RELAZIONE DON AUGUSTO BARBIPaolo missionario

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RELAZIONE DON AUGUSTO BARBIPaolo missionario
La figura di Paolo missionario negli Atti
L’interesse degli Atti degli Apostoli per la figura di Paolo è un dato evidente. Oltre che
presentare la sua conversione da persecutore ad evangelizzatore perseguitato (At 9) e il suo
significativo inserimento nella comunità antiochena (At 11,25-25; 12,25), la narrazione degli
Atti – a partire dal cap. 13 – lo vede come “eroe-protagonista” con la sua attività di
missionario e di fondatore di chiese (cf. At 13,1-20,16) ed infine nella sua funzione di
testimone “universale” posto sotto accusa nella fase processuale (cf. At 20,17-28,31). Questa
prolungata attenzione a presentare lo sviluppo della figura e dell’opera evangelizzatrice di
Paolo colloca indubbiamente gli Atti, all’interno della variegata recezione della memoria
paolina prodottasi negli ultimi decenni del 1° sec., su quello che può essere denominato un
“polo biografico”, fortemente interessato a mantenere vivo e a celebrare, in funzione della
situazione delle chiese lucane, un Paolo “missionario delle genti”1.
Se negli Atti è innegabile questa recezione marcatamente “biografica” dell’eredità
paolina, occorre però precisare subito che questo libro non si presenta come una biografia di
Paolo. Esso vuole essere piuttosto un’opera storiografica degli inizi del cristianesimo. In
questo quadro storiografico degli Atti, Paolo è preceduto dall’attività kerigmatica di Pietro e
degli Apostoli e dall’opera di evangelizzazione di Stefano, di Filippo e degli ellenisti che
diffondono la Parola al di fuori dei confini d’Israele. Egli è dunque certamente “l’eroe”, a cui
più della metà del libro è dedicata, ma la sua figura va considerata all’interno di un progetto
storiografico più ampio che, negli studi recenti, è visto sempre più nella sua funzione
apologetica e identitaria.
Con la sua opera, infatti, Luca sembra voler fornire a comunità del tempo
subapostolico, che hanno conosciuto un distacco definitivo dal giudaismo e sono proiettate
nel mondo greco-romano, una identità che sia spendibile all’esterno sia nei confronti del
giudaismo sia nell’ambiente dell’impero romano che sta diventando in prospettiva il loro
habitat futuro. Questo progetto lucano di definizione del cristianesimo ha l’ambizione di
integrare “Gerusalemme e Roma” con ciò che esse rappresentano. Gerusalemme è il simbolo
della continuità con la storia della salvezza iniziata con Israele, di cui il cristianesimo
costituisce il compimento e da cui il cristianesimo eredita il meglio. Roma è il simbolo di un
impero la cui ideologia e struttura universaliste sono viste come il terreno favorevole in cui il
1
Attualmente si va affermando una prospettiva secondo la quale occorrerebbe prendere in
considerazione una diversificata recezione della figura e dell’opera di Paolo, organizzata attorno a tre poli:
un polo “canonico”, interessato a Paolo come scrittore, che si preoccupa di copiare e di raccogliere le lettere
paoline in una collezione che prepara la loro accoglienza e valorizzazione universale nel canone
neotestamentario; un polo “dottorale” che si rifà a Paolo come dottore della chiesa, imitandone il pensiero
(Col; Ef; 2Ts; Pastorali); infine un polo “biografico”, ravvisabile negli Atti, che perpetua la memoria di Paolo
come eroe del vangelo e missionario delle nazioni. Cf. al riguardo D. MARGUERAT, “L’image de Paul dans
les Actes des Apôtres”, in: M. Berder (sous la direction de), Les Actes des Apôtres: Histoire, récit, théologie: XX
congrès de l’Association catholique française pour l’étude de la Bible (Angers 2003), Paris 2005, 132-133; O. FLICHY,
La figure de Paul dans les Actes des Apôtres. Un phénomen de réception de la tradition paulinienne à la fin du premier
siècle, Paris 2007, 32-33.
1
cristianesimo può innervare la promessa di salvezza offerta a tutti i popoli. Gerusalemme è
dunque la radice e il passato, Roma è la proiezione e il futuro del cristianesimo2.
La figura e l’attività missionaria di Paolo, non vanno perciò considerate isolatamente,
ma vanno situate dentro questo vasto progetto e vanno comprese come “il vettore” attraverso
il quale questa nuova identità del cristianesimo giunge a piena espressione3. Noi ci
sforzeremo pertanto di rileggere sinteticamente, dentro questo ampio quadro, qualche
aspetto significativo e rilevante dell’opera missionaria di Paolo.
1. Continuità e discontinuità con Israele
Alla figura di Paolo è affidato dal progetto storiografico lucano il compito di mettere
in luce la continuità del cristianesimo con la storia di salvezza d’Israele e la discontinuità
con il giudaismo. Il Messia Gesù, con la sua morte-resurrezione ha realizzato le profezie e
la speranza d’Israele. Ma questo compimento ha messo in evidenza anche che la sua
messianicità è universale e che la salvezza da lui realizzata va proclamata a tutte e genti
(cf. Lc 24,44-47), pur nella fedeltà alla priorità storico-salvifica d’Israele (cf. At 3,26; 13,46),
figlio dei profeti ed erede dell’alleanza con Abramo (cf. At 3,25). Proprio l’annuncio di
questo messianismo universale viene, però, a costituire la pietra d’inciampo per l’Israele
storico rappresentato dai giudei, che di fronte ad esso si spaccano e che in parte reagiscono
con l’incredulità e con l’opposizione violenta nei confronti degli evangelizzatori. Questa
continuità e discontinuità costituirà l’oggetto delle due grandi apologie (cf. At 22 e 26) di
Paolo “testimone” posto sotto accusa. In esse sarà la vicenda stessa dell’apostolo
trasformato, dall’incontro con il Risorto, da persecutore violento ad evangelizzatore
universale, ad evidenziare questa continuità e discontinuità4. Ma questo aspetto, che
diventa costitutivo per l’identità del cristianesimo, emerge in modo ricorrente nell’attività
missionaria di Paolo fino al suo arrivo a Roma. Ed è su questa rilettura di Paolo
missionario che vorremmo ora attirare sinteticamente l’attenzione.
1.1. Una scena programmatica: Antiochia di Pisidia (At 13,14-52)
Non è superfluo sottolineare che l’iniziativa del primo viaggio missionario è
attribuita all’impulso dello Spirito: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale
li ho chiamati” (At 13,2; cf. v. 4). Lo Spirito è abitualmente; nel racconto lucano; la guida e
2
Cf. al riguardo D. MARGUERAT, “Un cristianesimo tra Gerusalemme e Roma”, in: ID., La prima
storia del cristianesimo. Gli atti degli Apostoli, Cinisello Balsamo MI 2002, 82-104, part. 94-95.
