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RASSEGNA STAMPA
Mercoledì 26 agosto 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Corriere Sociale del 26/08/2015
La guerra ai migranti non risolve i problemi.
Italia, necessario piano d’accoglienza efficace
di Francesca Chiavacci *
ROMA - Il mese di agosto ci ha consegnato le terribili immagini di migliaia e migliaia di
donne, uomini e bambini disposti ad affrontare un viaggio sempre più rischioso e
disumano pur di coltivare una speranza di futuro. Centinaia di morti in più nel
Mediterraneo rispetto allo scorso anno, e se non è il mare e la crudeltà degli scafisti a
provocarle. Come dimenticare i 49 cadaveri rinvenuti nel giorno di ferragosto in una stiva,
perché privi dei soldi necessari per vedersi consentito il ‘lusso’ di respirare?
Le migrazioni sono un fenomeno epocale. Sono il frutto delle guerre, delle violenze, delle
diseguaglianze, dello sfruttamento feroce delle persone e dell’ambiente. L’Europa ha
precise responsabilità in tutto ciò e non può lavarsene le mani. Nessuna operazione di
polizia internazionale fermerà il flusso di profughi, non basteranno i muri, non sono servite
le cariche brutali con lancio di granate al confine macedone. Di fronte a una morte certa
nel proprio paese, la scelta non può che essere la fuga, a qualunque costo.
Alle prese con questo fenomeno epocale, l’Italia e l’Europa dimostrano tutta la loro
inadeguatezza. Il presidente della commissione europea Juncker afferma di non volere
un’Unione in cui si ergano muri, ma poi nulla fa di concreto per fermarne l’edificazione.
Merkel e Hollande bacchettano l’Italia per non avere ancora provveduto all’allestimento di
grandi centri di primo smistamento finalizzati, nelle loro intenzioni, all’identificazione di chi
arriva per poter applicare l’assurdo regolamento Dublino ed evitare che dall’Italia (o dalla
Grecia) i profughi si spostino nel nord Europa. In sostanza vogliono che i paesi di frontiera
facciano da guardiani alla fortezza Europa.
Al contrario bisogna sapere affrontare l’emergenza in modo umanitario e allo stesso tempo
avere un piano di largo e lungo respiro. I canali umanitari, la protezione delle persone, il
salvataggio dei naufraghi, la prima accoglienza sono i doveri dell’immediato. Ai quali non
si può abdicare, pena l’imbarbarimento dell’Europa. La Merkel si dice inorridita delle
manifestazioni dei neonazisti, ma non si interroga su quale cultura del respingimento,
dell’egoismo, della cancellazione della solidarietà il neonazismo abbia potuto prosperare.
E non solo in Germania.
Un piano di lungo periodo deve partire dal presupposto che le migrazioni, in un mondo
globalizzato, sono un fatto fisiologico e sono un’occasione straordinaria per lo sviluppo
civile e economico del pianeta. Naturalmente richiedono l’avvio di processi di integrazione
che si basino sul rispetto reciproco delle culture di appartenenza e sui diritti umani e civili.
Perciò chiediamo al Governo italiano di alzare la voce a livello internazionale, di dotarsi di
un piano efficace per l’accoglienza. Chiediamo all’UE di smetterla di voltare le spalle.
Esistono soluzioni: aprire canali umanitari, consentire subito all’UNHCR di rilasciare
lasciapassare, in alcuni paesi del Nord Africa e dell’est del Mediterraneo, per conto
dell’UE per consentire una distribuzione di profughi di dimensioni pari almeno a quello che
è in tanti Paesi intorno al Mediterraneo (la piccola Giordania da sola fa più di tutta l’UE).
Non è con la guerra ai migranti che si risolvono i problemi. Solo una politica di pace, di
solidarietà, di cooperazione a casa loro e di integrazione a casa nostra, è la soluzione.
* Presidente Arci
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http://sociale.corriere.it/la-guerra-ai-migranti-non-risolve-i-problemi-italia-necessario-pianodaccoglienza-efficace/
DA Redattore Sociale del 25/08/2015
Migranti, Arci: "L'Italia si doti di un piano
efficace dell'accoglienza"
Per l'associazione i canali umanitari, la protezione delle persone, il salvataggio dei
naufraghi e la prima accoglienza sono i doveri dell’immediato. "L'Europa non volti le
spalle"
ROMA - Sul fronte immigrazione "l’Italia e l’Europa dimostrano tutta la loro
inadeguatezza". E' il commento di Arci che parla di "fenomeno epocale". "Il mese di
agosto ci ha consegnato le terribili immagini di migliaia e migliaia di donne, uomini e
bambini disposti ad affrontare un viaggio sempre più rischioso e disumano pur di coltivare
una speranza di futuro. Centinaia di morti in più nel Mediterraneo rispetto allo scorso
anno, e se non è il mare e la crudeltà degli scafisti a provocarle. Come dimenticare i 49
cadaveri rinvenuti nel giorno di ferragosto in una stiva, perché privi dei soldi necessari per
vedersi consennito il ‘lusso’ di respirare?" Così in una nota l'associazione.
"Le migrazioni sono un fenomeno epocale. Sono il frutto delle guerre, delle violenze, delle
diseguaglianze, dello sfruttamento feroce delle persone e dell’ambiente. L’Europa ha
precise responsabilità in tutto ciò e non può lavarsene le mani. Nessuna operazione di
polizia internazionale fermerà il flusso di profughi, non basteranno i muri, non sono servite
le cariche brutali con lancio di granate al confine macedone. Di fronte a una morte certa
nel proprio paese, la scelta non può che essere la fuga, a qualunque costo. Alle prese
con questo fenomeno epocale, l’Italia e l’Europa dimostrano tutta la loro inadeguatezza. Il
presidente della commissione europea Juncker afferma di non volere un’Unione in cui si
ergano muri, ma poi nulla fa di concreto per fermarne l’edificazione".
"Merkel e Hollande bacchettano l’Italia per non avere ancora provveduto all’allestimento di
grandi centri di primo smistamento finalizzati, nelle loro intenzioni, all’identificazione di chi
arriva per poter applicare l’assurdo regolamento Dublino ed evitare che dall’Italia (o dalla
Grecia) i profughi si spostino nel nord Europa. In sostanza vogliono che i paesi di frontiera
facciano da guardiani alla fortezza Europa. - prosegue - Al contrario bisogna sapere
affrontare l’emergenza in modo umanitario e allo stesso tempo avere un piano di largo e
lungo respiro. I canali umanitari, la protezione delle persone, il salvataggio dei naufraghi,
la prima accoglienza sono i doveri dell’immediato. Ai quali non si può abdicare, pena
l’imbarbarimento dell’Europa. La Merkel si dice inorridita delle manifestazioni dei
neonazisti, ma non si interroga su quale cultura del respingimento, dell’egoismo, della
cancellazione della solidarietà il neonazismo abbia potuto prosperare. E non solo in
Germania".
"Un piano di lungo periodo deve partire dal presupposto che le migrazioni, in un mondo
globalizzato, sono un fatto fisiologico e sono un’occasione straordinaria per lo sviluppo
civile e economico del pianeta. Naturalmente richiedono l’avvio di processi di integrazione
che si basino sul rispetto reciproco delle culture di appartenenza e sui diritti umani e civili".
L'Arci chiede al Governo italiano di "alzare la voce a livello internazionale, di dotarsi di un
piano efficace per l’accoglienza. Chiediamo all'Ue di smetterla di voltare le spalle.
Esistono soluzioni: aprire canali umanitari, consentire subito all'Unhcr di rilasciare
lasciapassare, in alcuni paesi del Nord Africa e dell'est del Mediterraneo, per conto
dell'UE per consentire una distribuzione di profughi di dimensioni pari almeno a quello che
è in tanti Paesi intorno al Mediterraneo (la piccola Giordania da sola fa più di tutta l’Ue).
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Non è con la guerra ai migranti che si risolvono i problemi. Solo una politica di pace, di
solidarietà, di cooperazione a casa loro e di integrazione a casa nostra, è la soluzione".
INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Vita.it del 25/08/2015
Renzi: l'Italia deve ripartire. Anche con la
riforma del terzo settore
di Gabriella Meroni
Il premier, applauditissimo a Rimini, non lusinga i ciellini e marca la distanza dal
berlusconismo che ha bloccato l'Italia per 20 anni. Ora per ripartire serve valorizzare chi
costruisce dal basso, anche facendo ripartire la riforma del terzo settore
Un Renzi in grande forma, acclamato dalla platea del Meeting, a cui tuttavia confessa
candidamente che «non ci voleva venire» per evitare i soliti titoli in politichese, e davanti
alla quale non si mostra accondiscendente nè cerca il facile applauso, ma non lesina
aneddoti personali e ovviamente la sua visione di come il nostro paese unico al mondo e
«da tutto il mondo atteso» potrà ripartire.
Non sono uno di voi
Renzi marca la distanza con i presidenti del Consiglio che l'hanno precededuto al Meeting:
non è venuto per arruffianarsi i ciellini, sottolinea subito di «non essere uno di loro» e
sostiene che le quattro domande rivoltegli dal professor Giorgio Vittadini - che riguardano
l'Italia, l'Europa, il Mediterraneo e la pace - sono «più difficili dei titoli del Meeting». Ma il
suo atteggiamento è tutto tranne che distante: definisce il tema della kermesse «una
chiamata alla responsabilità personale» a cui non vuole sottrarsi, e racconta di come
incontrò, da liceale scout, un prete di CL - oggi ad ascoltarlo tra il pubblico - che lo
convinse addirittura a partecipare a una vacanza comunitaria in Trentino. Come a dire:
non vi lusingo, ma mi metto in gioco. Una presa di posizione apprezzata dalla platea, che
in gran parte ignorava questi trascorsi.
Vent'anni persi a litigare
Ma Renzi non rinuncia a un'altra presa di distanza: quella dai vent'anni di berlusconismo e
antiberlusconismo - che proprio al Meeting, come altrove, avevano spesso trovato una
vetrina - che secondo lui hanno bloccato l'Italia, emarginandola dal resto d'Europa.
«Abbiamo assistito alla trasformazione della seconda repubblica in una rissa permanente
ideologica che ha smarrito il bene comune», ha detto il premier, «e mentre il mondo
correva siamo rimasti fermi alle discussioni sterili interne. Dopo 20 anni, le riforme del
governo sono un corso accelerato per andare avanti». Venendo al presente, Renzi ha
stigmtizzato allo stesso modo il rischio di rimanere ancora una volta fermi al palo per colpa
di quelli che ha definito «i provincialisti della paura», quelli che vogliono bloccare l'Italia per
tre giorni - chiaro il riferimento a Matteo Salvini - quando l'Italia «ha solo bisogno di
ripartire». E sull'immigrazione ha ribadito il dovere di salvare vite umane e di accogliere i
profughi, anche per evitare di «soccombere ai terroristi che vogliono che viviamo nel
terrore e nel dubbio che il nostro vicino è un nemico. Un approccio culturale devastante
che ci consegna alla logica dei muri, che invece di difenderci ci imprigionano».
L'Italia costruita dal basso
Infine, rispondendo a una domanda di Vittadini che lo sollecitava a valorizzare i corpi
intermedi e la libertà dei cittadini che dal basso hanno tradizionalmente contribuito al bene
comune, Renzi ha fatto un importante accenno alla riforma del terzo settore, assicurando
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che il governo la porterà a compimento. «Il governo darà attenzione a questa legge», sono
state le sue parole, che arrivano dopo sette mesi di silenzio e riaccendono i riflettori su una
riforma rimasta a lungo bloccata in Parlamento. «Dobbiamo richiamarci alla positività del
reale», ha detto il premier utilizzando un linguaggio caro al mondo ciellino. «L'Italia la
fanno ogni giorno centinaia di migliaia di persone per bene che svolgono il proprio lavoro,
e il compito dello stato non è costruire chissà quale sistema per irrigimentarle ma lasciarle
libere di realizzare quella bellezza che l'Italia ha prodotto per secoli e che è apprezzata in
tutto il mondo».
http://www.vita.it/it/article/2015/08/25/renzi-litalia-deve-ripartire-anche-con-la-riforma-delterzo-settore/136261/
Da Vita.it del 25/08/2015
Insieme per la riforma del Terzo Settore
I vertici dei due movimenti lavoreranno insieme alla proposta da
presentare al Volontariato italiano. Trucchi e Pregliasco: «Creiamo
compattezza dove c'è disgregazione»
Anpas e Misericordie si ritrovano insieme per la Riforma del Terzo Settore. Nel pomeriggio
di venerdì 21 agosto a Firenze, i vertici di Anpas e Confederazione Nazionale delle
Misericordie d’Italia si sono incontrati per analizzare insieme le prospettive del volontariato
in vista della Riforma del Terzo Settore, condividendo una serie di aspetti da proporre
come emendamenti al disegno di legge.
Quello del 21 agosto è stato il primo di una serie di incontri che hanno l’obiettivo di
consentire ai due movimenti di presentarsi uniti con una proposta congiunta e condivisa da
rivolgere al volontariato italiano. All’incontro, per le Misericordie erano presenti il
presidente nazionale Roberto Trucchi, il direttore Andrea Del Bianco e i consiglieri Maria
Pia Bertolucci, Aldo Intaschi e Israel De Vito; per Anpas il presidente nazionale Fabrizio
Pregliasco, il vicepresidente Ilario Moreschi, il presidente di Anpas Toscana Attilio Farnesi
e la coordinatrice nazionale Lucia Calandra.
L'incontro dei vertici di Anpas e Misericordie
«Oggi assistiamo con profonda amarezza a una preoccupante frammentazione tra le
grandi reti di rappresentanza del terzo settore che troviamo incomprensibile», affermano i
presidenti Pregliasco e Trucchi. «Per questo le due più grandi organizzazioni del
volontariato italiano sentono l’impegno e la responsabilità di riaffermare i grandi valori del
volontariato anche nel testo del disegno di legge delega. Siamo certamente un pezzo del
Terzo settore ma vogliamo ribadire con forza il ruolo e la specificità delle tante
associazioni, grandi e piccole, che nel nostro Paese sono espressione di radicamento
sociale, gratuità, solidarietà diffusa, cittadinanza consapevole».
Le due organizzazioni stanno preparando il calendario dei prossimi incontri. Il primo
dovrebbe già tenersi a inizio settembre.
http://www.vita.it/it/article/2015/08/25/insieme-per-la-riforma-del-terzo-settore/136256/
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Da Corriere Sociale del 25/08/2015
La riforma del terzo settore «unisce» Anpas e
Misericordie
di Eugenio Terrani
FIRENZE - La riforma del terzo settore è anche capace di unire. Anpas e Misericordie,
dopo aver condotto una battaglia comune per la concessione del telepass gratuito per le
ambulanze, sono di nuovo insieme. Nei giorni scorsi i vertici delle Pubbliche assistenze
d’Italia e della Confederazione nazionale delle Misericordie si sono incontrati a Firenze per
analizzare insieme le prospettive del volontariato in vista della riforma del terzo settore,
condividendo una serie di aspetti da proporre come emendamenti al disegno di legge.
La legge delega, lo ricordiamo, potrebbe essere approvata dopo la ripresa dei lavori
parlamentari. Il rischio concreto – dopo annunci, scadenze, slittamenti e infine l’apertura
concessa della commissione affari costituzionali per effettuare modifiche al testo – è che la
legge possa essere votata dopo dopo la Legge di Stabilità. Probabilmente sarà necessario
attendere la fine del 2015.
