rassegna stampa
Transcript
rassegna stampa
RASSEGNA STAMPA Mercoledì 26 agosto 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Corriere Sociale del 26/08/2015 La guerra ai migranti non risolve i problemi. Italia, necessario piano d’accoglienza efficace di Francesca Chiavacci * ROMA - Il mese di agosto ci ha consegnato le terribili immagini di migliaia e migliaia di donne, uomini e bambini disposti ad affrontare un viaggio sempre più rischioso e disumano pur di coltivare una speranza di futuro. Centinaia di morti in più nel Mediterraneo rispetto allo scorso anno, e se non è il mare e la crudeltà degli scafisti a provocarle. Come dimenticare i 49 cadaveri rinvenuti nel giorno di ferragosto in una stiva, perché privi dei soldi necessari per vedersi consentito il ‘lusso’ di respirare? Le migrazioni sono un fenomeno epocale. Sono il frutto delle guerre, delle violenze, delle diseguaglianze, dello sfruttamento feroce delle persone e dell’ambiente. L’Europa ha precise responsabilità in tutto ciò e non può lavarsene le mani. Nessuna operazione di polizia internazionale fermerà il flusso di profughi, non basteranno i muri, non sono servite le cariche brutali con lancio di granate al confine macedone. Di fronte a una morte certa nel proprio paese, la scelta non può che essere la fuga, a qualunque costo. Alle prese con questo fenomeno epocale, l’Italia e l’Europa dimostrano tutta la loro inadeguatezza. Il presidente della commissione europea Juncker afferma di non volere un’Unione in cui si ergano muri, ma poi nulla fa di concreto per fermarne l’edificazione. Merkel e Hollande bacchettano l’Italia per non avere ancora provveduto all’allestimento di grandi centri di primo smistamento finalizzati, nelle loro intenzioni, all’identificazione di chi arriva per poter applicare l’assurdo regolamento Dublino ed evitare che dall’Italia (o dalla Grecia) i profughi si spostino nel nord Europa. In sostanza vogliono che i paesi di frontiera facciano da guardiani alla fortezza Europa. Al contrario bisogna sapere affrontare l’emergenza in modo umanitario e allo stesso tempo avere un piano di largo e lungo respiro. I canali umanitari, la protezione delle persone, il salvataggio dei naufraghi, la prima accoglienza sono i doveri dell’immediato. Ai quali non si può abdicare, pena l’imbarbarimento dell’Europa. La Merkel si dice inorridita delle manifestazioni dei neonazisti, ma non si interroga su quale cultura del respingimento, dell’egoismo, della cancellazione della solidarietà il neonazismo abbia potuto prosperare. E non solo in Germania. Un piano di lungo periodo deve partire dal presupposto che le migrazioni, in un mondo globalizzato, sono un fatto fisiologico e sono un’occasione straordinaria per lo sviluppo civile e economico del pianeta. Naturalmente richiedono l’avvio di processi di integrazione che si basino sul rispetto reciproco delle culture di appartenenza e sui diritti umani e civili. Perciò chiediamo al Governo italiano di alzare la voce a livello internazionale, di dotarsi di un piano efficace per l’accoglienza. Chiediamo all’UE di smetterla di voltare le spalle. Esistono soluzioni: aprire canali umanitari, consentire subito all’UNHCR di rilasciare lasciapassare, in alcuni paesi del Nord Africa e dell’est del Mediterraneo, per conto dell’UE per consentire una distribuzione di profughi di dimensioni pari almeno a quello che è in tanti Paesi intorno al Mediterraneo (la piccola Giordania da sola fa più di tutta l’UE). Non è con la guerra ai migranti che si risolvono i problemi. Solo una politica di pace, di solidarietà, di cooperazione a casa loro e di integrazione a casa nostra, è la soluzione. * Presidente Arci 2 http://sociale.corriere.it/la-guerra-ai-migranti-non-risolve-i-problemi-italia-necessario-pianodaccoglienza-efficace/ DA Redattore Sociale del 25/08/2015 Migranti, Arci: "L'Italia si doti di un piano efficace dell'accoglienza" Per l'associazione i canali umanitari, la protezione delle persone, il salvataggio dei naufraghi e la prima accoglienza sono i doveri dell’immediato. "L'Europa non volti le spalle" ROMA - Sul fronte immigrazione "l’Italia e l’Europa dimostrano tutta la loro inadeguatezza". E' il commento di Arci che parla di "fenomeno epocale". "Il mese di agosto ci ha consegnato le terribili immagini di migliaia e migliaia di donne, uomini e bambini disposti ad affrontare un viaggio sempre più rischioso e disumano pur di coltivare una speranza di futuro. Centinaia di morti in più nel Mediterraneo rispetto allo scorso anno, e se non è il mare e la crudeltà degli scafisti a provocarle. Come dimenticare i 49 cadaveri rinvenuti nel giorno di ferragosto in una stiva, perché privi dei soldi necessari per vedersi consennito il ‘lusso’ di respirare?" Così in una nota l'associazione. "Le migrazioni sono un fenomeno epocale. Sono il frutto delle guerre, delle violenze, delle diseguaglianze, dello sfruttamento feroce delle persone e dell’ambiente. L’Europa ha precise responsabilità in tutto ciò e non può lavarsene le mani. Nessuna operazione di polizia internazionale fermerà il flusso di profughi, non basteranno i muri, non sono servite le cariche brutali con lancio di granate al confine macedone. Di fronte a una morte certa nel proprio paese, la scelta non può che essere la fuga, a qualunque costo. Alle prese con questo fenomeno epocale, l’Italia e l’Europa dimostrano tutta la loro inadeguatezza. Il presidente della commissione europea Juncker afferma di non volere un’Unione in cui si ergano muri, ma poi nulla fa di concreto per fermarne l’edificazione". "Merkel e Hollande bacchettano l’Italia per non avere ancora provveduto all’allestimento di grandi centri di primo smistamento finalizzati, nelle loro intenzioni, all’identificazione di chi arriva per poter applicare l’assurdo regolamento Dublino ed evitare che dall’Italia (o dalla Grecia) i profughi si spostino nel nord Europa. In sostanza vogliono che i paesi di frontiera facciano da guardiani alla fortezza Europa. - prosegue - Al contrario bisogna sapere affrontare l’emergenza in modo umanitario e allo stesso tempo avere un piano di largo e lungo respiro. I canali umanitari, la protezione delle persone, il salvataggio dei naufraghi, la prima accoglienza sono i doveri dell’immediato. Ai quali non si può abdicare, pena l’imbarbarimento dell’Europa. La Merkel si dice inorridita delle manifestazioni dei neonazisti, ma non si interroga su quale cultura del respingimento, dell’egoismo, della cancellazione della solidarietà il neonazismo abbia potuto prosperare. E non solo in Germania". "Un piano di lungo periodo deve partire dal presupposto che le migrazioni, in un mondo globalizzato, sono un fatto fisiologico e sono un’occasione straordinaria per lo sviluppo civile e economico del pianeta. Naturalmente richiedono l’avvio di processi di integrazione che si basino sul rispetto reciproco delle culture di appartenenza e sui diritti umani e civili". L'Arci chiede al Governo italiano di "alzare la voce a livello internazionale, di dotarsi di un piano efficace per l’accoglienza. Chiediamo all'Ue di smetterla di voltare le spalle. Esistono soluzioni: aprire canali umanitari, consentire subito all'Unhcr di rilasciare lasciapassare, in alcuni paesi del Nord Africa e dell'est del Mediterraneo, per conto dell'UE per consentire una distribuzione di profughi di dimensioni pari almeno a quello che è in tanti Paesi intorno al Mediterraneo (la piccola Giordania da sola fa più di tutta l’Ue). 3 Non è con la guerra ai migranti che si risolvono i problemi. Solo una politica di pace, di solidarietà, di cooperazione a casa loro e di integrazione a casa nostra, è la soluzione". INTERESSE ASSOCIAZIONE Da Vita.it del 25/08/2015 Renzi: l'Italia deve ripartire. Anche con la riforma del terzo settore di Gabriella Meroni Il premier, applauditissimo a Rimini, non lusinga i ciellini e marca la distanza dal berlusconismo che ha bloccato l'Italia per 20 anni. Ora per ripartire serve valorizzare chi costruisce dal basso, anche facendo ripartire la riforma del terzo settore Un Renzi in grande forma, acclamato dalla platea del Meeting, a cui tuttavia confessa candidamente che «non ci voleva venire» per evitare i soliti titoli in politichese, e davanti alla quale non si mostra accondiscendente nè cerca il facile applauso, ma non lesina aneddoti personali e ovviamente la sua visione di come il nostro paese unico al mondo e «da tutto il mondo atteso» potrà ripartire. Non sono uno di voi Renzi marca la distanza con i presidenti del Consiglio che l'hanno precededuto al Meeting: non è venuto per arruffianarsi i ciellini, sottolinea subito di «non essere uno di loro» e sostiene che le quattro domande rivoltegli dal professor Giorgio Vittadini - che riguardano l'Italia, l'Europa, il Mediterraneo e la pace - sono «più difficili dei titoli del Meeting». Ma il suo atteggiamento è tutto tranne che distante: definisce il tema della kermesse «una chiamata alla responsabilità personale» a cui non vuole sottrarsi, e racconta di come incontrò, da liceale scout, un prete di CL - oggi ad ascoltarlo tra il pubblico - che lo convinse addirittura a partecipare a una vacanza comunitaria in Trentino. Come a dire: non vi lusingo, ma mi metto in gioco. Una presa di posizione apprezzata dalla platea, che in gran parte ignorava questi trascorsi. Vent'anni persi a litigare Ma Renzi non rinuncia a un'altra presa di distanza: quella dai vent'anni di berlusconismo e antiberlusconismo - che proprio al Meeting, come altrove, avevano spesso trovato una vetrina - che secondo lui hanno bloccato l'Italia, emarginandola dal resto d'Europa. «Abbiamo assistito alla trasformazione della seconda repubblica in una rissa permanente ideologica che ha smarrito il bene comune», ha detto il premier, «e mentre il mondo correva siamo rimasti fermi alle discussioni sterili interne. Dopo 20 anni, le riforme del governo sono un corso accelerato per andare avanti». Venendo al presente, Renzi ha stigmtizzato allo stesso modo il rischio di rimanere ancora una volta fermi al palo per colpa di quelli che ha definito «i provincialisti della paura», quelli che vogliono bloccare l'Italia per tre giorni - chiaro il riferimento a Matteo Salvini - quando l'Italia «ha solo bisogno di ripartire». E sull'immigrazione ha ribadito il dovere di salvare vite umane e di accogliere i profughi, anche per evitare di «soccombere ai terroristi che vogliono che viviamo nel terrore e nel dubbio che il nostro vicino è un nemico. Un approccio culturale devastante che ci consegna alla logica dei muri, che invece di difenderci ci imprigionano». L'Italia costruita dal basso Infine, rispondendo a una domanda di Vittadini che lo sollecitava a valorizzare i corpi intermedi e la libertà dei cittadini che dal basso hanno tradizionalmente contribuito al bene comune, Renzi ha fatto un importante accenno alla riforma del terzo settore, assicurando 4 che il governo la porterà a compimento. «Il governo darà attenzione a questa legge», sono state le sue parole, che arrivano dopo sette mesi di silenzio e riaccendono i riflettori su una riforma rimasta a lungo bloccata in Parlamento. «Dobbiamo richiamarci alla positività del reale», ha detto il premier utilizzando un linguaggio caro al mondo ciellino. «L'Italia la fanno ogni giorno centinaia di migliaia di persone per bene che svolgono il proprio lavoro, e il compito dello stato non è costruire chissà quale sistema per irrigimentarle ma lasciarle libere di realizzare quella bellezza che l'Italia ha prodotto per secoli e che è apprezzata in tutto il mondo». http://www.vita.it/it/article/2015/08/25/renzi-litalia-deve-ripartire-anche-con-la-riforma-delterzo-settore/136261/ Da Vita.it del 25/08/2015 Insieme per la riforma del Terzo Settore I vertici dei due movimenti lavoreranno insieme alla proposta da presentare al Volontariato italiano. Trucchi e Pregliasco: «Creiamo compattezza dove c'è disgregazione» Anpas e Misericordie si ritrovano insieme per la Riforma del Terzo Settore. Nel pomeriggio di venerdì 21 agosto a Firenze, i vertici di Anpas e Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia si sono incontrati per analizzare insieme le prospettive del volontariato in vista della Riforma del Terzo Settore, condividendo una serie di aspetti da proporre come emendamenti al disegno di legge. Quello del 21 agosto è stato il primo di una serie di incontri che hanno l’obiettivo di consentire ai due movimenti di presentarsi uniti con una proposta congiunta e condivisa da rivolgere al volontariato italiano. All’incontro, per le Misericordie erano presenti il presidente nazionale Roberto Trucchi, il direttore Andrea Del Bianco e i consiglieri Maria Pia Bertolucci, Aldo Intaschi e Israel De Vito; per Anpas il presidente nazionale Fabrizio Pregliasco, il vicepresidente Ilario Moreschi, il presidente di Anpas Toscana Attilio Farnesi e la coordinatrice nazionale Lucia Calandra. L'incontro dei vertici di Anpas e Misericordie «Oggi assistiamo con profonda amarezza a una preoccupante frammentazione tra le grandi reti di rappresentanza del terzo settore che troviamo incomprensibile», affermano i presidenti Pregliasco e Trucchi. «Per questo le due più grandi organizzazioni del volontariato italiano sentono l’impegno e la responsabilità di riaffermare i grandi valori del volontariato anche nel testo del disegno di legge delega. Siamo certamente un pezzo del Terzo settore ma vogliamo ribadire con forza il ruolo e la specificità delle tante associazioni, grandi e piccole, che nel nostro Paese sono espressione di radicamento sociale, gratuità, solidarietà diffusa, cittadinanza consapevole». Le due organizzazioni stanno preparando il calendario dei prossimi incontri. Il primo dovrebbe già tenersi a inizio settembre. http://www.vita.it/it/article/2015/08/25/insieme-per-la-riforma-del-terzo-settore/136256/ 5 Da Corriere Sociale del 25/08/2015 La riforma del terzo settore «unisce» Anpas e Misericordie di Eugenio Terrani FIRENZE - La riforma del terzo settore è anche capace di unire. Anpas e Misericordie, dopo aver condotto una battaglia comune per la concessione del telepass gratuito per le ambulanze, sono di nuovo insieme. Nei giorni scorsi i vertici delle Pubbliche assistenze d’Italia e della Confederazione nazionale delle Misericordie si sono incontrati a Firenze per analizzare insieme le prospettive del volontariato in vista della riforma del terzo settore, condividendo una serie di aspetti da proporre come emendamenti al disegno di legge. La legge delega, lo ricordiamo, potrebbe essere approvata dopo la ripresa dei lavori parlamentari. Il rischio concreto – dopo annunci, scadenze, slittamenti e infine l’apertura concessa della commissione affari costituzionali per effettuare modifiche al testo – è che la legge possa essere votata dopo dopo la Legge di Stabilità. Probabilmente sarà necessario attendere la fine del 2015. Quello che si è svolto tra Anpas e Misericordie è stato il primo di una serie di incontri che consentiranno ai due movimenti di presentarsi uniti con una proposta congiunta e condivisa da rivolgere al volontariato italiano. Per le Misericordie erano presenti il presidente nazionale Roberto Trucchi, il direttore Andrea Del Bianco e i consiglieri Maria Pia Bertolucci, Aldo Intaschi e Israel De Vito. Per Anpas, il presidente nazionale Fabrizio Pregliasco, il vicepresidente Ilario Moreschi, il presidente di Anpas Toscana Attilio Farnesi e la direttrice Lucia Calandra. «Assistiamo con profonda amarezza a una preoccupante frammentazione tra le grandi reti di rappresentanza del terzo settore. Un fatto che troviamo incomprensibile» commentano all’uniscono i presidenti Pregliasco e Trucchi. «Ci stiamo impegnando per questo. Sentiamo la responsabilità di riaffermare i grandi valori del volontariato anche nel testo del disegno di legge delega. Siamo certamente un pezzo del terzo settore, ma vogliamo ribadire con forza il ruolo e la specificità delle tante associazioni, grandi e piccole, che nel nostro Paese sono espressione di radicamento sociale, gratuità, solidarietà diffusa, cittadinanza consapevole». 