3
Cf. Y. REDALIÉ, “L’immagine di Paolo negli Atti degli Apostoli”, in: A. Pitta (a cura di), Gli Atti degli
Apostoli: storiografia e biografia. Atti dell’VIII Convegno di Studi Neotestamentari (Torreglia, 8-11 Settembre 1999),
Ricerche Storico Bibliche 2001/2, 129-131, il quale afferma: “...la funzione dell’immagine di Paolo è di
integrare i motivi, di rendere coerente l’identità del movimento cristiano in una identità narrativa che
chiarisca tre relazioni: verso se stesso e la propria storia, verso Israele, verso Roma” (p. 129).
4
Cf. al riguardo A. BARBI, “I tre racconti di conversione/chiamata di Paolo (At 9; 22; 26): un’analisi
narrativa”, in: G. Angelini (a cura di), La Rivelazione attestata. La Bibbia fra testo e teologia. Raccolta di studi in
onore del Card. C.M. Martini per il suo LXX compleanno, Milano 1998, 235-271, e D. MARGUERAT, “La
conversione di Saulo (At 9; 22; 26), in: La prima storia del cristianesimo, 185-213.
2
il motore della missione. E’ lo Spirito, infatti, ad aprire in continuazione per i missionari
inedite possibilità e nuovi spazi di evangelizzazione5. All’inizio di questo viaggio,
l’apertura a cui lo Spirito sospinge Barnaba e Saulo rimane per il lettore enigmatica . Essa è
segnalata semplicemente con “l’opera” alla quale lo Spirito li chiama. Solo alla conclusione
dell’impresa (cf. At 14,26), al momento di rendere conto alla comunità antiochena dei
risultati di essa, il lettore viene a conoscere che l’opera consisteva nel fatto che Dio “aveva
aperto ai pagani la porta della fede” (At 14,27). L’avvio della missione ai pagani6 era
dunque la novità a cui, sotto la guida divina dello Spirito, era finalizzata questa prima
iniziativa missionaria. Alla luce di questa finalità, sottesa al primo viaggio missionario,
diventa di particolare rilevanza la scena di Antiochia di Pisidia (cf. At 13,14-52) dove il
passaggio del vangelo ai pagani viene da Paolo e Barnaba solennemente proclamato.
Nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (cf. At 13,16-41) Paolo pronuncia un’omelia che
ha certamente una funzione programmatica ed è rappresentativa della sua predicazione ai
giudei. Questo, infatti, è l’unico discorso kerigmatico dell’apostolo in ambiente sinagogale
e di fronte ad un uditorio composto da giudei e da timorati di Dio. In esso Paolo opera
prima di tutto una rilettura della storia di salvezza (vv. 17-25), ponendo esplicitamente
come soggetto di tale storia “il Dio di questo popolo Israele” (v. 17). Questa rilettura
presenta, in una prima sequenza (vv. 17-20a), l’iniziativa divina, rivolta verso “i nostri
padri”, in una serie di eventi che vanno dall’alleanza con Abramo e la sua discendenza,
all’esaltazione del popolo durante l’esilio in Egitto, all’esodo, alla cura permanente nel
deserto, fino alla concessione in eredità della terra, dopo la distruzione di sette popoli.
Nella sequenza successiva (vv. 20b-25), l’intervento divino è caratterizzato dal dono dei
“giudici” fino a Samuele “profeta”, dal dono di Saul, primo re, quale offerta di salvezza in
risposta al bisogno del popolo, e, al culmine, dal “suscitamento” (cf. l’uso di egeirō) di
Davide, prefigurazione del Messia. Su di lui la narrazione sosta, per esaltare la sua fedeltà
a Dio e per ricordare la promessa di un discendente fattagli da Natan. L’espressione
conclusiva (v. 23) si presenta come la sintesi di questa storia di salvezza che ora trova in
Gesù il suo compimento: il Dio d’Israele, adempiendo la sua promessa, dalla discendenza
di Davide “ha condotto” fuori (come aveva fatto nell’esodo: cf. v. 17) a favore del suo
popolo il Salvatore (prefigurato dai “giudici”: v. 20) che è Gesù. La sua venuta messianica
era stata preparata dal Battista con la predicazione ad Israele di un battesimo di
conversione e con l’annuncio della comparsa di uno “più grande” (cf. vv. 24-25).
La strategia retorica di questa parte del discorso è chiara. La permanente azione di
Dio nella storia di salvezza d’Israele non faceva che prefigurare e preparare il suo
intervento decisivo nella venuta del Salvatore Gesù. Il culmine di questa storia è visto nella
tipologia Davide-Gesù, tesa ad evidenziare la messianicità di quest’ultimo. Di
conseguenza, Paolo può ora arrivare ad affermare la tesi che tutta la storia narrata – storia
della promessa fatta da Dio ai loro padri – è giunta a compimento nella persona di Gesù a
5
Cf. A. BARBI, “La missione negli Atti degli Apostoli”, in: G. Ghiberti (a cura di), La missione nel
mondo antico e nella Bibbia. XX Settimana Biblica nazionale, Ricerche Storico Bibliche 1990/1, 140-145.
6
Giustamente G. SCHNEIDER, Gli Atti degli Apostoli, vol. II, 219, n. 35, sottolinea come l’opera non è
la missione ai pagani in quanto tale, che non è ancora terminata, ma l’avvio della missione ai pagani.
3
favore dell’uditorio giudaico, con cui egli si sente solidale: “...a noi è stata inviata questa
parola di salvezza” (v. 26) e “...la promessa fatta ai padri si è compiuta” (v. 32) Questa tesi
la dimostra, dapprima, presentando la condanna a morte del giusto Gesù come
compimento delle Scritture e proclamando l’azione risuscitatrice di Dio come conferma del
disegno salvifico e come designazione di Gesù come Messia (vv. 27-31) e, poi, mostrando,
a partire da passi scritturistici (cf. Is 55,3; Sal 16,10), che le promesse fatte a Davide si sono
realizzate nella resurrezione di Gesù (vv. 34-37).