Quello che si è svolto tra Anpas e Misericordie è stato il primo di una serie di incontri che
consentiranno ai due movimenti di presentarsi uniti con una proposta congiunta e
condivisa da rivolgere al volontariato italiano. Per le Misericordie erano presenti il
presidente nazionale Roberto Trucchi, il direttore Andrea Del Bianco e i consiglieri Maria
Pia Bertolucci, Aldo Intaschi e Israel De Vito. Per Anpas, il presidente nazionale Fabrizio
Pregliasco, il vicepresidente Ilario Moreschi, il presidente di Anpas Toscana Attilio Farnesi
e la direttrice Lucia Calandra. «Assistiamo con profonda amarezza a una preoccupante
frammentazione tra le grandi reti di rappresentanza del terzo settore. Un fatto che
troviamo incomprensibile» commentano all’uniscono i presidenti Pregliasco e Trucchi. «Ci
stiamo impegnando per questo. Sentiamo la responsabilità di riaffermare i grandi valori del
volontariato anche nel testo del disegno di legge delega. Siamo certamente un pezzo del
terzo settore, ma vogliamo ribadire con forza il ruolo e la specificità delle tante
associazioni, grandi e piccole, che nel nostro Paese sono espressione di radicamento
sociale, gratuità, solidarietà diffusa, cittadinanza consapevole».
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ESTERI
Del 26/08/2015, pag. 1-2
Il soccorso delle banche centrali per
scongiurare la “teoria del caos”
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI
NEW YORK . Arrivano i nostri, il settimo cavalleggeri: le banche centrali. Nel martedì del
quasi-rimbalzo, i mercati europei vogliono credere in un film a lieto fine. La speranza
insegue una sceneggiatura nota: la bacchetta magica dei banchieri centrali. Per quello che
fanno (tagliano i tassi in Cina) e per quello che forse non faranno (se non aumentano i
tassi in America) le autorità monetarie sono protagoniste di una tregua. Effimera: il
recupero di Wall Street muore in serata, turbato da voci su capovolgimenti politici a
Pechino. Il copione è il terzo remake dalla crisi del 2008: il protagonismo delle banche
centrali è una costante. Basterà stavolta?
PECHINO RIDUCE IL COSTO DEL DENARO
Dopo venerdì e lunedì neri, anche la giornata di ieri si apre sotto pessimi auspici: la Borsa
di Shanghai in caduta libera, meno 7,6%. La mini-svolta positiva arriva dopo la chiusura
del mercato di Shanghai, quando la banca centrale cinese annuncia due misure anti-crisi.
Taglia i tassi d’interesse, decurtando dello 0,25% il costo del credito. E riduce le riserve
obbligatorie delle banche. Questo secondo gesto equivale a “liberare” più di 100 miliardi di
dollari di liquidità. Inondare di moneta l’economia reale: è una cura che ricorda il
“quantitative easing” (acquisto di bond) della Federal Reserve. Sui media cinesi per la
prima volta affiorano critiche verso il dirigismo dei giorni scorsi, quando le autorità
cercavano di calmare la Borsa acquistando direttamente titoli sul mercato. Il quarto giorno
consecutivo di ribassi ha distrutto 1.000 miliardi di dollari di ricchezza finanziaria in Cina. Il
Financial Times evoca un siluramento del premier cinese Li Keqiang.
WALL STREET E LA FED
In Europa si sentono i primi benefici dalla mossa della banca centrale cinese. Rialzi
ovunque: gli europei vogliono credere che Pechino sta riprendendo la situazione in mano.
Wall Street parte in recupero ma chiude in calo. In America cresce l’auspicio che la Fed
rinunci ad alzare i tassi nel 2015. Vi contribuisce un appello autorevole. Lo firma sul
Financial Times Lawrence Summers, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton ed ex
consigliere di Obama. Summers ammonisce: «Un rialzo dei tassi nel futuro prossimo
sarebbe un grave errore, minaccerebbe i principali obiettivi della banca centrale e cioè
stabilità dei prezzi, piena occupazione, stabilità finanziaria ». Gli investitori sperano che la
Fed ascolterà il suo appello. Nel weekend i banchieri centrali si riuniscono per il seminario
estivo a Jackson Hole sulle Montagne Rocciose. Un rialzo dei tassi era preannunciato, tra
settembre e dicembre, come un segno di ritorno alla normalità dopo sei anni di crescita
Usa. Ma questo prima dello shock cinese.
BANCHE CENTRALI, È VERA ONNIPOTENZA?
Ancora una volta i mercati implorano salvezza dai sacerdoti della moneta. Il primo capitolo
di questa storia risale al dicembre 2008: fu allora che la Fed decise l’ardita politica del
“tasso zero” pur di rianimare un’economia americana agonizzante. Seguì una terapia
perfino più audace, lo stampar moneta per comprare bond. Con 4.500 miliardi di “nuovi
dollari” la Fed inondò l’America e il mondo. Missione compiuta, sei anni dopo, la crescita
Usa è ripartita e la disoccupazione è scesa ai livelli pre-crisi. L’esperimento innovativo
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della Fed venne imitato di volta in volta dalle banche centrali inglese, svizzera,
giapponese. Infine anche dalla Bce, col beneficio di una svalutazione dell’euro, che ora si
è interrotta per il “vento contrario” della svalutazione del renminbi cinese. Le banche
centrali sono onnipotenti? Può continuare all’infinito il loro intervento come “ pompieri” anticrisi? Gli stessi economisti che hanno sempre appoggiato l’audace politica monetaria della
Fed – da Summers a Paul Krugman – avvertono che siamo in una “stagnazione secolare”.
Tra le sue cause c’è l’ingorgo di capitali evocato ieri da Krugman su queste colonne. Neil
Irwin ha coniato il neologismo “the everything bubble” ovvero la “bolla di tutto”. Le masse
monetarie generate dalle banche centrali sono le stesse che in cerca di rendimenti hanno
creato bolle speculative dalla Silicon Valley alla Borsa brasiliana all’immobiliare cinese.
LA VERA CRISI CINESE
Nessuno sa quale sia, con certezza. La Borsa è il termometro di altri problemi. Un
rallentamento della crescita, se fosse vera la versione governativa che prevede un
aumento del 7% del Pil quest’anno a fronte del 10% degli anni passati, sarebbe perfino
benefico: l’occasione per passare da un modello di sviluppo troppo orientato all’export e
agli investimenti pesanti, ad uno più centrato sui consumi interni. Ma il Wall Street Journal
ammonisce che l’economia cinese “è come una scatola nera”. Scopriremo il vero guasto
solo quando l’aereo si sarà schiantato? L’economista Kenneth Rogoff ricorda che la Cina
ha una fragilità nel suo debito pubblico. Si tende a dimenticarlo perché Pechino ha
gigantesche riserve valutarie accumulate con il commercio estero, ma il suo debito
pubblico è pari a 28.000 miliardi di dollari cioè il 282% del Pil. Molto più del debito Usa o
anche di quello italiano in proporzione al Pil. Che dire degli altri paesi emergenti, meno
solidi della Cina? Il Fmi teme che la fine della “liquidità a gogò” creata dalla Fed, sia l’inizio
di nuovi shock nell’emisfero Sud. Capitali in fuga, più materie prime che crollano, è la
ricetta per crisi destabilizzanti in tutto l’arco che va dal Sudamerica all’Africa al Medio
Oriente.
TROPPE INCOGNITE E UNA TEORIA: IL CAOS
Il mondo contemporaneo ha conosciuto altre crisi, finanziarie e valutarie. Quella attuale ha
un’incognita in più. E’ utile il paragone con il crac del Giappone che nel 1989 concluse un
trentennio di boom del Sol Levante. Ma quella crisi fu gestita all’interno del G7, un club di
alleati. Questa volta c’è di mezzo la Cina, il cui rapporto con l’Occidente è più complicato.
L’opacità della Cina dà luogo a voci incontrollate, Wall Street in chiusura di seduta si agita
su illazioni di “manovre militari”. L’imprevedibilità delle crisi finanziarie è stata spesso
interpretata alla luce delle teorie del caos. Un parallelo è “la fisica delle slavine”. Un altro: i
granelli di sabbia che scendono in una clessidra, all’inizio compongono una montagnetta,
poi un solo granello aggiuntivo fa franare tutto. Infine c’è la farfalla che battendo le ali
provoca un uragano dall’altra parte dell’oceano. La farfalla era l’America, gli altri subivano
l’amplificazione delle sue crisi. Oggi la farfalla è cinese. Paradosso: i paesi relativamente
meno vulnerabili sono quelli un po’ meno esposti al commercio estero. America e India,
sono meno “globalizzate” della vecchia Europa. Qualcuno avrà ripensamen- ti sui trattatidi
liberoscambio, TppeTtip.
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Del 26/08/2015, pag. 13
Berlino, si prepara un ricorso anti-Atene
Allo studio la richiesta alla Corte di Karlsruhe di bocciare il terzo piano
di salvataggio I dubbi sul coinvolgimento del fondo Esm e il rischio per
la stabilità dell’eurozona
Berlino La Germania si prepara a fare ricorso alla Corte costituzionale tedesca contro il
salvataggio greco da 86 miliardi, il terzo in 5 anni. A guidare la nuova offensiva legale è
Arnold Vaatz, parlamentare della Cdu e uno dei vice presidenti del gruppo conservatore
Cdu-Csu al Bundestag. Vaatz aveva minacciato un’azione legale contro un nuovo bailout
della Grecia fin da luglio, quando i negoziati tra i creditori ed Atene erano ancora in alto
mare. E, al momento del via libera da parte del Parlamento tedesco, il suo è stato uno dei
63 voti contrari espressi dai conservatori.
Ma Vaatz non sarà da solo davanti alla Corte costituzionale di Karlsruhe. Dalla sua parte
si sono già schierati il presidente del Comitato per la Finanza dell’Unione Cdu-Csu al
Bundestag, Hans Michelbach, eletto tra le file del partito conservatore della Baviera, e la
Bund der Steurzahler (BdSt), l’Associazione dei contribuenti tedeschi fondata nel 1949 con
l’obiettivo di ridurre le tasse, diminuire le spese e tagliare la burocrazia. «Non possiamo
piegare le leggi a nostro piacimento e dimenticare le promesse elettorali facendole uscire
dalla porta di servizio. Arnold Vaatz può contare su di me», ha dichiarato il politico della
Csu alla rivista tedesca Super Illu . E il presidente della BdSt, Reiner Holznagel ha
aggiunto: «Mi rallegro se ci sono membri del Bundestag che considerano tutte le
possibilità per intraprendere una battaglia legale contro il pacchetto di aiuti. Se ci sarà una
procedura legale, noi la sosterremo con tutti i mezzi a nostra disposizione».
Gli esperti giuristi, su incarico di Vaatz, sono già al lavoro per valutare se esistono le basi
legali per il ricorso, dopo la decisione del Bundestag. «Se le probabilità di successo sono
buone, porterò la causa davanti alla Corte», sostiene il parlamentare. Secondo i
rappresentati dell’insolita alleanza non dovrebbe essere l’Esm, il meccanismo salvataggio
europeo, a pagare alla Grecia gli 86 miliardi stabiliti dall’accordo con i creditori, perché il
fallimento di Atene potrebbe mettere a rischio la stabilità dell’eurozona. Tanto più che il
pacchetto di aiuti, avvertono, servirà soltanto a pagare i debiti di Atene con Eurolandia,
una cosa che non è permessa dai trattati. Lo stesso Esm ha calcolato che 73 degli 86
miliardi del salvataggio ritorneranno ai creditori attraverso il rimborso dei vecchi debiti.
Come dire: una partita di giro che eviterà il default della Grecia più che aiutare la sua
economia a ripartire.
Non è la prima volta che i tedeschi, sentendosi traditi dai politici, chiedono ai giudici della
Corte costituzionale di intervenire. L’ultimo caso risale allo scorso giugno quando nel
mirino è finito il piano di acquisto di titoli di Stato lanciato dalla Bce, il cosiddetto
Quantitative easing . A fare ricorso tre cittadini privati, per i quali il Qe di Mario Draghi
sarebbe una violazione «oltraggiosa» del mandato affidato alla banca centrale europea,
«scandalosamente peggio» dello scudo antispread,l’Omt, pure finito davanti alla Corte
costituzionale di Karlsruhe. Ma in quel caso i giudici tedeschi hanno rinviato la questione
alla Corte europea, che ha poi dato il via libera .
Giuliana Ferraino
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Del 26/08/2015, pag. 16
La “protesta dei rifiuti” fa tremare Beirut
Governo in bilico
In strada migliaia di persone: “Colpa della corruzione” E intanto la
capitale affonda nella spazzatura
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FABIO SCUTO
GERUSALEMME . Nella Repubblica dei Cedri, attraversata da mille tensioni, dai rifugiati
siriani in fuga dalla guerra, dai miliziani di Hezbollah che in quella guerra combattono e
tornano nelle bare o mutilati, dalle fazioni palestinesi che da due giorni si sparano senza
sosta nel campo profughi di Ein El Hilweh, l’ultimo focolaio che sta demolendo il governo è
la guerra dei rifiuti. A tonnellate si cumulano nelle strade della capitale e nelle zone
limitrofe e rilasciano — cotte dal sole mediorientale — miasmi insopportabili per la
popolazione, che da un mese protesta esasperata per l’incapacità del governo di trovare
una soluzione al problema dopo la chiusura della discarica di Naameh, che sopperiva ai
bisogni di un paese grande come la Liguria. Ieri sulla crisi dei rifiuti si è spaccato il fragile
governo di Beirut, sei ministri appartenenti al movimento Hezbollah e i suoi alleati cristiani
hanno abbandonato un vertice che doveva decidere sull’assegnazione dello smaltimento a
sei aziende. Il progetto è stato abbandonato e l’esecutivo ha invece deciso di aprire una
nuova discarica nella regione settentrionale di Akkar, offrendo in cambio alla popolazione
locale fondi pari a cento milioni di dollari per progetti di sviluppo.
L’accumulo dei rifiuti nelle strade dopo la chiusura della discarica di Naameh, il 17 luglio,
aveva provocato le proteste di migliaia di cittadini, scesi in strada sabato e domenica sera
su invito di un movimento spontaneo denominato “ You stink” (Voi puzzate). Un centinaio
di poliziotti e una sessantina di dimostranti sono rimasti feriti in scontri scoppiati quando
una minoranza dei manifestanti ha cercato di sfondare il cordone delle forze dell’ordine
davanti all’ufficio del premier. Lunedì il ministro dell’Ambiente ha annunciato
l’assegnazione di appalti alle sei aziende per risolvere il problema, un progetto che però
ha incontrato le critiche di parte delle forze politiche e dello stesso movimento “You stink”
per gli alti costi e i sospetti di corruzione. La campagna di protesta, che ha mobilitato
migliaia di cittadini indipendentemente dai grandi partiti settari che dominano politica
libanese, incolpa le faide politiche e la corruzione per una crisi che ha lasciato cumuli di
spazzatura maleodorante nelle strade sotto il sole cocente. Governo e parlamento sono in
fase di stallo, i politici da un anno non trovano l’accordo su un nuovo presidente, mentre
“la guerra della porta accanto” in Siria ha aggravato le tensioni settarie e portato più di un
milione di rifugiati nel paese. Dietro lo stallo c’è la lotta di potere tra i due principali blocchi
politici che sono divisi proprio sulla Siria — quello filoiraniano di Hezbollah e dei suoi
alleati, tra cui il cristiano Michel Aoun, e la maggioranza sunnita filo-occidentale guidata da
Saad Hariri. Il governo nato lo scorso anno con la benedizione dei due grandi rivali
regionali — Arabia Saudita e Iran — ha evitato (per ora) che il vuoto politico si
trasformasse in caos, ma sembra incapace di affrontare anche l’ordinaria gestione.
