LA BELLA, LA BESTIA E L`UMANO

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LA BELLA, LA BESTIA E L`UMANO
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ANNAMARIA RIVERA, docente di etnologia e antropologia sociale all’università di
Bari, femminista e antirazzista, è l’autrice di «La Bella, la Bestia e l’Umano» [Ediesse, 193
pagine, 12 euro], di cui pubblichiamo in queste pagine gli stralci di quattro diversi paragrafi.
Corpi
senza
emozioni
RAZZISMO, SESSISMO E SPECISMO HANNO MOLTE ANALOGIE
E INTRECCI. I TRE SISTEMI DI DOMINIO, AD ESEMPIO, CONSIDERANO
I VIVIVENTI UNA MERCE. UN SAGGIO DI UNA NUOVA COLLANA
ANALIZZA I NESSI DI QUESTE TRE ANTICHISSIME FORME DI POTERE
I
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DI ANNAMARIA RIVERA
L PRESUPPOSTO DAL QUALE PARTO […] è che sessismo e razzismo, pur non essendo identificabili o sovrapponibili, siano interconnessi storicamente e congiunti da numerosi legami, anche, ma non solo, da un rapporto di analogia: il «sesso» come
la «razza» o viceversa. I due processi di categorizzazione e differenziazione presentano numerose parentele morfologiche e procedono da una logica, se non comune, almeno simile, che fa perno sui dispositivi dell’essenzializzazione, della
naturalizzazione, della reificazione.
Come ho già detto, nel caso della «razza» [e dei suoi sostituti funzionali: «etnia», «cultura», ecc.], i tratti istituiti come razziali o comunque come tipici di un
certo gruppo umano, ben lungi dall’essere considerati peculiarità individuali fra
le tante, sono adoperati come dei marchi. E questi contrassegni a loro volta sono intesi come manifestazioni esteriori dell’essenza o della sostanza di una categoria globalizzante – la «razza», l’«etnia» o anche la cultura –, alla quale gli individui a tal punto apparterrebbero da esserne determinati nei caratteri morali e comportamentali, anzi da essere non più individui o persone, ma tipi, rappresentanti di quella categoria.
Qualcosa di analogo accade per i generi: una sola peculiarità biologica – l’apparato genitale e la potenzialità procreativa – è prescelta come segno distintivo e significante generale. Al punto che io non ho più questo o quel sesso, che costituisce una delle tante mie peculiarità, ma sono questo o quel sesso, poiché è
esso che determinerebbe interamente la mia identità […].
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LA BELLA LA BESTIA
E L’UMANO [qui a lato,
la copertina] inaugura
la nuova collana Sessismo
e razzismo di Ediesse
realizzata in collaborazione
con l’associazione Crs
e curata da Lea Melandri,
Isabella Peretti, Ambra Pirri
e Stefania Vulterini.
www.ediesseonline..it
In molte società, fra cui la nostra, la differenziazione dei sessi dà luogo alla
costruzione dell’asimmetria e della gerarchia fra i generi: il genere femminile –
la cui differenza è concepita come naturale non solo in senso morfologico e biologico, ma anche psicologico e comportamentale – viene istituito come parzialità e particolarità. Il genere maschile, al contrario, per lo più si identifica ed è
identificato con l’umanità, la generalità, l’universalità.
Non è ineluttabile che una società debba essere sessualmente connotata in senso gerarchico. Tanto è vero che ciò non accade in tutte le società […].
Ho più volte fatto allusione ai processi di reificazione, senza specificare che cosa si intenda con questo concetto. Essendo, a mio parere, del tutto centrale per
comprendere i processi e i dispositivi della meccanica sessista e di quella razzista, ne propongo una definizione, per quanto sintetica e parziale: la reificazione
è una postura, una disposizione e una pratica sociale routinaria che conduce
a trattare soggetti diversi dal noi non già in modo conforme alle loro qualità
di esseri sensibili, ma come oggetti inerti o addirittura come cose o merci.