Se nella resurrezione Dio ha realizzato la promessa fatta ai padri e ha portato al
culmine la storia di salvezza con Israele, a partire da essa si apre ora una prospettiva
nuova e sorprendente per l’uditorio giudaico (vv. 38-39). Per mezzo di Gesù può essere
annunciato, innanzi tutto a Israele, il dono della salvezza escatologica che consiste nella
“remissione dei peccati”. Ma questa offerta di salvezza ha inaspettatamente una portata
universale, che supera il particolarismo d’Israele, perché “chiunque crede” ottiene quella
giustificazione che non era possibile mediante la legge mosaica. Improvvisamente al Paolo
lucano è messa in bocca, seppur in forma rudimentale, la tipica teologia paolina della
salvezza universale per la sola fede, ma essa risulta qui inquadrata dalla presentazione
della continuità dell’azione salvifica di Dio a favore d’Israele.
Il Dio particolare d’Israele si è rivelato in Gesù il Dio universale che dona la salvezza
a chiunque crede. E’ questa l’opera incredibile, al cui annuncio la missione paolina era
destinata (cf. At 13,2; 14,26), e che i giudei, attraverso la citazione di Ab 1,5, sono messi in
guardia dal rifiutare per non essere destinati all’esclusione dalla storia di salvezza (cf. v.4041). L’universalismo cristiano è dunque in continuità con con la storia di salvezza d’Israele,
ma proprio questo – come la minaccia di Abacuc lascia trasparire – può diventare la pietra
d’inciampo per l’Israele storico, rappresentato dai giudei, e diventare la causa della
discontinuità con esso.
La reazione alla predicazione di Paolo diventa una illustrazione di questa
discontinuità. Ad un primo ed immediato successo tra “molti dei giudei e dei proseliti” (v.
43), segue il sabato successivo l’opposizione violenta dei giudei (v. 45) di fronte ad un
uditorio disponibile all’ascolto che, comprendendo “quasi tutta la città” (v. 44), verifica
anche la presenza dei pagani. E’ dunque l’annuncio fatto ai pagani che risulta inaccettabile
al particolarismo giudaico.
Di fronte alla spaccatura dei giudei, Paolo e Barnaba riaffermano la priorità storicosalvifica d’Israele: “era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio...”
(v. 46), ma attestano anche che tale priorità non deve giocare come fattore di esclusione dei
pagani. Anzi l’offerta della salvezza ai pagani non è altro che obbedienza alla parola
profetica di Is 49,6: “ti ho posto luce delle genti perché tu porti la salvezza fino ai confini
della terra” (v. 47). In questa risoluzione della scena di Antiochia di Pisidia diventa chiaro
che la discontinuità con il giudaismo è causata dalla non accettazione di una parte dei
giudei di ciò che costituisce il compimento delle loro profezie, in particola di quell’opera
sorprendente con cui Dio, risuscitando Gesù, ha aperto per tutti la salvezza.
Il successo finale che Paolo ottiene tra i pagani ad Antiochia di Pisidia e in tutta la
4
regione (cf. vv. 48-49) allude proletticamente all’accoglienza positiva che il vangelo è
destinato ad ottenere nell’ambiente pagano del mondo greco romano, mentre la
persecuzione che i giudei scatenano prefigura altre scene di rifiuto che scandiranno la
missione paolina e provocheranno il giudizio profetico dell’apostolo e il suo distacco dalla
sinagoga (cf. vv. 50-51)7.
1.2. Una discontinuità costantemente verificata
La spaccatura dell’uditorio giudaico di fronte all’annuncio del vangelo viene a
costituire una costante dell’azione missionaria di Paolo. C’è un modello pressoché
standardizzato che caratterizza alcune tappe dei viaggi di Paolo: entrata in città,
predicazione nella sinagoga, prima risposta positiva, opposizione dei giudei (con
passaggio della predicazione ai pagani) sollevazione delle folle da parte dei giudei,
abbandono della città8.
Questo modello, che già abbiamo visto rappresentato ampiamente ad Antiochia di
Pisidia, si ripropone con variazioni ad Iconio (cf. At 14,1-6). In questa città, dopo un primo
successo nella sinagoga con la conversione di molti giudei e greci, la parte dell’uditorio
giudaico, che non ha creduto, sobilla i pagani, divide la città e si allea con i pagani per
tentare un’opposizione violenta contro Paolo e Barnaba costringendoli alla fuga. Questi
stessi giudei increduli, visto fallito il loro proposito, si ripresentano nella successiva tappa
di Listra e, con il concorso di una folla da loro istigata, lapidano Paolo (cf. At 14,19).
Qualcosa di simile accade anche nella missione di Paolo a Tessalonica (cf. At 17,1-9). La
predicazione nella sinagoga, oltre al successo tra i greci timorati di Dio e tra le donne nobili,
vede pure l’adesione di “alcuni” giudei. Ma il resto dei giudei induriti, gelosi per la
conversione dei “timorati”, mettono in subbuglio la città, con l’appoggio di alcuni facinorosi,
e trascinano Giasone, che ha ospitato i missionari, davanti ai politarchi. Questi stessi giudei
vanno a creare agitazione anche a Berea, dove i loro connazionali si erano mostrati più
disponibili all’annuncio evangelico, e costringono alla fuga Paolo e Sila (cf. At 17,10-14).
A Corinto, la prolungata e intensa opera di Paolo nella sinagoga, per convincere i
giudei circa la messianicità di Gesù, trova da parte di costoro un’opposizione violenta che
costringe l’apostolo al gesto profetico di condanna, con lo scuotimento delle vesti, e alla
proclamazione della propria innocenza, uniti alla solenne enunciazione: “da ora in poi andrò
dai pagani” (cf. At 18,1-6). La successiva predicazione nella casa del “timorato” Tizio Giusto,
vede la significativa conversione del caposinagoga Crispo, con tutta la sua famiglia (cf. At
18,7-8), ma si conclude con sommossa dei giudei che giungono ad accusare Paolo di fronte al
procuratore Gallione (cf. At 18,12-16). Anche la predicazione per tre mesi nella sinagoga di
Efeso, trova l’ostinato rifiuto di una parte di giudei che induce Paolo a lasciare la sinagoga
per continuare l’opera di convincimento nella scuola di Tiranno, con un grande successo tra
7
Per il discorso ad Antiochia di Pisidia e complessivamente per tutta la scena, cf. O. FLICHY, La
figure de Paul, 183-221; inoltre M. DUMAIS, Le langage de l’évangelisation. L’annonce missionaire en milieu juif
(Actes 13,16-41), Tournai-Montréal 1976.
8
Cf. J.B. TYSON, “The Jewish Public in Luke-Acts”, New Testament Studies 30 (1984) 580:
5
giudei e greci di tutta la provincia d’Asia (cf. At 19,8-10)9.