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Del 26/08/2015, pag. 17
LA GIORNATA
Crocifissa una “spia”, orrore a Sirte
Quattro esecuzioni del Califfato in Libia. “Raid sulla città”. Scontri a Bengasi e a Derna
Tre uomini sgozzati e gettati in una discarica, un quarto in tuta arancione crocefisso a
un’impalcatura e ucciso con una mitragliata in faccia: le loro morti esibite sono le bandiere
d’orrore issate ieri dai terroristi dello Stato islamico nel nuovo emirato proclamato a Sirte,
la città beduina sulla costa libica in cui nacque Gheddafi. La roccaforte del rais, che ne
traeva forza per imporre la stabilità nel Paese, nel vuoto di potere in cui è sprofondata la
Libia è diventata capitale dei tagliagole di Al Baghdadi, e nessuno sembra avere la
determinazione e il mandato per impedirlo. Secondo testimonianze locali, ieri mattina
alcuni jet militari senza insegne riconoscibili hanno sorvolato la città bombardandola, ma la
notizia - secondo cui il raid avrebbe provocato diversi morti e feriti - non è confermata
ufficialmente. In ogni caso non sono certo i bombardamenti mirati e decisi che il governo
ufficiale di Tobruk ha chiesto - finora invano - alla comunità internazionale: servirebbero a
organizzare una controffensiva sul terreno che resta impossibile, finché l’esercito male
armato è tenuto in scacco dalla guerra con i ribelli di Tripoli, legati ad Al Qaeda. La
comunità internazionale non riesce a riprendere in mano il timone della crisi, e in questo
stallo drammatico lo Stato islamico prospera e mette radici con il nuovo emirato. Le
uccisioni simboliche dei tre africani sgozzati e dell’uomo crocefisso - un giovane
esponente della fazione che controlla Tripoli, Fajr Libya, accusato di essere una spia sono state diffuse su Internet per estendere l’eco del terrore con cui l’Is governa. E
insieme ad esse sono state diffuse altre immagini in cui gli islamisti in nero mostrano lo
stile di vita austero a cui si ispirano, come la distruzione degli alcolici trovati nelle botteghe:
è un altro modo per conquistare l’animo dei giovani aizzandoli contro la corruzione dei
costumi occidentali. In città, gli uomini dell’Emirato si sono installati nella ex sede dei
servizi di sicurezza, e da lì controllano Sirte e parte della fascia costiera nel golfo. Mentre
proseguono gli scontri durissimi tra l’esercito e i ribelli a Bengasi e a Derna, lo Stato
Islamico si è avvicinato alla prima e si infiltrato nelle periferie della seconda, prendendo il
controllo di alcuni quartieri di Derna. E controlla Sabratha: le bandiere nere sono sempre
più vicine ai terminal petroliferi, se riuscissero a impossessarsene avrebbero un’enorme
fonte di reddito da affiancare al traffico dei migranti. Fermarli diventerebbe ancora più
difficile.
Del 26/08/2015, pag. 17
Ecco come l’Is ha distrutto Baal Shamin
“Palmira è l’arma di ricatto dei jihadisti”
IL CASO
ANNA LOMBARDI
«COME vuole che mi senta? Triste, furioso, impotente: dal giorno in cui lo Stato Islamico è
entrato a Palmira era evidente che avrebbe fatto questo». Il professor Amr Al-Azm,
l’archeologo che per anni ha guidato i laboratori di restauro dei musei statali siriani e ora
vive in America, dove insegna alla Shawnee University, commenta così le immagini della
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distruzione del tempio di Baal Shamin a Palmira, diffuse ieri in rete dall’Is. Immagini dove
si vedono i miliziani sistemare l’esplosivo lungo il perimetro del tempio antico di 2000 anni,
uno dei meglio conservati al mondo. E poi il fungo dell’esplosione, il tempio ridotto in
macerie. «Palmira è un’arma nelle mani dei jihadisti: e per molti motivi. Per loro è una
miniera da saccheggiare, una fonte di guadagno: potranno vendersi capitelli, stele votive e
i tesori ancora da recuperare lì dove si stavano facendo nuovi scavi. Poi è un’arma di
ricatto: perché anche distruggendo dieci templi resta un’intera città molto ben conservata.
La useranno a lungo per tormentarci. E poi credo che per loro sia una sorta di
assicurazione: lì possono ripararsi dai bombardamenti della coalizione. Chi vorrà
assumersi la responsabilità di bombardare quel che lo Stato Islamico non ha già
distrutto?».
Proprio nelle stesse ore in cui l’Is si accaniva sull’antico tempio, la famiglia dell’archeologo
decapitato pochi giorni prima, Khaled Asaad, è riuscita a mettersi in salvo, raggiungendo
la città governativa di Homs, dopo una fuga di sei giorni nel deserto. Da qui il figlio Walid,
subentrato al padre nella direzione del museo di Palmira nel 2003, ha raccontato al Times
di Londra la sua odissea: «Oro, volevano l’oro. Ci hanno interrogato per giorni chiedendoci
dove erano nascosti oro e gioielli antichi. E quando io e mio padre abbiamo insistito che
oro a Palmira non ce n’è mai stato, che le missioni archeologiche non hanno mai trovato
tesori di quel genere, non ci hanno creduto. Hanno continuato a interrogarci, a chiedere
oro, oro, oro…».
Quando ha saputo che i miliziani avevano assassinato il padre, Walid ha caricato moglie,
fratelli e la mamma ottantenne su un furgone ed è fuggito, lasciandosi dietro tutto:
«Documenti cruciali e il computer con dentro l’archivio del museo, mappe, fotografie e
resoconti dettagliati degli scavi in corso». Ora lancia l’allarme: anche se le vestigia del
museo sono in salvo, trasferite a Damasco poche settimane prima che l’Is occupasse la
città, i segreti di Palmira potrebbero invece essere già finiti nelle mani dei jihadisti.
«Se hanno le mappe dei luoghi dove scavare è un bel problema» dice a Repubblica Amr
Al-Azm. «Lì lo Stato Islamico può trovare nuovi reperti da immettere sul mercato nero
dell’arte. Opere che non conosciamo e dunque sono più difficili da identificare. Per questo
è fondamentale il lavoro dei coraggiosi che sul campo, e in gran segreto, documentano
danni e ritrovamenti ». Sì, perché Amr Al-Azm fa parte del team di studiosi che
periodicamente va in Turchia per incontrare i Monuments
men siriani, le poche decine di volontari che fanno quel che possono per salvare il
patrimonio del Paese. «Sono loro i veri eroi: uomini e donne di entrambe gli schieramenti,
che lavorano sia con il regime di Assad che con i ribelli per proteggere i monumenti ». Gli
studiosi gli insegnano quel che possono: tecniche di conservazione d’emergenza, spesso
sperimentate durante la seconda guerra mondiale. Come quella di avvolgere mosaici e
terracotte nel Tyvek, un tessuto sintetico leggero e resistente usato nelle costruzioni,
prima di seppellirli o coprirli con sacchi di sabbia.
«Qualcosa siamo riusciti a salvare: penso ai mosaici romani, preziosissimi, conservati
all’interno del museo di Ma’arra, vicino ad Aleppo, finito sotto i bombardamenti. Salvi
grazie a poche migliaia di dollari di materiale offerto dallo Smithsonian americano». Ora il
compito dei volontari si è fatto più difficile e spesso si limita alla mera documentazione. Il
traffico di opere d’arte, che secondo una valutazione al ribasso dell’intelligence inglese ha
già portato nelle casse dell’Is 1 miliardo e mezzo di dollari, si è raffinato e burocratizzato.
Inizialmente a condirre i traffici erano infatti gli stessi razziatori: a patto di pagare all’Is la
Khums , la tassa prevista dalla legge islamica per tutti i beni provenienti dalla Terra. Dallo
scorso autunno il traffico è invece nelle mani di un vero dipartimento archeologico che lo
Stato Islamico ha creato a Manbij, non a caso nei pressi del confine turco. «Qui l’Is ha
creato un vero network: fatto di scavatori, ex impiegati museali e ministeriali e perfino
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archeologi che collaborano o vengono costretti a farlo. E ci sono anche mediatori e
venditori “approvati”». Interessato solo al profitto e non alla conoscenza, l’Is usa bulldozer
e trattori per gli scavi: distruggendo i siti ancor prima che vengano alla luce. Il professore
sospira. «Mirano solo a quel che possono vendere: teste di statue, fregi di decorazioni.
Parti preziose e facili da trasportare ». Palmira trasformata in una cava. E questo, come
dice Amr al-Azm, dovrebbe renderci tristi e furiosi tutti quanti.
Del 26/08/2015, pag. 6
Tregua precaria ad Ein al Hilwe sotto attacco
jihadisti Jund al Sham
Libano. Da giorni vanno avanti gli scontri nel più grande campo
profughi palestinese nel Paese dei Cedri. Centinaia di famiglie in fuga,
molte giunte da Yarmouk in cerca di scampo dalla guerra civile siriana
Michele Giorgio
«Ho fatto male a venire qui ad Ein al Hilwe con la mia famiglia. A Damasco avrei trovato
un rifugio più sicuro, qui si combatte come in Siria». Abu Khaled, intervistato da giornalisti
libanesi, raccontava ieri il dramma di centinaia di profughi palestinesi, molti dei quali scappati dalla guerra civile siriana, che da alcuni giorni vivono ammassati in una moschea di
Sidone per sfuggire alle raffiche di mitra e ai lanci di razzi e granate. Anche Jamila Shami,
giunta da Yarmouk, si rammariva dell’”errore” commesso. «Non dovevano lasciare la Siria,
siamo passati da una guerra all’altra». Nella moschea ci sono anche tante famiglie che da
sempre vivono nel campo palestinese, costrette a subire a queste improvvise escalation di
violenza. Da sabato scorso è di nuovo guerra nelle strade strette e sporche di Ein al Hilwe,
il più grande dei 12 campi profughi palestinesi in Libano dove in condizioni disumane
vivono 450 mila rifugiati della Nabka del 1948. I jihadisti di Jund al Sham (un gruppo vicino
ad al Qaeda), formato solo in parte da palestinesi, ha rilanciato la sua campagna di attacchi contro il movimento Fatah, che controlla il campo e che vuole l’espulsione dei jihadisti.
A luglio uomini armati hanno sparato da un’automobile in corsa uccidendo Talal al Ourdouni, un colonnello dell’ala militare di Fatah. Sabato scorso invece hanno cercato di
assassinare Ashraf al Armoushi, il capo dell’intelligence di Fatah. È stata la scintilla della
nuova guerra, con molte centinaia di civili costretti a scappare sotto il fuoco incrociato e a
trovare riparo nelle strade della vicina Sidone. Il bilancio dei combattimenti è di tre morti
(tutti di Fatah) e di una trentina di feriti. Le esplosioni hanno distrutto diverse abitazioni,
molte altre sono state danneggiate gravemente. Ieri è stato proclamato un cessate il fuoco
ma in serata appariva precario. Non è chiaro se rappresentanti di Jund al Sham abbiano
preso parte ai colloqui convocati da tutte le organizzazioni palestinesi, inclusa la sinistra
rappresentata dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina, per mettere fine ai
combattimenti. La presenza di Jund al Sham ad Ein al Hilwe – ufficialmente ci vivono 70
mila palestinesi ma in realtà sono il doppio, considerando i rifugiati giunti dalla Siria negli
ultimi tre anni – è nota da tempo e gli scontri violenti con Fatah sono stati frequenti. Negli
ultimi due anni però i jihadisti si sono fatti più arroganti, sull’onda dei successi che i loro
“cugini” dell’Isis e di Nusra hanno ottenuto in Iraq e Siria. Secondo alcune fonti inoltre possono contare su nuove fonti di finanziamento. Per questo hanno rialzato la testa e mettono
in discussione la leadership di Fatah. Contestano inoltre la cooperazione esistente da
alcuni anni tra le formazioni politiche palestinesi e le forze di sicurezza libanesi per tenere
lontano dai campi profughi salafiti radicali, jihadisti e la criminalità organizzata. Peraltro
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nella vicina Sidone, storica roccaforte sunnita, non sono caduti nel vuoto gli appelli alla
“guerra santa” contro gli sciiti appoggiati dall’Iran (Hezbollah) e gli alawiti al potere
a Damasco attraverso la presidenza Assad. Non pochi giovani sunniti sono partiti per la
Siria a combattere contro gli “infedeli”, spinti anche dagli appelli del predicatore salafita
Ahmed al Assir, che due anni fa innescò combattimenti nelle strade di Sidone costati la
vita a numerosi soldati libanesi. Qualche giorno fa è stato finalmente arrestato
all’aeroporto di Beirut dopo una lunga latitanza. Le infiltrazioni jihadiste espongono Ein al
Hilwe allo stesso destino subito nel 2007 da un altro campo profughi palestinese, Nahr al
Bared (Tripoli). Divenuto la base di Fatah al Islam, una formazione qaedista, Nahr al
Bared fu distrutto in buona parte dall’artiglieria dell’esercito libanese e la popolazione per
anni ha vissuto in container di lamiera e in un altro campo profughi, Beddawi. L’esercito
libanese ha già rafforzato le sue posizioni in corrispondenza dei quattro ingressi principali
di Ein al Hilweh mentre i libanesi, molti dei quali guardano (a dir poco) con diffidenza ai
rifugiati palestinesi, sono tornati a chiedere misure drastiche per riportare l’ordine nel
campo profughi.
Del 26/08/2015, pag. 8
Se ne va la Croce Rossa, arrivano le truppe
saudite
Yemen. I soldati di Riyadh dispiegati ad Aden e al centro, ufficialmente
per ricreare la polizia locale. L'Iran insiste sul negoziato e apre alla
coalizione anti-Houthi
Chiara Cruciati
Si arrende anche la Croce Rossa, ormai il popolo yemenita è davvero solo: reso incapace
di portare soccorso alla popolazione civile dalla mancanza di aiuti dovuto al blocco imposto dall’Arabia Saudita, ora target di uomini armati non identificati, il Comitato Internazionale della Croce Rossa ieri ha annunciato la sospensione temporanea delle attività nella
città costiera meridionale di Aden.
La decisione – fanno sapere fonti interne – è stata presa a seguito di un raid all’interno
della sede nel porto della città, ancora oggi terreno di scontro diretto tra ribelli Houthi
e forze governative. Il gruppo armato ha aggredito lo staff e requisito auto, computer
e denaro contante. Un colpo duro al quasi inesistente fronte umanitario nel paese: la
Croce Rossa era una delle poche organizzazioni ancora presenti sul campo, nel tentativo
di mettere una pezza all’enorme crisi umanitaria che sta strangolando lo Yemen.