6 ESTERI Del 26/08/2015, pag. 1-2 Il soccorso delle banche centrali per scongiurare la “teoria del caos” DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FEDERICO RAMPINI NEW YORK . Arrivano i nostri, il settimo cavalleggeri: le banche centrali. Nel martedì del quasi-rimbalzo, i mercati europei vogliono credere in un film a lieto fine. La speranza insegue una sceneggiatura nota: la bacchetta magica dei banchieri centrali. Per quello che fanno (tagliano i tassi in Cina) e per quello che forse non faranno (se non aumentano i tassi in America) le autorità monetarie sono protagoniste di una tregua. Effimera: il recupero di Wall Street muore in serata, turbato da voci su capovolgimenti politici a Pechino. Il copione è il terzo remake dalla crisi del 2008: il protagonismo delle banche centrali è una costante. Basterà stavolta? PECHINO RIDUCE IL COSTO DEL DENARO Dopo venerdì e lunedì neri, anche la giornata di ieri si apre sotto pessimi auspici: la Borsa di Shanghai in caduta libera, meno 7,6%. La mini-svolta positiva arriva dopo la chiusura del mercato di Shanghai, quando la banca centrale cinese annuncia due misure anti-crisi. Taglia i tassi d’interesse, decurtando dello 0,25% il costo del credito. E riduce le riserve obbligatorie delle banche. Questo secondo gesto equivale a “liberare” più di 100 miliardi di dollari di liquidità. Inondare di moneta l’economia reale: è una cura che ricorda il “quantitative easing” (acquisto di bond) della Federal Reserve. Sui media cinesi per la prima volta affiorano critiche verso il dirigismo dei giorni scorsi, quando le autorità cercavano di calmare la Borsa acquistando direttamente titoli sul mercato. Il quarto giorno consecutivo di ribassi ha distrutto 1.000 miliardi di dollari di ricchezza finanziaria in Cina. Il Financial Times evoca un siluramento del premier cinese Li Keqiang. WALL STREET E LA FED In Europa si sentono i primi benefici dalla mossa della banca centrale cinese. Rialzi ovunque: gli europei vogliono credere che Pechino sta riprendendo la situazione in mano. Wall Street parte in recupero ma chiude in calo. In America cresce l’auspicio che la Fed rinunci ad alzare i tassi nel 2015. Vi contribuisce un appello autorevole. Lo firma sul Financial Times Lawrence Summers, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton ed ex consigliere di Obama. Summers ammonisce: «Un rialzo dei tassi nel futuro prossimo sarebbe un grave errore, minaccerebbe i principali obiettivi della banca centrale e cioè stabilità dei prezzi, piena occupazione, stabilità finanziaria ». Gli investitori sperano che la Fed ascolterà il suo appello. Nel weekend i banchieri centrali si riuniscono per il seminario estivo a Jackson Hole sulle Montagne Rocciose. Un rialzo dei tassi era preannunciato, tra settembre e dicembre, come un segno di ritorno alla normalità dopo sei anni di crescita Usa. Ma questo prima dello shock cinese. BANCHE CENTRALI, È VERA ONNIPOTENZA? Ancora una volta i mercati implorano salvezza dai sacerdoti della moneta. Il primo capitolo di questa storia risale al dicembre 2008: fu allora che la Fed decise l’ardita politica del “tasso zero” pur di rianimare un’economia americana agonizzante. Seguì una terapia perfino più audace, lo stampar moneta per comprare bond. Con 4.500 miliardi di “nuovi dollari” la Fed inondò l’America e il mondo. Missione compiuta, sei anni dopo, la crescita Usa è ripartita e la disoccupazione è scesa ai livelli pre-crisi. L’esperimento innovativo 7 della Fed venne imitato di volta in volta dalle banche centrali inglese, svizzera, giapponese. Infine anche dalla Bce, col beneficio di una svalutazione dell’euro, che ora si è interrotta per il “vento contrario” della svalutazione del renminbi cinese. Le banche centrali sono onnipotenti? Può continuare all’infinito il loro intervento come “ pompieri” anticrisi? Gli stessi economisti che hanno sempre appoggiato l’audace politica monetaria della Fed – da Summers a Paul Krugman – avvertono che siamo in una “stagnazione secolare”. Tra le sue cause c’è l’ingorgo di capitali evocato ieri da Krugman su queste colonne. Neil Irwin ha coniato il neologismo “the everything bubble” ovvero la “bolla di tutto”. Le masse monetarie generate dalle banche centrali sono le stesse che in cerca di rendimenti hanno creato bolle speculative dalla Silicon Valley alla Borsa brasiliana all’immobiliare cinese. LA VERA CRISI CINESE Nessuno sa quale sia, con certezza. La Borsa è il termometro di altri problemi. Un rallentamento della crescita, se fosse vera la versione governativa che prevede un aumento del 7% del Pil quest’anno a fronte del 10% degli anni passati, sarebbe perfino benefico: l’occasione per passare da un modello di sviluppo troppo orientato all’export e agli investimenti pesanti, ad uno più centrato sui consumi interni. Ma il Wall Street Journal ammonisce che l’economia cinese “è come una scatola nera”. Scopriremo il vero guasto solo quando l’aereo si sarà schiantato? L’economista Kenneth Rogoff ricorda che la Cina ha una fragilità nel suo debito pubblico. Si tende a dimenticarlo perché Pechino ha gigantesche riserve valutarie accumulate con il commercio estero, ma il suo debito pubblico è pari a 28.000 miliardi di dollari cioè il 282% del Pil. Molto più del debito Usa o anche di quello italiano in proporzione al Pil. Che dire degli altri paesi emergenti, meno solidi della Cina? Il Fmi teme che la fine della “liquidità a gogò” creata dalla Fed, sia l’inizio di nuovi shock nell’emisfero Sud. Capitali in fuga, più materie prime che crollano, è la ricetta per crisi destabilizzanti in tutto l’arco che va dal Sudamerica all’Africa al Medio Oriente. TROPPE INCOGNITE E UNA TEORIA: IL CAOS Il mondo contemporaneo ha conosciuto altre crisi, finanziarie e valutarie. Quella attuale ha un’incognita in più. E’ utile il paragone con il crac del Giappone che nel 1989 concluse un trentennio di boom del Sol Levante. Ma quella crisi fu gestita all’interno del G7, un club di alleati. Questa volta c’è di mezzo la Cina, il cui rapporto con l’Occidente è più complicato. L’opacità della Cina dà luogo a voci incontrollate, Wall Street in chiusura di seduta si agita su illazioni di “manovre militari”. L’imprevedibilità delle crisi finanziarie è stata spesso interpretata alla luce delle teorie del caos. Un parallelo è “la fisica delle slavine”. Un altro: i granelli di sabbia che scendono in una clessidra, all’inizio compongono una montagnetta, poi un solo granello aggiuntivo fa franare tutto. Infine c’è la farfalla che battendo le ali provoca un uragano dall’altra parte dell’oceano. La farfalla era l’America, gli altri subivano l’amplificazione delle sue crisi. Oggi la farfalla è cinese. Paradosso: i paesi relativamente meno vulnerabili sono quelli un po’ meno esposti al commercio estero. America e India, sono meno “globalizzate” della vecchia Europa. Qualcuno avrà ripensamen- ti sui trattatidi liberoscambio, TppeTtip. 8 Del 26/08/2015, pag. 13 Berlino, si prepara un ricorso anti-Atene Allo studio la richiesta alla Corte di Karlsruhe di bocciare il terzo piano di salvataggio I dubbi sul coinvolgimento del fondo Esm e il rischio per la stabilità dell’eurozona Berlino La Germania si prepara a fare ricorso alla Corte costituzionale tedesca contro il salvataggio greco da 86 miliardi, il terzo in 5 anni. A guidare la nuova offensiva legale è Arnold Vaatz, parlamentare della Cdu e uno dei vice presidenti del gruppo conservatore Cdu-Csu al Bundestag. Vaatz aveva minacciato un’azione legale contro un nuovo bailout della Grecia fin da luglio, quando i negoziati tra i creditori ed Atene erano ancora in alto mare. E, al momento del via libera da parte del Parlamento tedesco, il suo è stato uno dei 63 voti contrari espressi dai conservatori. Ma Vaatz non sarà da solo davanti alla Corte costituzionale di Karlsruhe. Dalla sua parte si sono già schierati il presidente del Comitato per la Finanza dell’Unione Cdu-Csu al Bundestag, Hans Michelbach, eletto tra le file del partito conservatore della Baviera, e la Bund der Steurzahler (BdSt), l’Associazione dei contribuenti tedeschi fondata nel 1949 con l’obiettivo di ridurre le tasse, diminuire le spese e tagliare la burocrazia. «Non possiamo piegare le leggi a nostro piacimento e dimenticare le promesse elettorali facendole uscire dalla porta di servizio. Arnold Vaatz può contare su di me», ha dichiarato il politico della Csu alla rivista tedesca Super Illu . E il presidente della BdSt, Reiner Holznagel ha aggiunto: «Mi rallegro se ci sono membri del Bundestag che considerano tutte le possibilità per intraprendere una battaglia legale contro il pacchetto di aiuti. Se ci sarà una procedura legale, noi la sosterremo con tutti i mezzi a nostra disposizione». Gli esperti giuristi, su incarico di Vaatz, sono già al lavoro per valutare se esistono le basi legali per il ricorso, dopo la decisione del Bundestag. «Se le probabilità di successo sono buone, porterò la causa davanti alla Corte», sostiene il parlamentare. Secondo i rappresentati dell’insolita alleanza non dovrebbe essere l’Esm, il meccanismo salvataggio europeo, a pagare alla Grecia gli 86 miliardi stabiliti dall’accordo con i creditori, perché il fallimento di Atene potrebbe mettere a rischio la stabilità dell’eurozona. Tanto più che il pacchetto di aiuti, avvertono, servirà soltanto a pagare i debiti di Atene con Eurolandia, una cosa che non è permessa dai trattati. Lo stesso Esm ha calcolato che 73 degli 86 miliardi del salvataggio ritorneranno ai creditori attraverso il rimborso dei vecchi debiti. Come dire: una partita di giro che eviterà il default della Grecia più che aiutare la sua economia a ripartire. Non è la prima volta che i tedeschi, sentendosi traditi dai politici, chiedono ai giudici della Corte costituzionale di intervenire. L’ultimo caso risale allo scorso giugno quando nel mirino è finito il piano di acquisto di titoli di Stato lanciato dalla Bce, il cosiddetto Quantitative easing . A fare ricorso tre cittadini privati, per i quali il Qe di Mario Draghi sarebbe una violazione «oltraggiosa» del mandato affidato alla banca centrale europea, «scandalosamente peggio» dello scudo antispread,l’Omt, pure finito davanti alla Corte costituzionale di Karlsruhe. Ma in quel caso i giudici tedeschi hanno rinviato la questione alla Corte europea, che ha poi dato il via libera . Giuliana Ferraino 9 Del 26/08/2015, pag. 16 La “protesta dei rifiuti” fa tremare Beirut Governo in bilico In strada migliaia di persone: “Colpa della corruzione” E intanto la capitale affonda nella spazzatura DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FABIO SCUTO GERUSALEMME . Nella Repubblica dei Cedri, attraversata da mille tensioni, dai rifugiati siriani in fuga dalla guerra, dai miliziani di Hezbollah che in quella guerra combattono e tornano nelle bare o mutilati, dalle fazioni palestinesi che da due giorni si sparano senza sosta nel campo profughi di Ein El Hilweh, l’ultimo focolaio che sta demolendo il governo è la guerra dei rifiuti. A tonnellate si cumulano nelle strade della capitale e nelle zone limitrofe e rilasciano — cotte dal sole mediorientale — miasmi insopportabili per la popolazione, che da un mese protesta esasperata per l’incapacità del governo di trovare una soluzione al problema dopo la chiusura della discarica di Naameh, che sopperiva ai bisogni di un paese grande come la Liguria. Ieri sulla crisi dei rifiuti si è spaccato il fragile governo di Beirut, sei ministri appartenenti al movimento Hezbollah e i suoi alleati cristiani hanno abbandonato un vertice che doveva decidere sull’assegnazione dello smaltimento a sei aziende. Il progetto è stato abbandonato e l’esecutivo ha invece deciso di aprire una nuova discarica nella regione settentrionale di Akkar, offrendo in cambio alla popolazione locale fondi pari a cento milioni di dollari per progetti di sviluppo. L’accumulo dei rifiuti nelle strade dopo la chiusura della discarica di Naameh, il 17 luglio, aveva provocato le proteste di migliaia di cittadini, scesi in strada sabato e domenica sera su invito di un movimento spontaneo denominato “ You stink” (Voi puzzate). Un centinaio di poliziotti e una sessantina di dimostranti sono rimasti feriti in scontri scoppiati quando una minoranza dei manifestanti ha cercato di sfondare il cordone delle forze dell’ordine davanti all’ufficio del premier. Lunedì il ministro dell’Ambiente ha annunciato l’assegnazione di appalti alle sei aziende per risolvere il problema, un progetto che però ha incontrato le critiche di parte delle forze politiche e dello stesso movimento “You stink” per gli alti costi e i sospetti di corruzione. La campagna di protesta, che ha mobilitato migliaia di cittadini indipendentemente dai grandi partiti settari che dominano politica libanese, incolpa le faide politiche e la corruzione per una crisi che ha lasciato cumuli di spazzatura maleodorante nelle strade sotto il sole cocente. Governo e parlamento sono in fase di stallo, i politici da un anno non trovano l’accordo su un nuovo presidente, mentre “la guerra della porta accanto” in Siria ha aggravato le tensioni settarie e portato più di un milione di rifugiati nel paese. Dietro lo stallo c’è la lotta di potere tra i due principali blocchi politici che sono divisi proprio sulla Siria — quello filoiraniano di Hezbollah e dei suoi alleati, tra cui il cristiano Michel Aoun, e la maggioranza sunnita filo-occidentale guidata da Saad Hariri. Il governo nato lo scorso anno con la benedizione dei due grandi rivali regionali — Arabia Saudita e Iran — ha evitato (per ora) che il vuoto politico si trasformasse in caos, ma sembra incapace di affrontare anche l’ordinaria gestione. 