[…] A parere di György Lukàcs [1991], man mano che il capitalismo si produce e si riproduce economicamente a un livello sempre più elevato, la reificazione s’insedia sempre più profondamente, fatalmente e costitutivamente nella coscienza umana, così da divenire una «seconda natura». A tal punto che gli umani tendono a percepire come cose perfino se stessi e a percepire il mondo secondo lo schema dell’oggetto cosale. Insomma, il feticismo delle merci di definizione marxiana si rivela essere non solo personificazione delle cose, ma anche reificazione delle persone e perfino auto-reificazione.
È innegabile che il sistema capitalistico abbia portato la reificazione alle conseguenze estreme della mercificazione dei viventi. E ciò appare con evidenza se
si considera il trattamento riservato ai corpi femminili e ancor più ai corpi animali, questi ultimi ormai trattati, percepiti, pensati «come una materia la cui forma vivente è transitoria» [Burgat 1999, p. 48].
Gli uni e gli altri sono simbolicamente – nel caso degli animali, anche praticamente – frazionati in singole aree corporee, che divengono altrettante cose, prodotti di consumo separati dal soggetto cui appartengono, dalla sua coscienza, dal
resto del suo corpo: se di un bovino si dice «è un bel lacerto», di una bella donna si dice «è una bella fica»; e a volte l’analogia è talmente esplicita che di una
A mia sorella Paola
H
O SCRITTO questo piccolo saggio
[«La Bella, la Bestia e l’Umano»,
Ediesse] pensando a mia sorella Paola, ed è a lei, animalista e femminista
critica della prima ora, che lo ho dedicato. Avevo scommesso con me stessa e col destino che sarebbe riuscita a
vederlo, ma ho perso la scommessa:
Paola è morta alcuni giorni prima che
il libro fosse stampato, distrutta da
una malattia che fino all’ultimo respiro ha fronteggiato con forza, coraggio, dignità. E perfino con quel senso
dell’ironia che faceva da contrappunto alla caparbietà e alla franchezza a
volte ingenue e assolute, all’altruismo
e alla generosità spinti fino alla dissipazione.
Se c’era una persona che incarnava l’ideale femminista dell’autodeterminazione era lei. Ha costruito la sua
vita all’insegna del nonconformismo
più radicale, della ricerca della bellezza e dell’armonia, della solidarietà,
della com-passione, dell’amore verso
umani e nonumani. Era critica, inquieta, eterodossa qualunque fosse il
campo che la vedeva impegnata: dal
Sessantotto alla nuova sinistra, dal
femminismo all’insegnamento, che
ha praticato lungamente con passione, competenza, spirito d’innovazione. Allo stesso modo ha cercato di
esercitare signoria sulla malattia e sulla morte: sapeva che avrebbe perso,
ma ha deciso di lottare fino in fondo e
ha dettato lei le condizioni della resa e
del dopo.
Ha amato molti e molte cose, ma
soprattutto l’uguaglianza, la seduzione, la raffinatezza sobria, gli abiti di color viola, le maschere e i travestimenti,
il canto, la musica, il ballo, la natura, il
mare, il chinotto, i bambini, i gatti, i cani, gli uccelli e Francesca, sua figlia.
[Annamaria Rivera]
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CLANDESTINO «Le parole non sono neutre: hanno una storia e fanno la storia, perché riflettono e insieme incidono sui rapporti sociali scrive Annamaria Rivera su «Regole e roghi» [edizioni Dedalo, 2009] - Clandestino, ad esempio, è indizio di un mutamento decisivo nel
rapporto tra l’Europa e i migranti... La categoria clandestino è parte del processo di deumanizzazione dei migranti».
donna concupita si dice «è
una bella manza» o perfino «è
È vero, come scrive
,
un bel pezzo di carne».
«che la distruzione del sistema
Tutto ciò va ben oltre le prarazzista non presuppone solo
tiche concettuali e linguistila
delle sue vittime,
che. Si pensi alla crescente
ma la trasformazione
mercificazione del corpo femdei razzisti e della
minile, talvolta sezionato in
istituita dal razzismo ».
frammenti anatomici, che si
produce tramite la pubblicità,
il mezzo televisivo e altri media, in poche parole tramite lo spettacolo [...].