Per uno che se ne va, qualcun altro arriva: le prime truppe di terra saudite sono giunte ieri
ad Aden. Cinquanta soldati – dicono funzionari yemeniti – sono stati inviati con il compito
di rimettere in sesto il corpo di polizia locale, sbriciolatosi sotto i colpi della guerra civile
e l’assenza dello Stato. Di poliziotti, dopo la fuga del presidente Hadi all’estero e la presa
delle regioni sud da parte Houthi, non se ne vedono più. Le stazioni di polizia sono
deserte. E ora che Aden è tornata – almeno in parte – in mano governativa, Riyadh ha
disposto la ristrutturazione del corpo di polizia.
Questa è la versione ufficiale. Quella ufficiosa è che le truppe straniere sul terreno (ce ne
sono già, provenienti dagli Emirati Arabi, membri della coalizione anti-Houthi) saranno
impiegate per porre definitivamente fine alla ribellione sciita e saranno dispiegate nelle
zone meridionali e centrali del paese, da Aden a Ma’rib e Shabwa. Proprio in queste aree
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si stanno moltiplicando in questi giorni i bombardamenti da parte dell’aviazione saudita,
una potenza di fuoco che uccide soprattutto i civili.
Si registrano scontri anche a nord, dove i ribelli Houthi rispondono all’attacco di Riyadh
con i missili: nelle ultime 24 tre soldati della petromonarchia sono stati e tre feriti
dall’artiglieria sciita o durante scontri diretti alla frontiera settentrionale tra i due paesi.
E mentre l’Arabia saudita prosegue nella sua guerra per procura a Teheran, è l’Iran a farsi
portavoce della diplomazia come soluzione di un conflitto in cui non ha voluto mai infilarsi
direttamente. Ieri il vice ministro degli Esteri iraniano ha detto che la Repubblica Islamica
è pronta a cooperare con Riyadh per porre fine alle ostilità attraverso il negoziato e per
evitare che il terrorismo inondi la regione. Un effetto già visibile in Yemen: al Qaeda nella
Penisola Arabica, che nel paese ha la sua roccaforte, si sta pericolosamente allargando.
Dopo aver assunto il controllo militare e amministrativo della provincia di Hadramaut, ora
ha occupato ampie aree della città di Aden.
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INTERNI
Del 26/08/2015, pag. 1-12
IL RACCONTO/NELLA PLATEA DEL MEETING
La conversione di Cl sedotta da Matteo “Il Pd
ora è votabile”
JENNER MELETTI
RIMINI. Gli applausi si sono appena spenti. L’ultimo è per Emilia Guarnieri, presidente del
Meeting, e al suo «Noi ci siamo». “A chi cerca di tirare il Paese fuori dalla crisi – dice al
presidente del Consiglio che ha appena finito di parlare alla platea ciellina - diciamo che
noi ci siamo. Quando le istituzioni vogliono dare una mano al Paese, noi ci siamo. Con chi
rifiuta la logica della paura e le contrapposizioni ideologiche, noi ci siamo”. Assieme a lei,
sul palco, a chiedere a Matteo Renzi come si possano cambiare l’Italia e il mondo, c’è
anche Giorgio Vittadini, presidente della fondazione per la Sussidarietà. Per il premier
ottomila presenti e venti applausi. Professor Vittadini, si può dire che Cielle adesso è per il
centro sinistra? «No, non si può dire. Si può dire invece che non è più di centro destra.
Comunque da tempo il Pd non è più un partito non votabile. Pier Luigi Bersani è sempre
stato un amico. A fare votare Dc, ancora negli anni ’80, erano i vescovi, non Cielle».
«Non mollare», è il grido che si sente più spesso, nell’ora in cui Matteo Renzi attraversa
padiglioni e mostre del Meeting. “Matteo, Matteo”. “Vai avanti così, vedrai che ce la fai”.
Lui appare dietro “transenne” umane di magliette verdi del servizio d’ordine di Cielle e
divise di carabinieri e polizia.
Entra subito alla mostra “Opus florentinum, piazza Duomo di Firenze fra fede, storia e
arte”. “Vai avanti Matteo, sei sulla buona strada. Sono finiti gli anni del bunga bunga”. Il
ragazzo che grida ha accento fiorentino. Sembra rispondere anche a lui, il premier,
quando dal palco dirà che “il berlusconismo, ma anche l’antiberlusconismo, ha schiacciato
per vent’anni il tasto ‘pausa’ nella crescita dell’Italia. All’uscita dalla mostra un urlo.
“Quando ve li abbassate, gli stipendi, tu e tutti gli altri politici?”. Ma subito dopo: “Matteo,
non ti fermeranno”. Nel resto del cammino con rischi di sfondamento ci sono solo selfie,
tentativi di abbracci, offerte di panini e di spumante. Al suo fianco, nel mini tour, l’ex
ministro Maurizio Lupi, che assieme a Roberto Formigoni quest’anno non è stato invitato a
nessun dibattito del Meeting. Lupi si è mostrato al fianco anche di altri politici, li ha
accompagnati al palco dove lui non poteva salire. L’ex governatore lombardo ha invece
preferito non farsi vedere. Una visita al salone del Federlegnoarredo, che al Meeting è una
potenza. Ogni giorno un incontro fra “giovani in cerca di lavoro, imprenditori alla ricerca di
giovani”. Poi il premier incontra a porte chiuse “i vertici di alcune aziende, pubbliche e
private, che sostengono il meeting in qualità di sponsor o partner”. Fra queste, Fs,
Federlegno arredo, Intesa San Paolo, Enel…Spunta il sole dopo il potente acquazzone
che aveva accolto Matteo Renzi all’arrivo, con le ovvie battute sul governo ladro. Si va nel
grande salone. Si passa accanto a una piccola mostra – montata sull’acqua delle piscine –
dedicata a Cielle a a don Luigi Giussani. Qui – e solo qui – si possono riascoltare in un
televisore le parole di papa Francesco davanti a 80.000 ciellini il 7 marzo in San Pietro. “Il
carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata. Dire ‘io sono di Cielle’ è una
spiritualità da etichetta”. Delusi quelli di Tempi, rivista vicina a Cielle, che gli avevano
dedicato la copertina con il titolo: “Caro Matteo vieni a firmare”. Chiedevano un impegno
per le scuole paritarie. Anche nel discorso nessun accenno a questo problema. Nessuna
parola pure sulla vicenda delle unioni civili. “Non mi sembrano questi – ha commentato
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Giorgio Vittadini – i temi centrali del Meeting”. Tutto tranquillo, per il premier pd, meglio
che in certe feste dell’Unità. Quel “Noi ci siamo” è un buon carico di fieno da mettere in
cascina. Bagno di folla per il premier invitato a “non mollare” Vittadini: ma anche Bersani è
sempre stato un amico La presidente Guarnieri: “Noi stiamo con chi intende tirare fuori il
Paese dalla crisi”.
Del 26/08/2015, pag. 12
Renzi:persi vent’anni in risse sul
berlusconismo
E poi: “Via Imu e Tasi”
Al Meeting:Italia fermata da scontri ideologici “Senato elettivo? La
democrazia non è il Telegatto”
DAL NOSTRO INVIATO
FRANCESCO BEI
PESARO. A Rimini e Pesaro è tornato il Renzi uno. Quello che piace – molto ai ciellini,
moltissimo ai pesaresi che affollano tutti i loggioni del teatro Rossini – e quello che viene
detestato e fischiato (come a l’Aquila o, sempre a Pesaro, da leghisti, insegnanti arrabbiati
e grillini). Ma non lascia indifferenti. E’ il Renzi «con la tigna» - scherza il sindaco Matteo
Ricci che lo accoglie al teatro della città marchigiana – che in dialetto locale significa
caparbio, con la testa dura. Quello che al cronista che gli chiede, nel backstage del teatro,
se esista qualche possibilità di modificare l’Italicum spostando il premio dal partito alla
coalizione (come vorrebbe Forza Italia), risponde netto: «Assolutamente no, ma che
scherziamo? Riapriamo il cantiere? Non esiste».
Si chiude su tutto dunque e «si va avanti», anche se non è chiaro come visti i numeri del
Senato. Ma oggi, al ritorno dalle ferie, «trascorse al mio paese», l’importante è il racconto,
la prosa dell’ottimismo di governo contro quelli che rappresentano l’Italia «come un set di
tutte le sfighe». Matteo Salvini in primo luogo, «quel politico che ha detto di voler bloccare
il paese per 3 giorni a novembre... ma sono 20 anni che la stanno bloccando! Ci stavano
loro al governo con Berlusconi quando lo spread stava oltre i 500 punti. La risposta,
invece, è rimetterla in moto». Salvini è l’uomo nero. Un leader che sull’immigrazione
sfrutta «il provincialismo della paura» per raccattare consensi: «Ma io non rinuncio
all’umanità per tre voti. Prima salviamo le vite umane, non è buonismo ma umanità».
Renzi si propone come un premier sopra le parti - «anche se un mio partito ce l’ho ed è il
più votato d’Italia – che pensa solo al «bene comune» mentre gli altri si azzuffano e
dunque domani può essere votato anche da chi in passato ha scelto l’altra metà campo. In
fondo è questo il cuore del messaggio che rivolge ai ciellini, che infatti si spellano le mani:
«L’Italia in questi 20 anni ha trasformato la Seconda Repubblica in una rissa permanente
ideologica sul berlusconismo e l’antiberlusconismo, ha smarrito il bene comune, e mentre
il mondo correva è rimasta ferma in discussioni sterili interne».
Né a Rimini né a Pesaro c’è spazio per concessioni o aperture ai temi sollevati dalla
minoranza Pd, dalle tasse al nuovo senato federale. Le riforme, «premessa per il rilancio»,
non si toccano. Viene liquidata come una «discussione incredibile» quella sull’elettività dei
nuovi senatori, alimentata da quanti sostengono che «se non c’è elezione diretta è a
rischio la democrazia. Ma non è che devi votare tante volte perché ci sia più democrazia.
Quello è il Telegatto. Moltiplicando le poltrone si fanno contenti quei politici, non gli
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elettori». A Calderoli, che ha presentato un Tir di scatoloni pieni di emendamenti, risponde
con una battuta: «Ci portano mezzo milione di emendamenti, una risata li seppellirà! Ti
immagini se noi ci facciamo bloccare da qualcuno che pensa di farci paura con gli
emendamenti... Noi resisteremo un minuto di più!». Anche sulle tasse nessun
cambiamento di programma.Il prossimo anno verranno tagliate Tasi e Imu «per tutti»,
quindi anche a chi - e la minoranza del Pd non è d’accordo - ha l’attico in centro. «Mi si
dice: ma la tassa sulla casa l’aveva tolta Berlusconi. Non è vero, Berlusconi l’ha rimessa,
insieme a Monti. E poi non si tratta di chi ha fatto o non ha fatto una cosa, ma se quella o
giusta o meno». E per Renzi evidentemente tagliare l’Imu «per tutti» è cosa buona e
giusta. «La riduzione delle tasse aumenta il tasso di libertà del Paese, aumenta il tasso di
giustizia sociale». Quanto all’Italicum, fa una cosa «semplice e rivoluzionaria: dice che chi
arriva primo vince. E’ il primo tassello per riuscire finalmente a governare e non difendersi
dagli assalti di minoranza o opposizione ».
A Pesaro, al Teatro Rossini, va in scena il “numero zero” di un format destinato a essere
replicato «in altri cento teatri». Una cosa studiata da Renzi e dal suo staff in vacanza. Una
sorta di presentazione-evento delle cose fatte e di quelle da fare, con tanto di video e
accompagnamento musicale (in omaggio a Rossini, ieri era il crescendo del Guglielmo
Tell). «Questa estate, durante le vacanze, sono stato nel bar di quando ero piccolo, uno di
quei bar dove ti conoscono per quel che sei, e una signora mi ha detto: non le state
raccontando bene le cose che state facendo, dovete fare di più. Vediamo insieme se le
cose che stiamo facendo sono davvero cose che stanno coinvolgendo le persone o, come
tutti i politici dei palazzi, stiamo perdendo freschezza ed entusiasmo». La risposta dei
pesaresi al Rossini è entusiastica. Gli va meno bene fuori dal teatro - dove lo aspettano i
leghisti e i militanti “No Trivelle” - e poi all’Aquila.
Del 26/08/2015, pag. 13
Contestazioni e tre feriti all’Aquila il premier
salta tappa in Comune
In piazza il fronte anti-trivelle in Adriatico Palazzo Chigi: per ricostruire i
soldi ci sono
GIUSEPPE CAPORALE
L’AQUILA. Matteo Renzi, ieri pomeriggio, non è riuscito a entrare nel centro storico
dell’Aquila. A bloccare la visita del premier nel cuore della città distrutta dal terremoto e
completamente puntellata, sono stati 300 contestatori accorsi da diverse parti d’Abruzzo
per protestare contro la trivellazioni petrolifere nel mare Adriatico e il decreto “Sblocca
Italia”. Eppure, il presidente del Consiglio era nel capoluogo di regione per annunciare al
governatore Luciano D’Alfonso, al sindaco Massimo Cialente e a tanti sindaci del
comprensorio che i soldi per la ricostruzione finalmente ci sono, e sono già sul conto
corrente della ricostruzione. «Ho scelto di venire all’Aquila solo oggi, perché ho preferito
prima produrre risposte concrete da mettere a disposizione di questo territorio. In passato
in troppi qui hanno fatto solo passerelle mediatiche. Oggi la risposta dello Stato c’è. I fondi
ci sono, la conferma ufficiale l’abbiamo avuta pochi giorni fa. Ora tocca a voi spenderli e
spenderli bene» ha detto il premier durante la riunione operativa che in seguito ai tafferugli
- con una poliziotta e due manifestanti feriti, e un terzo colpito da malore - è stata spostata
dagli organizzatori locali dalla sede comunale al centro di ricerca “Gran Sasso Science
Institute”, situato all’ingresso della città. Renzi non ha mai raggiunto il municipio, prima
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tappa della sua visita in città. E così la sala universitaria che doveva ospitare solo una
veloce visita di cortesia del presidente del consiglio, alla fine è stato il luogo dove si è
svolto il “meeting” sulla ricostruzione.
E il sindaco Cialente - che per anni ha contestato i governi fino ad arrivare al punto,
durante l’esecutivo Letta, di riconsegnare la fascia di primo cittadino all’allora presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano - stavolta ha preso la parola per ringraziare.
«Finalmente i soldi ci sono con una programmazione a lungo termine che ci permette di
far partire davvero i cantieri del centro storico e garantire che entro il 2017 termineremo
una fase centrale della ricostruzione. Ora mi pento di quando riconsegnai la fascia
tricolore, ma eravamo disperati. Ma abbiamo lavorato molto: dei 56mila sfollati del 6 aprile
2009, oggi solo 12mila sono ancora fuori dalle loro case». E il governatore D’Alfonso ha
chiesto pubblicamente a Renzi un «supplemento di approfondimento» sulle trivellazioni in
Adriatico, sul progetto Ombrina Mare, che di tutti quelli in attesa di approvazione è il più
impattante, grande quanto uno stadio di calcio. «Il turismo e lo sviluppo economico non
sono antitetici» ha risposto Renzi «sulle trivellazioni in Adriatico faremo ulteriori
approfondimenti».
