Le Donne delle donne

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Le Donne delle donne
Sabrina Marchetti
Le Donne delle donne
in «DWF», 1-2, 2004, pp.68-98
Wife and servant are the same
But only differ in the name.
Lady Chudleigh, 1703
§1. Presenze, ruoli ed esperienze
delle donne immigrate in Italia1
La presenza femminile nell’immigrazione è un fenomeno
particolarmente rilevante e in costante aumento, tanto da far
parlare di femminilizzazione dell’immigrazione. Si considera che
le donne rappresentino almeno il 50% delle persone in migrazione
nel mondo2. La presenza femminile si caratterizza come un’entità
eterogenea, in cui le nazionalità di provenienza s’intersecano con
le differenti tipologie di donne (mogli, singles, adolescenti) e i
loro percorsi migratori. In quest’ottica possiamo delineare tre
fasi dell’immigrazione femminile in Italia. Le prime donne ad
arrivare sono state le filippine e le capoverdiane negli anni ’80,
donne che sono arrivate “sole” per lavorare nel settore domestico.
Esse hanno trovato facilmente impiego grazie alla crescente
richiesta di colf da parte delle donne italiane, che ormai
lavoravano in massa, e all’intermediazione dei padri missionari,
che le hanno indirizzate provvedendo, spesso, alla stipulazione
dei contratti di lavoro ancor prima della partenza. Sempre durante
gli anni Ottanta sono arrivate le donne fuggite dai paesi africani
in guerra, specialmente le rifugiate somale ed eritree, che hanno
chiesto asilo al nostro Paese sulla base dei rapporti excoloniali. Da ultimo si è assistito all’arrivo delle donne
musulmane,
in
particolar
modo
marocchine
e
albanesi,
per
ricongiungimento col coniuge, emigrato anni prima, e per la
stabilizzazione della propria famiglia in Italia3. Nello sviluppo
1
Questo scritto nasce dalla mia tesi per il Master in Studi di Genere
dell’Università di Siena , conseguito nel 2003. Ho sviluppato, inoltre, parti di
questo lavoro per una ricerca dell’Università di RomaTre e della ‘Coop. Generi &
Generazioni’ nell’ambito del progetto “Reti, migranti e nativi/e: reti di
esperienze, reti di accoglienze”finanziato dalla Commissione Europea, DG-Affari
Sociali.
2
Castels, Stephen and Mark J. Miller, The age and migration: international
population movements in the modern world, The Guilford Press, New York e London,
1998.
3
Per la letteratura sull’andamento dell’immigrazione femminile in Italia fare
riferimento a Anthias, Floya e Lazaridis, Gabriella (a cura di) Gender and
migration in Southern Europe. Women on the move, Berg, Oxford, 2000; Campani,
Giovanna, Genere, etnia e classe: migrazioni al femminile tra esclusione e
identità, ETS, Pisa, 2000; Colombo, Asher e Sciortino, Giuseppe (a cura di),
Assimilati ed esclusi, Il Mulino, Bologna, 2002; Grasso, Mario, Donne senza
confini, L’Harmattan Italia, Torino, 1994; Sassen, Saskia, Migranti, coloni,
rifugiati, Feltrinelli, Milano, 1999; Zincone, Giovanna (a cura di), Secondo
di queste fasi, notiamo il passaggio dal modello mediterraneo a
quello nordico4. Secondo il modello mediterraneo dalla fine degli
anni Settanta si è incoraggiata l’immigrazione in Italia di certi
gruppi etnici perché trovavano facilmente impiego nei settori
dell’economia informale, come il lavoro domestico, incentivando
così l’arrivo di donne ‘sole’. Il modello nordico, invece, si può
riconoscere in Italia a partire dagli anni Novanta, col massiccio
impiego di manodopera straniera nell’industria e l’arrivo delle
‘mogli’ per ricongiungimento familiare, reso possibile dalla legge
Martelli del 1990, ma intensificatosi in seguito alla legge TurcoNapolitano del 1998. Al momento attuale, con un ritardo di almeno
20 anni rispetto ai paesi del Nord Europa, ci troviamo di fronte
ad una fase di stabilizzazione delle comunità immigrate, fase in
cui la figura femminile svolge un compito fondamentale, sia nel
ruolo di gestione della propria vita familiare, sia in quello di
lavoratrice e mediatrice culturale nella società italiana. Quel
che tuttavia emerge dalle testimonianze delle donne immigrate è
l’importanza del contesto di accoglienza che influenza non solo il
loro grado d’inserimento, ma anche il loro successo in ambito
professionale e il loro comportamento individuale. Infatti, i
percorsi migratori di donne originarie dello stesso Paese, ad
esempio donne filippine, sarà diverso se si troveranno in Italia,
dove sono tutte impiegate come colf, invece che in altri paesi
europei,
dove
hanno
accesso
a
tutte
le
professioni.