L’opera missionaria di Paolo, dunque, che, rispettando la priorità storico-salvifica
d’Israele, privilegia dapprima le sinagoghe per convincere i giudei del compimento delle
Scritture in Gesù Messia, incontra la continua spaccatura di questo popolo e il rifiuto violento
di una parte, spesso dovuto al successo del vangelo tra i pagani “timorati di Dio”.
L’ultimo confronto di Paolo con i giudei di Roma vede in un primo momento (cf. At
28,17-22) l’apostolo affermare la propria fedeltà al suo popolo e al contempo il suo essere
testimone perseguitato “a motivo della speranza d’Israele”. L’accorata difesa della propria
giudaicità ottiene una specie di riconoscimento autorevole dai rappresentanti della comunità
giudaica. Quando però, in un secondo momento (cf. At 28,23-28), Paolo, richiesto di illustrare
quella “setta” che è il cristianesimo, si dedica di fronte ad un folto uditorio giudaico a
mostrare il compimento delle profezie nel Messia Gesù, verifica ancora per l’ultima volta
quella divisione dei giudei tra credenti e increduli che lo induce a vedere realizzata la parola
la parola di Is 6,9-10 sul costante indurimento d’Israele e a proclamare solennemente il
passaggio del vangelo ai pagani, i quali “l’ascolteranno” con disponibilità. La chiusura
“aperta” del libro degli Atti (cf. At 28,30-31), nella quale è presentato Paolo che “per due
anni” annuncia con coraggio e senza impedimento il Signore Gesù “a tutti quelli che
venivano a lui”, senza alcuna distinzione tra giudei e pagani, fa da ponte tra la missione
paolina e l’evangelizzazione universale in cui sono impegnate le comunità lucane10.
La figura missionaria di Paolo acquista così tutto il suo spessore di “vettore”
dell’identità cristiana rispetto al giudaismo. Da una parte infatti Paolo è l’annunciatore e il
testimone di un cristianesimo che, nel suo universalismo, si presenta come l’erede della
speranza d’Israele e il compimento delle profezie messianiche. In tal modo egli accredita il
cristianesimo come religione che ha radici lontane nel tempo: un aspetto questo apprezzato
nel mondo romano, sempre sospettoso verso le nuove religioni. Dall’altra, Paolo, nella sua
opera evangelizzatrice arrivata fino al cuore dell’impero, rende evidente che la separazione
del cristianesimo dal giudaismo non è dovuta all’infedeltà del cristianesimo alla propria
matrice giudaica, ma alla costante spaccatura dei giudei di fronte al compimento, in Gesù
Cristo e nell’universalismo dell’annuncio cristiano, di quella particolare storia di salvezza che
Dio aveva iniziato con Israele.
2. L’inserimento nel mondo greco-romano
Il Paolo degli Atti non solo diventa paradigmatico della continuità e discontinuità
9
Per queste annotazioni, cf. A. BARBI, “L’uso e il significato di “(hoi) Ioudaioi negli Atti”, in: G.
Marconi-G: O’Collins, Luca-Atti: l’interpretazione a servizio della Scrittura. Studi in onore di E. Rasco nel suo 70°
compleanno, Assisi 1991, 194-199; e, nello stesso volume, J.J. KILGALLEN, “La persecuzione negli Atti degli
Apostoli”, 218-225.
10
Per la scena conclusiva a Roma, cf. D. MARGUERAT, “L’enigma della conclusione degli Atti (At
28,16-31), in: La prima storia del cristianesimo, 214-243; J. DUPONT, “La conclusione degli Atti e il suo rapporto
con l’insieme dell’opera di Luca”, in: ID., Nuovi studi sugli Atti degli Apostoli, Cinisello Balsamo MI 1985, 421464.
6
dell’universalismo cristiano rispetto al particolarismo giudaico. Egli è anche il missionario
che mette in evidenza come questo universalismo dell’annuncio cristiano possa trovare
casa nel nuovo ambiente dell’impero romano. Luca, infatti, proprio in occasione dei viaggi
missionari di Paolo, si mostra, non solo informato, ma anche per certi versi ammirato
dell’ideologia universalista che connota l’impero romano e che si esprime nella cultura,
nella rete di comunicazioni per terra e per mare, nella ricchezza delle città, nel
funzionamento delle istituzioni, nell’apprezzamento del diritto romano e del suo ideale di
equità. Tale ammirazione - non certo ingenua ma critica, capace di cogliere di conseguenza
anche i limiti e i pericoli - lascia intravedere come Luca consideri questo nuovo ambiente,
in cui le comunità cristiane stanno innervandosi, come un habitat favorevole alla diffusione
del vangelo nella sua destinazione “fino ai confini della terra” (cf. At 1,8). L’accesso al Dio
universale, annunciato dal cristianesimo, sembra dunque essere favorito proprio
dall’universalità dell’impero romano e il successo della missione paolina, al di fuori della
sinagoga, appare come una promessa per l’avvenire del cristianesimo11.
Il primo accenno a Paolo, come figura emblematica del positivo inserimento del
cristianesimo nel mondo greco-romano, si ha nel momento in cui l’apostolo accosta per la
prima volta un autorevole esponente della struttura imperiale. L’incontro a Pafo con il
proconsole romano Sergio Paolo, infatti, vede il cambiamento del nome dell’apostolo.
Improvvisamente accanto al nome ebraico grecizzato “Saulo” compare il nome romano
“Paolo” (cf. At 13,9), che sarà in seguito costantemente utilizzato. Nel momento, dunque,
nel quale il missionario prende contatto con il mondo greco-romano, Luca annota il
mutamento del nome quasi ad indicare lo sforzo di inculturazione che il cristianesimo è
chiamato a fare nel passaggio dalle sue radici giudaiche al futuro che lo attende
nell’ambiente dell’impero romano. Al contempo la segnalazione conclusiva del “venire alla
fede” del proconsole romano (cf. At 13,12), colpito dalla predicazione di Paolo, lascia
intravedere la capacità di penetrazione del cristianesimo in questo nuovo mondo e
l’attrazione che esso è in grado di esercitare anche negli strati sociali più alti della società
romana.
A questo incontro, dalla chiara funzione prolettica, Luca fa seguire altre scene
dell’attività missionaria di Paolo in cui il cristianesimo, da lui rappresentato, è chiamato a
confrontarsi con situazioni culturali diverse; ad innestarsi, con il favore divino, in un
ambiente tipicamente romano; a venire a contatto con le strutture giuridiche dell’impero.,
presso le quali sembra incontrare garanzia e protezione. L’insieme di questi episodi
drammatici sembra delineare un quadro sostanzialmente positivo, destinato a dare fiducia
alle comunità lucane nel loro compito di trovare un’identità spendibile nel mondo
imperiale.