Renzi ha scelto L’Aquila anche per annunciare il patto per il Sud. Quindici «accordi
specifici» per quindici aree del Paese. «Noi metteremo i fondi ma chiederemo agli enti
locali il rispetto dei tempi». E mentre dentro la sala dell’istituto scientifico si ragionava di
investimenti e rilancio dell’Aquila e del Meridione fuori la polizia caricava i manifestati che
tentavano di forzare il varco ed entrare nell’istituto. Non solo, una volta terminato l’incontro
sindaci e amministratori locali sono stati accolti da una sassaiola. Scatenando la reazione
del presidente della Provincia, Antonio De Crescentis. «Non ci sto a farmi chiamare
cameriere di Renzi».
Del 26/08/2015, pag. 18
Grandi appalti debiti e Giubileo quattro tutor
per il sindaco
Domani le sorti della capitale sul tavolo del Consiglio dei ministri
IL RETROSCENA
GIOVANNA CASADIO
ROMA. Una rete di salvaguardia. Un coordinamento operativo. Palazzo Chigi sfuma i
termini. Ma nel lungo faccia a faccia di ieri tra il vice sindaco di Roma, Marco Causi e il
sottosegretario Claudio Vincenti la questione della giunta Marino sotto tutela o, se si
preferisce, “sotto sorveglianza” del governo, è stata affrontata senza tanti giri di parole. In
vista del Giubileo, ma non solo, sarà varato dal consiglio dei ministri di domani un
provvedimento che affida al prefetto Franco Gabrielli il coordinamento sulla sicurezza e su
alcune opere pubbliche. Le spese per gli appalti invece — che per ora ammontano a una
cifra considerata dal sindaco e dalla sua giunta modesta ovvero di 30 milioni (in tutto la
disponibilità è di 50, ma 20 sono per la manutenzione metrò) — saranno super visionate
da Raffaele Cantone. Il capo dell’Authority anti corruzione entra quindi a pieno titolo nella
partita capitolina. Inoltre Silvia Scozzese, renziana, assessore al Bilancio romano, che si è
dimessa un mese fa, rientra in gioco. Sarà lei il commissario straordinario del governo sul
debito del Campidoglio, ruolo che era di Massimo Varazzani. Risponderà direttamente al
Ministero dell’Economia. Incarico che ovviamente va ben al di là del Giubileo. E poi c’è il
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rebus del quarto controllore della giunta Marino. Filtra dal governo la possibilità di un alto
funzionario statale che passi al setaccio gli atti amministrativi capitolini.
Nella capitale martoriata dalle indagini di Mafia e dalle messinscene del clan dei
Casamonica, le decisioni sono urgenti. Marino è negli Usa in vacanza, ma Causi spiega di
informarlo punto per punto. Sul controllo anche degli atti, il vice sindaco sembra cadere
dalle nuvole. Con De Vincenti — dice — si è parlato di cose in gran parte risapute. Di certo
c’è che domani è il D-Day per Roma. Renzi e i ministri ascolteranno in consiglio la
relazione di Angelino Alfano sulle infiltrazioni mafiose e appunto saranno varate le misure
per il Giubileo. Causi nega polemiche e braccio di ferro: «Quando vengo a Palazzo Chigi
non mi sento commissariato ma aiutato e tutelato». Infatti di tutor preferiscono parlare
dalle parti del governo. Dal consiglire politico Matteo Orfini al funzionario-revisore delle
decisioni amministrative, la giunta del sindaco Marino è “accompagnata”.
Il Campidoglio sta tra l’altro battendo cassa, convinto che si possa raschiare il barile e
convincere il ministro Padoan e la Ragioneria dello Stato a qualche sforamento utile per
prepararsi al meglio al Giubileo. C’è da recuperare tra l’altro l’immagine della Capitale
massacrata dalle connivenze e dalle complicità con Buzzi e company e dallo scaricabarile
di responsabilità per i funerali-show dei Casamonica. La trattativa tra Campidoglio e
governo è stata aggiornata a oggi. Sarà Renzi personalmente l’interlocutore. Fino
all’ultimo il Campidoglio cercherà di ottenere il massimo dell’autonomia. Marino non
vorrebbe tutele, però ci sarà di certo una stretta sulle procedure amministrative con
modalità specifiche. Il funzionario ad hoc è una delle ipotesi che spetterà al cdm
accogliere o meno.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 26/08/2015, pag. 15
Il calderone dove le mafie non sparano ma
collaborano
La peculiarità della capitale: un centro di riciclaggio che unisce il Nord e
il Sud Qui Camorra, ’ndrangheta, Cosa nostra e criminalità locale
coabitano
Guido Ruotolo
Ancora non c’erano stati i primi arresti di Mafia capitale, nel dicembre scorso, che il
procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, insisteva nel porre l’attenzione sul tema della
«complessità», come «caratteristica principale dei fenomeni criminali nella capitale».
Non che a Roma la criminalità si fosse affacciata solo da poco tempo. Ma c’è sempre stata
a New York, a Parigi, a Marsiglia, nelle grandi metropoli, perché mai Roma avrebbe
dovuto salvarsi?
Dunque, non è certo una novità la presenza delle gang che spacciano cocaina e pasticche
nelle varie capitali del mondo moderno. E quindi anche a Roma. Bande etniche latinoamericane, nella Grande Mela. Romani, calabresi, napoletani e sinti nella città eterna.
In un rapporto riservato, la Mobile di Roma scriveva alla vigilia della esplosione di Mafia
capitale, nel dicembre scorso: «Roma è un vero e proprio centro di riciclaggio per il denaro
sporco derivato dal traffico della droga e delle armi, dalle estorsioni, dall’usura e dalla
prostituzione». Gli investigatori romani precisavano: «La criminalità organizzata a Roma è
un fenomeno che non ha le stesse caratteristiche visibili che possiede in altre regioni
come la Sicilia, la Campania, la Puglia e la Calabria, dove si registra o si registrava una
vera e propria presenza militare delle mafie. Nella capitale e in provincia operano diverse
consorterie mafiose in combutta con la criminalità locale».
Uscire allo scoperto
Ecco perché ha lasciato turbati la potenza mediatica e simbolica del funerale del Padrino,
del capo dei Casamonica, ceppo abruzzese di una famiglia di sinti trapiantata a Roma agli
inizi del secolo scorso, clan dedito all’usura e al traffico di droga. Clan in rapporti con la
’ndrangheta e presente in un’importante fetta del territorio. Stiamo parlando dei quartieri
orientali e della fascia sud-est della capitale, dove coabita con il clan Senese, che nasce
legato alla camorra: Genzano, Nettuno, Lanuvio, Cerveteri, e i quartieri della Romanina,
Anagnina, Tuscolana, Porta Furba. Mille affiliati, più di cento arrestati, indagati, processati.
E una difficoltà tecnico-giuridica a poter contestare al clan Casamonica il reato di
associazione mafiosa. Sta nella rivendicazione della «visibilità», infatti, la novità di questa
criminalità romana che affronta il «pubblico» uscendo dall’ombra. La carrozza con i cavalli,
la colonna sonora, il manifesto-poster, l’elicottero che lancia petali di fiori. Sicuramente
un’altra caratteristica tutta romana di questa criminalità moderna è la coabitazione delle
diverse mafie in città. Cosa nostra, ’ndrangheta, camorra, mafia capitale, clan vari,
piuttosto che farsi la guerra per la conquista di una fetta del territorio o del mercato
criminale (droga, usura, riciclaggio, prostituzione) cooperano tra loro.
Le mafie che coabitano
«Mafie italiane e mafie straniere - si legge nel rapporto della questura di Roma - convivono
senza conflitti tra loro. E fanno affari in comune, soprattutto nell’ambito degli stupefacenti e
delle armi». Poi è arrivata Mafia capitale con la retata di dicembre scorso, e la sentenza
della Cassazione che ha posto il sigillo notarile sul riconoscimento a livello della
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giurisdizione dell’esistenza di un’organizzazione mafiosa autoctona, Mafia capitale
appunto. E gli altri arresti di giugno.
È con i Carminati e i Buzzi che si scompone il caleidoscopio criminale romano e tutto torna
al suo posto, si rimette a fuoco. Le immagini ora appaiono nitide. In fin dei conti le indagini
del procuratore Pignatone raccontano che la mafia moderna della capitale non ha bisogno
di sparare. Usa la corruzione per raggiungere i suoi obiettivi. In perfetta sintonia con il
contesto della città eterna. È una mafia che compra burocrati e funzionari comunali,
assessori e consiglieri comunali. Conquista appalti e forniture, dà lavoro per assistere i
migranti e fa affari nel settore dei rifiuti. Con il ramo dell’organizzazione che fa traffici
criminali.
Clan e zone d’influenza
Il segreto di Roma, infatti, sta nella sua «complessità». Anche quando si tratta di
narcotraffico o reati informatici, di delitti contro l’ambiente e contro i soggetti deboli, anche
quando si tratta di terrorismo o criminalità politica. Roma, è convinto il procuratore
Pignatone, è «la complessità criminale»: 45 clan distribuiti sul territorio, 383 beni
sequestrati (immobili e aziende). Dal «Café de Paris» di via Veneto alla Casa del Jazz,
dalle catene di pizzerie ad alberghi, appartamenti, alla «Boutique del gioiello» di via
Trionfale (dei clan della ’ndrangheta di Africo), agli allevamenti di animali da macellare,
alla ristorazione. A Ostia regnano due clan mafiosi, uno collegato a Cosa nostra, l’altro
autoctono. Stiamo parlando dei clan Fasciani e Spada. Stabilimenti balneari, chioschi-bar,
esercizi di ristorazione, concessionarie di auto. C’è poi la Roma Nord, la città bene dei
Parioli, dell’Olimpico, della Balduina. Polvere bianca, affari, estorsione, usura. Qui aveva la
sua base operativa, (un benzinaio di corso Francia) Mafia capitale. Che è stata una
sponda di «opportunità» anche per la ’ndrangheta, nel settore degli appalti sui rifiuti. La
mafia calabrese che ricicla in alberghi e bar, pizzerie e ristoranti è sempre quella che fa
affari con la droga. Nei mesi scorsi sono stati arrestati trafficanti di San Luca, Aspromonte,
per un traffico di 600 chili di cocaina. I boss vivevano a Centocelle, San Giovanni, Appio,
Primavalle e Aurelio. A dimostrazione, che la mafia a Roma esiste. Eccome.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 26/08/2015, pag. 8
Emergenza profughi allarme in Germania per
gli attacchi neonazi
Dopo gli scontri in Sassonia in fiamme un centro rifugiati vicino alla
capitale La cancelliera sospende la convenzione di Dublino: sì
all’ingresso dei siriani
DAL NOSTRO INVIATO
GIAMPAOLO CADALANU
BERLINO. La fuga dei rifugiati dell’estate 2015 è ormai su scala epocale, mai raggiunta
dai tempi della Seconda guerra mondiale, e sta mettendo in discussione la leggendaria
capacità di accoglienza della Germania. A fronte di una mobilitazione generale, con
centinaia di volontari che offrono contributi o lavoro, giornali che incitano a fare la propria
parte e associazioni che coordinano, rispunta l’intolleranza. Sabato scorso a Heidenau, in
Sassonia, alcune centinaia di neonazisti — ubriachi, dice la polizia — mobilitati dalla
nostalgica Npd avevano cercato di impedire l’arrivo dei profughi nell’ostello locale,
scontrandosi con gli agenti. Oggi a Heidenau arriva Angela Merkel, che la stampa aveva
criticato per il suo lungo silenzio sul tema, raffigurandola come uno struzzo con la testa
sotto la sabbia. Ma i segni di una recrudescenza dell’estrema destra violenta si
moltiplicano e creano allarme. Ieri a Nauen, poco lontano da Berlino, è stata data alle
fiamme un’ex palestra che doveva essere trasformata in struttura di accoglienza. Il timore
che i gruppi neonazisti possano sfruttare il disagio per l’emergenza rifugiati e rialzare la
testa è tale che ieri la polizia della capitale ha fatto sgomberare la Willy-Brandt-Haus, sede
della Spd. Gli investigatori hanno preferito prendere sul serio una telefonata che
annunciava un attentato. I socialdemocratici potrebbero essere nel mirino degli estremisti
perché Sigmar Gabriel, vice cancelliere e leader del partito, ha usato parole molto dure per
condannare l’agguato di Heidenau: «Non dobbiamo lasciare a questo branco nemmeno un
millimetro di spazio. Per questa gente l’unica risposta possibile è la prigione».
Ma è l’Europa tutta che reagisce all’emergenza profughi in ordine sparso. Altro che
rispondere con una voce sola, come chiedono Angela Merkel e François Hollande. Da una
parte, la cancelliera ha annunciato che la Germania sospende la Convenzione di Dublino,
quanto meno per i fuggiaschi in arrivo dalla Siria: in altre parole, Berlino non rimanderà
indietro i profughi nel primo Paese Ue dove sono entrati, come avrebbero imposto le
regole internazionali. È un passo molto concreto, e va nella direzione richiesta anche da
Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri tedesco, che sulla
Sueddeutsche Zeitung di ieri invitava a «non lasciar sole Roma e Atene». Nel frattempo
però è l’Est europeo a segnalare le situazioni più esplosive. In queste ore il punto più
rovente sembra essere il confine fra Serbia e Ungheria: almeno due-tremila persone al
giorno stanno attraversando la frontiera che divide la repubblica ex Jugoslava dalla Ue,
anche tagliando la barriera di filo spinato che il governo di Viktor Orban ha fatto sistemare,
in attesa di finire la costruzione di un muro alto quattro metri. Nei prossimi giorni l’ondata di
persone in arrivo da Grecia e Macedonia potrebbe superare le diecimila persone, avverte
l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. In Serbia, dice il governo di Belgrado, sono passati
almeno centomila profughi, diretti verso il nord Europa. Insomma, se davanti
all’emergenza l’Europa mediterranea arranca, quella dell’Est reagisce scompostamente ed
è persino tentata di adoperare la forza. Ma davanti alla disperazione servirà a ben poco
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anche l’inasprimento delle pene per chi entra, una misura annunciata da Budapest che
però difficilmente potrà essere messa in pratica. Nemmeno i gas lacrimogeni e le granate
stordenti adoperati dal governo macedone possono arrestare la fuga di chi a casa propria
vede arrivare bombe a frammentazione, se non persino i gas nervini.
Del 26/08/2015, pag. 8
Roma contro Berlino “Capiscono la crisi ora
che tocca a loro”
IL RETROSCENA
DAL NOSTRO INVIATO
FRANCESCO BEI
L’IRRITAZIONE di Renzi verso Merkel e Hollande traspare palese. Non ci sta il premier a
farsi mettere dietro la cattedra per non aver attuato l’accordo sui migranti deciso in sede
Ue. E, pur senza nominarli direttamente, è chiaro a chi si riferisce quando, dal palco del
teatro Rossini di Pesaro, alza la voce contro coloro che «in Europa si accorgono del
problema immigrazione solo ora che li tocca direttamente, mentre sono mesi che noi glielo
ripetiamo». È una puntura polemica, come quella contro i leghisti e i forzisti italiani che
vorrebbero ributtare a mare i disperati che cercano fortuna sui barconi della morte.