Riprendendo l’analogia con i processi di mercificazione che investono
gli animali, in particolare quelli da reddito, si deve aggiungere che nel loro caso la mercificazione è totale, al punto che le industrie di sfruttamento dei non umani, «non parlano più soltanto di riproduzione bensì di produzione dell’animale: come se gli animali fossero solo materiale corporeo
che è compito del lavoro umano formare, strumentalizzare e riprodurre»
[Bujok 2008].
A tal proposito si può osservare che v’è una certa specularità concettuale e procedurale fra la de-animalizzazione degli animali, nel contesto della produzione industriale serializzata, massificata, automatizzata, e la deumanizzazione degli umani, compiuta in modo altrettanto seriale, massificato, automatizzato, in particolare dalla macchina dello sterminio nazista: se abshlachten [«macellare»] era il verbo usato dagli esecutori nazisti
per nominare il massacro dei prigionieri nei lager, programmato e attuato secondo rigorosa logica industriale, oggi allevare e macellare animali si
dice «produrre della carne» [Rivera 2000, p. 60]. L’animale è, in definitiva,
il simbolo condensato dell’essere mercificabile e della vittima del potere:
vittima inerme, oltre tutto, poiché da lui il potere non ha da temere alcuna resistenza, alcuna ribellione che «non possa essere piegata con ulteriori tecniche di potere» [Bujok 2008].
La tendenza a reificare i viventi, concepiti e trattati come puro corpo,
privo di sensibilità, emozioni, sentimenti, o addirittura come corpo frazionato o ridotto a una singola parte, è all’opera, se pure in forme più subdole e mascherate, nello sfruttamento della forza-lavoro di certe categorie di migranti clandestinizzati/e, costretti/e a lavorare in condizioni
servili o schiavili: braccia da lavoro in senso letterale, delle quali non si percepisce più l’appartenenza al corpo, al soggetto, alla sua coscienza, per non
dire alla sua persona, in quanto tale titolare di diritti. Se non nel momento in cui interviene il razzismo a riconoscere quelle braccia come appendici di corpi alieni e perciò difformi o mostruosi. La «scoperta» che esse appartengono a corpi interi – ingombranti, eccedenti, proliferanti, se non minacciosi – scatena la violenza, il pogrom, la caccia al «nero».
Può accadere, come è accaduto a Rosarno a gennaio del 2010, che a quel
punto le braccia da lavoro divenute corpi-bersagli si rivoltino, affermando così tutta intera la propria coscienza e soggettività. Nelle condizioni presenti, tuttavia, neppure questo è sufficiente per essere riconosciuti come
pienamente umani, così che per piegare la ribellione delle braccia da lavo-
Balibar
rivolta
comunità
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ro che si pretendono persone bastano «ulteriori tecniche di potere»: per
esempio, come a Rosarno, la deportazione compassionevole, concettualmente assimilabile al trasporto
e allo «stordimento» – detti compassionevoli o umanitari – degli animali da macello prima del loro abbattimento.
È vero, infatti, come scrive Balibar, che la distruzione del sistema
razzista «non presuppone solo la rivolta delle sue vittime, ma la trasformazione dei razzisti stessi e di
conseguenza la decomposizione interna della comunità istituita dal
razzismo». Anche in tal senso v’è
una forte analogia con il sessismo:
«il suo superamento prevede contemporaneamente la rivolta delle
donne e la decomposizione della comunità dei ‘maschi’» [Balibar 1991a,
p. 30].