2.1. Listra e Atene: due mondi culturali agli antipodi
Il legame tra queste due tappe è stato spesso considerato semplicemente sotto il
11
Così D. MARGUERAT, “Un cristianesimo tra Gerusalemme e Roma”, in: La prima storia del
cristianesimo, 95-96.
7
profilo della somiglianza tra i due discorsi ad un uditorio pagano che esse presentano: il
breve discorso di Listra (cf. At 14,15-17) costituirebbe un semplice abbozzo destinato a
preparare e a far risaltare il più completo e articolato discorso all’Areopago di Atene (cf. At
17,22-31)12. Recentemente però è stato bene messo in evidenza come questi due momenti
dell’azione missionaria di Paolo in contesto pagano, pur nelle loro somiglianze strutturali,
rappresentino l’impatto del messaggio cristiano con due ambienti culturali che, nella
mappa dell’antica etnografia, possono essere considerati agli antipodi13.
Posta al culmine del primo viaggio missionario, destinato ad aprire la porta della
fede ai pagani, la tappa di Listra (cf. At 14-8-20), nella regione della Licaonia, viene ad
essere emblematica per l’incontro del cristianesimo con un contesto pagano dai contorni
culturali e religiosi particolari. La Licaonia, infatti, è una zona montuosa e remota dell’Asia
Minore che l’etnografia e mitografia antiche ritenevano abitata da popolazioni rudi e
violente, dominate da despoti, chiuse al mondo esterno e caratterizzate da un idioma
dialettale, segnate da una religiosità ingenua ed acritica. Luca sembra conscio di tale
contesto quando accenna all’evangelizzazione dei “dintorni” di queste città (cf. At 14,7),
costituiti da villaggi rurali, ma soprattutto quando ci offre alcune pennellate sulla
situazione culturale-religiosa di Listra: la presenza di un piccolo tempio alle porte della
città; un unico sacerdote di Zeus; una festa popolare con il sacrificio di tori; una
popolazione che parla il dialetto “licaonio” e che credulonamente ravvisa in Paolo e
Barnaba gli dei Hermes e Zeus in forma umana, sulla falsariga della leggenda di Filemone
Bauci (cf. At 14,11-13). In questo contesto, i missionari potrebbero sfruttare l’ingenuità
religiosa a proprio favore e trarne vantaggi. Al contrario, essi reagiscono con una serie di
gesti che nell’antichità erano riconosciuti come tipici dei saggi e filosofi che aborrivano il
travisamento operato nei loro confronti da gente credulona: si stracciano le vesti, scendono
in pubblico, dichiarano la loro condizione di uomini (cf. At 14,14-15a). Proprio la pubblica
dichiarazione della loro condizione di uomini apre ai missionari lo spazio per presentarsi –
in un breve discorso – come semplici messaggeri del Dio (biblico) trascendente e creatore
che, nella sua provvidenza, si è sempre preso cura dei destinatari e per interpellare costoro
a convertirsi da una vuota idolatria al Dio vivente da essi annunciato (cf. At 14,15b-17)14.
Alla fine, riescono a far desistere la folla, ma non riescono ad impedire che questa stessa
folla credulona, sobillata dai giudei arrivati da Antiochia e da Iconio, finisca per lapidare
Paolo lasciandolo mezzo morto (cf. At 14,18-19). Il quadretto conclusivo, con “i discepoli”
che raccolgono Paolo e lo riportano in città (cf. At 14,20), lascia intravedere che anche qui,
12
Così ad es. J. DUPONT, “Il discorso dell’Areopago (At 17,22-31). Luogo dell’incontro tra
cristianesimo e ellenismo”, in: Nuovi studi, 361; S.G. WILSON, The Gentiles and the Gentile Mission in LukeActs, Cambridge 1973, 196.
13
Il riferimento è alla voluminosa e documentata opera di D.P. BECHARD, Paul outside the Walls: A
Study of Luke’s socio-geographical Universalism in Acts 14:8-20, Roma 2000.
14
Interessante è la modalità di questo annuncio. Ai Licaoni che considerano Zeus il dio della
vegetazione e dei frutti, i missionari rivelano che è invece il “Dio Vivente” nascosto, colui che regolava i
fenomeni atmosferici e donava agli uomini i frutti necessari per la loro vita e il loro benessere: cf. al riguardo
C. BREYTENBACH, Paulus & Barnabas in der Provinz Galatien. Studien zu Apostelgeschichte 13f.; 16,6; 18,23 & de
Adressaten des Galaterbriefes, Leiden-New York-Köln 1996, 69-73.
8
oltre allo storpio guarito divenuto credente (cf. At 14,8-10), si è costituita una piccola
comunità cristiana, frutto significativo dell’opera evangelizzatrice e segno di speranza per
il futuro della missione.
E’ indubbio, a nostro avviso, che questa tappa della missione paolina rappresenta un
cristianesimo capace di entrare anche nelle zone più remote e impenetrabili per lo stesso
impero romano; di confrontarsi con una religiosità pagana ingenua, senza sfruttare a
proprio vantaggio – accusa che verrà in seguito rivolta al cristianesimo – la creduloneria di
gente primitiva e sopportandone invece la reazione violenta; di far nascere, anche in
questo contesto, un gruppo di discepoli che alimenta la fiducia per il futuro
dell’evangelizzazione tra i pagani15.
All’opposto di Listra è la tappa di Atene (cf. At 17,16-34). Dal punto di vista
etnografico, la città di Atene rappresenta l’ambiente costiero, socialmente aperto alle
differenze e al confronto, culturalmente elevato e critico, politicamente sensibile alla
democrazia. Dal punto di vista storico, pur avendo perso lo splendore dell’epoca classica,
Atene manteneva, al tempo di Luca, tutto il suo fascino ed era méta di un turismo
culturale che andava a cercare in essa le vestigia delle grandi scuole filosofiche.
Certamente anche Luca deve aver guardato a questa città con questo sguardo di nostalgica
meraviglia e ha fatto della missione paolina ad Atene l’emblema del confronto tra il
cristianesimo e il mondo culturale greco-romano. Della ricchezza di questo testo noi ci
limitiamo a sottolineare qualche motivo16.