10 Del 26/08/2015, pag. 17 LA GIORNATA Crocifissa una “spia”, orrore a Sirte Quattro esecuzioni del Califfato in Libia. “Raid sulla città”. Scontri a Bengasi e a Derna Tre uomini sgozzati e gettati in una discarica, un quarto in tuta arancione crocefisso a un’impalcatura e ucciso con una mitragliata in faccia: le loro morti esibite sono le bandiere d’orrore issate ieri dai terroristi dello Stato islamico nel nuovo emirato proclamato a Sirte, la città beduina sulla costa libica in cui nacque Gheddafi. La roccaforte del rais, che ne traeva forza per imporre la stabilità nel Paese, nel vuoto di potere in cui è sprofondata la Libia è diventata capitale dei tagliagole di Al Baghdadi, e nessuno sembra avere la determinazione e il mandato per impedirlo. Secondo testimonianze locali, ieri mattina alcuni jet militari senza insegne riconoscibili hanno sorvolato la città bombardandola, ma la notizia - secondo cui il raid avrebbe provocato diversi morti e feriti - non è confermata ufficialmente. In ogni caso non sono certo i bombardamenti mirati e decisi che il governo ufficiale di Tobruk ha chiesto - finora invano - alla comunità internazionale: servirebbero a organizzare una controffensiva sul terreno che resta impossibile, finché l’esercito male armato è tenuto in scacco dalla guerra con i ribelli di Tripoli, legati ad Al Qaeda. La comunità internazionale non riesce a riprendere in mano il timone della crisi, e in questo stallo drammatico lo Stato islamico prospera e mette radici con il nuovo emirato. Le uccisioni simboliche dei tre africani sgozzati e dell’uomo crocefisso - un giovane esponente della fazione che controlla Tripoli, Fajr Libya, accusato di essere una spia sono state diffuse su Internet per estendere l’eco del terrore con cui l’Is governa. E insieme ad esse sono state diffuse altre immagini in cui gli islamisti in nero mostrano lo stile di vita austero a cui si ispirano, come la distruzione degli alcolici trovati nelle botteghe: è un altro modo per conquistare l’animo dei giovani aizzandoli contro la corruzione dei costumi occidentali. In città, gli uomini dell’Emirato si sono installati nella ex sede dei servizi di sicurezza, e da lì controllano Sirte e parte della fascia costiera nel golfo. Mentre proseguono gli scontri durissimi tra l’esercito e i ribelli a Bengasi e a Derna, lo Stato Islamico si è avvicinato alla prima e si infiltrato nelle periferie della seconda, prendendo il controllo di alcuni quartieri di Derna. E controlla Sabratha: le bandiere nere sono sempre più vicine ai terminal petroliferi, se riuscissero a impossessarsene avrebbero un’enorme fonte di reddito da affiancare al traffico dei migranti. Fermarli diventerebbe ancora più difficile. Del 26/08/2015, pag. 17 Ecco come l’Is ha distrutto Baal Shamin “Palmira è l’arma di ricatto dei jihadisti” IL CASO ANNA LOMBARDI «COME vuole che mi senta? Triste, furioso, impotente: dal giorno in cui lo Stato Islamico è entrato a Palmira era evidente che avrebbe fatto questo». Il professor Amr Al-Azm, l’archeologo che per anni ha guidato i laboratori di restauro dei musei statali siriani e ora vive in America, dove insegna alla Shawnee University, commenta così le immagini della 11 distruzione del tempio di Baal Shamin a Palmira, diffuse ieri in rete dall’Is. Immagini dove si vedono i miliziani sistemare l’esplosivo lungo il perimetro del tempio antico di 2000 anni, uno dei meglio conservati al mondo. E poi il fungo dell’esplosione, il tempio ridotto in macerie. «Palmira è un’arma nelle mani dei jihadisti: e per molti motivi. Per loro è una miniera da saccheggiare, una fonte di guadagno: potranno vendersi capitelli, stele votive e i tesori ancora da recuperare lì dove si stavano facendo nuovi scavi. Poi è un’arma di ricatto: perché anche distruggendo dieci templi resta un’intera città molto ben conservata. La useranno a lungo per tormentarci. E poi credo che per loro sia una sorta di assicurazione: lì possono ripararsi dai bombardamenti della coalizione. Chi vorrà assumersi la responsabilità di bombardare quel che lo Stato Islamico non ha già distrutto?». Proprio nelle stesse ore in cui l’Is si accaniva sull’antico tempio, la famiglia dell’archeologo decapitato pochi giorni prima, Khaled Asaad, è riuscita a mettersi in salvo, raggiungendo la città governativa di Homs, dopo una fuga di sei giorni nel deserto. Da qui il figlio Walid, subentrato al padre nella direzione del museo di Palmira nel 2003, ha raccontato al Times di Londra la sua odissea: «Oro, volevano l’oro. Ci hanno interrogato per giorni chiedendoci dove erano nascosti oro e gioielli antichi. E quando io e mio padre abbiamo insistito che oro a Palmira non ce n’è mai stato, che le missioni archeologiche non hanno mai trovato tesori di quel genere, non ci hanno creduto. Hanno continuato a interrogarci, a chiedere oro, oro, oro…». Quando ha saputo che i miliziani avevano assassinato il padre, Walid ha caricato moglie, fratelli e la mamma ottantenne su un furgone ed è fuggito, lasciandosi dietro tutto: «Documenti cruciali e il computer con dentro l’archivio del museo, mappe, fotografie e resoconti dettagliati degli scavi in corso». Ora lancia l’allarme: anche se le vestigia del museo sono in salvo, trasferite a Damasco poche settimane prima che l’Is occupasse la città, i segreti di Palmira potrebbero invece essere già finiti nelle mani dei jihadisti. «Se hanno le mappe dei luoghi dove scavare è un bel problema» dice a Repubblica Amr Al-Azm. «Lì lo Stato Islamico può trovare nuovi reperti da immettere sul mercato nero dell’arte. Opere che non conosciamo e dunque sono più difficili da identificare. Per questo è fondamentale il lavoro dei coraggiosi che sul campo, e in gran segreto, documentano danni e ritrovamenti ». Sì, perché Amr Al-Azm fa parte del team di studiosi che periodicamente va in Turchia per incontrare i Monuments men siriani, le poche decine di volontari che fanno quel che possono per salvare il patrimonio del Paese. «Sono loro i veri eroi: uomini e donne di entrambe gli schieramenti, che lavorano sia con il regime di Assad che con i ribelli per proteggere i monumenti ». Gli studiosi gli insegnano quel che possono: tecniche di conservazione d’emergenza, spesso sperimentate durante la seconda guerra mondiale. Come quella di avvolgere mosaici e terracotte nel Tyvek, un tessuto sintetico leggero e resistente usato nelle costruzioni, prima di seppellirli o coprirli con sacchi di sabbia. «Qualcosa siamo riusciti a salvare: penso ai mosaici romani, preziosissimi, conservati all’interno del museo di Ma’arra, vicino ad Aleppo, finito sotto i bombardamenti. Salvi grazie a poche migliaia di dollari di materiale offerto dallo Smithsonian americano». Ora il compito dei volontari si è fatto più difficile e spesso si limita alla mera documentazione. Il traffico di opere d’arte, che secondo una valutazione al ribasso dell’intelligence inglese ha già portato nelle casse dell’Is 1 miliardo e mezzo di dollari, si è raffinato e burocratizzato. Inizialmente a condirre i traffici erano infatti gli stessi razziatori: a patto di pagare all’Is la Khums , la tassa prevista dalla legge islamica per tutti i beni provenienti dalla Terra. Dallo scorso autunno il traffico è invece nelle mani di un vero dipartimento archeologico che lo Stato Islamico ha creato a Manbij, non a caso nei pressi del confine turco. «Qui l’Is ha creato un vero network: fatto di scavatori, ex impiegati museali e ministeriali e perfino 12 archeologi che collaborano o vengono costretti a farlo. E ci sono anche mediatori e venditori “approvati”». Interessato solo al profitto e non alla conoscenza, l’Is usa bulldozer e trattori per gli scavi: distruggendo i siti ancor prima che vengano alla luce. Il professore sospira. «Mirano solo a quel che possono vendere: teste di statue, fregi di decorazioni. Parti preziose e facili da trasportare ». Palmira trasformata in una cava. E questo, come dice Amr al-Azm, dovrebbe renderci tristi e furiosi tutti quanti. Del 26/08/2015, pag. 6 Tregua precaria ad Ein al Hilwe sotto attacco jihadisti Jund al Sham Libano. Da giorni vanno avanti gli scontri nel più grande campo profughi palestinese nel Paese dei Cedri. Centinaia di famiglie in fuga, molte giunte da Yarmouk in cerca di scampo dalla guerra civile siriana Michele Giorgio «Ho fatto male a venire qui ad Ein al Hilwe con la mia famiglia. A Damasco avrei trovato un rifugio più sicuro, qui si combatte come in Siria». Abu Khaled, intervistato da giornalisti libanesi, raccontava ieri il dramma di centinaia di profughi palestinesi, molti dei quali scappati dalla guerra civile siriana, che da alcuni giorni vivono ammassati in una moschea di Sidone per sfuggire alle raffiche di mitra e ai lanci di razzi e granate. Anche Jamila Shami, giunta da Yarmouk, si rammariva dell’”errore” commesso. «Non dovevano lasciare la Siria, siamo passati da una guerra all’altra». Nella moschea ci sono anche tante famiglie che da sempre vivono nel campo palestinese, costrette a subire a queste improvvise escalation di violenza. Da sabato scorso è di nuovo guerra nelle strade strette e sporche di Ein al Hilwe, il più grande dei 12 campi profughi palestinesi in Libano dove in condizioni disumane vivono 450 mila rifugiati della Nabka del 1948. I jihadisti di Jund al Sham (un gruppo vicino ad al Qaeda), formato solo in parte da palestinesi, ha rilanciato la sua campagna di attacchi contro il movimento Fatah, che controlla il campo e che vuole l’espulsione dei jihadisti. A luglio uomini armati hanno sparato da un’automobile in corsa uccidendo Talal al Ourdouni, un colonnello dell’ala militare di Fatah. Sabato scorso invece hanno cercato di assassinare Ashraf al Armoushi, il capo dell’intelligence di Fatah. È stata la scintilla della nuova guerra, con molte centinaia di civili costretti a scappare sotto il fuoco incrociato e a trovare riparo nelle strade della vicina Sidone. Il bilancio dei combattimenti è di tre morti (tutti di Fatah) e di una trentina di feriti. Le esplosioni hanno distrutto diverse abitazioni, molte altre sono state danneggiate gravemente. Ieri è stato proclamato un cessate il fuoco ma in serata appariva precario. Non è chiaro se rappresentanti di Jund al Sham abbiano preso parte ai colloqui convocati da tutte le organizzazioni palestinesi, inclusa la sinistra rappresentata dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina, per mettere fine ai combattimenti. La presenza di Jund al Sham ad Ein al Hilwe – ufficialmente ci vivono 70 mila palestinesi ma in realtà sono il doppio, considerando i rifugiati giunti dalla Siria negli ultimi tre anni – è nota da tempo e gli scontri violenti con Fatah sono stati frequenti. Negli ultimi due anni però i jihadisti si sono fatti più arroganti, sull’onda dei successi che i loro “cugini” dell’Isis e di Nusra hanno ottenuto in Iraq e Siria. Secondo alcune fonti inoltre possono contare su nuove fonti di finanziamento. Per questo hanno rialzato la testa e mettono in discussione la leadership di Fatah. Contestano inoltre la cooperazione esistente da alcuni anni tra le formazioni politiche palestinesi e le forze di sicurezza libanesi per tenere lontano dai campi profughi salafiti radicali, jihadisti e la criminalità organizzata. Peraltro 13 nella vicina Sidone, storica roccaforte sunnita, non sono caduti nel vuoto gli appelli alla “guerra santa” contro gli sciiti appoggiati dall’Iran (Hezbollah) e gli alawiti al potere a Damasco attraverso la presidenza Assad. Non pochi giovani sunniti sono partiti per la Siria a combattere contro gli “infedeli”, spinti anche dagli appelli del predicatore salafita Ahmed al Assir, che due anni fa innescò combattimenti nelle strade di Sidone costati la vita a numerosi soldati libanesi. Qualche giorno fa è stato finalmente arrestato all’aeroporto di Beirut dopo una lunga latitanza. Le infiltrazioni jihadiste espongono Ein al Hilwe allo stesso destino subito nel 2007 da un altro campo profughi palestinese, Nahr al Bared (Tripoli). Divenuto la base di Fatah al Islam, una formazione qaedista, Nahr al Bared fu distrutto in buona parte dall’artiglieria dell’esercito libanese e la popolazione per anni ha vissuto in container di lamiera e in un altro campo profughi, Beddawi. L’esercito libanese ha già rafforzato le sue posizioni in corrispondenza dei quattro ingressi principali di Ein al Hilweh mentre i libanesi, molti dei quali guardano (a dir poco) con diffidenza ai rifugiati palestinesi, sono tornati a chiedere misure drastiche per riportare l’ordine nel campo profughi. Del 26/08/2015, pag. 8 Se ne va la Croce Rossa, arrivano le truppe saudite Yemen. I soldati di Riyadh dispiegati ad Aden e al centro, ufficialmente per ricreare la polizia locale. L'Iran insiste sul negoziato e apre alla coalizione anti-Houthi Chiara Cruciati Si arrende anche la Croce Rossa, ormai il popolo yemenita è davvero solo: reso incapace di portare soccorso alla popolazione civile dalla mancanza di aiuti dovuto al blocco imposto dall’Arabia Saudita, ora target di uomini armati non identificati, il Comitato Internazionale della Croce Rossa ieri ha annunciato la sospensione temporanea delle attività nella città costiera meridionale di Aden. La decisione – fanno sapere fonti interne – è stata presa a seguito di un raid all’interno della sede nel porto della città, ancora oggi terreno di scontro diretto tra ribelli Houthi e forze governative. Il gruppo armato ha aggredito lo staff e requisito auto, computer e denaro contante. Un colpo duro al quasi inesistente fronte umanitario nel paese: la Croce Rossa era una delle poche organizzazioni ancora