«Sull’immigrazione non cederemo mai al messaggio che vuol far diventare l’Italia la terra
della paura, possiamo anche perdere tre voti, ma non cederemo al provincialismo della
paura. Non è buonismo, ma umanità: secoli di umanità ai quali non rinuncio per tre voti.
Prima salviamo le vite».
Dietro le quinte tuttavia, oltre all’irritazione, i toni nei confronti della Merkel si fanno meno
netti. C’è anche comprensione per un’uscita, quella contro i paesi di primo arrivo, «rivolta
al pubblico tedesco in un momento in cui i neonazisti rialzano la testa e sfilano insieme
alla gente comune». Insomma, la Cancelleria avrebbe fatto la voce grossa per far vedere
ai tedeschi che il suo governo non se ne sta con le mani in mano. Ma in realtà la risposta
di Berlino, fanno notare a palazzo Chigi, è più in linea con Roma di quanto non appaia. E
lo dimostra la decisione, che a Renzi era stata anticipata a quattr’occhi durante la cena a
Expo la scorsa settimana, di sospendere unilateralmente le norme di Dublino per
consentire l’arrivo in Germania di 20mila siriani. O la spinta verso un sistema di asilo
comune europeo che superi definitivamente la gabbia dell’accordi di Dublino.
Poi è chiaro che ognuno tira la coperta dell’accordo europeo dalla propria parte. La
Germania vorrebbe subito tutti gli hotspot operativi, mentre l’Italia e la Grecia vorrebbero
aumentare la quota di 32 mila richiedenti asilo da distribuire tra i 28 Paesi dell’Unione
europea. «Ognuno deve fare la propria parte e noi la stiamo facendo », sottolinea il
sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi. Dal Viminale fanno sapere che a Pozzallo,
Lampedusa e Trapani sono stati ultimati i primi tre
hotspot italiani, i centri dove lavoreranno insieme gli agenti della polizia di frontiera con i
tecnici e gli esperti di Frontex (l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione
internazionale alle frontiere esterne), Europol e Eso (l’Agenzia europea per il diritto
d’asilo). Altri due sono in costruzione ad Augusta e Taranto e a breve saranno operativi.
Una collaborazione che ha la finalità, è scritto nel documento approvato dall’ultimo
Consiglio europeo, di «identificare rapidamente, registrare e fotosegnalare i migranti in
arrivo». Anche la Grecia è a buon punto e al Pireo è quasi pronto il primo hotspot greco.
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In questa battaglia il governo italiano può contare anche sul sostegno politico di JeanClaude Juncker. Obiettivo comune è quello di rendere permanente un sistema ora appena
abbozzato in fase d’emergenza. Come ha scritto su Repubblica il presidente della
Commissione Ue, si pensa a «un meccanismo stabile, che in situazioni di emergenza
possa entrare in funzione in automatico ogni volta che uno stato membro ne abbia
necessità. L’esistenza di confini esterni comuni ci impone di non abbandonare al loro
destino i paesi membri che si trovano in prima linea». Su questa linea Renzi si confronterà
presto con Angela Merkel. Nuovamente si vedranno a Vienna venerdì, dove è in agenda il
summit sui Balcani occidentali. Che sarà certamente dominato dal tema immigrazione. Il
tempo stringe, anche per cambiare le regole europee. Proprio gli austriaci, ricordano a
Palazzo Chigi, hanno minacciato di portare la Commissione europea di fronte alla Corte di
giustizia Ue se non sarà rivisto il regolamento di Dublino. Secondo l’Austria la normativa è
ingiusta perché le rigidità imposte fanno sì che il 90 per cento dei migranti si concentri in
soli 10 Stati. E l’Italia è tra i primi.
Del 26/08/2015, pag. 11
Il viaggio.
Senza cibo, inseguiti dagli agenti ai confini e taglieggiati: l’odissea da
Belgrado a Budapest di afgani e siriani. Inseguendo il sogno della
Germania
Sulla rotta dei Balcani con i profughi in fuga
“Da noi si muore un muro non ci ferma”
FRANCESCA GHIRARDELLI
BELGRADO
GLI OCCHI puntati sulla mappa, le teste chinate a cercare l’indirizzo scarabocchiato su un
biglietto, quello di una banca con lo sportello Money-Gram: «Aspettiamo che mio zio ci
invii il denaro, non appena lo avremo, andremo via di qui». Mustafa e suo cugino Bilal,
seduti sotto un albero nel parco-accampamento all’uscita della stazione dei bus, sono i
capofamiglia di un gruppo di siriani di Aleppo e Damasco, donne, bambini e una ragazzina
dal velo così bianco da non credere abbia attraversato le stesse polverose traversie dei
suoi famigliari.
La distesa di erba rinsecchita dai 37 gradi dell’agosto di Belgrado, a un passo dal centro,
ospita centinaia di persone, siriani e afgani di passaggio nel lungo viaggio che da Grecia e
Macedonia (con la variante bulgara) punta a nord. Ogni due o tre giorni i visi, le tende, i
panni stesi cambiano, non ci si ferma più di 72 ore in città. Una cisterna d’acqua è l’unico
servizio a disposizione, così gli uomini si lavano all’aperto, le donne arrostiscono nell’afa.
Nell’andirivieni confuso del parco, Mustafa si è sentito chiamare per nome: «Era un amico
di Aleppo, non lo vedevo da anni. L’ho trovato diverso, abbiamo lasciato la Siria tanto
tempo fa». I venditori di Sim Card vanno e vengono indaffarati, i rifugiati tengono il
cellulare a portata di mano, può arrivare la chiamata del trafficante che per la somma
convenuta li condurrà al confine ungherese dove il muro è in costruzione, anche se
nessuno qui sembra saperne nulla. Seduti sopra un cartone nel parco, Navid di 16 anni e
Heshmat di 20, entrambi afgani, ci raccontano con la baldanza dell’età (e dello scampato
pericolo) il momento più difficile del viaggio: «Sul gommone verso l’isola di Mitilene l’acqua
entrava e dovevamo buttarla fuori noi. Pensavamo che saremmo morti, davvero non
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sappiamo perché siamo ancora qui». Chi attende i soldi dai famigliari, chi si indebita coi
trafficanti, chi tenta la sorte sui mezzi pubblici, chi su minivan privati: in una stradina dietro
la stazione, venti afgani sono immobili sul marciapiede. Arriva un camioncino, portellone
scorrevole e finestrini ciechi. In un minuto sono tutti dentro e già in viaggio. «I soldi che
girano sono moltissimi e nel traffico sono coinvolti cittadini serbi e ungheresi, anche senza
un passato criminale» spiega Rados Djurovic dell’Asylum Protection Center, ong locale. Ci
dà informazioni anche sullo status dei rifugiati: «Una volta in Serbia, vengono concessi tre
giorni di tempo per raggiungere uno dei centri per richiedenti asilo sul territorio nazionale
». In pochi però si dirigono ai campi, tutti puntano al confine.
Sono le 22 e al binario 1L della stazione si spalancano gli sportelli del treno per Subotica,
ultima città prima dell’Ungheria: si riversano all’interno ragazzi afgani allegri, quasi fossero
in gita. A bordo siamo più di 120. Questo è lo stesso treno su cui saliranno, a distanza di
due giorni, anche Mustafa e Bilal, mentre Navid e Heshmat hanno scelto il bus. I ferrovieri
ci spingono nei vagoni roventi della seconda classe. Le porte che la dividono dalla prima
(dove viaggiano gli occidentali) vengono bloccate. Sul convoglio un uomo fa un segno col
palmo della mano, per indicare la bassa statura dei bambini: “In Siria i piccoli muoiono
così”. Poi fa un gesto come se buttasse via un sacco.
Il convoglio si muove, le mani si alzano in preghiera, che Allah ce la mandi buona.
Mezz’ora dopo quasi tutti dormono, stesi sui sedili, oppure sotto, sul pavimento, esausti
per troppe notti insonni. Un ragazzino, però, è agitato, conta per me le frontiere
attraversate: «Sono sei e quella bulgara è stata la peggiore, la polizia sguinzagliava i
cani». Alle 2 di notte arriviamo a Subotica, scendiamo in fila scortati dai poliziotti, il silenzio
è così surreale per una stazione affollata che sembra di vivere in un sogno, alla luce dei
neon. Fuori, tutti si dileguano nel buio, ognuno a cercare il trafficante che lo porterà di là.
Due notti dopo, la stessa scena: tra gli ultimi ad uscire Bilal, Mustafa e la ragazzina col
foulard bianco. Ci stringiamo le mani mentre mi confidano a voce bassa: «In stazione la
polizia ha voluto 15 euro a testa per lasciarci andare ». Ora il confine è a otto ore di
cammino. Navid e Heshmat si affidano a un trafficante sprovveduto, perdono il segnale
GPS nel mezzo della boscaglia. Arrivati di là finiscono braccati dalla polizia ungherese.
«Ci hanno fatto dormire all’aperto ma ha piovuto. I siriani hanno protestato e nella
confusione la polizia ha usato i lacrimogeni». Anche dal centro di identificazione
ungherese si esce con un lasciapassare verso i campi sparsi nel paese: anche qui pochi
scelgono di andarci. Alla stazione internazionale di Budapest, rifugio per centinaia di
persone, salutiamo per l’ultima volta Navid e Heshmat. Sul display del binario 6 c’è scritto:
“Monaco, h 21.00”. Heshmat sorride salendo sul vagone: «Per non dare nell’occhio ho
cambiato vestiti: di che nazionalità ti sembro ora?».
Del 26/08/2015, pag. 8
Prigione per i lavoratori sans papier
Lavorare senza permesso di soggiorno in Gran Bretagna presto potrà voler dire trovarsi,
solo per questo, dietro le sbarre fino a sei mesi. La norma, contenuta nella nuova legge
sull’immigrazione che il governo del conservatore David Cameron conta di veder passare
a settembre a Westminster, prevede anche dure penalizzazioni per i datori di lavoro, che
se scoperti a impiegare manodopera non in regola potranno vedersi revocare le licenze.
Mentre il lavoratore potrà anche vedersi sequestrare gli stipendi. Il ministro
dell’Immigrazione James Brokenshire ha prospettato severi controlli per fast-food, negozi
di alcolici, ristoranti takeaway, servizi di taxi privati e ogni altro esercizio commerciale dove
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più forte è stata finora l’incidenza di mano d’opera di recente immigrazione. Un giro di vite
analogo è annunciato in Ungheria. Non contento del muro che sta costruendo al confine
con la Serbia, il governo ha annunciato un inasprimento delle pene per chi supera la frontiera illegalmente.
Del 26/08/2015, pag. 9
VENTIMIGLIA
No Borders è sotto attacco
Geraldina Colotti
Il presidio No Borders è sotto attacco. Alla frontiera tra Mentone e Ventimiglia, dove i
migranti hanno deciso di resistere alle deportazioni allestendo un campeggio permanente,
anche gli attivisti che li sostengono stanno pagando un prezzo. Ieri, un francese
conosciuto per il suo impegno internazionalista, è stato processato per direttissima. Il
giorno prima, era stato fermato dopo un'azione di resistenza al confine francese. «Il 23
agosto – raccontano gli attivisti in un comunicato - 55 migranti sono stati detenuti per più di
6 ore nei container della frontiera alta francese, a "causa" della chiusura dell’ufficio della
polizia italiana addetto alla convalida dei respingimenti e delle deportazioni dalla Francia
all'Italia. Noi, come sempre, eravamo lì, a Ponte San Luigi, a cercare di dar loro aiuto e
sostegno e il risultato di ciò è che uno degli attivisti francesi è stato trattenuto in stato di
fermo per tutta la notte e ora affronterà un processo per direttissima a Nizza, con l'accusa
di oltraggio a pubblico ufficiale». Ogni giorno, gli attivisti che da giugno si alternano al
presidio permanente di San Ludovico, compiono azioni di monitoraggio della frontiera alta.
«Alle 19 del 23 - racconta Lorenzo al manifesto – abbiamo constatato che 13 persone
erano state trattenute nei container. Alcune di loro erano in stato di fermo dalle 15.
Mezz'ora dopo, i migranti erano diventati 50. Fra loro, 5 minorenni e alcune donne,
costrette lì dentro in condizioni disumane. Per tutto quel tempo, avevano ricevuto acqua e
cibo solo una volta. Qualcuno si è sentito male ma, nonostante la nostra pressione, la
polizia francese non ha contattato nessun medico, né sono stati ricoverati all'ospedale».
Alle 23,50, gli attivisti sono stati respinti in territorio italiano. «Lì – aggiunge Ferdinando –
abbiamo trovato ad attenderci la polizia italiana, che ci ha fermati e identificati». Intanto,
dal lato francese «altri attivisti subivano le cariche violente della polizia, scatenata da un
semplice scambio di sigarette tra No Borders e migranti detenuti». Una ragazza «è stata
colpita alle costole con un manganello, e l'attivista francese è stato trattenuto». Due
settimane fa, per un'analoga azione di interposizione pacifica, sei ragazzi hanno avuto il
foglio di via. Gli attivisti, alcuni dei quali erano presenti ieri sera a una cena-concerto del
centro sociale imperiese La Talpa e l'Orologio, denunciano il cinico ping pong subito dai
migranti: respinti da un lato all'altro del confine perché nessuno vuole certificarne la
presenza sul proprio territorio e occuparsene. Un contesto che favorisce l'arbitrio e i
traffici. Il presidio permanente, allestito sotto il ponte della ferrovia, appare quindi come
un'isola di civiltà: un esempio di autogestione che – da un punto all'altro dell'Europa - sta
già facendo scuola, amplificato dai racconti dei migranti che partono e provano a ricrearne
lo schema da un'altra parte. Intanto, l'Associazione Popoli in Arte, ha messo a
disposizione il suo conto corrente per la solidarietà, che presto sarà diffuso nel profilo Fb
dei No Borders. Circola anche un fumetto intitolato La Bolla, con testi e disegni di
Emanuele Giacopetti, che presto sarà tradotto in diverse lingue.