In
conclusione, si può forse pensare che il modello di divisione
sessuale dei ruoli nella famiglia che vale nel Paese d’accoglienza
si ripercuote sui percorsi migratori delle donne immigrate5.
In Italia, i settori in cui le donne immigrate s’inseriscono
più facilmente sono i settori connessi col terziario, come la
collaborazione domestica, l’assistenza domiciliare e gli altri
servizi. Quello domestico è il settore caratterizzato dalla
maggiore etnicizzazione, ossia è il settore in cui gli/le
occupati/e
extracomunitari/e
superano
numericamente
gli/le
italiani/e, fino ad essere i due terzi nella zona di Roma. E’
interessante
notare
che
in
Italia
vi
è
una
collaboratrice/collaboratore familiare dichiarata/o all’INPS ogni
256 residenti. Le donne sono il 77,8% dei 114.182 collaboratrici e
collaboratori domestici extracomunitari nelle case italiane6. Si
tratta per lo più di giovani donne, molte delle quali non hanno
una propria dimora indipendente dalla famiglia in cui lavorano.
rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna, 2001 e
Scoppa, Cristiana, “Immigrazione: femminile plurale”, in Noi donne, v.54, n.12
(dic./gen.), 1999.
4
Per la distinzione fra questi due modelli si fa riferimento a Pugliese,
Enrico, L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Il Mulino,
Bologna, 2002 e Pugliese, Enrico e Macioti, Maria Immacolata, L’esperienza
migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Laterza, Bari, 2003.
5
si veda Pugliese e Macioti, cit.; Campani, cit; Kofman, E., Phizaclea, A.,
Raghuram, P. e Sales, R., Gender And International Migration In Europe,
Routledge, London, 2002.
6
dati da Caritas di Roma e Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2002,
Nuova Anterem, Roma, 2002.
2
Nell’ambito della collaborazione domestica riveste un ruolo
particolare la figura delle “badanti”. Si tratta di donne che si
prendono cura di persone anziane non autosufficienti, di cui
familiari non sono in grado di occuparsi stabilmente. La maggior
parte di esse proviene dall’Est Europeo, ed è sposata, anche se in
Italia è venuta senza parenti. Il ruolo di queste donne colma una
profonda carenza d’intervento pubblico a favore delle famiglie in
cui ci sia un anziano bisognoso di assistenza continuativa.
Tuttavia, a dispetto della grande disponibilità d’impiego nel
lavoro domestico, recenti indagine e interviste mettono in luce i
problemi connessi ad una così accentuata canalizzazione delle
donne immigrate verso questa occupazione. Gli effetti negativi di
ciò sono: la segregazione in una ristretta cerchia di mestieri cui
è funzionale la convinzione che la donna sia naturalmente
predisposta per i lavori di cura; salari bassi e comunque non
commisurati alla prestazioni richieste; sottovalutazione della
precedente formazione delle persone coinvolte; difficoltà di
conciliare il ruolo lavorativo con quello materno, con la
conseguenza che i figli delle donne straniere vengono affidati ai
nonni in patria o si ricorre all’interruzione volontaria della
gravidanza7.
Si deve considerare, inoltre, come nella nostra società il
lavoro
sia
concepito
come
un
momento
irrinunciabile
per
l’inserimento
sociale
delle
persone,
per
la
propria
autonomizzazione e realizzazione di sé. Al tempo stesso, però, il
lavoro
può
essere
un
fattore
di
rischio
se
è
fonte
d’emarginazione,
insoddisfazione
e
isolamento.
Ciò
vale
particolarmente nel caso delle donne immigrate, per le quali è più
difficile trovare un lavoro che soddisfi le aspettative del
proprio progetto migratorio e che permetta loro lo sviluppo della
sfera socio-affettiva. Il quadro attuale è di una sostanziale
marginalità delle donne immigrate, solitamente dedite al lavoro di
cura nel contesto familiare, che è aggravata da fenomeni di
isolamento, disistima personale e sfiducia verso l’esterno, scarsa
conoscenza delle lingua e della cultura italiana, pregiudizio e
rifiuto da parte del mondo del lavoro. Un fattore decisivo è
l’impossibilità di far valere i titoli di studio conseguiti nel
paese d’origine. Nel considerare l’inclusione socio-occupazionale
delle donne immigrate, dovremmo tener presenti i seguenti
obiettivi: migliorare le condizioni di vita (abitazione, luoghi di
aggregazione), promuovere l’accesso delle donne al mercato del
lavoro e alla formazione, controllare la condizione delle donne
sul posto di lavoro, ridistribuire il lavoro di cura, incentivare
la partecipazione delle donne alla creazione di attività socioeconomiche8.