presenti sul campo, nel tentativo di mettere una pezza all’enorme crisi umanitaria che sta strangolando lo Yemen. Per uno che se ne va, qualcun altro arriva: le prime truppe di terra saudite sono giunte ieri ad Aden. Cinquanta soldati – dicono funzionari yemeniti – sono stati inviati con il compito di rimettere in sesto il corpo di polizia locale, sbriciolatosi sotto i colpi della guerra civile e l’assenza dello Stato. Di poliziotti, dopo la fuga del presidente Hadi all’estero e la presa delle regioni sud da parte Houthi, non se ne vedono più. Le stazioni di polizia sono deserte. E ora che Aden è tornata – almeno in parte – in mano governativa, Riyadh ha disposto la ristrutturazione del corpo di polizia. Questa è la versione ufficiale. Quella ufficiosa è che le truppe straniere sul terreno (ce ne sono già, provenienti dagli Emirati Arabi, membri della coalizione anti-Houthi) saranno impiegate per porre definitivamente fine alla ribellione sciita e saranno dispiegate nelle zone meridionali e centrali del paese, da Aden a Ma’rib e Shabwa. Proprio in queste aree 14 si stanno moltiplicando in questi giorni i bombardamenti da parte dell’aviazione saudita, una potenza di fuoco che uccide soprattutto i civili. Si registrano scontri anche a nord, dove i ribelli Houthi rispondono all’attacco di Riyadh con i missili: nelle ultime 24 tre soldati della petromonarchia sono stati e tre feriti dall’artiglieria sciita o durante scontri diretti alla frontiera settentrionale tra i due paesi. E mentre l’Arabia saudita prosegue nella sua guerra per procura a Teheran, è l’Iran a farsi portavoce della diplomazia come soluzione di un conflitto in cui non ha voluto mai infilarsi direttamente. Ieri il vice ministro degli Esteri iraniano ha detto che la Repubblica Islamica è pronta a cooperare con Riyadh per porre fine alle ostilità attraverso il negoziato e per evitare che il terrorismo inondi la regione. Un effetto già visibile in Yemen: al Qaeda nella Penisola Arabica, che nel paese ha la sua roccaforte, si sta pericolosamente allargando. Dopo aver assunto il controllo militare e amministrativo della provincia di Hadramaut, ora ha occupato ampie aree della città di Aden. 15 INTERNI Del 26/08/2015, pag. 1-12 IL RACCONTO/NELLA PLATEA DEL MEETING La conversione di Cl sedotta da Matteo “Il Pd ora è votabile” JENNER MELETTI RIMINI. Gli applausi si sono appena spenti. L’ultimo è per Emilia Guarnieri, presidente del Meeting, e al suo «Noi ci siamo». “A chi cerca di tirare il Paese fuori dalla crisi – dice al presidente del Consiglio che ha appena finito di parlare alla platea ciellina - diciamo che noi ci siamo. Quando le istituzioni vogliono dare una mano al Paese, noi ci siamo. Con chi rifiuta la logica della paura e le contrapposizioni ideologiche, noi ci siamo”. Assieme a lei, sul palco, a chiedere a Matteo Renzi come si possano cambiare l’Italia e il mondo, c’è anche Giorgio Vittadini, presidente della fondazione per la Sussidarietà. Per il premier ottomila presenti e venti applausi. Professor Vittadini, si può dire che Cielle adesso è per il centro sinistra? «No, non si può dire. Si può dire invece che non è più di centro destra. Comunque da tempo il Pd non è più un partito non votabile. Pier Luigi Bersani è sempre stato un amico. A fare votare Dc, ancora negli anni ’80, erano i vescovi, non Cielle». «Non mollare», è il grido che si sente più spesso, nell’ora in cui Matteo Renzi attraversa padiglioni e mostre del Meeting. “Matteo, Matteo”. “Vai avanti così, vedrai che ce la fai”. Lui appare dietro “transenne” umane di magliette verdi del servizio d’ordine di Cielle e divise di carabinieri e polizia. Entra subito alla mostra “Opus florentinum, piazza Duomo di Firenze fra fede, storia e arte”. “Vai avanti Matteo, sei sulla buona strada. Sono finiti gli anni del bunga bunga”. Il ragazzo che grida ha accento fiorentino. Sembra rispondere anche a lui, il premier, quando dal palco dirà che “il berlusconismo, ma anche l’antiberlusconismo, ha schiacciato per vent’anni il tasto ‘pausa’ nella crescita dell’Italia. All’uscita dalla mostra un urlo. “Quando ve li abbassate, gli stipendi, tu e tutti gli altri politici?”. Ma subito dopo: “Matteo, non ti fermeranno”. Nel resto del cammino con rischi di sfondamento ci sono solo selfie, tentativi di abbracci, offerte di panini e di spumante. Al suo fianco, nel mini tour, l’ex ministro Maurizio Lupi, che assieme a Roberto Formigoni quest’anno non è stato invitato a nessun dibattito del Meeting. Lupi si è mostrato al fianco anche di altri politici, li ha accompagnati al palco dove lui non poteva salire. L’ex governatore lombardo ha invece preferito non farsi vedere. Una visita al salone del Federlegnoarredo, che al Meeting è una potenza. Ogni giorno un incontro fra “giovani in cerca di lavoro, imprenditori alla ricerca di giovani”. Poi il premier incontra a porte chiuse “i vertici di alcune aziende, pubbliche e private, che sostengono il meeting in qualità di sponsor o partner”. Fra queste, Fs, Federlegno arredo, Intesa San Paolo, Enel…Spunta il sole dopo il potente acquazzone che aveva accolto Matteo Renzi all’arrivo, con le ovvie battute sul governo ladro. Si va nel grande salone. Si passa accanto a una piccola mostra – montata sull’acqua delle piscine – dedicata a Cielle a a don Luigi Giussani. Qui – e solo qui – si possono riascoltare in un televisore le parole di papa Francesco davanti a 80.000 ciellini il 7 marzo in San Pietro. “Il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata. Dire ‘io sono di Cielle’ è una spiritualità da etichetta”. Delusi quelli di Tempi, rivista vicina a Cielle, che gli avevano dedicato la copertina con il titolo: “Caro Matteo vieni a firmare”. Chiedevano un impegno per le scuole paritarie. Anche nel discorso nessun accenno a questo problema. Nessuna parola pure sulla vicenda delle unioni civili. “Non mi sembrano questi – ha commentato 16 Giorgio Vittadini – i temi centrali del Meeting”. Tutto tranquillo, per il premier pd, meglio che in certe feste dell’Unità. Quel “Noi ci siamo” è un buon carico di fieno da mettere in cascina. Bagno di folla per il premier invitato a “non mollare” Vittadini: ma anche Bersani è sempre stato un amico La presidente Guarnieri: “Noi stiamo con chi intende tirare fuori il Paese dalla crisi”. Del 26/08/2015, pag. 12 Renzi:persi vent’anni in risse sul berlusconismo E poi: “Via Imu e Tasi” Al Meeting:Italia fermata da scontri ideologici “Senato elettivo? La democrazia non è il Telegatto” DAL NOSTRO INVIATO FRANCESCO BEI PESARO. A Rimini e Pesaro è tornato il Renzi uno. Quello che piace – molto ai ciellini, moltissimo ai pesaresi che affollano tutti i loggioni del teatro Rossini – e quello che viene detestato e fischiato (come a l’Aquila o, sempre a Pesaro, da leghisti, insegnanti arrabbiati e grillini). Ma non lascia indifferenti. E’ il Renzi «con la tigna» - scherza il sindaco Matteo Ricci che lo accoglie al teatro della città marchigiana – che in dialetto locale significa caparbio, con la testa dura. Quello che al cronista che gli chiede, nel backstage del teatro, se esista qualche possibilità di modificare l’Italicum spostando il premio dal partito alla coalizione (come vorrebbe Forza Italia), risponde netto: «Assolutamente no, ma che scherziamo? Riapriamo il cantiere? Non esiste». Si chiude su tutto dunque e «si va avanti», anche se non è chiaro come visti i numeri del Senato. Ma oggi, al ritorno dalle ferie, «trascorse al mio paese», l’importante è il racconto, la prosa dell’ottimismo di governo contro quelli che rappresentano l’Italia «come un set di tutte le sfighe». Matteo Salvini in primo luogo, «quel politico che ha detto di voler bloccare il paese per 3 giorni a novembre... ma sono 20 anni che la stanno bloccando! Ci stavano loro al governo con Berlusconi quando lo spread stava oltre i 500 punti. La risposta, invece, è rimetterla in moto». Salvini è l’uomo nero. Un leader che sull’immigrazione sfrutta «il provincialismo della paura» per raccattare consensi: «Ma io non rinuncio all’umanità per tre voti. Prima salviamo le vite umane, non è buonismo ma umanità». Renzi si propone come un premier sopra le parti - «anche se un mio partito ce l’ho ed è il più votato d’Italia – che pensa solo al «bene comune» mentre gli altri si azzuffano e dunque domani può essere votato anche da chi in passato ha scelto l’altra metà campo. In fondo è questo il cuore del messaggio che rivolge ai ciellini, che infatti si spellano le mani: «L’Italia in questi 20 anni ha trasformato la Seconda Repubblica in una rissa permanente ideologica sul berlusconismo e l’antiberlusconismo, ha smarrito il bene comune, e mentre il mondo correva è rimasta ferma in discussioni sterili interne». Né a Rimini né a Pesaro c’è spazio per concessioni o aperture ai temi sollevati dalla minoranza Pd, dalle tasse al nuovo senato federale. Le riforme, «premessa per il rilancio», non si toccano. Viene liquidata come una «discussione incredibile» quella sull’elettività dei nuovi senatori, alimentata da quanti sostengono che «se non c’è elezione diretta è a rischio la democrazia. Ma non è che devi votare tante volte perché ci sia più democrazia. Quello è il Telegatto. Moltiplicando le poltrone si fanno contenti quei politici, non gli 17 elettori». A Calderoli, che ha presentato un Tir di scatoloni pieni di emendamenti, risponde con una battuta: «Ci portano mezzo milione di emendamenti, una risata li seppellirà! Ti immagini se noi ci facciamo bloccare da qualcuno che pensa di farci paura con gli emendamenti... Noi resisteremo un minuto di più!». Anche sulle tasse nessun cambiamento di programma.Il prossimo anno verranno tagliate Tasi e Imu «per tutti», quindi anche a chi - e la minoranza del Pd non è d’accordo - ha l’attico in centro. «Mi si dice: ma la tassa sulla casa l’aveva tolta Berlusconi. Non è vero, Berlusconi l’ha rimessa, insieme a Monti. E poi non si tratta di chi ha fatto o non ha fatto una cosa, ma se quella o giusta o meno». E per Renzi evidentemente tagliare l’Imu «per tutti» è cosa buona e giusta. «La riduzione delle tasse aumenta il tasso di libertà del Paese, aumenta il tasso di giustizia sociale». Quanto all’Italicum, fa una cosa «semplice e rivoluzionaria: dice che chi arriva primo vince. E’ il primo tassello per riuscire finalmente a governare e non difendersi dagli assalti di minoranza o opposizione ». A Pesaro, al Teatro Rossini, va in scena il “numero zero” di un format destinato a essere replicato «in altri cento teatri». Una cosa studiata da Renzi e dal suo staff in vacanza. Una sorta di presentazione-evento delle cose fatte e di quelle da fare, con tanto di video e accompagnamento musicale (in omaggio a Rossini, ieri era il crescendo del Guglielmo Tell). «Questa estate, durante le vacanze, sono stato nel bar di quando ero piccolo, uno di quei bar dove ti conoscono per quel che sei, e una signora mi ha detto: non le state raccontando bene le cose che state facendo, dovete fare di più. Vediamo insieme se le cose che stiamo facendo sono davvero cose che stanno coinvolgendo le persone o, come tutti i politici dei palazzi, stiamo perdendo freschezza ed entusiasmo». La risposta dei pesaresi al Rossini è entusiastica. Gli va meno bene fuori dal teatro - dove lo aspettano i leghisti e i militanti “No Trivelle” - e poi all’Aquila. Del 26/08/2015, pag. 13 Contestazioni e tre feriti all’Aquila il premier salta tappa in Comune In piazza il fronte anti-trivelle in Adriatico Palazzo Chigi: per ricostruire i soldi ci sono GIUSEPPE CAPORALE L’AQUILA. Matteo Renzi, ieri pomeriggio, non è riuscito a entrare nel centro storico dell’Aquila. A bloccare la visita del premier nel cuore della città distrutta dal terremoto e completamente puntellata, sono stati 300 contestatori accorsi da diverse parti d’Abruzzo per protestare contro la trivellazioni petrolifere nel mare Adriatico e il decreto “Sblocca Italia”. Eppure, il presidente del Consiglio era nel capoluogo di regione per annunciare al governatore Luciano D’Alfonso, al sindaco Massimo Cialente e a tanti sindaci del comprensorio che i soldi per la ricostruzione finalmente ci sono, e sono già sul conto corrente della ricostruzione. «Ho scelto di venire all’Aquila solo oggi, perché ho preferito prima produrre risposte concrete da mettere a disposizione di questo territorio. In passato in troppi qui hanno fatto solo passerelle mediatiche. Oggi la risposta dello Stato c’è. I fondi ci sono, la conferma ufficiale l’abbiamo avuta pochi giorni fa. Ora tocca a voi spenderli e spenderli bene» ha detto il premier durante la riunione operativa che in seguito ai tafferugli - con una poliziotta e due manifestanti feriti, e un terzo colpito da malore - è stata spostata dagli organizzatori locali dalla sede comunale al centro di ricerca “Gran Sasso Science Institute”, situato all’ingresso della città. Renzi non ha mai raggiunto il municipio, prima 18 tappa della sua visita in città. E così la sala universitaria che doveva ospitare solo una veloce visita di cortesia del presidente del consiglio, alla fine è stato il luogo dove si è svolto il “meeting” sulla ricostruzione. E il sindaco Cialente - che per anni ha contestato i governi fino ad arrivare al punto, durante l’esecutivo Letta, di riconsegnare la fascia di primo cittadino all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - stavolta ha preso la parola per ringraziare. «Finalmente i soldi ci sono con una programmazione a lungo termine che ci permette di far partire davvero i cantieri del centro storico e garantire che entro il 2017 termineremo una fase centrale della ricostruzione. Ora mi pento di quando riconsegnai la fascia tricolore, ma eravamo disperati. Ma abbiamo lavorato molto: dei 56mila sfollati del 6 aprile 2009, oggi solo 12mila sono ancora fuori dalle loro case». E il governatore D’Alfonso ha chiesto pubblicamente a Renzi un «supplemento di approfondimento» sulle trivellazioni in Adriatico, sul progetto Ombrina Mare, che di tutti quelli in attesa di approvazione è il più impattante, grande quanto uno stadio di calcio. «Il turismo e lo sviluppo economico non sono antitetici» ha risposto Renzi «sulle trivellazioni in Adriatico faremo ulteriori approfondimenti». Renzi ha scelto L’Aquila anche per annunciare il patto per il Sud. Quindici «accordi specifici» per quindici aree del Paese. «Noi metteremo i fondi ma chiederemo agli enti locali il rispetto dei tempi». E mentre dentro la sala dell’istituto scientifico si ragionava