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CULTURA
Del 26/08/2015, pag. 30
Il buon museo
Baratti e Populonia, Bondeno, Sepino Sono solo alcuni dei nomi che
non avranno mai la fama degli Uffizi o di Brera. Eppure in queste realtà
sparse nella Penisola (soprattutto al Sud) sopravvive un modo
sorprendente di gestire il patrimonio artistico Ecco i motivi di un
modello vincente
TOMASO MONTANARI
TUTTI parlano dei venti supermusei, e delle nomine (per me assai discutibili) dei
superdirettori appena fatte. D’accordo: gli Uffizi, Brera, la Galleria Borghese o
l’Archeologico di Napoli sono la punta di diamante del nostro patrimonio artistico: ma è
bene ricordare che ne conservano una percentuale minima. Sono gli organi pregiati di un
corpo le cui cellule sono le infinite, piccole istituzioni culturali che innervano la Penisola. E
guardare alle microstorie del patrimonio significa trovare, lontano dai riflettori, storie di
successo: buone pratiche del tutto trascurate dalla macchina politico-mediatica, ma non
dai visitatori. Un esempio? Il Parco Archeologico di Baratti e Populonia comprende una
delle necropoli più belle del mondo: i tumuli dei signori etruschi di duemilacinquecento anni
fa spuntano come grandi funghi verdi sul prato che degrada fino al mare, da cui sorgono le
sagome delle isole dell’Arcipelago toscano. Chiude la scena l’acropoli di Populonia, la
grande città del vino e del metallo: il ferro che, estratto all’Elba, veniva qua lavorato su
scala industriale. Tutto questo non sarebbe accessibile, materialmente ed
intellettualmente, senza una delle strutture museali più avanzate e consapevoli dell’Italia di
oggi. Trentotto dipendenti — archeologi, restauratori, archivisti, geologi, naturalisti e guide
— fanno girare una macchina che comprende anche un Centro di Archeologia
Sperimentale capace di fare innamorare adulti e bambini. Tutto è curato nei minimi
dettagli: fino agli oggetti che si possono comprare nella libreria, realizzati da artigiani locali
in materiali ecocompatibili, fino alla pasta trafilata al bronzo, ricavata da vecchi semi
autoctoni di grano recuperati e studiati. Un parco archeologico sostenibile, con una
rigorosa certificazione ambientale: perché l’educazione degli italiani del futuro sia a tutto
tondo. E il modello di governance non è meno interessante. La Società Parchi di Val di
Cornia è stata costituita nel 1993 per iniziativa dei comuni di Piombino, Campiglia
Marittima, San Vincenzo, Suvereto e Sassetta, e di alcuni soci privati. Questi ultimi non
puntavano a un profitto diretto, ma alla partecipazione ad un processo di valorizzazione
del territorio che avrebbe dato più valore anche alle loro imprese. E, attraverso la gestione
dei parcheggi e delle aree litoranee presenti nel suo territorio, la Società ha raggiunto nel
2007 il pareggio di bilancio, con 90.000 presenze all’anno. Più a nord, nel comune
ferrarese di Bondeno, è stato il terremoto a favorire un’esperienza unica. A Pilastri è
venuto alla luce un villaggio dell’età del Bronzo (una cosiddetta terramara), e si è iniziato
uno scavo originalissimo: perché è aperto a tutti, raccontato passo passo sui social e su
YouTube, visitato assiduamente da scolaresche che partecipano ai laboratori.
Un’operazione così popolare che Comune e Provincia hanno deciso di investire: da lì e da
un crowdfunding derivano i fondi per pagare la cooperativa di giovani archeologi e
paleozoologi che scavano e organizzano i laboratori. Questa comunità scientifica dichiara
di avere «un importante obiettivo sociale, oltre che scientifico, quello di condividere il più
possibile l’esperienza di scavo col pubblico, in modo da far sì che il passato rimesso in
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luce dall’archeologia sia percepito come una realtà attuale e condivisa; come parte
integrante di una identità sempre di più collettiva e, al tempo stesso, come nuova
potenziale risorsa e prospettiva di sviluppo ». Una filosofia “civile” che, a scavo terminato,
potrà ispirare il Museo Archeologico Ferraresi di Stellata di Bondeno, che accoglie già i
reperti delle campagne precedenti. In Molise, invece, è stato un accordo tra ministero per i
Beni culturali (che mette a disposizione gratuitamente istituti e luoghi della cultura e spazi
per le attività di accoglienza), Regione, Università e Cnr a far sorgere un’associazione di
giovani laureati in archeologia e storia dell’arte capaci di “valorizzare”’ (ma nel senso
autentico di “far conoscere”)luoghi come lo spettacolare Museo del Paleolitico di Isernia
(costruito su uno dei siti preistorici più importanti del mondo, dove è possibile conoscere
meglio che in qualunque altro luogo d’Italia la vita dell’uomo circa settecentomila anni fa) o
la struggente area archeologica di Sepino. Me.Mo Cantieri Culturali non dipende da
contributi pubblici, ma si è messa sul mercato partecipando a concorsi regionali, nazionali
o europei per il finanziamento dei propri progetti: una sorta di impresa popolare della
conoscenza, che crea lavoro educando al patrimonio in modo innovativo.
Se, infine, a Catania è finalmente accessibile l’enorme cittadella barocca del Monastero di
San Nicola, resa immortale nelle pagine dei Viceré di Federico De Roberto, è merito di
Officine Culturali, una cooperativa della conoscenza fondata nel 2009 da alcuni laureati
del Dipartimento di scienze umanistiche, che ha sede proprio lì. Questi giovani ricercatori
ancora in formazione hanno investito le loro conoscenze, il loro tempo e il loro denaro per
raggiungere due obiettivi: far conoscere il Monastero alla comunità (locale e universale)
nel modo più accessibile e partecipato (per esempio attraverso un’editoria di qualità e un
itinerario impeccabile e avvincente), e creare nuovi posti di lavoro e nuove professionalità.
Anche grazie alla stretta collaborazione con il Dipartimento, la Soprintendenza e il Parco
Archeologico di Catania, ci sono riusciti: 40mila persone hanno già potuto conoscere un
luogo chiave per la storia della città, e lo stesso monumento viene progressivamente
recuperato in parti finora chiuse, o degradate.
Se l’amministrazione catanese sarà lungimirante, anche il Castello Ursino e il suo museo
potrebbero presto rinascere grazie all’opera di Officine Culturali, ampliando così il raggio di
questa piccola economia virtuosa che crea lavoro creando conoscenza.
Si potrebbero citare molti altri casi, radicati soprattutto al Mezzogiorno (in parte analizzati
in Sud Innovation. Patrimonio culturale, innovazione sociale, nuova cittadinanza, Franco
Angeli editore, a cura di Stefano Consiglio e Agostino Riitano) e molto lontani dai
supermusei: perché qua non c’è ombra del monopolio dei concessionari for profit che
tengono in mano gli Uffizi o il Colosseo; perché siamo lontanissimi dalle ingerenze del
potere politico centrale; perché l’obiettivo non è la spettacolarizzazione, ma l’educazione; il
metodo non è la mercificazione, ma la ricerca; il destinatario non è un cliente, ma il
cittadino. Tutte cose belle, direte, ma troppo piccole per avere a che fare con i grandi
musei. Sbagliato: nel Parco Archeologico di Baratti lavorano nove archeologi, cioè ben tre
in più dei sei che cercano di tenere in piedi l’immenso Museo Archeologico di Napoli. Se
vogliamo che i nostri musei non siano depositi di cose vecchie, ma laboratori di futuro, la
loro importanza si deve misurare sulla vitalità della comunità che ci lavora. Baratti,
Bondeno, Isernia e Catania funzionano perché sono pieni di giovani ricercatori entusiasti: i
venti supermusei di cui tutti parlano sono invece ormai scatole vuote, presidiate da pochi
anziani funzionari umiliati da decenni di cattiva politica. È questo che dobbiamo cambiare,
se vogliamo una rivoluzione vera.
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Del 26/08/2015, pag. 37
Tra saga familiare e grande storia,il nuovo libro di Maurizio Maggiani è
una grande orazione civile su un’Italia che, come disse Garibaldi, non è
quella per cui avevamo lottato
Romanzo di una Nazione dal destino
incompiuto
ENRICO DEAGLIO
Se fosse un quadro, l’ultimo romanzo di Maurizio Maggiani sarebbe “Il Quarto Stato” di
Pellizza da Volpedo: lento, potente, epico, nel genere “la storia siamo indubbiamente noi”,
oppure, scandito e andywahrolizzato come allo stadio “i campioni d’Italia siamo noi”. E
sarebbe un audio-quadro, narrato da quel fantolino, un
Omero neonato, che la donna in prima fila ha portato allo sciopero, un po’ perché a casa
non c’è nessuno, un po’ perché così impara come va il mondo. Se fosse un manifesto
politico, a dispetto del titolo, Il Romanzo della Nazione , non sarebbe il partito vagheggiato
da Matteo Renzi, troppo unanime, semplice, dolce e plasticoso; ma piuttosto
un’assemblea popolare dove i migliori discorsi sono i lunghissimi silenzi. E per finire, se
fosse un intervento nella sempre ribollente querelle letteraria italiana, starebbe dalla parte
opposta al “Tutti” di Francesco Piccolo; una ribellione all’annullamento mediatico nella
mediocrità della fine della storia; se per Piccolo il declino italiano è scandito dal
“chesaràmai?”, per Maggiani la discussione sul futuro della Nazione riguarda alcuni
problemi irrisolti tra anarchici e mazziniani. Costruire nazioni o costruire mondi? Inalberare
come slogan “Dio e popolo” o mettere un accento a quella congiunzione?
Il Romanzo della Nazione ,
già dalla copertina con il giovane marito che bacia la giovane moglie con cui divide la sella
della bicicletta, è un omaggio filiale a una famiglia e a un popolo di altri tempi; un onore al
padre e alla madre, ai loro pudori e ai loro sogni. Eroi eponimi della mitica costruzione
dell’Italia, i coniugi Maggiani hanno conosciuto il fascismo, la guerra, hanno contribuito,
senza vantarsene, alla lotta partigiana. E se ne vanno, silenziosi come erano vissuti,
accuditi da infermiere premurose (una è detta “la Gigantessa”), nei locali di una sanità
pubblica qualche volta ciabattante, ma pur sempre dignitosa e umana. Il loro figlio, che era
nato in casa col forcipe (da cui le orecchie a sventola e le tempie schiacciate) ripercorre la
loro, e la sua, memoria. Scrittore solitario e affermato, si immagina come un narratore che
sta raccogliendo notizie, frammenti, archivi, frammenti di memorie per la compilazione di
una storia italiana, colpito dal disordine attuale, ma memore della sentenza che Giuseppe
Garibaldi (in poncho) pronunciò dopo aver visto il vestibolo del parlamento di Torino, con i
suoi attaccapanni ricolmi di tube, cilindri, bombette e mantelli orlati di astrakan: «Non era
questa l’Italia ch’io sognava ». E la storia si dipana — Maggiani qui dà il suo meglio di
storyteller, affabulatore, distillatore di particolari e colpi d’ala — in momenti di storia pop
che uniscono la fucilazione pubblica (con pubblico di famiglie e bambini) del bandito Sante
Olivieri, l’immediato vociferare in famiglia sulle colpe della perfida Nilde Iotti nella morte di
Togliatti («è stata lei, con la stricnina »), il tono di voce degli annunciatori della radio e le
lacrime del padre per la morte di John Kennedy, il buon ricordo di Sandro Pertini. Come
nelle precedenti opere, i luoghi dove questi italiani agiscono sono le colline della Lunigiana
e i grandi porti di La Spezia e Genova (a proposito di quest’ultima Maggiani ingaggia da
sempre un duello a chi è più bravo con Giorgio Caproni e Paolo Conte) e il nord Africa
delle colonie, di El Alamein e di Alessandria d’Egitto.
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Ma questa volta, Maggiani rende corto il tempo. Ed ecco dunque che il conte di Cavour,
Mazzini, Garibaldi, Pisacane, quel traditore golpista di Napoleone III, l’infame Bava
Beccaris, il generoso Menotti Serrati appaiono contemporanei e si siedono, a discorrere e
litigare, accanto a protagonisti proletari dai volti sconosciuti e dai segreti ben custoditi. Se i
programmi dei vip sono noti, le utopie e i sogni del popolo sono immensamente più grandi
e più poetici. Tutto il romanzo improvvisamente si anima, proprio come se il Quarto Stato
sulla tela si mettesse a correre, quando si arriva all’epopea della costruzione dell’Arsenale
militare di La Spezia — la metafora della Nazione, dell’essere Nazione — il sogno
realizzato dell’industria dominatrice dei mari, che culmina con il varo, il 10 luglio 1878,
della corazzata Dandolo, la più bella nave di tutti i tempi, quella che gli inglesi ammirano e
temono, quella che ebbe la fortuna di non essere mai impegnata in battaglia e che
concluse la sua carriera portando soccorso ai terremotati di Messina nel 1908. Accanto a
lei, capolavoro italiano dell’acciaio, i fonditori, le ricamatrici delle bandiere, i mozzi, gli
ufficiali, i marinai e i manovali, e sbirri, ergastolani, agitatori e demagoghi. Tutti fieri di
assomigliare a personaggi di Bertolt Brecht, tutti non-eroi, ma contenti di essere ricordati
nella Spoon River del nipote dell’elettricista Maggiani.
A vent’anni da Il coraggio del Pettirosso , il libro che gli diede la fama, a dieci anni da Il
Viaggiatore Notturno che gli diede lo Strega, Maurizio Maggiani si conferma unico tra gli
scrittori italiani, soprattutto per generosità narrativa. Segnala, con interventi puntuali sui
giornali, piccoli segni del declino e dell’immiserimento; a questi, contrappone, nei libri, il
ricordo di una lunga età dell’oro che affonda le sue radici in uomini ed idee dell’Ottocento.
Tutta la sua opera costituisce una saga sulla “nazione che avremmo potuto essere e che
non siamo”, sul brutto destino dei destini comuni, sui sogni che fanno i lavoratori quando
lavorano, sui loro gesti, sui loro silenzi, sulle malattie che li frenano e che rendono
impossibili gli amori. Collante di quest’unico romanzo, diventa così un particolare
paesaggio italiano fatto di cibi e cucine povere, corridoi di ospedale, gesti immersi in un
ambiente agricolo, sigarette senza filtro, la mineralità dell’Italia centrale, il continuo stupore
del contadino per l’idea della grande città, un lessico famigliare volutamente povero, quasi
pleistocenico. Il romanzo della nazione è fatto di dolori e di stanchezze; ma punteggiato di
eroismi taciuti, come quello del signor Trippi, scafista spezzino di ebrei verso Haifa e di
ostinate ribellioni, come quella del padre che vieta alla figlia di imparare a memoria La
cavallina storna , perché stupida e falsa; o di quel professore di liceo romagnolo che ha
dedicato la sua vita a propagandare l’esempio di Mao Tse-tung. Pensate, quell’uomo, di
famiglia ricca, di velleità letterarie, si preparò alla Lunga Marcia mettendo nello zaino
anche tre libri italiani tradotti in mandarino: la Divina Commedia , Il Principe e — qui vi
stupirete, ma Maggiani assicura che è vero — un capitolo (intitolato La guerra per bande )
di La Rivoluzione italiana di Carlo Pisacane, un tipo che non vinse mai una sola battaglia,
esempio piuttosto di utopie destinate a essere schiacciate. Però, con quei libri — Pisacane
compreso — Mao costruì la nazione che è oggi la più potente del mondo. Dunque,
davvero, le vie del romanzo sono infinite. E quel che conta è continuare a marciare.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 26/08/2015, pag. 16
Basso reddito, pessimisti e arrabbiati: il
primo studio sui giovani disoccupati
Chiara Binelli, economista dell’Università di Southampton, ha sondato
1,238 laureati tra il 2011 e il 2013, tutti senza lavoro: ne viene fuori un
ritratto inedito
Ogni mese l’Istat ci dice quanti sono i giovani disoccupati, ogni mese i giornali titolano sul
nuovo record, ma nessuno in Italia studia quali sono le conseguenze sulle scelte di vita di
quei ragazzi. Ci ha pensato, dall’Università di Southampton, Chiara Binelli, 36 anni,
economista, “un cervello in esilio”, come si definisce. Per mesi ha lavorato di notte, per
raccogliere quelle storie che nessuno aveva chiesto ai giovani disoccupati di raccontare,
poi ha presentato i primi dati al Festival dell’Economia di Trento e ora si è messa in
aspettativa dalla sua università senza ricevere stipendio, il marito ha fatto lo stesso da un
ateneo del Kent, e si sono trasferiti in Italia per la fase due dello studio: cosa cambia con il
Jobs Act. È tornata in Italia, sulle colline vicine a Piacenza e spera di trovare quelle poche
decine di migliaia di euro necessari a completare lo studio. “Mia mamma dice che mi sono
identificata troppo nel campione che analizzo, quello dei giovani senza lavoro”, commenta.