Il caso di Rosarno, come tanti altri simili, sta a dimostrare che il dominio della merce-spettacolo più
astratta può accompagnarsi con
l’irruzione più brutale della concretezza corporea, insieme con il suo
sfruttamento o annichilimento. Anzi, se c’è un tratto che caratterizza la
fase attuale del capitalismo neoliberista, è proprio la compresenza dei
processi più «avanzati» con dimensioni economiche, sociali e culturali le più «arretrate». Così il dominio
delle immagini e la virtualizzazione
più spinta possono convivere con
rapporti di lavoro servili o schiavili; la dissoluzione del sensibile in favore dell’astratto può coesistere
con la presenza sempre più estesa e
crescente di realissimi corpi supersfruttati, asserviti, rifiutati, segregati, imprigionati, seviziati, torturati,
uccisi. È come se il capitalismo vomitasse l’arcaico che mai è riuscito
a digerire, cioè a trascendere, nono-
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L’IMBROGLIO ETNICO Scritto dallo storico René Gallisot, l’antropologo Mondher Kilani e Annamaria Rivera, «L’imbroglio etnico»
[Dedalo, 2001] è il libro che messo in discussione idee e parole della società multiculturale, come etnia [usata «come un eufemismo per dire razza,
senza pronunciare questa parola»] oppure multiculturalismo [«che rimanda all’idea che le culture siano delle totalità chiuse..., sistemi naturali»].
stante la favola delle magnifiche
sorti e progressive; e, dopo averlo
vomitato, lo inghiottisse di nuovo
per placare la propria fame insaziabile.
Queste considerazioni dovrebbero indurci a diffidare dei facili ottimismi progressisti: la discriminazione in base al sesso, alla «razza»,
alla classe, all’orientamento sessuale non è un residuo arcaico del
passato, un segno di arretratezza o
di modernità incompiuta, destinato
a dissolversi presto, bensì un tratto
che appartiene intrinsecamente alla modernità. [...]
È vero che il ribaltamento – o il
parziale mescolamento – di ruoli,
costumi e immagini del femminile e
del maschile, che la società dello
spettacolo ha prodotto negli anni più
recenti, ha mutato le forme della riduzione della donna a oggetto o a
merce, per meglio dire, a mercespettacolo: «Lo spettacolo, per citare Debord, è il momento in cui la
merce è pervenuta all’occupazione
totale della vita sociale» [2002: esordio tesi 42].
Alcuni spot pubblicitari dei giorni nostri, per esempio, sono costruiti mediante dispositivi semiotici e simbolici che trascendono l’analogia, il traslato o la metafora
donna-oggetto di consumo, per sfiorare la de-umanizzazione o forse l’evaporazione dell’umano, in favore
della merce raffigurata, essa, come
ciò che è vivo. […].
Ancora a proposito dei processi di
mercificazione, si consideri la pratica aberrante dell’utilizzo, tanto frequente nel Belpaese da essere ormai
routinario, dei corpi femminili come
tangenti, merci di scambio di un sistema di corruzione ampio e profondo. Una tale pratica, che sembra es-
La discriminazione in base
al sesso, alla «razza»,
alla classe, all’orientamento
sessuale non è un residuo
arcaico del passato, ma un tratto
che appartiene intrinsicamente
alla modernità
sere il marchio dell’Italia dei nostri
giorni, è il paradigma perfetto della
mercificazione, per meglio dire della mercificazione al tempo della
società dello spettacolo. Così la donna – consumata ed esibita, tutt’intera o frazionata in pezzi di carne – è
divenuta, come scrive incisivamente Ida Dominijanni [2010], «un regalo come un altro, una tangente come
un’altra, una merce come un’altra,
per utilizzatori finali e iniziali, sporadici o costanti».
Questo «sistema di scambio fra
potere, sesso e danaro» [ibidem]
sancisce il trionfo dell’etica dell’equivalenza. Come «un’oncia d’oro,
una tonnellata di ferro, un quarter
di grano e venti braccia di seta»,
per citare Karl Marx, così ora corpi
e immagini femminili, denaro, automobili, appartamenti e suite di
lusso sono considerati, trattati,
adoperati come equivalenti «e in
tal modo rappresentano la medesima unità malgrado la loro variopinta apparenza» [Marx 1999/1859].
Per meglio dire, infine, a sussumerli tutti è lo spettacolo, essendo divenuto esso l’equivalente generale
astratto di tutte le merci, come
aveva presagito Debord […].