di investimenti e rilancio dell’Aquila e del Meridione fuori la polizia caricava i manifestati che tentavano di forzare il varco ed entrare nell’istituto. Non solo, una volta terminato l’incontro sindaci e amministratori locali sono stati accolti da una sassaiola. Scatenando la reazione del presidente della Provincia, Antonio De Crescentis. «Non ci sto a farmi chiamare cameriere di Renzi». Del 26/08/2015, pag. 18 Grandi appalti debiti e Giubileo quattro tutor per il sindaco Domani le sorti della capitale sul tavolo del Consiglio dei ministri IL RETROSCENA GIOVANNA CASADIO ROMA. Una rete di salvaguardia. Un coordinamento operativo. Palazzo Chigi sfuma i termini. Ma nel lungo faccia a faccia di ieri tra il vice sindaco di Roma, Marco Causi e il sottosegretario Claudio Vincenti la questione della giunta Marino sotto tutela o, se si preferisce, “sotto sorveglianza” del governo, è stata affrontata senza tanti giri di parole. In vista del Giubileo, ma non solo, sarà varato dal consiglio dei ministri di domani un provvedimento che affida al prefetto Franco Gabrielli il coordinamento sulla sicurezza e su alcune opere pubbliche. Le spese per gli appalti invece — che per ora ammontano a una cifra considerata dal sindaco e dalla sua giunta modesta ovvero di 30 milioni (in tutto la disponibilità è di 50, ma 20 sono per la manutenzione metrò) — saranno super visionate da Raffaele Cantone. Il capo dell’Authority anti corruzione entra quindi a pieno titolo nella partita capitolina. Inoltre Silvia Scozzese, renziana, assessore al Bilancio romano, che si è dimessa un mese fa, rientra in gioco. Sarà lei il commissario straordinario del governo sul debito del Campidoglio, ruolo che era di Massimo Varazzani. Risponderà direttamente al Ministero dell’Economia. Incarico che ovviamente va ben al di là del Giubileo. E poi c’è il 19 rebus del quarto controllore della giunta Marino. Filtra dal governo la possibilità di un alto funzionario statale che passi al setaccio gli atti amministrativi capitolini. Nella capitale martoriata dalle indagini di Mafia e dalle messinscene del clan dei Casamonica, le decisioni sono urgenti. Marino è negli Usa in vacanza, ma Causi spiega di informarlo punto per punto. Sul controllo anche degli atti, il vice sindaco sembra cadere dalle nuvole. Con De Vincenti — dice — si è parlato di cose in gran parte risapute. Di certo c’è che domani è il D-Day per Roma. Renzi e i ministri ascolteranno in consiglio la relazione di Angelino Alfano sulle infiltrazioni mafiose e appunto saranno varate le misure per il Giubileo. Causi nega polemiche e braccio di ferro: «Quando vengo a Palazzo Chigi non mi sento commissariato ma aiutato e tutelato». Infatti di tutor preferiscono parlare dalle parti del governo. Dal consiglire politico Matteo Orfini al funzionario-revisore delle decisioni amministrative, la giunta del sindaco Marino è “accompagnata”. Il Campidoglio sta tra l’altro battendo cassa, convinto che si possa raschiare il barile e convincere il ministro Padoan e la Ragioneria dello Stato a qualche sforamento utile per prepararsi al meglio al Giubileo. C’è da recuperare tra l’altro l’immagine della Capitale massacrata dalle connivenze e dalle complicità con Buzzi e company e dallo scaricabarile di responsabilità per i funerali-show dei Casamonica. La trattativa tra Campidoglio e governo è stata aggiornata a oggi. Sarà Renzi personalmente l’interlocutore. Fino all’ultimo il Campidoglio cercherà di ottenere il massimo dell’autonomia. Marino non vorrebbe tutele, però ci sarà di certo una stretta sulle procedure amministrative con modalità specifiche. Il funzionario ad hoc è una delle ipotesi che spetterà al cdm accogliere o meno. 20 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 26/08/2015, pag. 15 Il calderone dove le mafie non sparano ma collaborano La peculiarità della capitale: un centro di riciclaggio che unisce il Nord e il Sud Qui Camorra, ’ndrangheta, Cosa nostra e criminalità locale coabitano Guido Ruotolo Ancora non c’erano stati i primi arresti di Mafia capitale, nel dicembre scorso, che il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, insisteva nel porre l’attenzione sul tema della «complessità», come «caratteristica principale dei fenomeni criminali nella capitale». Non che a Roma la criminalità si fosse affacciata solo da poco tempo. Ma c’è sempre stata a New York, a Parigi, a Marsiglia, nelle grandi metropoli, perché mai Roma avrebbe dovuto salvarsi? Dunque, non è certo una novità la presenza delle gang che spacciano cocaina e pasticche nelle varie capitali del mondo moderno. E quindi anche a Roma. Bande etniche latinoamericane, nella Grande Mela. Romani, calabresi, napoletani e sinti nella città eterna. In un rapporto riservato, la Mobile di Roma scriveva alla vigilia della esplosione di Mafia capitale, nel dicembre scorso: «Roma è un vero e proprio centro di riciclaggio per il denaro sporco derivato dal traffico della droga e delle armi, dalle estorsioni, dall’usura e dalla prostituzione». Gli investigatori romani precisavano: «La criminalità organizzata a Roma è un fenomeno che non ha le stesse caratteristiche visibili che possiede in altre regioni come la Sicilia, la Campania, la Puglia e la Calabria, dove si registra o si registrava una vera e propria presenza militare delle mafie. Nella capitale e in provincia operano diverse consorterie mafiose in combutta con la criminalità locale». Uscire allo scoperto Ecco perché ha lasciato turbati la potenza mediatica e simbolica del funerale del Padrino, del capo dei Casamonica, ceppo abruzzese di una famiglia di sinti trapiantata a Roma agli inizi del secolo scorso, clan dedito all’usura e al traffico di droga. Clan in rapporti con la ’ndrangheta e presente in un’importante fetta del territorio. Stiamo parlando dei quartieri orientali e della fascia sud-est della capitale, dove coabita con il clan Senese, che nasce legato alla camorra: Genzano, Nettuno, Lanuvio, Cerveteri, e i quartieri della Romanina, Anagnina, Tuscolana, Porta Furba. Mille affiliati, più di cento arrestati, indagati, processati. E una difficoltà tecnico-giuridica a poter contestare al clan Casamonica il reato di associazione mafiosa. Sta nella rivendicazione della «visibilità», infatti, la novità di questa criminalità romana che affronta il «pubblico» uscendo dall’ombra. La carrozza con i cavalli, la colonna sonora, il manifesto-poster, l’elicottero che lancia petali di fiori. Sicuramente un’altra caratteristica tutta romana di questa criminalità moderna è la coabitazione delle diverse mafie in città. Cosa nostra, ’ndrangheta, camorra, mafia capitale, clan vari, piuttosto che farsi la guerra per la conquista di una fetta del territorio o del mercato criminale (droga, usura, riciclaggio, prostituzione) cooperano tra loro. Le mafie che coabitano «Mafie italiane e mafie straniere - si legge nel rapporto della questura di Roma - convivono senza conflitti tra loro. E fanno affari in comune, soprattutto nell’ambito degli stupefacenti e delle armi». Poi è arrivata Mafia capitale con la retata di dicembre scorso, e la sentenza della Cassazione che ha posto il sigillo notarile sul riconoscimento a livello della 21 giurisdizione dell’esistenza di un’organizzazione mafiosa autoctona, Mafia capitale appunto. E gli altri arresti di giugno. È con i Carminati e i Buzzi che si scompone il caleidoscopio criminale romano e tutto torna al suo posto, si rimette a fuoco. Le immagini ora appaiono nitide. In fin dei conti le indagini del procuratore Pignatone raccontano che la mafia moderna della capitale non ha bisogno di sparare. Usa la corruzione per raggiungere i suoi obiettivi. In perfetta sintonia con il contesto della città eterna. È una mafia che compra burocrati e funzionari comunali, assessori e consiglieri comunali. Conquista appalti e forniture, dà lavoro per assistere i migranti e fa affari nel settore dei rifiuti. Con il ramo dell’organizzazione che fa traffici criminali. Clan e zone d’influenza Il segreto di Roma, infatti, sta nella sua «complessità». Anche quando si tratta di narcotraffico o reati informatici, di delitti contro l’ambiente e contro i soggetti deboli, anche quando si tratta di terrorismo o criminalità politica. Roma, è convinto il procuratore Pignatone, è «la complessità criminale»: 45 clan distribuiti sul territorio, 383 beni sequestrati (immobili e aziende). Dal «Café de Paris» di via Veneto alla Casa del Jazz, dalle catene di pizzerie ad alberghi, appartamenti, alla «Boutique del gioiello» di via Trionfale (dei clan della ’ndrangheta di Africo), agli allevamenti di animali da macellare, alla ristorazione. A Ostia regnano due clan mafiosi, uno collegato a Cosa nostra, l’altro autoctono. Stiamo parlando dei clan Fasciani e Spada. Stabilimenti balneari, chioschi-bar, esercizi di ristorazione, concessionarie di auto. C’è poi la Roma Nord, la città bene dei Parioli, dell’Olimpico, della Balduina. Polvere bianca, affari, estorsione, usura. Qui aveva la sua base operativa, (un benzinaio di corso Francia) Mafia capitale. Che è stata una sponda di «opportunità» anche per la ’ndrangheta, nel settore degli appalti sui rifiuti. La mafia calabrese che ricicla in alberghi e bar, pizzerie e ristoranti è sempre quella che fa affari con la droga. Nei mesi scorsi sono stati arrestati trafficanti di San Luca, Aspromonte, per un traffico di 600 chili di cocaina. I boss vivevano a Centocelle, San Giovanni, Appio, Primavalle e Aurelio. A dimostrazione, che la mafia a Roma esiste. Eccome. 22 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 26/08/2015, pag. 8 Emergenza profughi allarme in Germania per gli attacchi neonazi Dopo gli scontri in Sassonia in fiamme un centro rifugiati vicino alla capitale La cancelliera sospende la convenzione di Dublino: sì all’ingresso dei siriani DAL NOSTRO INVIATO GIAMPAOLO CADALANU BERLINO. La fuga dei rifugiati dell’estate 2015 è ormai su scala epocale, mai raggiunta dai tempi della Seconda guerra mondiale, e sta mettendo in discussione la leggendaria capacità di accoglienza della Germania. A fronte di una mobilitazione generale, con centinaia di volontari che offrono contributi o lavoro, giornali che incitano a fare la propria parte e associazioni che coordinano, rispunta l’intolleranza. Sabato scorso a Heidenau, in Sassonia, alcune centinaia di neonazisti — ubriachi, dice la polizia — mobilitati dalla nostalgica Npd avevano cercato di impedire l’arrivo dei profughi nell’ostello locale, scontrandosi con gli agenti. Oggi a Heidenau arriva Angela Merkel, che la stampa aveva criticato per il suo lungo silenzio sul tema, raffigurandola come uno struzzo con la testa sotto la sabbia. Ma i segni di una recrudescenza dell’estrema destra violenta si moltiplicano e creano allarme. Ieri a Nauen, poco lontano da Berlino, è stata data alle fiamme un’ex palestra che doveva essere trasformata in struttura di accoglienza. Il timore che i gruppi neonazisti possano sfruttare il disagio per l’emergenza rifugiati e rialzare la testa è tale che ieri la polizia della capitale ha fatto sgomberare la Willy-Brandt-Haus, sede della Spd. Gli investigatori hanno preferito prendere sul serio una telefonata che annunciava un attentato. I socialdemocratici potrebbero essere nel mirino degli estremisti perché Sigmar Gabriel, vice cancelliere e leader del partito, ha usato parole molto dure per condannare l’agguato di Heidenau: «Non dobbiamo lasciare a questo branco nemmeno un millimetro di spazio. Per questa gente l’unica risposta possibile è la prigione». Ma è l’Europa tutta che reagisce all’emergenza profughi in ordine sparso. Altro che rispondere con una voce sola, come chiedono Angela Merkel e François Hollande. Da una parte, la cancelliera ha annunciato che la Germania sospende la Convenzione di Dublino, quanto meno per i fuggiaschi in arrivo dalla Siria: in altre parole, Berlino non rimanderà indietro i profughi nel primo Paese Ue dove sono entrati, come avrebbero imposto le regole internazionali. È un passo molto concreto, e va nella direzione richiesta anche da Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri tedesco, che sulla Sueddeutsche Zeitung di ieri invitava a «non lasciar sole Roma e Atene». Nel frattempo però è l’Est europeo a segnalare le situazioni più esplosive. In queste ore il punto più rovente sembra essere il confine fra Serbia e Ungheria: almeno due-tremila persone al giorno stanno attraversando la frontiera che divide la repubblica ex Jugoslava dalla Ue, anche tagliando la barriera di filo spinato che il governo di Viktor Orban ha fatto sistemare, in attesa di finire la costruzione di un muro alto quattro metri. Nei prossimi giorni l’ondata di persone in arrivo da Grecia e Macedonia potrebbe superare le diecimila persone, avverte l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. In Serbia, dice il governo di Belgrado, sono passati almeno centomila profughi, diretti verso il nord Europa. Insomma, se davanti all’emergenza l’Europa mediterranea arranca, quella dell’Est reagisce scompostamente ed è persino tentata di adoperare la forza. Ma davanti alla disperazione servirà a ben poco 23 anche l’inasprimento delle pene per chi entra, una misura annunciata da Budapest che però difficilmente potrà essere messa in pratica. Nemmeno i gas lacrimogeni e le granate stordenti adoperati dal governo macedone possono arrestare la fuga di chi a casa propria vede arrivare bombe a frammentazione, se non persino i gas nervini. Del 26/08/2015, pag. 8 Roma contro Berlino “Capiscono la crisi ora che tocca a loro” IL RETROSCENA DAL NOSTRO INVIATO FRANCESCO BEI L’IRRITAZIONE di Renzi verso Merkel e Hollande traspare palese. Non ci sta il premier a farsi mettere dietro la cattedra per non aver attuato l’accordo sui migranti deciso in sede Ue. E, pur senza nominarli direttamente, è chiaro a chi si riferisce quando, dal palco del teatro Rossini di Pesaro, alza la voce contro coloro che «in Europa si accorgono del problema immigrazione solo ora che li tocca direttamente, mentre sono mesi che noi glielo ripetiamo». È una puntura polemica, come quella contro i leghisti e i forzisti italiani che vorrebbero ributtare a mare i disperati che cercano fortuna sui barconi della morte. «Sull’immigrazione non cederemo mai al messaggio che vuol far diventare l’Italia la terra della paura, possiamo anche perdere tre voti, ma non cederemo al provincialismo della paura. Non è buonismo, ma umanità: secoli di umanità ai quali non rinuncio per tre voti. Prima salviamo le vite». Dietro le quinte tuttavia, oltre all’irritazione, i toni nei confronti della Merkel si fanno meno netti. C’è anche comprensione per un’uscita, quella contro i paesi di primo arrivo, «rivolta al pubblico tedesco in un momento in cui i neonazisti rialzano la testa e sfilano insieme alla gente comune». Insomma, la Cancelleria avrebbe fatto la voce grossa per far vedere ai tedeschi che il suo governo non se ne sta con le mani in mano. Ma in realtà la risposta di Berlino, fanno notare a palazzo Chigi, è più in linea con Roma di quanto non appaia. E lo dimostra la decisione, che a Renzi era stata anticipata a quattr’occhi durante la cena a Expo la scorsa settimana, di sospendere unilateralmente le norme di Dublino per consentire l’arrivo in Germania di 20mila siriani. O la spinta verso un sistema di asilo comune europeo che superi definitivamente la gabbia dell’accordi di Dublino. Poi è chiaro che ognuno tira la coperta dell’accordo europeo dalla propria parte. La Germania vorrebbe subito tutti gli hotspot operativi, mentre l’Italia e la Grecia vorrebbero aumentare la quota di 32 mila richiedenti asilo da distribuire tra i 28 Paesi dell’Unione europea. «Ognuno deve fare la propria parte e noi la stiamo facendo », sottolinea il sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi. Dal Viminale fanno sapere che a Pozzallo, Lampedusa e Trapani sono stati ultimati i primi tre hotspot italiani, i centri dove lavoreranno insieme gli agenti della polizia di frontiera con i tecnici e gli esperti di Frontex (l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne), Europol e Eso (l’Agenzia europea per il diritto d’asilo). Altri due sono in costruzione ad Augusta e Taranto e a breve saranno operativi. Una collaborazione che ha la finalità, è scritto nel documento approvato dall’ultimo Consiglio europeo, di «identificare rapidamente, registrare e fotosegnalare i migranti in arrivo». Anche la Grecia è a buon punto e al Pireo è quasi pronto il primo hotspot greco. 