UNA LEGGE COLOR SEPPIA Luciano Modica, senatore DS Dopo i

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UNA LEGGE COLOR SEPPIA Luciano Modica, senatore DS Dopo i
UNA LEGGE COLOR SEPPIA
Luciano Modica, senatore DS
Dopo i condoni, gli ope legis. Dopo la finanza creativa, l’università creativa. Dopo Tremonti,
Moratti. Finisce così, un po’ tristemente un po’ ridicolmente, la grande stagione delle riforme
universitarie del Ministro Moratti, colei che diceva di voler introdurre merito e competitività nel
sistema universitario. Il suo disegno di legge introduce invece la più grande e devastante ope legis
della tormentata storia dello stato giuridico dei docenti universitari e chiude definitivamente le porte
della ricerca ai giovani talenti.
Dopo sedici mesi di lavoro della Commissione Cultura della Camera, la maggioranza guidata
dall’ineffabile relatore Pepe porta alla votazione dell’aula di Montecitorio un testo di riforma dello
stato giuridico dei docenti universitari che più rabberciato, improvvisato, contraddittorio non si può.
Eccetto che nell’accontentare le più minute lobbies universitarie: le elezioni politiche, si sa, sono
vicine.
Prendiamo ad esempio lo strepitoso comma 11 dell’articolo 5. Per ricercatori, assistenti (ad
esaurimento da 25 anni), professori incaricati stabilizzati (esistono ancora? Curioso, una legge li
aveva trasformati in professori associati o li aveva dirottati in altri settori della pubblica
amministrazione 25 anni fa!), tecnici laureati, soggetti in possesso della qualifica di elevata
professionalità, laureati dell’area tecnico-scientifica e socio-assistenziale, professori a contratto si
apre una nuova luminosa carriera. Diventano tutti, a domanda o previa una valutazione della facoltà
di appartenenza, professori aggregati, cioè “il terzo livello della docenza” universitaria come recita
puntualmente la norma. Un numero incalcolabile di persone, comunque non meno di 40.000
secondo le stime più ottimistiche, diventa professore universitario senza concorsi competitivi.
Intendiamoci, per una parte di loro l’ingresso nella terza fascia docente è semplicemente il meritato
riconoscimento del lavoro di ricerca e di didattica che svolgono da vent’anni dopo essere entrati nel
personale docente con la qualifica di ricercatore dopo un regolare concorso pubblico. Ma per altri,
per tantissimi altri, è un salto improvviso dal comparto del personale tecnico-amministrativo a
quello docente, oppure da un incarico a contratto, spesso pagato molto miseramente, ad una
posizione docente. Il tutto, come il legislatore si affretta a scrivere per due volte nello stesso
comma, senza nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica. Uno scandalo e un’ingiustizia, oltre
che un’impossibilità manifesta.
Si badi bene che ai professori aggregati si applica esclusivamente la disciplina del tempo pieno (art.
5, c. 8) per cui le università si apprestano a perdere il contributo del lavoro, spesso egregio, di
migliaia di tecnici e amministrativi universitari senza il quale le università stesse, soprattutto nelle
discipline scientifiche, non possono funzionare, ritrovandosi in cambio migliaia di professori a
tempo pieno. Né potranno rimpiazzarli per le restrizioni finanziarie già citate. Una vera follia, che
ha fatto gridare al pericolo, compatti, la Conferenza dei Rettori, il Consiglio Universitario
Nazionale, persino la compassata ma saggia Accademia dei Lincei, oltre a decine di sindacati,
associazioni, gruppi di docenti e a centinaia di strutture universitarie.
Già così si capisce bene che le porte dell’università si chiudono definitivamente per i giovani
migliori e si aprono loro solo quelle delle frontiere. Ma il legislatore non si accontenta di così poco.
Mantiene il ruolo di ricercatore a tempo indeterminato (ma che cos’è, il terzo bis o il quarto livello
della docenza o che altro ancora?) sia pure di soppiatto nel comma 6 dell’articolo 5 senza mai
citarlo altrove nella legge, ma prescrive che vi si acceda per concorsi iper-locali non regolati dalla
legge solo dopo che sia stati già “contrattisti” per il “periodo massimo di sei anni” previsto per tali
contratti. Siamo all’assurdo e all’incredibile. Se non si sono compiuti tutti e sei gli anni del
contratto, non si può per legge partecipare ai concorsi per ricercatore. Ve li immaginate un giovane
e brillante biologo o filologo, una giovane e brillante matematica o ingegnera che, dopo otto e più
anni di studi universitari di successo, con una prestigioso dottorato di ricerca nelle mani, quindi a
trent’anni più o meno, debbano affrontare un periodo precario obbligatorio di sei anni prima di
incominciare a pensare ad un posto di ruolo? Le università straniere già festeggiano: attendono
migliaia di persone ottimamente formate in arrivo da un’Italia che non sa nemmeno mettere a frutto
i propri investimenti in formazione.