7
Cfr. A.A.V.V., Collana “Percorsi di donne” in 7 vol. Carocci/Organon, Roma,
2001.
8
Per letteratura che affronta questo tema si veda Abtidon, Ali Faduma,
Almaterra: percorsi contro l'esclusione sociale e per l'autonomia delle donne,
Commissione Nazionale Parità, Roma, 2000; Balsamo, Franca, Da una sponda
all’altra del Mediterraneo, L’Harmattan Italia, Torino, 1997; Colonnello,
3
Se poi analizziamo il rapporto fra le donne immigrate in
Italia e la propria tradizione culturale possiamo distinguere due
diverse tipologie di donne immigrate e i loro diversi percorsi
migratori.
Si
osservano,
infatti,
due
diverse
strategie
d’immigrazione:
la
migrazione
come
fenomeno
individuale,
successivo alla rottura con la comunità d’origine, le sue regole e
le sue tradizioni, e la migrazione come strategia collettiva
comunitaria, ossia “diretta” dalla comunità d’origine. A ciò
corrispondono due diversi atteggiamenti delle donne rispetto alla
loro tradizione: uno tende verso il cambiamento dei costumi, delle
norme e dei valori, l’altro tende alla conservazione spasmodica di
questi stessi costumi e tradizioni9. Per quanto riguarda la prima
tipologia di donne, possiamo dire che almeno apparentemente esse
sono poco preoccupate del mantenimento della propria tradizione,
semmai il loro obiettivo è inserirsi facilmente e velocemente nel
tessuto sociale e culturale della società italiana. In generale,
si tratta di donne singles o divorziate, spesso rifugiate
politiche, che partono nell’intento di cominciare una nuova vita e
liberarsi dei legami col proprio contesto di provenienza. A tal
proposito ricordiamo l’importanza dei matrimoni misti, spesso
l’unico strumento per queste donne per raggiungere una reale
integrazione nella società italiana. Se, invece, ci soffermiamo
sulla seconda categoria di donne, le “tradizionaliste” non
possiamo che vedere alcune difficoltà nel raggiungimento dei loro
obiettivi. Ciò può verificarsi sia che si tratti di donne sole,
che quindi soffrono la mancanza di una serie di relazioni
parentali e amicali funzionali a mantenere e praticare la
tradizione, sia nel caso di donne che vivono in Italia col resto
della propria famiglia. In quest’ultimo caso, il loro rapporto con
la tradizione appare problematico. Le famiglie immigrate, ad
esempio,
lamentano
numerose
difficoltà
nella
trasmissione
culturale ai propri figli e figlie, con conseguenti problemi di
relazione fra genitori e figli. Per i loro bambini e bambine,
infatti, è impossibile apprendere in modo adeguato la propria
cultura e religione d’origine nelle scuole italiane. D’altronde i
genitori sono impegnati nel lavoro la maggior parte del giorno,
per cui rimane poco tempo per insegnare ai propri figli, non solo
le proprie tradizioni, ma persino la propria lingua d’origine.
Questa difficoltà è sentita in particolare dalle donne che si
considerano più responsabili dell’educazione dei figlie e delle
figlie, nonché le custodi di certi saperi e pratiche originarie10 .
In tale quadro, si deve guardare alla donne immigrate come
“attori sociali”, ossia come soggetti capaci di attuare delle
strategie che conducono al miglioramento generale della loro
Claudia “Donne immigrate: il dilemma sociale dell'immigrazione femminile tra
dequalificazione e prospettive di riuscita professionale” in Omega, v.II, n.2
(feb.), 1999; Grasso, cit.; Morini, Cristina, La serva serve. Le nuove forzate
del lavoro domestico, Derive Approdi, Roma, 2001; Pittau, Franco in A.A.V.V,
cit.
9
cfr. Campani, cit.
10
cfr. Campani, cit.
4
condizione o permettono, almeno, di “reggere” il processo
migratorio senza eccessiva sofferenza per loro e per il resto
della famiglia. Ciò vale innanzitutto all’interno dei rapporti di
coppia, come nel caso delle donne maghrebine in Italia. Se le
consideriamo come attori sociali osserveremo che l’autonomia
economica da esse conquistata grazie alla migrazione, consente
loro un ruolo di maggiore forza nei confronti del marito, rispetto
al quale non si pongono più in posizione di subordinazione
assoluta, ma con cui cercano piuttosto una relazione paritaria. Le
donne maghrebine, infatti, sembrano investire le loro energie
nelle relazioni di genere e nel loro cambiamento, più che verso
una formazione professionale che sarebbe comunque difficile nel
contesto italiano11.