24 In questa battaglia il governo italiano può contare anche sul sostegno politico di JeanClaude Juncker. Obiettivo comune è quello di rendere permanente un sistema ora appena abbozzato in fase d’emergenza. Come ha scritto su Repubblica il presidente della Commissione Ue, si pensa a «un meccanismo stabile, che in situazioni di emergenza possa entrare in funzione in automatico ogni volta che uno stato membro ne abbia necessità. L’esistenza di confini esterni comuni ci impone di non abbandonare al loro destino i paesi membri che si trovano in prima linea». Su questa linea Renzi si confronterà presto con Angela Merkel. Nuovamente si vedranno a Vienna venerdì, dove è in agenda il summit sui Balcani occidentali. Che sarà certamente dominato dal tema immigrazione. Il tempo stringe, anche per cambiare le regole europee. Proprio gli austriaci, ricordano a Palazzo Chigi, hanno minacciato di portare la Commissione europea di fronte alla Corte di giustizia Ue se non sarà rivisto il regolamento di Dublino. Secondo l’Austria la normativa è ingiusta perché le rigidità imposte fanno sì che il 90 per cento dei migranti si concentri in soli 10 Stati. E l’Italia è tra i primi. Del 26/08/2015, pag. 11 Il viaggio. Senza cibo, inseguiti dagli agenti ai confini e taglieggiati: l’odissea da Belgrado a Budapest di afgani e siriani. Inseguendo il sogno della Germania Sulla rotta dei Balcani con i profughi in fuga “Da noi si muore un muro non ci ferma” FRANCESCA GHIRARDELLI BELGRADO GLI OCCHI puntati sulla mappa, le teste chinate a cercare l’indirizzo scarabocchiato su un biglietto, quello di una banca con lo sportello Money-Gram: «Aspettiamo che mio zio ci invii il denaro, non appena lo avremo, andremo via di qui». Mustafa e suo cugino Bilal, seduti sotto un albero nel parco-accampamento all’uscita della stazione dei bus, sono i capofamiglia di un gruppo di siriani di Aleppo e Damasco, donne, bambini e una ragazzina dal velo così bianco da non credere abbia attraversato le stesse polverose traversie dei suoi famigliari. La distesa di erba rinsecchita dai 37 gradi dell’agosto di Belgrado, a un passo dal centro, ospita centinaia di persone, siriani e afgani di passaggio nel lungo viaggio che da Grecia e Macedonia (con la variante bulgara) punta a nord. Ogni due o tre giorni i visi, le tende, i panni stesi cambiano, non ci si ferma più di 72 ore in città. Una cisterna d’acqua è l’unico servizio a disposizione, così gli uomini si lavano all’aperto, le donne arrostiscono nell’afa. Nell’andirivieni confuso del parco, Mustafa si è sentito chiamare per nome: «Era un amico di Aleppo, non lo vedevo da anni. L’ho trovato diverso, abbiamo lasciato la Siria tanto tempo fa». I venditori di Sim Card vanno e vengono indaffarati, i rifugiati tengono il cellulare a portata di mano, può arrivare la chiamata del trafficante che per la somma convenuta li condurrà al confine ungherese dove il muro è in costruzione, anche se nessuno qui sembra saperne nulla. Seduti sopra un cartone nel parco, Navid di 16 anni e Heshmat di 20, entrambi afgani, ci raccontano con la baldanza dell’età (e dello scampato pericolo) il momento più difficile del viaggio: «Sul gommone verso l’isola di Mitilene l’acqua entrava e dovevamo buttarla fuori noi. Pensavamo che saremmo morti, davvero non 25 sappiamo perché siamo ancora qui». Chi attende i soldi dai famigliari, chi si indebita coi trafficanti, chi tenta la sorte sui mezzi pubblici, chi su minivan privati: in una stradina dietro la stazione, venti afgani sono immobili sul marciapiede. Arriva un camioncino, portellone scorrevole e finestrini ciechi. In un minuto sono tutti dentro e già in viaggio. «I soldi che girano sono moltissimi e nel traffico sono coinvolti cittadini serbi e ungheresi, anche senza un passato criminale» spiega Rados Djurovic dell’Asylum Protection Center, ong locale. Ci dà informazioni anche sullo status dei rifugiati: «Una volta in Serbia, vengono concessi tre giorni di tempo per raggiungere uno dei centri per richiedenti asilo sul territorio nazionale ». In pochi però si dirigono ai campi, tutti puntano al confine. Sono le 22 e al binario 1L della stazione si spalancano gli sportelli del treno per Subotica, ultima città prima dell’Ungheria: si riversano all’interno ragazzi afgani allegri, quasi fossero in gita. A bordo siamo più di 120. Questo è lo stesso treno su cui saliranno, a distanza di due giorni, anche Mustafa e Bilal, mentre Navid e Heshmat hanno scelto il bus. I ferrovieri ci spingono nei vagoni roventi della seconda classe. Le porte che la dividono dalla prima (dove viaggiano gli occidentali) vengono bloccate. Sul convoglio un uomo fa un segno col palmo della mano, per indicare la bassa statura dei bambini: “In Siria i piccoli muoiono così”. Poi fa un gesto come se buttasse via un sacco. Il convoglio si muove, le mani si alzano in preghiera, che Allah ce la mandi buona. Mezz’ora dopo quasi tutti dormono, stesi sui sedili, oppure sotto, sul pavimento, esausti per troppe notti insonni. Un ragazzino, però, è agitato, conta per me le frontiere attraversate: «Sono sei e quella bulgara è stata la peggiore, la polizia sguinzagliava i cani». Alle 2 di notte arriviamo a Subotica, scendiamo in fila scortati dai poliziotti, il silenzio è così surreale per una stazione affollata che sembra di vivere in un sogno, alla luce dei neon. Fuori, tutti si dileguano nel buio, ognuno a cercare il trafficante che lo porterà di là. Due notti dopo, la stessa scena: tra gli ultimi ad uscire Bilal, Mustafa e la ragazzina col foulard bianco. Ci stringiamo le mani mentre mi confidano a voce bassa: «In stazione la polizia ha voluto 15 euro a testa per lasciarci andare ». Ora il confine è a otto ore di cammino. Navid e Heshmat si affidano a un trafficante sprovveduto, perdono il segnale GPS nel mezzo della boscaglia. Arrivati di là finiscono braccati dalla polizia ungherese. «Ci hanno fatto dormire all’aperto ma ha piovuto. I siriani hanno protestato e nella confusione la polizia ha usato i lacrimogeni». Anche dal centro di identificazione ungherese si esce con un lasciapassare verso i campi sparsi nel paese: anche qui pochi scelgono di andarci. Alla stazione internazionale di Budapest, rifugio per centinaia di persone, salutiamo per l’ultima volta Navid e Heshmat. Sul display del binario 6 c’è scritto: “Monaco, h 21.00”. Heshmat sorride salendo sul vagone: «Per non dare nell’occhio ho cambiato vestiti: di che nazionalità ti sembro ora?». Del 26/08/2015, pag. 8 Prigione per i lavoratori sans papier Lavorare senza permesso di soggiorno in Gran Bretagna presto potrà voler dire trovarsi, solo per questo, dietro le sbarre fino a sei mesi. La norma, contenuta nella nuova legge sull’immigrazione che il governo del conservatore David Cameron conta di veder passare a settembre a Westminster, prevede anche dure penalizzazioni per i datori di lavoro, che se scoperti a impiegare manodopera non in regola potranno vedersi revocare le licenze. Mentre il lavoratore potrà anche vedersi sequestrare gli stipendi. Il ministro dell’Immigrazione James Brokenshire ha prospettato severi controlli per fast-food, negozi di alcolici, ristoranti takeaway, servizi di taxi privati e ogni altro esercizio commerciale dove 26 più forte è stata finora l’incidenza di mano d’opera di recente immigrazione. Un giro di vite analogo è annunciato in Ungheria. Non contento del muro che sta costruendo al confine con la Serbia, il governo ha annunciato un inasprimento delle pene per chi supera la frontiera illegalmente. Del 26/08/2015, pag. 9 VENTIMIGLIA No Borders è sotto attacco Geraldina Colotti Il presidio No Borders è sotto attacco. Alla frontiera tra Mentone e Ventimiglia, dove i migranti hanno deciso di resistere alle deportazioni allestendo un campeggio permanente, anche gli attivisti che li sostengono stanno pagando un prezzo. Ieri, un francese conosciuto per il suo impegno internazionalista, è stato processato per direttissima. Il giorno prima, era stato fermato dopo un'azione di resistenza al confine francese. «Il 23 agosto – raccontano gli attivisti in un comunicato - 55 migranti sono stati detenuti per più di 6 ore nei container della frontiera alta francese, a "causa" della chiusura dell’ufficio della polizia italiana addetto alla convalida dei respingimenti e delle deportazioni dalla Francia all'Italia. Noi, come sempre, eravamo lì, a Ponte San Luigi, a cercare di dar loro aiuto e sostegno e il risultato di ciò è che uno degli attivisti francesi è stato trattenuto in stato di fermo per tutta la notte e ora affronterà un processo per direttissima a Nizza, con l'accusa di oltraggio a pubblico ufficiale». Ogni giorno, gli attivisti che da giugno si alternano al presidio permanente di San Ludovico, compiono azioni di monitoraggio della frontiera alta. «Alle 19 del 23 - racconta Lorenzo al manifesto – abbiamo constatato che 13 persone erano state trattenute nei container. Alcune di loro erano in stato di fermo dalle 15. Mezz'ora dopo, i migranti erano diventati 50. Fra loro, 5 minorenni e alcune donne, costrette lì dentro in condizioni disumane. Per tutto quel tempo, avevano ricevuto acqua e cibo solo una volta. Qualcuno si è sentito male ma, nonostante la nostra pressione, la polizia francese non ha contattato nessun medico, né sono stati ricoverati all'ospedale». Alle 23,50, gli attivisti sono stati respinti in territorio italiano. «Lì – aggiunge Ferdinando – abbiamo trovato ad attenderci la polizia italiana, che ci ha fermati e identificati». Intanto, dal lato francese «altri attivisti subivano le cariche violente della polizia, scatenata da un semplice scambio di sigarette tra No Borders e migranti detenuti». Una ragazza «è stata colpita alle costole con un manganello, e l'attivista francese è stato trattenuto». Due settimane fa, per un'analoga azione di interposizione pacifica, sei ragazzi hanno avuto il foglio di via. Gli attivisti, alcuni dei quali erano presenti ieri sera a una cena-concerto del centro sociale imperiese La Talpa e l'Orologio, denunciano il cinico ping pong subito dai migranti: respinti da un lato all'altro del confine perché nessuno vuole certificarne la presenza sul proprio territorio e occuparsene. Un contesto che favorisce l'arbitrio e i traffici. Il presidio permanente, allestito sotto il ponte della ferrovia, appare quindi come un'isola di civiltà: un esempio di autogestione che – da un punto all'altro dell'Europa - sta già facendo scuola, amplificato dai racconti dei migranti che partono e provano a ricrearne lo schema da un'altra parte. Intanto, l'Associazione Popoli in Arte, ha messo a disposizione il suo conto corrente per la solidarietà, che presto sarà diffuso nel profilo Fb dei No Borders. Circola anche un fumetto intitolato La Bolla, con testi e disegni di Emanuele Giacopetti, che presto sarà tradotto in diverse lingue. 