repentino rimutamento nelle menti del popolo di quella idea, che lo aveva reso troppo longanime nel servaggio, dico della religione della Monarchia tedesca.226 La battaglia, «una di quelle […] definitrici delle sorti di tutta una gente»227, assume i tratti epici di una rivincita a tutto tondo. Il tiranno, di solito 222 L. Tosti, op. cit., pp. 208-209. L. Tosti, op. cit., p. 347. 224 Giovanni Berchet, “Agli amici miei in Italia”, introduzione a “Le Fantasie” in Id., Opere, a cura di Egidio Bellorini, vol. I, Bari, Laterza 1911, p. 56. 225 L. Tosti, op. cit., p. 344. 226 L. Tosti, op. cit., p. 346. 227 Ibidem. 223 70 fierissimo sulla sua cavalcatura, è disarcionato, rotola nella polvere ed è creduto morto; la sua fuga ignominiosa è immagine della débâcle dei feudatari, degli odiosi podestà, delle ragioni stesse del dominio imperiale sull’Italia. Trova qui la sua punizione anche la «iscellerata inverecondia» degli italiani che hanno preferito il Barbarossa alla Lega, e che hanno perpetuato, fino all’ultimo, la triste tradizione delle inimicizie municipali. I comaschi, in special modo, son quelli che «in maggior numero caddero sotto il taglio delle loro spade [dei milanesi]»228; Tosti è lapidario sul loro conto: «Ai traditori, e ai traditori domestici, sta sempre bene il gastigo»229. Eppure, il trionfo non è che momentaneo; sul campo di battaglia i «collegati» hanno strappato la vittoria, ma, deposte le armi, non sanno coglierne il frutto più prezioso. Commenta a proposito David Laven230: Il difetto di simili vittorie militari era che, in fin dei conti, non erano state sufficienti ad assicurare l’indipendenza italiana; il rapido sfaldamento della Lega e il riemergere delle “gelosie municipali” [in italiano nel testo] già da prima della Pace di Costanza, significavano che presto l’Italia sarebbe tornata nella “infamia” [in italiano nel testo].231 Dopo Legnano, l’Imperatore apre a trattative con i comuni ed il Pontefice; al congresso di Venezia (1177), Alessandro stesso concorda la pace tra sé e l’Imperatore, acconsentendo tuttavia a che tra l’Imperatore e la Lega vi sia solo una tregua di sei anni. Commenta Tosti con dispiacere: Le tregue non si fanno mai tra vinti e vincitori, ma tra due egualmente potenti battaglianti, che chieggono tempo a sciegliere o la pace o la continuazione della guerra; Federigo era stato vinto; ai Lombardi spettava l’imporre a lui le ragioni 228 L. Tosti, op. cit., p. 347. Ibidem. 230 David Laven, “The Lombard League in Nineteenth Century Historiography”, in Stefan Berger, Chris Lorenz (a cura di), Nationalizing the Past. Historians as Nation Builders in Modern Europe, Palgrave Macmillan 2010. 231 D. Laven, op. cit., p. 382. «The problem with these military exploits was that ultimately they had not secured Italian independence: the rapid fragmentation and desertion of the League, and resurfacing of “le gelosie municipali” even before the Peace of Constance, meant that Italy soon sank again into “infamia”.» La traduzione dall’inglese è mia. 229 71 della pace, ma abbandonati nel negoziato dal Papa, ebbero sceme le forze tanto accresciute dalla vittoria, e fu loro forza condiscendere alla tregua.232 L’improvvisa “diserzione” del Pontefice indebolisce sensibilmente il potere contrattuale della Lega vittoriosa – nella stessa misura in cui la sua benedizione ne aveva rafforzato la credibilità. I negoziati terminano con lo scioglimento delle controversie tra Imperatore e Papa – lo scisma è ricomposto e Alessandro revoca la sua scomunica – ma per i vincitori di Legnano il bottino è magro. Lo spirito dell’alleanza di Pontida comincia a venir meno; alcune