A quel campione si è affezionata parecchio. Ha deciso di studiare i laureati, cioè la fascia
più qualificata dei giovani lavoratori, sapendo che le tendenze che si registrano in quel
segmento saranno analoghe e amplificate tra chi ha studiato meno e quindi ha più
difficoltà a trovare un impiego. Il dato usato dall’Istat è quello sui ragazzi tra i 15 e i 24 anni
(disoccupati al 44 per cento, contro una media Ue del 26). Ma è dai 24 anni in poi che, si
suppone, tutti dovrebbero avere un lavoro. Invece in Italia il tasso di disoccupazione tra i
25 e i 34 anni è il 19 per cento (il 13 nell’Ue) e tra i laureati appena più basso, il 16 per
cento. In valore assoluto vuol dire che in Italia ci sono circa un milione di giovani adulti
disoccupati, di questi ben 252 mila sono laureati.
Basandosi sugli elenchi del consorzio interuniversitario Almalaurea, la professoressa
Binelli ha spedito un questionario di 71 domande per raccogliere le classiche informazioni
su età, famiglia, status sociale, ricerca del lavoro, ma anche per sondare le aspettative:
che vita si aspettano questi giovani disoccupati? Quali attese hanno sul proprio stipendio
eventuale futuro? Di solito a questo genere di questionari via email risponde il 10 per
cento dei contattati. Alla professoressa Binelli invece l’85 per cento. Una percentuale che
lei non aveva mai riscontrato.
“Ho costruito il mio set di dati, perché non esisteva niente di simile”, spiega: 1.238 giovani
senza lavoro, laureati tra 2011 e 2013 in una delle 64 università che aderiscono ad
Almalaurea. L’indagine si è svolta tra gennaio e febbraio 2015, cioè un attimo prima
dell’entrata in vigore del Jobs Act e del contratto a tutele crescenti al posto di quello
tradizionale a tempo indeterminato con l’articolo 18 sul reintegro in caso di licenziamento
ingiusto. Sono gli italiani medi della loro generazione, quelli intervistati: il 79 per cento vive
con i genitori o in una casa con l’affitto pagato da mamma e papà; il 66 per cento è in una
relazione stabile e il 70 per cento pensa ai figli; il 68 per cento ha entrambi i genitori non
laureati (“anche l’operaio vuole il figlio dottore”, come in Contessa). Il 47 per cento di loro,
quindi quasi la metà, non ha mai lavorato oppure lo ha fatto per meno di un anno. Il 77 per
32
cento cerca attivamente lavoro, il 60 per cento viene classificato come “bassa avversione
al rischio”. La professoressa Binelli ha chiesto conto anche dell’orientamento politico: l’82
per cento dei laureati disoccupati ha votato alle elezioni 2013, il 30 per cento per il
Movimento Cinque Stelle. Che cosa c’è nella testa di questi disoccupati di alta gamma,
che dopo almeno 18 anni di studi non riescono a trovare un posto? Il primo pensiero è
come sarà il loro stipendio, quando ne avranno uno. Sono pessimisti ma, scopre la
professoressa Binelli, hanno ragione a esserlo: si aspettano di trovare lavoro nei prossimi
12 mesi con una probabilità del 44 per cento, le statistiche dimostrano che la percentuale
reale media è il 50, che scende al 39 nel Sud. Solo il 17 per cento si aspetta un lavoro a
tempo determinato, lo avranno in 21 su 100. Non si attendono un reddito elevato, stimano
1.099 euro lordi mensili (ma solo il 60 per cento è disposto a lavorare per quella cifra). Nei
fatti – dati Almalaurea 2013 – ne ottengono un po’ meno, 1.034.
Come incide questo poco allettante futuro sulle scelte di vita dei laureati? Chiara Binelli ha
scoperto, con un modello econometrico, che le cicatrici sono profonde. E misurabili: “Un
aumento della probabilità di trovare un lavoro con tutele adeguate dal 10 al 50 per cento fa
aumentare l’intenzione di avere figli in futuro dal 68 al 71 per cento”. Le conseguenze sono
anche sulla società nel suo complesso: se la probabilità di trovare un buon posto (con
tutele adeguate) sale dal 10 al 50 per cento fa aumentare la probabilità di essere
soddisfatti del “processo politico democratico in Italia” dal 6 al 10 per cento. Tradotto: più
resti disoccupato, più diventi pessimista. E più sei pessimista, meno ti interessa la politica,
perché sembra non poter cambiare le cose, e meno progetti ambiziosi per il futuro riesci a
fare, come costruire una famiglia. Una delle novità dello studio della Binelli è considerare
non solo il posto di lavoro, ma anche la sua qualità percepita. Per questo ha fermato le
ricerche prima del Jobs Act, per vedere come cambiano le aspettative con la riforma. Un
primo indizio però lo ha già avuto: “Il Jobs Act viene percepito come un contratto a tempo
determinato”, spiega. Ma servono i fondi per continuare la ricerca. Che, per ora, nessuno
ha voluto stanziare. Perché a studiare davvero l’impatto delle politiche pubbliche, cosa che
in Italia si fa pochissimo, non sai mai cosa puoi scoprire.
Del 26/08/2015, pag. 5
I contratti stabili? Soltanto 47 in più
Jobs Act. Il flop di luglio conferma la precipitazione da maggio in poi. Il saldo tra
nuovi tempi indeterminati e cessazioni dice che la riforma Renzi, fra incentivi e
tutele crescenti, non sta funzionando. Il giallo delle tabelle ministeriali «pasticciate»:
alcuni numeri forniti dallo staff di Poletti sono confusi. E nel mirino del governo
finiscono le pensioni
Marta Fana
Nessuna tregua per il governo sul fronte del mercato del lavoro. Al rientro dalla pausa
estiva, i contratti a tutele crescenti non supportano la propaganda. Secondo le informazioni contenute nell’ultima nota mensile del ministero del Lavoro, pubblicata ieri, i contratti
a tempo indeterminato (a tutele crescenti) al netto delle cessazioni sono stati appena 47
nel mese di luglio (lo 0,3% del totale dei rapporti netti).
Impietoso è il confronto con le altre tipologie contrattuali, a conferma che non c’è argine al
precariato nelle riforme del governo. Tranne nel caso delle collaborazioni (-23.122), le altre
tipologie sovrastano numericamente i tempi indeterminati. A luglio, il saldo relativo al
tempo determinato è di 144.074 rapporti netti, i contratti di apprendistato e quelli classificati come «altro» (in cui vengono inclusi i contratti di inserimento lavorativo; di agenzia
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a tempo determinato e indeterminato; intermittenti a tempo determinato e indeterminato;
autonomo nello spettacolo) sono pari rispettivamente a 7.785 e 6.633.
Anche le trasformazioni di contratti a termine in contratti a tutele crescenti rimangono di
gran lunga superiori ai contratti netti a tempo indeterminato (27.328). Un dato sottostimato,
in quanto non tiene conto delle trasformazioni di rapporti di apprendistato (contenuti invece
nelle pubblicazioni dell’osservatorio sul precariato dell’Inps).
Le cifre non tornano
Al di là dei dati mensili, c’è qualcosa che non torna nella tabella di sintesi che il ministero
ha pubblicato insieme alla nota di luglio. La tabella, che riporta i dati complessivi di attivazioni e cessazioni di rapporti di lavoro tra gennaio e luglio, mostra valori differenti da quelli
che è possibile riscostruire partendo dalle note mensili. Soffermando l’attenzione sui contratti a tempo indeterminato, la differenza tra la tabella del ministero e la ricostruzione delle
serie storiche mensili sottostima sia il numero di attivazioni che quello delle cessazioni,
rispettivamente di 130.933 e 434.046 unità. Poiché la sottostima è maggiore per le cessazioni rispetto alle attivazioni, ciò implica che il totale di contratti netti è superiore rispetto
a quello che è possibile desumere da una ricostruzione mensile dei dati. La differenza non
è trascurabile: si tratterebbe di 303.113 rapporti di lavoro in più stimati dal ministero.
Discrepanze che possono essere dovute a una molteplicità di fattori: errori di calcolo, revisioni, omissioni. È importante che il ministero risponda di queste differenze, pubblicando le
revisioni o smentendo la tabella pubblicata nel caso si tratti di errori di calcolo, così da rendere trasparente l’attività di osservatorio statistico.
Stando ai dati in ogni caso non sembra finora possibile confutare la tesi secondo cui
i pochi nuovi contratti a tutele crescenti attivati, di fatto stabilmente precari senza l’articolo
18, non sono il risultato di un rinnovato interesse delle imprese a creare occupazione,
bensì degli sgravi che queste ultime sono in grado di intascare grazie alla decontribuzione
sul costo del lavoro. Lo slancio, seppur tenue, segnato nei primi quattro mesi del 2015
è palesemente svanito a partire da maggio. Il rallentamento dell’economia italiana
e l’inadeguatezza del governo nel far fronte alla crisi, nonostante la congiuntura favorevole, sta nei fatti.
L’attacco alla previdenza
Nel frattempo la maggioranza di governo ribadisce la volontà di comprimere ulteriormente
i diritti dei lavoratori, così come si evince dalle proposte del senatore Pietro Ichino (Pd) sul
ridimensionamento del diritto di sciopero e sulla possibilità di sostituire completamente la
contrattazione collettiva con quella aziendale. Delegare le condizioni di lavoro e le retribuzioni alla contrattazione aziendale significa spostare ulteriormente il potere negoziale
a favore delle imprese e a discapito dei lavoratori, soprattutto laddove i sindacati non esistono. La conseguenza più immediata e diffusa sarebbe la riduzione dei salari di base e il
peggioramento delle condizioni lavorative. Inoltre, ci sarebbe il rischio di creare quelle che
un tempo venivano chiamate «gabbie salariali», ovvero una differenziazione di salario tra
Nord e Sud. Vere e proprie gabbie di sottosviluppo, e si avvererebbe l’allarme del rapporto
Svimez sull’arretramento permanente e il sottosviluppo del Sud.
Fa eco uno dei consiglieri economici del premier, Tommaso Nannicini, che vorrebbe
«sostituire la de-contribuzione sui nuovi assunti con un taglio strutturale del cuneo contributivo, senza fiscalizzarne i costi e incentivando i lavoratori a investirne una parte nella
previdenza complementare». Rispetto all’attuale decontribuzione alle imprese coperta
dalla fiscalità generale, nell’idea di Nannicini lo Stato non pagherebbe i contributi non versati, operando un taglio netto alla pensione futura dei neo assunti, come fanno notare
Susanna Camusso della Cgil e Guglielmo Loy della Uil. Inoltre, suggerisce Nannicini,
i lavoratori potranno chiedere in busta paga i contributi risparmiati che saranno a quel
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punto tassati come normale reddito. Oppure, investirli in fondi privati di previdenza, su cui
proprio l’anno scorso il governo Renzi ha aumentato la tassazione.
Un progetto che renderebbe il sistema pensionistico più iniquo in quanto dal pubblico
basato sul contributivo, si passerebbe a un modello di investimento privato, con un
approccio retributivo basato sulla capacità di risparmio.
Del 26/08/2015, pag. 5
Tre indagati per la morte di Paola: il caporale
aveva perfino i dipendenti
Braccianti. Avviso di garanzia anche per l'autista del pulmino che
trasportava la donna nelle vigne di Andria: il suo titolare gestisce altri
veicoli simili. Domani il vertice nazionale a Roma con i ministri Martina e
Poletti. E nelle campagne aumentano i controlli: già identificate 529
persone
Sono saliti a tre gli indagati per la morte di Paola Clemente, la bracciante tarantina di 49
anni morta nelle campagne di Andria il 13 luglio scorso, mentre lavorava sotto un tendone
all’acinellatura dell’uva. Il pubblico ministero di Trani titolare dell’indagine, Alessandro
Pesce, ha infatti accertato che alla guida del bus che ha portato Paola dalla sua città di origine, San Giorgio Ionico (Taranto), ad Andria non c’era l’indagato Ciro Grassi ma un suo
dipendente, Salvatore Filippo Zurlo, il cui nome è stato quindi iscritto nel registro degli
indagati. Ciro Grassi, secondo quanto riferito da altri braccianti, possiede diversi pullman
ed è la persona che organizza le “squadre” di braccianti che ogni giorno alle prime luci
dell’alba vanno a lavorare nelle campagne del nord barese.
Nell’inchiesta della procura risulta indagato anche Luigi Terrone, uno dei responsabili
dell’azienda agricola Ortofrutta Meridionale di Corato (Bari) per conto della quale la donna
stava lavorando il giorno del decesso, dopo essere stata a sua volta assunta da
un’agenzia interinale di Bari su cui sono ancora in corso gli accertamenti degli inquirenti.
Che sabato mattina si sono recati nella sede di quest’ultima, acquisendo la documentazione relativa all’assunzione della donna, con particolare riguardo anche alla certificazione
medica, per appurare se ci fossero tutti i certificati medici previsti in caso di assunzione.
L’iscrizione nel registro degli indagati di Salvatore Filippo Zurlo, a cui è stato notificato
l’avviso di garanzia soltanto nella tarda serata di lunedì, ha rinviato al pomeriggio
l’autopsia sul corpo della donna, prevista inizialmente ieri mattina. Bisognerà attendere
forse tutti e 90 i giorni canonici per conoscere l’esito dell’autopsia. Agli accertamenti
medico-legali, che sono stati eseguiti nel pomeriggio nel cimitero di Crispiano (Taranto),
chiuso al pubblico sin dalla mattina, hanno partecipato i medici legali, consulenti di parte,
sia per gli indagati che per la famiglia della vittima.
Un’autopsia complicata dal fatto che è stata eseguita a oltre sei settimane dal decesso
della donna, e questo non ha consentito un’operazione approfondita che potesse fornire
già ieri le prime risposte ai tanti quesiti ancora irrisolti. Si dovrà attendere dunque l’esito
degli esami istologici e tossicologici per comprendere le cause della morte e se vi siano
connessioni con il lavoro nei campi e con l’utilizzo di fitofarmaci.
Intanto, in attesa del vertice nazionale di domani sui temi del caporalato tra i ministri Martina e Poletti, i sindacati, le associazioni delle imprese agricole, l’ispettorato del Lavoro
e l’Inps, proseguono i controlli delle forze dell’ordine nelle campagne pugliesi. Dal 20 ago35
sto sono state identificate 529 persone, sia nei campi che durante l’itinerario casa-lavoro
con destinazione le province di Taranto, Bari e Matera. Accertamenti sono in corso anche
sulle modalità di impiego e di trasporto dei braccianti, sull’orario di lavoro e sulla corrispondenza della paga ricevuta rispetto a quella dichiarata. Ulteriori approfondimenti potrebbero
far emergere nuovi ed eventuali metodi illegali relativi all’impiego e allo sfruttamento della
manodopera in agricoltura.
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