Ad Atene, dopo un primo contatto con la sinagoga, il metodo missionario di Paolo
cambia e si adegua all’ambiente. La sua azione evangelizzatrice si sviluppa nella “agorà”,
luogo laico ed aperto, simbolo della democrazia e del libero scambio delle idee (cf. At
17,17). Qui, senza più la protezione di un ambiente religioso, Paolo accetta di confrontarsi
con un mondo pluralistico, con il quale è più faticoso trovare un punto d’interesse e di
incontro comune. Qui, dove la molteplicità delle opinioni viene ad aggiungersi alla
moltitudine dei simulacri pagani osservati in città, l’apostolo intensifica la sua azione
evangelizzatrice perché il suo confronto è “quotidiano” e con i destinatari più diversi che
si possono incontrare in questa “agorà”. Paolo, dunque, calcato sulla figura di Socrate che
nell’agorà discuteva liberamente con tutti sui problemi umani, fa proprio anche il metodo
di comunicazione tipico della cultura ellenistica.
Questo confronto si focalizza poi sulla discussione con i rappresentanti delle due
scuole filosofiche più popolari: quella stoica e quella epicurea. La reazione che Paolo
ottiene è da una parte la squalifica della sua funzione di annunciatore, considerato un
imbonitore senza cultura alla stregua di certi filosofi da strapazzo che a quel tempo
15
Cf. per l’insieme della tappa di Listra, S.-C. LIN, Wundertaten und Mission. Dramatische Episoden in
Apg 13-14, Frankfuhrt am M. 1998, 187-287.
16
Cf. per questa tappa di Atene J. DUPONT, “Il discorso all’Areopago (At 17,22-31)”, 359-400; Ph.
BOSSUYT-J. RADERMAKERS, “Recontre de l’incroyant et inculturation. Paul à Athènes (Ac 17,16-34),
Nouvelle Revue Theologique 117 (1995) 19-43; R. PENNA, “Paolo nell’agorà e all’Areopago di Atene (Atti
17,16-34). Un confronto tra vangelo e cultura”, Rassegna di Teologia 36 (1995) 653-677.
9
predicavano per le strade, e dall’altra il fraintendimento del suo messaggio, dal momento
che “Gesù e la resurrezione (anastasis)” vengono colte come una coppia di divinità, di cui i
filosofi non avevano mai sentito parlare e perciò risultavano “divinità straniere”. La fatica
di rendere comprensibile l’annuncio cristiano in un contesto culturale in cui domina il
desiderio della conoscenza e delle ultime novità è evidente (cf. At 17,18-21).
L’occasione di un discorso all’Areopago viene utilizzata da Paolo per un annuncio
che al fondo ricalca lo schema tipico del kerigma cristiano in ambiente pagano (cf. 1Ts 1,910): la proclamazione del Dio vivente e vero e del giudizio ultimo che questi attuerà. Ma la
singolarità sta innanzi tutto nella sottigliezza retorica con cui l’apostolo cerca un punto di
contatto con il suo uditorio: “ciò che ignorando venerate, questo io vi annuncio” (cf. At
17,22-23). L’uso enfatico del neutro nei due pronomi crea una distanza tra il dio ignoto del
pantheon greco e l’unico Dio creatore che Paolo vuole annunciare, ma al contempo le due
realtà hanno in comune che sono “ignorate” dagli ateniesi e che hanno a che vedere con “il
divino” che è da loro venerato. In tal modo Paolo ottiene il duplice effetto di sottrarsi
all’accusa di portare “divinità straniere” e di creare lo spazio per quella che non è
un’argomentazione di teodicea, ma un vero e proprio annuncio del Dio biblico della
creazione.
Singolare poi è la modalità dell’annuncio del Dio creatore, con la conseguente critica
alla religiosità e al culto idolatrico (cf. At 17,24-29). Qui il Paolo lucano sembra giocare su
un doppio registro. Da una parte, infatti, tutte le affermazione sulla creazione del mondo,
sulla creazione dell’uomo in vista della ricerca di Dio e sulla vicinanza di Dio all’uomo
possono essere ricondotte alla prospettiva biblica. Dall’altra parte, le espressioni e i motivi
che ricorrono in questa parte del discorso riescono comprensibili ad un orecchio greco, dal
momento che essi gli erano familiari a partire soprattutto dalla filosofia religiosa stoica,
nella quale era presente anche una forte critica, simile a quella fatta da Paolo, ad un certo
tipo di religiosità idolatrica. Lo sforzo evidente dell’annuncio paolino è quello di mettere
in atto un tentativo di transculturazione. Pur restando, infatti, fedele alla rivelazione
biblica, tale annuncio si esprime attraverso un linguaggio, dei riferimenti e delle modalità
espositive estranee alla Bibbia e comprensibili invece ad un uditorio di formazione
ellenistica, verso il quale è gettato un ponte e con il quale viene a crearsi un punto di
contatto. Certo rimane una distanza notevole tra l’universo di pensiero di stampo
panteistico in cui le forme espressive e i motivi utilizzati hanno la loro matrice e la
prospettiva biblica del Dio creatore e provvidente. Ma la valorizzazione del meglio che la
riflessione ellenistica ha prodotto come presentimento di Dio costituisce una base che,
purificata, corretta e trascesa, può aiutare la ragione ad acconsentire all’inevitabile salto
della fede17.
La perorazione finale (cf. At 17,30-31), pur facendo riferimento al motivo del giudizio
divino familiare all’uditorio, segnala, nella storia della salvezza, una svolta decisiva che
17
Cf. per quanto concerne l’uso di espressioni e motivi della cultura ellenistica, M. GOURGUES, “La
littérature profane dans le discours d’Athènes (Ac 17,16-31): un dossier fermé?”, Revue Biblique 109 (2002)
241-269.
10
domanda “a tutti e dovunque” la conversione proprio in vista di tale giudizio. Nuovo è
poi l’accenno che il giudizio divino sarà attuato per la mediazione “di un uomo designato
da Dio” che egli ha accreditato a tale funzione mediante l’atto con cui lo ha risuscitato dai
morti. Tornano, dunque, in questa conclusione i contenuti iniziali, tipicamente cristiani,
della predicazione dell’apostolo: Gesù e la resurrezione (cf. v. 18). Ma diventa chiara anche
la finezza pedagogica con cui Paolo li ripropone. Il nome di Gesù è taciuto e la
resurrezione è menzionata come un’iniziativa divina di accreditamento. L’intento evidente
è quello di impedire l’equivoco iniziale, per il quale Gesù e la resurrezione erano stati
percepiti come “divinità straniere”. Questo accenno reticente o sobrio sembra obbedire alla
strategia retorica della “insinuazione”, molto simile all’arte maieutica socratica. Essa tende
ad incuriosire l’uditore, a suscitare in lui domande che lo spingano ad ulteriori incontri e
delucidazioni, nella consapevolezza che le realtà annunciate richiedono un lungo tempo di
assimilazione per un’eventuale accoglienza nella fede. In questa ottica la reazione finale “ti ascolteremo su questo ancora un’altra volta” (At 17,32) - spesso letta negativamente,
potrebbe essere la conclusione voluta e cercata dall’annunciatore.