27 CULTURA Del 26/08/2015, pag. 30 Il buon museo Baratti e Populonia, Bondeno, Sepino Sono solo alcuni dei nomi che non avranno mai la fama degli Uffizi o di Brera. Eppure in queste realtà sparse nella Penisola (soprattutto al Sud) sopravvive un modo sorprendente di gestire il patrimonio artistico Ecco i motivi di un modello vincente TOMASO MONTANARI TUTTI parlano dei venti supermusei, e delle nomine (per me assai discutibili) dei superdirettori appena fatte. D’accordo: gli Uffizi, Brera, la Galleria Borghese o l’Archeologico di Napoli sono la punta di diamante del nostro patrimonio artistico: ma è bene ricordare che ne conservano una percentuale minima. Sono gli organi pregiati di un corpo le cui cellule sono le infinite, piccole istituzioni culturali che innervano la Penisola. E guardare alle microstorie del patrimonio significa trovare, lontano dai riflettori, storie di successo: buone pratiche del tutto trascurate dalla macchina politico-mediatica, ma non dai visitatori. Un esempio? Il Parco Archeologico di Baratti e Populonia comprende una delle necropoli più belle del mondo: i tumuli dei signori etruschi di duemilacinquecento anni fa spuntano come grandi funghi verdi sul prato che degrada fino al mare, da cui sorgono le sagome delle isole dell’Arcipelago toscano. Chiude la scena l’acropoli di Populonia, la grande città del vino e del metallo: il ferro che, estratto all’Elba, veniva qua lavorato su scala industriale. Tutto questo non sarebbe accessibile, materialmente ed intellettualmente, senza una delle strutture museali più avanzate e consapevoli dell’Italia di oggi. Trentotto dipendenti — archeologi, restauratori, archivisti, geologi, naturalisti e guide — fanno girare una macchina che comprende anche un Centro di Archeologia Sperimentale capace di fare innamorare adulti e bambini. Tutto è curato nei minimi dettagli: fino agli oggetti che si possono comprare nella libreria, realizzati da artigiani locali in materiali ecocompatibili, fino alla pasta trafilata al bronzo, ricavata da vecchi semi autoctoni di grano recuperati e studiati. Un parco archeologico sostenibile, con una rigorosa certificazione ambientale: perché l’educazione degli italiani del futuro sia a tutto tondo. E il modello di governance non è meno interessante. La Società Parchi di Val di Cornia è stata costituita nel 1993 per iniziativa dei comuni di Piombino, Campiglia Marittima, San Vincenzo, Suvereto e Sassetta, e di alcuni soci privati. Questi ultimi non puntavano a un profitto diretto, ma alla partecipazione ad un processo di valorizzazione del territorio che avrebbe dato più valore anche alle loro imprese. E, attraverso la gestione dei parcheggi e delle aree litoranee presenti nel suo territorio, la Società ha raggiunto nel 2007 il pareggio di bilancio, con 90.000 presenze all’anno. Più a nord, nel comune ferrarese di Bondeno, è stato il terremoto a favorire un’esperienza unica. A Pilastri è venuto alla luce un villaggio dell’età del Bronzo (una cosiddetta terramara), e si è iniziato uno scavo originalissimo: perché è aperto a tutti, raccontato passo passo sui social e su YouTube, visitato assiduamente da scolaresche che partecipano ai laboratori. Un’operazione così popolare che Comune e Provincia hanno deciso di investire: da lì e da un crowdfunding derivano i fondi per pagare la cooperativa di giovani archeologi e paleozoologi che scavano e organizzano i laboratori. Questa comunità scientifica dichiara di avere «un importante obiettivo sociale, oltre che scientifico, quello di condividere il più possibile l’esperienza di scavo col pubblico, in modo da far sì che il passato rimesso in 28 luce dall’archeologia sia percepito come una realtà attuale e condivisa; come parte integrante di una identità sempre di più collettiva e, al tempo stesso, come nuova potenziale risorsa e prospettiva di sviluppo ». Una filosofia “civile” che, a scavo terminato, potrà ispirare il Museo Archeologico Ferraresi di Stellata di Bondeno, che accoglie già i reperti delle campagne precedenti. In Molise, invece, è stato un accordo tra ministero per i Beni culturali (che mette a disposizione gratuitamente istituti e luoghi della cultura e spazi per le attività di accoglienza), Regione, Università e Cnr a far sorgere un’associazione di giovani laureati in archeologia e storia dell’arte capaci di “valorizzare”’ (ma nel senso autentico di “far conoscere”)luoghi come lo spettacolare Museo del Paleolitico di Isernia (costruito su uno dei siti preistorici più importanti del mondo, dove è possibile conoscere meglio che in qualunque altro luogo d’Italia la vita dell’uomo circa settecentomila anni fa) o la struggente area archeologica di Sepino. Me.Mo Cantieri Culturali non dipende da contributi pubblici, ma si è messa sul mercato partecipando a concorsi regionali, nazionali o europei per il finanziamento dei propri progetti: una sorta di impresa popolare della conoscenza, che crea lavoro educando al patrimonio in modo innovativo. Se, infine, a Catania è finalmente accessibile l’enorme cittadella barocca del Monastero di San Nicola, resa immortale nelle pagine dei Viceré di Federico De Roberto, è merito di Officine Culturali, una cooperativa della conoscenza fondata nel 2009 da alcuni laureati del Dipartimento di scienze umanistiche, che ha sede proprio lì. Questi giovani ricercatori ancora in formazione hanno investito le loro conoscenze, il loro tempo e il loro denaro per raggiungere due obiettivi: far conoscere il Monastero alla comunità (locale e universale) nel modo più accessibile e partecipato (per esempio attraverso un’editoria di qualità e un itinerario impeccabile e avvincente), e creare nuovi posti di lavoro e nuove professionalità. Anche grazie alla stretta collaborazione con il Dipartimento, la Soprintendenza e il Parco Archeologico di Catania, ci sono riusciti: 40mila persone hanno già potuto conoscere un luogo chiave per la storia della città, e lo stesso monumento viene progressivamente recuperato in parti finora chiuse, o degradate. Se l’amministrazione catanese sarà lungimirante, anche il Castello Ursino e il suo museo potrebbero presto rinascere grazie all’opera di Officine Culturali, ampliando così il raggio di questa piccola economia virtuosa che crea lavoro creando conoscenza. Si potrebbero citare molti altri casi, radicati soprattutto al Mezzogiorno (in parte analizzati in Sud Innovation. Patrimonio culturale, innovazione sociale, nuova cittadinanza, Franco Angeli editore, a cura di Stefano Consiglio e Agostino Riitano) e molto lontani dai supermusei: perché qua non c’è ombra del monopolio dei concessionari for profit che tengono in mano gli Uffizi o il Colosseo; perché siamo lontanissimi dalle ingerenze del potere politico centrale; perché l’obiettivo non è la spettacolarizzazione, ma l’educazione; il metodo non è la mercificazione, ma la ricerca; il destinatario non è un cliente, ma il cittadino. Tutte cose belle, direte, ma troppo piccole per avere a che fare con i grandi musei. Sbagliato: nel Parco Archeologico di Baratti lavorano nove archeologi, cioè ben tre in più dei sei che cercano di tenere in piedi l’immenso Museo Archeologico di Napoli. Se vogliamo che i nostri musei non siano depositi di cose vecchie, ma laboratori di futuro, la loro importanza si deve misurare sulla vitalità della comunità che ci lavora. Baratti, Bondeno, Isernia e Catania funzionano perché sono pieni di giovani ricercatori entusiasti: i venti supermusei di cui tutti parlano sono invece ormai scatole vuote, presidiate da pochi anziani funzionari umiliati da decenni di cattiva politica. È questo che dobbiamo cambiare, se vogliamo una rivoluzione vera. 29 Del 26/08/2015, pag. 37 Tra saga familiare e grande storia,il nuovo libro di Maurizio Maggiani è una grande orazione civile su un’Italia che, come disse Garibaldi, non è quella per cui avevamo lottato Romanzo di una Nazione dal destino incompiuto ENRICO DEAGLIO Se fosse un quadro, l’ultimo romanzo di Maurizio Maggiani sarebbe “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo: lento, potente, epico, nel genere “la storia siamo indubbiamente noi”, oppure, scandito e andywahrolizzato come allo stadio “i campioni d’Italia siamo noi”. E sarebbe un audio-quadro, narrato da quel fantolino, un Omero neonato, che la donna in prima fila ha portato allo sciopero, un po’ perché a casa non c’è nessuno, un po’ perché così impara come va il mondo. Se fosse un manifesto politico, a dispetto del titolo, Il Romanzo della Nazione , non sarebbe il partito vagheggiato da Matteo Renzi, troppo unanime, semplice, dolce e plasticoso; ma piuttosto un’assemblea popolare dove i migliori discorsi sono i lunghissimi silenzi. E per finire, se fosse un intervento nella sempre ribollente querelle letteraria italiana, starebbe dalla parte opposta al “Tutti” di Francesco Piccolo; una ribellione all’annullamento mediatico nella mediocrità della fine della storia; se per Piccolo il declino italiano è scandito dal “chesaràmai?”, per Maggiani la discussione sul futuro della Nazione riguarda alcuni problemi irrisolti tra anarchici e mazziniani. Costruire nazioni o costruire mondi? Inalberare come slogan “Dio e popolo” o mettere un accento a quella congiunzione? Il Romanzo della Nazione , già dalla copertina con il giovane marito che bacia la giovane moglie con cui divide la sella della bicicletta, è un omaggio filiale a una famiglia e a un popolo di altri tempi; un onore al padre e alla madre, ai loro pudori e ai loro sogni. Eroi eponimi della mitica costruzione dell’Italia, i coniugi Maggiani hanno conosciuto il fascismo, la guerra, hanno contribuito, senza vantarsene, alla lotta partigiana. E se ne vanno, silenziosi come erano vissuti, accuditi da infermiere premurose (una è detta “la Gigantessa”), nei locali di una sanità pubblica qualche volta ciabattante, ma pur sempre dignitosa e umana. Il loro figlio, che era nato in casa col forcipe (da cui le orecchie a sventola e le tempie schiacciate) ripercorre la loro, e la sua, memoria. Scrittore solitario e affermato, si immagina come un narratore che sta raccogliendo notizie, frammenti, archivi, frammenti di memorie per la compilazione di una storia italiana, colpito dal disordine attuale, ma memore della sentenza che Giuseppe Garibaldi (in poncho) pronunciò dopo aver visto il vestibolo del parlamento di Torino, con i suoi attaccapanni ricolmi di tube, cilindri, bombette e mantelli orlati di astrakan: «Non era questa l’Italia ch’io sognava ». E la storia si dipana — Maggiani qui dà il suo meglio di storyteller, affabulatore, distillatore di particolari e colpi d’ala — in momenti di storia pop che uniscono la fucilazione pubblica (con pubblico di famiglie e bambini) del bandito Sante Olivieri, l’immediato vociferare in famiglia sulle colpe della perfida Nilde Iotti nella morte di Togliatti («è stata lei, con la stricnina »), il tono di voce degli annunciatori della radio e le lacrime del padre per la morte di John Kennedy, il buon ricordo di Sandro Pertini. Come nelle precedenti opere, i luoghi dove questi italiani agiscono sono le colline della Lunigiana e i grandi porti di La Spezia e Genova (a proposito di quest’ultima Maggiani ingaggia da sempre un duello a chi è più bravo con Giorgio Caproni e Paolo Conte) e il nord Africa delle colonie, di El Alamein e di Alessandria d’Egitto. 30 Ma questa volta, Maggiani rende corto il tempo. Ed ecco dunque che il conte di Cavour, Mazzini, Garibaldi, Pisacane, quel traditore golpista di Napoleone III, l’infame Bava Beccaris, il generoso Menotti Serrati appaiono contemporanei e si siedono, a discorrere e litigare, accanto a protagonisti proletari dai volti sconosciuti e dai segreti ben custoditi. Se i programmi dei vip sono noti, le utopie e i sogni del popolo sono immensamente più grandi e più poetici. Tutto il romanzo improvvisamente si anima, proprio come se il Quarto Stato sulla tela si mettesse a correre, quando si arriva all’epopea della costruzione dell’Arsenale militare di La Spezia — la metafora della Nazione, dell’essere Nazione — il sogno realizzato dell’industria dominatrice dei mari, che culmina con il varo, il 10 luglio 1878, della corazzata Dandolo, la più bella nave di tutti i tempi, quella che gli inglesi ammirano e temono, quella che ebbe la fortuna di non essere mai impegnata in battaglia e che concluse la sua carriera portando soccorso ai terremotati di Messina nel 1908. Accanto a lei, capolavoro italiano dell’acciaio, i fonditori, le ricamatrici delle bandiere, i mozzi, gli ufficiali, i marinai e i manovali, e sbirri, ergastolani, agitatori e demagoghi. Tutti fieri di assomigliare a personaggi di Bertolt Brecht, tutti non-eroi, ma contenti di essere ricordati nella Spoon River del nipote dell’elettricista Maggiani. A vent’anni da Il coraggio del Pettirosso , il libro che gli diede la fama, a dieci anni da Il Viaggiatore Notturno che gli diede lo Strega, Maurizio Maggiani si conferma unico tra gli scrittori italiani, soprattutto per generosità narrativa. Segnala, con interventi puntuali sui giornali, piccoli segni del declino e dell’immiserimento; a questi, contrappone, nei libri, il ricordo di una lunga età dell’oro che affonda le sue radici in uomini ed idee dell’Ottocento. Tutta la sua opera costituisce una saga sulla “nazione che avremmo potuto essere e che non siamo”, sul brutto destino dei destini comuni, sui sogni che fanno i lavoratori quando lavorano, sui loro gesti, sui loro silenzi, sulle malattie che li frenano e che rendono impossibili gli amori. Collante di quest’unico romanzo, diventa così un particolare paesaggio italiano fatto di cibi e cucine povere, corridoi di ospedale, gesti immersi in un ambiente agricolo, sigarette senza filtro, la mineralità dell’Italia centrale, il continuo stupore del contadino per l’idea della grande città, un lessico famigliare volutamente povero, quasi pleistocenico. Il romanzo della nazione è fatto di dolori e di stanchezze; ma punteggiato di eroismi taciuti, come quello del signor Trippi, scafista spezzino di ebrei verso Haifa e di ostinate ribellioni, come quella del padre che vieta alla figlia di imparare a memoria La cavallina storna , perché stupida e falsa; o di quel professore di liceo romagnolo che ha dedicato la sua vita a propagandare l’esempio di Mao Tse-tung. Pensate, quell’uomo, di famiglia ricca, di velleità letterarie, si preparò alla Lunga Marcia mettendo nello zaino anche tre libri italiani tradotti in mandarino: la Divina Commedia , Il Principe e — qui vi stupirete, ma Maggiani assicura che è vero — un capitolo (intitolato La guerra per bande ) di La Rivoluzione italiana di Carlo Pisacane, un tipo che non vinse mai una sola battaglia, esempio piuttosto di utopie destinate a essere schiacciate. Però, con quei libri — Pisacane compreso — Mao costruì la nazione che è oggi la più potente del mondo. Dunque, davvero, le vie del romanzo sono infinite. E quel che conta è continuare a marciare. 