A riguardo delle donne-tangenti,
Maria Laura Di Tommaso [2009]
obietta che non è rilevante il genere
ma la disparità economica e di potere: non possiamo escludere, aggiunge, che in un contesto analogo
«un potere politico femminile utilizzerebbe gli stessi strumenti». A
questa osservazione, che viene
suffragata da un dato di costume
–l’aumento del consumo femminile di sesso a pagamento – si potrebbe replicare che un contesto analogo non contempla un potere politico femminile e viceversa: un potere politico femminile non potrebbe mai produrre un contesto analogo, che ha fra i suoi pilastri il sistema patriarcale e il sessismo.
È però innegabile che oggi in
Italia vi sia una ragguardevole
complicità della società, dell’opinione pubblica, anche di una parte della popolazione femminile rispetto a un tale utilizzo dei corpi
femminili. Forse c’è qualcosa di
più della complicità oggettiva: a
volte sembrano prevalere l’invidia
o l’immedesimazione e la sintonia
sentimentale con le imprese e lo
squallore dei potenti ai quali il denaro, il potere, il controllo e la manipolazione dei media, in definitiva la capacità di tradurre tutto in
spettacolo-merce, permettono ciò
che è negato alla gente comune.
Si potrebbe altresì ribattere che
la pratica che abbiamo appena descritto non sia specifica della mercificazione al tempo della società
dello spettacolo. Per esempio, se si
assume la tesi, avanzata in particolare dall’antropologa Paola Tabet [1998 e 2004], che «lo scambio
sessuo-economico» sia costitutivo
delle relazioni sessuali nelle società più disparate, si può sostenere, di conseguenza, che l’attuale
utilizzo di corpi femminili come
tangenti non ne sia altro che una
variante fra le tante.
Secondo Tabet, infatti, lo scambio sessuo-economico non è un
esito fra i molti possibili, bensì lo
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Pay per Carta
La campagna abbonamenti, come spieghiamo a pagina 3, è sospesa.
Resta la possibilità di sostenere Carta clandestina con una sottoscrizione.
Scrive Ascanio Celestini: «Sarebbe straordinario che invece di chiudere Carta la si potesse riciclare. Carta che diventa letteratura e cinema, musica e teatro, movimento e sindacato, trattoria e parco giochi, fontanella, orto...».
Utilizza il codice IBAN [causale Sos-tengo carta]
IT 29 R 07601 14800 000098806631
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LIBERAZIONE «La sfida che impongono tanto il femminismo quanto la realtà del pluralismo culturale - si legge nell’ultimo paragrafo del
nuovo libro di Annamaria Rivera - è come trovare terreni comuni di traduzione e di mediazione che consentano di praticare un comune impegno
antissessista e antirazzista al di là delle proprie peculiarità... così da rendere pensabile un progetto transculturale di liberazione tout court».
strumento per eccellenza del processo generale di subordinazione
delle donne e della loro sessualità. Se
nella nostra società, sostiene l’antropologa, è per lo più dissimulato,
salvo nel caso della prostituzione, in
molte altre società, le più diverse nel
tempo e nello spazio [dalle Isole Trobriand dell’epoca di Malinowski al
Madagascar di oggi], è praticato
abitualmente, reso esplicito, considerato normale, lecito o perfino
prescritto, fuori o dentro il rapporto matrimoniale. Esso perciò non sarebbe l’eccezione nel rapporto fra i
generi, ma la regola costante: se si
squarcia il velo delle apparenze, argomenta Tabet, ci si accorgerà che
non fa differenza che il compenso
sia diretto e in denaro [come nella
prostituzione] o dissimulato sotto
forma di dono, di sostentamento, di
offerta di beni e vantaggi [come nel
matrimonio]. [...]
Guardando al nostro paese, più
che gloriarci del lascito del femminismo dovremmo allarmarci per la
condizione penosa delle donne e
per l’opera costante, svolta dalle più
varie agenzie del potere [dall’economico al politico, fino al mediatico], di
umiliazione od offesa della dignità
femminile.