Anche solo in una rilettura sintetica, questo annuncio di Paolo appare notevole come
tentativo di confronto tra il messaggio cristiano e quella cultura ellenistica con cui il
cristianesimo, impiantato nel mondo greco-romano, dovrà inevitabilmente fare i conti.
2.2. Filippi: il cristianesimo nel mondo romano
La tappa missionaria di Paolo a Filippi (cf. At 16,11-40) ha, nel progetto storiografico
lucano, una rilevanza che talora non gli è riconosciuta. Essa sembra illustrare infatti la
legittimazione divina del trasferimento del cristianesimo nell’ambiente della romanità. Di
fatto gli accenni alla romanità si moltiplicano in questo significativo episodio drammatico.
Filippi è segnalata fin dall’inizio come “colonia romana” (cf. v. 12): qualifica unica,
nonostante Paolo avesse già visitato altre colonie romane (ad es. Antiochia di Pisidia e
Troade). Gli “strateghi” (cf. vv. 20.22.35.38) con i loro “littori” (cf. vv. 35.38) unitamente al
carceriere, che è un funzionario romano, accentuano il clima di romanità. Paolo infine in
questa città, per la prima volta, farà valere il suo privilegio di “cittadino romano” (cf. v. 37).
Nel comporre questa scena di Filippi, paradigma della romanità; Luca sembra aver
utilizzato un “modello culturale” conosciuto nell’antichità con il quale si tendeva a
legittimare la presenza di un nuovo culto in una città. Il modello prevedeva: un impulso
divino, mediante un sogno o una visione, destinato a orientare il passaggio del culto in un
determinato luogo e il viaggio verso il nuovo ambiente; l’opposizione, spesso creata dalle
autorità locali, verso il nuovo culto e l’iniziativa divina che incoraggiava i fondatori del
culto e sconfiggeva prodigiosamente gli oppositori; l’instaurazione festosa del culto nella
città o nella casa, dove la divinità riceveva accoglienza da parte di persone pie18. Un tale
modello sembra chiaramente presiedere alla composizione della tappa di Filippi.
Dopo l’assemblea di Gerusalemme (cf. At 15,1-35), che ha deciso solennemente
18
Così riassume i motivi costanti di questo “modello” A. BARBI, Atti degli Apostoli (Capitoli 15-28),
Padova 2007, 117-118.
11
l’accoglienza dei pagani nella chiesa senza la condizione della circoncisione e della legge,
Paolo, con la sua équipe, intraprende il secondo viaggio missionario (cf. At 15,36-16,5).
Due interventi negativi dello Spirito frustrano i progetti dei missionari, mentre la visione
del Macedone, interpretata come segnale della volontà divina, li sospinge ad evangelizzare
la Macedonia (cf. At 16,6-10). Sono evidenti segnali questi che è l’iniziativa divina a volere
l’ingresso del cristianesimo nel nuovo ambiente macedone e a Filippi in particolare. Anche
l’oracolo della schiava (cf. At 16,17) che qualifica Paolo e si suoi compagni come “servi del
Dio Altissimo”, pur nella sua oscurità e ambivalenza, costituisce una ulteriore conferma
dall’esterno di questa volontà divina.
Il viaggio, che dapprima si sviluppa nell’incertezza attraverso le varie regioni
dell’Asia Minore e alla fine procede velocemente e senza ostacoli verso Filippi, è un
segnale che Dio approva l’innesto del messaggio cristiano nell’ambiente romano di Filippi.
Il cristianesimo in questo nuovo mondo incontra opposizioni di diversa natura:
dapprima lo spirito pitone (cf. At 16,16-18); in seguito le accuse dei padroni della schiava
(cf. At 16,19-21); infine la dura carcerazione imposta dai magistrati (cf. At 16,23) . In questa
lotta, l’intervento divino, che opera attraverso i missionari e a loro favore, riesce vittorioso:
lo spirito è esorcizzato nel nome del Signore Gesù (cf. At 16,18); i padroni sono sottilmente
smentiti perché le loro accuse appaiono mosse dall’avidità; soprattutto la duplice epifania
dentro il carcere, evidente nel “grande terremoto” (cf. At 16,26) e nella “grande voce” (cf.
At 16,28), realizza la liberazione dei missionari in vista dell’evangelizzazione del carceriere
e della sua famiglia. La divinità dunque protegge i fondatori del cristianesimo al fine che
la nuova religione trovi radicamento nel nuovo ambiente romano. I maggiori oppositori – i
magistrati – sono alla fine costretti anch’essi al ripensamento, alla richiesta di scuse e, in
ultima istanza, ad un implicito riconoscimento (cf. At 16,35-39).
Il cristianesimo trova alla fine, in seguito all’indicazione divina, il proprio spazio
significativo nella “casa” di Lidia (cf. At 16,15.40) e del carceriere (cf. At 16,33-34). Le
comunità cristiane formatesi accolgono la nuova fede con gioia e la celebrano nel pasto
festoso dentro il carcere e nell’assemblea riunita presso l’abitazione di Lidia19.
La tappa di Filippi, riletta brevemente in questa ottica, certifica come sia Dio a volere,
attraverso l’opera missionaria di Paolo, che il cristianesimo si impianti nel mondo romano
rappresentato in forma paradigmatica dalla “colonia” di Filippi. Da questo quadro le
comunità lucane sono incoraggiate ad innervarsi nell’impero romano, sicure di rispondere al
disegno di Dio e di essere sostenute dalla sua protezione.
2.3. L’incontro con Gallione e la protezione del diritto romano
Già a Filippi il riconoscimento finale, esigito da Paolo e concesso dalle autorità, aveva
lasciato intravedere che anche i cristiani, in quanto cittadini romani, possono pretendere le
garanzie che il diritto romano offre. La scena di Paolo di fronte al proconsole Gallione, nella
tappa missionaria di Corinto (cf. At 18,12-17), ribadisce in modo chiaro che le autorità
19
Vedi questi motivi presentati per esteso in di J.B. WEAVER, Plots of Epiphany. Prison-Escape in the
Acts of the Apostles, Berlin-New York 2004, 245-277.
12
romane, chiamate a gestire la giustizia, possono assicurare al cristianesimo, nonostante esse
non siano sempre esenti da difetti, una protezione contro gli attacchi che ad esso sono rivolti.