31 ECONOMIA E LAVORO Del 26/08/2015, pag. 16 Basso reddito, pessimisti e arrabbiati: il primo studio sui giovani disoccupati Chiara Binelli, economista dell’Università di Southampton, ha sondato 1,238 laureati tra il 2011 e il 2013, tutti senza lavoro: ne viene fuori un ritratto inedito Ogni mese l’Istat ci dice quanti sono i giovani disoccupati, ogni mese i giornali titolano sul nuovo record, ma nessuno in Italia studia quali sono le conseguenze sulle scelte di vita di quei ragazzi. Ci ha pensato, dall’Università di Southampton, Chiara Binelli, 36 anni, economista, “un cervello in esilio”, come si definisce. Per mesi ha lavorato di notte, per raccogliere quelle storie che nessuno aveva chiesto ai giovani disoccupati di raccontare, poi ha presentato i primi dati al Festival dell’Economia di Trento e ora si è messa in aspettativa dalla sua università senza ricevere stipendio, il marito ha fatto lo stesso da un ateneo del Kent, e si sono trasferiti in Italia per la fase due dello studio: cosa cambia con il Jobs Act. È tornata in Italia, sulle colline vicine a Piacenza e spera di trovare quelle poche decine di migliaia di euro necessari a completare lo studio. “Mia mamma dice che mi sono identificata troppo nel campione che analizzo, quello dei giovani senza lavoro”, commenta. A quel campione si è affezionata parecchio. Ha deciso di studiare i laureati, cioè la fascia più qualificata dei giovani lavoratori, sapendo che le tendenze che si registrano in quel segmento saranno analoghe e amplificate tra chi ha studiato meno e quindi ha più difficoltà a trovare un impiego. Il dato usato dall’Istat è quello sui ragazzi tra i 15 e i 24 anni (disoccupati al 44 per cento, contro una media Ue del 26). Ma è dai 24 anni in poi che, si suppone, tutti dovrebbero avere un lavoro. Invece in Italia il tasso di disoccupazione tra i 25 e i 34 anni è il 19 per cento (il 13 nell’Ue) e tra i laureati appena più basso, il 16 per cento. In valore assoluto vuol dire che in Italia ci sono circa un milione di giovani adulti disoccupati, di questi ben 252 mila sono laureati. Basandosi sugli elenchi del consorzio interuniversitario Almalaurea, la professoressa Binelli ha spedito un questionario di 71 domande per raccogliere le classiche informazioni su età, famiglia, status sociale, ricerca del lavoro, ma anche per sondare le aspettative: che vita si aspettano questi giovani disoccupati? Quali attese hanno sul proprio stipendio eventuale futuro? Di solito a questo genere di questionari via email risponde il 10 per cento dei contattati. Alla professoressa Binelli invece l’85 per cento. Una percentuale che lei non aveva mai riscontrato. “Ho costruito il mio set di dati, perché non esisteva niente di simile”, spiega: 1.238 giovani senza lavoro, laureati tra 2011 e 2013 in una delle 64 università che aderiscono ad Almalaurea. L’indagine si è svolta tra gennaio e febbraio 2015, cioè un attimo prima dell’entrata in vigore del Jobs Act e del contratto a tutele crescenti al posto di quello tradizionale a tempo indeterminato con l’articolo 18 sul reintegro in caso di licenziamento ingiusto. Sono gli italiani medi della loro generazione, quelli intervistati: il 79 per cento vive con i genitori o in una casa con l’affitto pagato da mamma e papà; il 66 per cento è in una relazione stabile e il 70 per cento pensa ai figli; il 68 per cento ha entrambi i genitori non laureati (“anche l’operaio vuole il figlio dottore”, come in Contessa). Il 47 per cento di loro, quindi quasi la metà, non ha mai lavorato oppure lo ha fatto per meno di un anno. Il 77 per 32 cento cerca attivamente lavoro, il 60 per cento viene classificato come “bassa avversione al rischio”. La professoressa Binelli ha chiesto conto anche dell’orientamento politico: l’82 per cento dei laureati disoccupati ha votato alle elezioni 2013, il 30 per cento per il Movimento Cinque Stelle. Che cosa c’è nella testa di questi disoccupati di alta gamma, che dopo almeno 18 anni di studi non riescono a trovare un posto? Il primo pensiero è come sarà il loro stipendio, quando ne avranno uno. Sono pessimisti ma, scopre la professoressa Binelli, hanno ragione a esserlo: si aspettano di trovare lavoro nei prossimi 12 mesi con una probabilità del 44 per cento, le statistiche dimostrano che la percentuale reale media è il 50, che scende al 39 nel Sud. Solo il 17 per cento si aspetta un lavoro a tempo determinato, lo avranno in 21 su 100. Non si attendono un reddito elevato, stimano 1.099 euro lordi mensili (ma solo il 60 per cento è disposto a lavorare per quella cifra). Nei fatti – dati Almalaurea 2013 – ne ottengono un po’ meno, 1.034. Come incide questo poco allettante futuro sulle scelte di vita dei laureati? Chiara Binelli ha scoperto, con un modello econometrico, che le cicatrici sono profonde. E misurabili: “Un aumento della probabilità di trovare un lavoro con tutele adeguate dal 10 al 50 per cento fa aumentare l’intenzione di avere figli in futuro dal 68 al 71 per cento”. Le conseguenze sono anche sulla società nel suo complesso: se la probabilità di trovare un buon posto (con tutele adeguate) sale dal 10 al 50 per cento fa aumentare la probabilità di essere soddisfatti del “processo politico democratico in Italia” dal 6 al 10 per cento. Tradotto: più resti disoccupato, più diventi pessimista. E più sei pessimista, meno ti interessa la politica, perché sembra non poter cambiare le cose, e meno progetti ambiziosi per il futuro riesci a fare, come costruire una famiglia. Una delle novità dello studio della Binelli è considerare non solo il posto di lavoro, ma anche la sua qualità percepita. Per questo ha fermato le ricerche prima del Jobs Act, per vedere come cambiano le aspettative con la riforma. Un primo indizio però lo ha già avuto: “Il Jobs Act viene percepito come un contratto a tempo determinato”, spiega. Ma servono i fondi per continuare la ricerca. Che, per ora, nessuno ha voluto stanziare. Perché a studiare davvero l’impatto delle politiche pubbliche, cosa che in Italia si fa pochissimo, non sai mai cosa puoi scoprire. Del 26/08/2015, pag. 5 I contratti stabili? Soltanto 47 in più Jobs Act. Il flop di luglio conferma la precipitazione da maggio in poi. Il saldo tra nuovi tempi indeterminati e cessazioni dice che la riforma Renzi, fra incentivi e tutele crescenti, non sta funzionando. Il giallo delle tabelle ministeriali «pasticciate»: alcuni numeri forniti dallo staff di Poletti sono confusi. E nel mirino del governo finiscono le pensioni Marta Fana Nessuna tregua per il governo sul fronte del mercato del lavoro. Al rientro dalla pausa estiva, i contratti a tutele crescenti non supportano la propaganda. Secondo le informazioni contenute nell’ultima nota mensile del ministero del Lavoro, pubblicata ieri, i contratti a tempo indeterminato (a tutele crescenti) al netto delle cessazioni sono stati appena 47 nel mese di luglio (lo 0,3% del totale dei rapporti netti). Impietoso è il confronto con le altre tipologie contrattuali, a conferma che non c’è argine al precariato nelle riforme del governo. Tranne nel caso delle collaborazioni (-23.122), le altre tipologie sovrastano numericamente i tempi indeterminati. A luglio, il saldo relativo al tempo determinato è di 144.074 rapporti netti, i contratti di apprendistato e quelli classificati come «altro» (in cui vengono inclusi i contratti di inserimento lavorativo; di agenzia 33 a tempo determinato e indeterminato; intermittenti a tempo determinato e indeterminato; autonomo nello spettacolo) sono pari rispettivamente a 7.785 e 6.633. Anche le trasformazioni di contratti a termine in contratti a tutele crescenti rimangono di gran lunga superiori ai contratti netti a tempo indeterminato (27.328). Un dato sottostimato, in quanto non tiene conto delle trasformazioni di rapporti di apprendistato (contenuti invece nelle pubblicazioni dell’osservatorio sul precariato dell’Inps). Le cifre non tornano Al di là dei dati mensili, c’è qualcosa che non torna nella tabella di sintesi che il ministero ha pubblicato insieme alla nota di luglio. La tabella, che riporta i dati complessivi di attivazioni e cessazioni di rapporti di lavoro tra gennaio e luglio, mostra valori differenti da quelli che è possibile riscostruire partendo dalle note mensili. Soffermando l’attenzione sui contratti a tempo indeterminato, la differenza tra la tabella del ministero e la ricostruzione delle serie storiche mensili sottostima sia il numero di attivazioni che quello delle cessazioni, rispettivamente di 130.933 e 434.046 unità. Poiché la sottostima è maggiore per le cessazioni rispetto alle attivazioni, ciò implica che il totale di contratti netti è superiore rispetto a quello che è possibile desumere da una ricostruzione mensile dei dati. La differenza non è trascurabile: si tratterebbe di 303.113 rapporti di lavoro in più stimati dal ministero. Discrepanze che possono essere dovute a una molteplicità di fattori: errori di calcolo, revisioni, omissioni. È importante che il ministero risponda di queste differenze, pubblicando le revisioni o smentendo la tabella pubblicata nel caso si tratti di errori di calcolo, così da rendere trasparente l’attività di osservatorio statistico. Stando ai dati in ogni caso non sembra finora possibile confutare la tesi secondo cui i pochi nuovi contratti a tutele crescenti attivati, di fatto stabilmente precari senza l’articolo 18, non sono il risultato di un rinnovato interesse delle imprese a creare occupazione, bensì degli sgravi che queste ultime sono in grado di intascare grazie alla decontribuzione sul costo del lavoro. Lo slancio, seppur tenue, segnato nei primi quattro mesi del 2015 è palesemente svanito a partire da maggio. Il rallentamento dell’economia italiana e l’inadeguatezza del governo nel far fronte alla crisi, nonostante la congiuntura favorevole, sta nei fatti. L’attacco alla previdenza Nel frattempo la maggioranza di governo ribadisce la volontà di comprimere ulteriormente i diritti dei lavoratori, così come si evince dalle proposte del senatore Pietro Ichino (Pd) sul ridimensionamento del diritto di sciopero e sulla possibilità di sostituire completamente la contrattazione collettiva con quella aziendale. Delegare le condizioni di lavoro e le retribuzioni alla contrattazione aziendale significa spostare ulteriormente il potere negoziale a favore delle imprese e a discapito dei lavoratori, soprattutto laddove i sindacati non esistono. La conseguenza più immediata e diffusa sarebbe la riduzione dei salari di base e il peggioramento delle condizioni lavorative. Inoltre, ci sarebbe il rischio di creare quelle che un tempo venivano chiamate «gabbie salariali», ovvero una differenziazione di salario tra Nord e Sud. Vere e proprie gabbie di sottosviluppo, e si avvererebbe l’allarme del rapporto Svimez sull’arretramento permanente e il sottosviluppo del Sud. Fa eco uno dei consiglieri economici del premier, Tommaso Nannicini, che vorrebbe «sostituire la de-contribuzione sui nuovi assunti con un taglio strutturale del cuneo contributivo, senza fiscalizzarne i costi e incentivando i lavoratori a investirne una parte nella previdenza complementare». Rispetto all’attuale decontribuzione alle imprese coperta dalla fiscalità generale, nell’idea di Nannicini lo Stato non pagherebbe i contributi non versati, operando un taglio netto alla pensione futura dei neo assunti, come fanno notare Susanna Camusso della Cgil e Guglielmo Loy della Uil. Inoltre, suggerisce Nannicini, i lavoratori potranno chiedere in busta paga i contributi risparmiati che saranno a quel 34 punto tassati come normale reddito. Oppure, investirli in fondi privati di previdenza, su cui proprio l’anno scorso il governo Renzi ha aumentato la tassazione. Un progetto che renderebbe il sistema pensionistico più iniquo in quanto dal pubblico basato sul contributivo, si passerebbe a un modello di investimento privato, con un approccio retributivo basato sulla capacità di risparmio. Del 26/08/2015, pag. 5 Tre indagati per la morte di Paola: il caporale aveva perfino i dipendenti Braccianti. Avviso di garanzia anche per l'autista del pulmino che trasportava la donna nelle vigne di Andria: il suo titolare gestisce altri veicoli simili. Domani il vertice nazionale a Roma con i ministri Martina e Poletti. E nelle campagne aumentano i controlli: già identificate 529 persone Sono saliti a tre gli indagati per la morte di Paola Clemente, la bracciante tarantina di 49 anni morta nelle campagne di Andria il 13 luglio scorso, mentre lavorava sotto un tendone all’acinellatura dell’uva. Il pubblico ministero di Trani titolare dell’indagine, Alessandro Pesce, ha infatti accertato che alla guida del bus che ha portato Paola dalla sua città di origine, San Giorgio Ionico (Taranto), ad Andria non c’era l’indagato Ciro Grassi ma un suo dipendente, Salvatore Filippo Zurlo, il cui nome è stato quindi iscritto nel registro degli indagati. Ciro Grassi, secondo quanto riferito da altri braccianti, possiede diversi pullman ed è la persona che organizza le “squadre” di braccianti che ogni giorno alle prime luci dell’alba vanno a lavorare nelle campagne del nord barese. Nell’inchiesta della procura risulta indagato anche Luigi Terrone, uno dei responsabili dell’azienda agricola Ortofrutta Meridionale di Corato (Bari) per conto della quale la donna stava lavorando il giorno del decesso, dopo essere stata a sua volta assunta da un’agenzia interinale di Bari su cui sono ancora in corso gli accertamenti degli inquirenti. Che sabato mattina si sono recati nella sede di quest’ultima, acquisendo la documentazione relativa all’assunzione della donna, con particolare riguardo anche alla certificazione medica, per appurare se ci fossero tutti i certificati medici previsti in caso di assunzione. L’iscrizione nel registro degli indagati di Salvatore Filippo Zurlo, a cui è stato notificato l’avviso di garanzia soltanto nella tarda serata di lunedì, ha rinviato al pomeriggio l’autopsia sul corpo della donna, prevista inizialmente ieri mattina. Bisognerà attendere forse tutti e 90 i giorni canonici per conoscere l’esito dell’autopsia. Agli accertamenti medico-legali, che sono stati eseguiti nel pomeriggio nel cimitero di Crispiano (Taranto), chiuso al pubblico sin dalla mattina, hanno partecipato i medici legali, consulenti di parte, sia per gli indagati che per la famiglia della vittima. Un’autopsia complicata dal fatto che è stata eseguita a oltre sei settimane dal decesso della donna, e questo non ha consentito un’operazione approfondita che potesse fornire già ieri le prime risposte ai tanti quesiti ancora irrisolti. Si dovrà attendere dunque l’esito degli esami istologici e tossicologici per comprendere le cause della morte e se vi siano connessioni con il lavoro nei campi e con l’utilizzo di fitofarmaci. Intanto, in attesa del vertice nazionale di domani sui temi del caporalato tra i ministri Martina e Poletti, i sindacati, le associazioni delle imprese agricole, l’ispettorato del Lavoro e l’Inps, proseguono i controlli delle forze dell’ordine nelle campagne pugliesi. Dal 20 ago35 sto sono state identificate 529 persone, sia nei campi che durante l’itinerario casa-lavoro con destinazione le province di Taranto, Bari e Matera. Accertamenti sono in corso anche sulle modalità di impiego e di trasporto dei braccianti, sull’orario di lavoro e sulla corrispondenza della paga ricevuta rispetto a quella dichiarata. Ulteriori approfondimenti potrebbero far emergere nuovi ed eventuali metodi illegali relativi all’impiego e allo sfruttamento della manodopera in agricoltura. 36