Se da noi è tanto evidente e diffuso il fenomeno della donna-tangente, è anche a causa della scandalosa
mortificazione del ruolo, del corpo e
dell’immagine della donna, cosa della quale nondimeno assai poco si
parla […].
Come provano in modo lampante
statistiche, rapporti e studi italiani e
internazionali, in Italia la condizione femminile è a livelli pressoché infimi rispetto ad altri paesi, occidentali e non. Basta citare una delle tante fonti, il più recente rapporto
Se da noi è tanto diffuso
il fenomeno della donna
tangente è anche a causa
della scandalosa mortificazione
del ruolo, del corpo
e dell’immagine della donna,
cosa di cui non si parla.
[2009] del World Economic Forum
sul Global Gender Gap, che misura il
gap fra uomini e donne secondo
quattordici indicatori, relativi agli
ambiti dell’economia e del lavoro,
dell’istruzione, della politica, della
salute e dell’aspettativa di vita. Secondo questo rapporto, l’Italia occupa il 72° posto su 135 paesi dei quattro continenti, con una perdita di
cinque posizioni rispetto al 2008.
Viene così superata, e di gran lunga, non solo da tutti gli altri paesi europei, escluse la Repubblica Ceca e la
Grecia, ma anche dal Vietnam, dalla
Romania, dal Paraguay, per non
parlare del Sudafrica [al sesto posto],
delle Filippine [al nono], del Lesotho [al decimo]. Se poi si isola l’ambito della partecipazione e della parità nel campo del lavoro, il nostro
paese scende al 96° posto, a causa
delle disparità di genere nei salari
[addirittura al gradino 116] e nell’accesso al mondo del lavoro: solo il 52
per cento delle donne è parte della
popolazione attiva contro il 75 per
cento degli uomini; il reddito medio
delle donne è la metà rispetto a quello degli uomini: 19.168 dollari l’anno contro 38.878.
In Italia, a offendere la dignità
femminile vi è altresì la diffusa e abituale rappresentazione della donna
come oggetto sessuale, resa possibile soprattutto dal sistema televisivo
– dal privato dapprima, poi anche dal
pubblico, che ha finito per confor-
marsi al primo quasi perfettamente.
La televisione italiana – volgare, sessista, per lo più razzista – è stata ed
è un elemento cruciale dell’offensiva contro le donne e le loro pretese di
uguaglianza e di liberazione.
Oggi, pressoché tutti i programmi
televisivi italiani, d’intrattenimento
come d’informazione, sono improntati a un unico modello: quello della
ragazza nuda o seminuda, ammiccante e ancheggiante, che, sorvegliata dal conduttore, si esibisce per gli
ospiti e per il pubblico, lei discinta e
privata di parola, loro loquaci e vestiti di tutto punto [vedi: Campani
2009 e Rangeri 2007].
Per cogliere l’importanza della
cosa, si deve considerare che la Tv,
col modello pornografico che propone, costituisce un ganglio importante, se non decisivo, dell’apparato di consenso e di potere quale si è
definito in Italia; e perciò finisce per
condizionare non solo il linguaggio
dei politici, sempre più apertamente sessista, ma la stessa struttura del
potere politico e delle istituzioni: alla ridicola presenza delle donne nelle istituzioni fanno da contrappunto
le pin-up e le «veline» televisive
cooptate in Parlamento e nel governo. Questo fenomeno non è altro se
non una delle varianti del sistema di
scambio fra potere, sesso e danaro. A
sua volta, il porno televisivo mitridatizza giorno dopo giorno il senso comune, l’immaginario collettivo, l’opinione pubblica, i quali, avvelenati da dosi quotidiane di sessismo e
razzismo mediatici, sono pronti per
essere invocati dai politici mainstream a sostegno e giustificazione
dei loro discorsi, imprese e misure
sessiste e razziste. La profezia di Debord si è realizzata: la merce-spettacolo è giunta all’occupazione totale
della vita sociale.
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