città (Tortona, Alessandria) stipulano paci separate con l’Imperatore, contravvenendo agli accordi della Lega. Nel 1183 i rappresentanti delle città sono convocati a Costanza per porre fine, una volta per tutte, alla guerra. Secondo Tosti, Federico è piegato alla pace soltanto dalle richieste del figlio, desideroso di «pacati tempi» per poter regnare serenamente, quando sarà il suo turno. La pace è una sorta di compromesso: sancisce il rispetto dei diritti acquisiti delle città lombarde, e la legittima sopravvivenza della Lega con le sue istituzioni comuni; ma ribadisce taluni privilegi imperiali, e soprattutto la fedeltà dovuta all’Imperatore. Anche qui, dopo aver praticamente rinunciato ad una puntuale analisi dei termini della pace233, Tosti si abbandona all’enfasi: Così dopo trent’anni di generosa guerra i Lombardi, soli tenendo fronte ad uno potentissimo Imperadore, conquistarono il tesoro della loro libertà, e sull’altare della patria si assisero maestri a tutta Italia del come si redimano i popoli e si aggioghino le tirannidi.234 Ma tanta gloria viene presto sconfessata; dopo aver dimostrato di saperle mettere da parte, ecco gli italiani tornare alle lotte intestine; eccoli soprattutto affidarsi a uomini «più degni di sequestro, che di umano governo»235. Ezzelini, Visconti, Scaligeri: «tirannelli» che, secondo un cliché storiografico di successo, avrebbero posto fine ad una stagione di libertà ed orgoglio civico per imporre il capestro della Signoria. 232 L. Tosti, op. cit., p. 358. E. Sestan, op. cit., p. 233. 234 L. Tosti, op. cit., p. 363. 235 Ibidem. 233 72 Al trionfo della Lega seguono così «sette secoli di lagrime e di sangue», sui quali Tosti non si attarda, preferendo «la gioconda esposizione della virtù» alla «ischifosa rivelazione del vizio». Il Quarantotto, che faceva risuonare l’eco dei suoi moti mentre il padre Tosti lavorava alla sua Storia, doveva ispirargli più d’una similitudine con i temi e gli eroi del Medioevo comunale; e questa viva partecipazione trapela con chiarezza. Egli si definisce a più riprese «uomo del Medio evo»; e nel suo trasporto è probabilmente sincero. Ciò non toglie che al lettore smaliziato sembra che siano piuttosto i suoi “medievali” a sentire e pensare come gl’insorti delle Dieci giornate. 73 L’autore Paolo Amighetti ha conseguito la Laurea triennale in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Padova. Si interessa di storia medievale, moderna e contemporanea, oltre che di filosofia politica. Ha collaborato con “The Fielder” e con “La Confederazione Italiana”. L’istituto Lo Switzerland Institute in Venice è un istituto sorto per iniziativa di Luigi Marco Bassani, Carlo Lottieri e Daniele Velo Dalbrenta al fine di affrontare – particolarmente in ambito accademico – i temi del diritto di secessione e della concorrenza istituzionale, da un lato, e della libertà e della proprietà, dall’altro. L’obiettivo è promuovere e sostenere ricerche che favoriscano una crescente legittimazione di quelle iniziative politiche che meglio possono favorire la libertà d’impresa e l’autogoverno, traendo lezione anche dall’esperienza storica della Svizzera. Il riferimento alla società elvetica nasce non solo dall’intenzione di operare a cavallo tra il Ticino e il Veneto, ma anche perché i promotori considerano la società svizzera un modello da imitare e un’occasione di riflessione per l’intera Europa, e più specificamente per le aree di lingua italiana. Scopo dell’istituto è mostrare come quella svizzera sia una sorta di “utopia realizzata”: un modello imperfetto, naturalmente, ma che può aiutare a dirigersi nella giusta direzione. 74