Durante il soggiorno a Corinto, in una visione notturna, il Signore aveva rassicurato
Paolo: “...io sono con te e nessuno cercherà di farti del male...” (At 18,10). Questa promessa di
protezione trova subito dopo illustrazione nel tumulto sollevato dai giudei contro
l’apostolo20, durante il quale egli viene condotto davanti a Gallione per una una “cognitio
extraordinaria”, un’udienza cioè che è atta a stabilire se, ed eventualmente come, ci sia luogo
a procedere giuridicamente contro l’accusato. A mediare, in un certo senso, questa protezione
è proprio l’autorità romana. Di fronte, infatti, all’accusa, formulata dai giudei in un modo
subdolo, nella quale si lascia intravedere un cristianesimo che istigherebbe ad un
comportamento religioso contrario all’ordinamento romano21, il giudizio del proconsole è
chiaro. Egli considera l’accusa come qualcosa di irreale22 e ritiene che nel comportamento di
Paolo, non ci sia alcunché di criminoso o anche solo di fraudolento, posto in atto in modo
malizioso (cf. At 18,14). Per questo egli giudica che non ci sia luogo a procedere e piuttosto
valuta la questione come una disputa interna alla religione giudaica, rimandandone di
conseguenza la soluzione al tribunale giudaico.
L’enfatica conclusione del proconsole è, a nostro avviso significativa ed esprime il
punto di vista di Luca: “Io non voglio essere giudice di queste cose” (cf At 18,15). Con questa
affermazione l’autorità romana sembra riconoscere la propria incompetenza a giudicare il
cristianesimo, considerato questione interna al giudaismo. Tale relativo disinteresse, che si
riflette in un atteggiamento neutrale del proconsole, mette in evidenza che il potere romano
non ha nulla da imputare al cristianesimo da Paolo rappresentato23.
L’episodio di Gallione non è isolato nel libro degli Atti. Ci sono altri momenti nei
quali l’autorità romana non accetta le accuse rivolte a Paolo e indirettamente al
cristianesimo. E’ il caso di Tessalonica (cf. At 17,5-9), dove le accuse di sovversione
dell’ordine imperiale non trovano accoglienza. Sarà soprattutto la fase processuale di
Paolo, nella quale le accuse si intensificheranno (cf. At 21,28; 24,5-6; 25,7), a mostrare che le
autorità non ritengono che siano in questione crimini contro lo stato ma semplicemente
dispute interne alla religione giudaica (cf. il tribuno Claudio Lisia in At 23,28-29; Festo in
At 25,18-20a.25; Agrippa in At 26,30-32). C’è, dunque, una tendenza lucana a presentare,
proprio attraverso la figura di Paolo missionario e testimone, un cristianesimo che le autorità
dell’impero ritengono non pericoloso socialmente e non perseguibile penalmente.
Accanto a questa tendenza vanno ricordati altri elementi che dipingono un’immagine
sostanzialmente positiva delle strutture imperiali nei confronti della figura emblematica di
Paolo: un qualche rispetto per la sua condizione di “cittadino romano” di Paolo (cf. At 16,3739; 22,25-29); una certa protezione contro tumulti o complotti nei suoi confronti (cf. ad es. At
20
Così C.H. TALBERT, Reading Acts. A Literary and Theological Commentary on the Acts of the Apostles,
New York 1997, 168.
21
Cf. R. J. CASSIDY, Society and Politics in the Acts of the Apostles, Maryknoll NY 1987, 91-92.
22
La formulazione al condizionale: “Se si trattasse di un delitto o di un’azione malvagia...” (At 18,14)
considera l’ipotesi irreale.
23
Vedi J. ZMIJEWSKI, Atti degli Apostoli, Brescia 2006, 661.
13
21,31ss.; 23,10. 16ss.; 27,43); un trattamento che in alcuni casi appare benevolo (cf. ad es. At
24,23, 27,3; 28,16.30): la garanzia offerta dal principio dell’aequitas romana (cf. At 25,16)24.
Il quadro appena accennato delinea, propria attraverso la missione paolina, una
specie di apologia lucana “a favore dell’impero” (pro imperio) presso le comunità cristiane a
cui egli indirizza la sua opera. Essa è tesa a favorire, con un moderato ottimismo,
l’inserimento dei cristiani nel mondo imperiale, dove le istituzioni e il diritto romano
possono offrire loro una certa garanzia e protezione, anche se coloro che esercitano il governo
e amministrano la giustizia non appaiono sempre come personaggi del tutto imparziali o
moralmente ineccepibili.
3. Paolo: una figura identitaria
Le sintetiche considerazioni che abbiamo prodotto sul Paolo missionario sono
sufficienti a rendere conto della sua funzione all’interno del progetto storiografico lucano che
all’inizio avevamo abbozzato. La memoria “biografica” di Paolo che gli Atti recepiscono e che
rendono nella forma narrativa dei suoi viaggi missionari (oltre che della sua vicenda
processuale) è destinata a mostrare in lui, non solo il fondatore di quel tipo di comunità alle
quali verosimilmente l’autore si rivolge con la sua opera – comunità composte in
maggioranza da etnico-cristiani – ma anche a fornire ad esse, proprio attraverso i quadri
della missione paolina, un’identità in rapporto al giudaismo e all’impero romano.
Paolo infatti è colui che nella sua opera evangelizzatrice ha mostrato come un
cristianesimo universalista sia in continuità con la la particolare storia di salvezza d’Israele e
porti in sé come compimento la migliore eredità del giudaismo. Al contempo la sua missione
ha mostrato dove sta la causa della discontinuità che comunità, tagliate fuori dal giudaismo,
ora esperimentano in modo doloroso e problematico. Per altro verso, il Paolo missionario è la
figura che funge da vettore per l’inserimento delle comunità lucane nel mondo grecoromano. Le sue tappe missionarie sono quadri destinati ad illustrare i molteplici confronti
che il cristianesimo è chiamato a sostenere nella sua espansione all’interno del nuovo
ambiente dell’impero: confronti con religiosità e culture diverse, confronti con strutture e
ordinamenti imperiali. Il Paolo missionario che affronta queste nuove realtà funge, per le
comunità lucane, da faro e da speranza per un confronto ed un inserimento positivo in
questa nuova ed inedita realtà.
In tal modo la funzione, che il Paolo lucano viene ad assumere, fa risuonare e
ripropone, anche per le comunità cristiane di oggi, il compito di ridefinirsi in modo
sempre nuovo rispetto alla loro lontana radice nell’Israele eletto da Dio e rispetto ad un
mondo in trasformazione dentro il quale esse sono invitate a intravedere possibilità
positive per l’annuncio universale del vangelo.
24
947.
Cf. su questo J. DUPONT, “Aequitas Romana”, in: ID., Studi sugli Atti degli Apostoli, Roma 1975, 901-
14