Non parliamo poi delle infinite riserve di posti nei concorsi a professore ordinario e associato,
forme più riposte ma non meno pericolose di ope legis o comunque di operazioni contro il concetto
di merito e di competizione. Si va dal 25% di posti aggiuntivi di ordinario per i professori associati
quindicennalisti, al 15% di quelli di associato per i professori incaricati stabilizzati (ancora!) e per i
ricercatori ma non per gli assistenti, persino all’1% per i tecnici laureati che hanno chiesto di
partecipare senza titolo ai giudizi di idoneità ad associato (di vent’anni fa) e sono stati stoppati dai
tribunali amministrativi.
Sono solo piccole macchie eliminabili in un testo per il resto organico e convincente?
Assolutamente no. Prendiamo il caso della valutazione. Tutti dicono che in Italia non si è ancora
ben sviluppato il settore della valutazione universitaria, quella che permetterebbe di sapere e far
sapere se un ateneo, un dipartimento, un corso di laurea, un docente è di alto livello o di livelli
meno alti. E’ assolutamente ovvio che una tale valutazione, per essere credibile, dovrebbe essere
condotta da un’Agenzia o un’Authority nazionale indipendente dagli atenei e dal Ministero,
avvalendosi di esperti internazionali. La stessa Commissione della Camera aveva approvato, con il
contributo sia della maggioranza che dell’opposizione, un emendamento in tal senso proposto
dall’opposizione. Soddisfazione di breve durata. Con una giravolta parlamentare, l’ultimo giorno di
dibattito, il relatore ha fatto spegnere anche questo piccolo raggio di luce.
Se queste note fossero lette da una persona esterna al mondo universitario, penso che la reazione
sarebbe: ma, insomma, queste sono beghe interne della complicata, lontana e auto-referenziale
galassia universitaria; che cosa dice la legge dei diritti e dei doveri dei professori visto che le
cronache sono piene di critiche di studenti, famiglie e imprese per abusi o insufficienze vere o
presunte? Nulla di sostanziale, occorrerebbe rispondere con un po’ di vergogna. Nulla sugli
obblighi di presenza dei docenti nelle università, nulla sulle norme deontologiche delle loro attività
didattiche e di ricerca, nulla sui diritti e doveri reciproci degli studenti e dei professori, nulla sulle
farraginose forme di governo delle strutture universitarie e degli atenei, nulla sulla necessità di
premiare il merito dei docenti verificando periodicamente il loro operato all’interno di una vera e
propria carriera del professore universitario, attualmente mancante. Su quest’ultimo punto è quasi
kafkiano l’articolo 2, proveniente da un emendamento dell’opposizione, accettato anche da una
parte della maggioranza, in cui è disegnato un abbozzo di un sistema di carriera rimasto totalmente
sganciato dal resto della legge. Un’altra occasione perduta di quel rapporto costruttivo tra
maggioranza e opposizione che sarebbe necessario per un tema così delicato e strategico come
l’università.
Ma il Ministro Moratti non ci sente da quest’orecchio, nonostante le affermazioni rilasciate alla
stampa o gli appelli dei suoi estimatori. Un accordo di fine legislatura, presentato dalle opposizioni
per iscritto e con proposte precise di provvedimenti concreti e realizzabili, è rimasto senza alcuna
risposta, o meglio con una risposta sconfortante come quest’ultimo testo di legge. Una risposta che
sa d’antico, come non ci si aspettava da una manager estranea alla politica e all’università. A
leggere per intero la proposta di legge, sembra di ritornare indietro di trent’anni, a quegli anni ’70 di
cui ancora oggi l’università porta addosso i segni delle ferite. Lo stesso drafting legislativo, la stessa
confusione normativa, persino gli stessi termini di allora: la prima ope legis dell’università (1973) e
quest’ultima riguardano entrambi i professori “aggregati”! E’ come guardare quelle foto finto
antiche che, scattate oggi, sono invecchiate stampandole con un viraggio color seppia. Fanno
tristezza. Come questa legge color seppia. Speriamo che faccia anche rabbia, a tanti.