§2. L’Altra
Se la differenza fra donne si manifesta, in generale, come
differenza di classe, religione, etnia, cultura e orientamento
sessuale,
qui
prenderemo
in
considerazione
una
differenza
specifica fra le donne-native-emancipate e le donne-immigrate-colf
in Italia. A mio parere, questo tipo di relazione amplia il
concetto di “differenza fra donne” andando oltre le differenze di
cultura, di classe ed etnia. Soffermarsi su tale relazione di
differenza non serve tanto ad inquadrare e definire la donna
“altra” che si confronta con una società ed un mondo precostituiti
rispetto al suo arrivo, ma soprattutto spinge ogni singola donna
nativa a mettere in discussione il proprio riconoscimento nel
modello di “donna emancipata”. Questa riflessione conduce la donna
nativa a mettersi in gioco nel confronto con una donna la cui
alterità è determinata non soltanto da fattori esterni come l’età,
l’etnia e la classe, ma, ed è ciò che c’interessa, da fattori
interni alla relazione che producono la differenza12. In altre
parole, esistono delle differenze che non sono fondamentali se
prese a se stanti, come la razza, il censo e la cultura. La
differenza di razza, ad esempio, in sé stessa non giustifica una
così grande differenza di status fra donna nativa e migrante13.
Bisogna, invece, ricercare le cause del perché tale donna ricopra
un ruolo che la donna nativa non vuole più ricoprire. Ossia, ci si
deve chiedere perché la donna nativa vede nella migrante colei che
11
cfr. Campani, cit.
A tal proposito si può essere utile pensare alla riflessione di Avtar Brah
sulla nozione di “Diaspora Spaces” in Brah, Avtar, Cartographies of diaspora.
Contesting identities, Routledge, London 1996.
13
Una riflessione su l’intersezione delle categorie di razza, etnia, classe e
sulla non-rilevanza di ognuna di esse se prese a se stante si può trovare in
Anthias, Floya e Nira Yuval-Davis, Racialized boundaries, Routledge, London,
1992.
12
5
si può occupare “al posto suo” della cura della propria sfera
domestica14.
In altre parole, arriviamo così agli obiettivi di questo
lavoro, il confronto con le donne “altre”, nel senso già
illustrato, provoca nelle donne native che entrano con loro in
relazione, l’autocritica del proprio modo di “essere donna” e,
soprattutto, del percorso individuale e/o collettivo che, nel
tempo, le ha portate a raggiungere tale modo di essere. Questo
momento d’autocritica offre spunti importanti, dal mio punto di
vista, alla riflessione femminista che voglia fare un’analisi
della rappresentazione delle donne italiane e di ciò che esse
hanno effettivamente realizzato grazie al movimento femminista di
massa
e
a
riflessioni
individuali
in
una
prospettiva
emancipazionista15.
In conclusione, si deve riscoprire il nodo della differenza
fra ‘Noi e Loro’ per vedere da dove partire nella ricerca
d’elementi
comuni
che
“in
quanto
donne”
dobbiamo/possiamo
esplicitare. Dobbiamo inaugurare delle pratiche politiche che
agiscono su questi elementi comuni che quindi svuotano di senso le
“altre” differenze finora al centro del dibattito, come l’etnia o
la razza. L’elemento comune, a mio parere, è l’oppressione
capitalistico-patriarcale che associa la donna alla cura e alla
sfera domestica. In tale ottica, vorrei proporre di guardare alla
teoria del contratto sessuale di Carole Pateman e di estendere la
sua applicazione alla relazione fra donne diverse sullo stesso
modello di quella fra uomo e donna. Tel riflessione ci porterà,
nella conclusione, a mettere in luce quelli che Maria Luisa Boccia
chiama i ‘paradossi della cittadinanza’16.
§2.1 - Quante differenze. La razza e l’etnia delle donne
Differenza. Il concetto di differenza ha una lunga storia nel
femminismo occidentale. Seguiamo Mary Maynard nel proporne due
distinte formulazioni. La prima si concentra sull’importanza delle
differenza di esperienze17. Questo modo di concettualizzare la
differenza
parte
da
un
assunto
fondamentale
del
pensiero
femminista, ossia il considerare l’esperienza personale come
14
Per la riflessione sulla “sostituzione” della donna emancipata da parte della
donna immigrata nella sfera domestica facciamo riferimento ad Anderson, Bridget,
Doing the dirty work? The global politics of domestic labour, Zed Books, London,
2000 e Ehrenreich, Barbara e Arlie Russel Hochschild, Donne Globali,
Feltrinelli, Milano, 2004.
15
Per la critica dell’emancipazione delle donne italiane proprio a partire
dall’analisi del ruolo delle donne immigrate che lavorano come colf nella città
di Roma si veda il lavoro di Jaqueline Andall in Andall, Jaqueline, Gender,
migration and domestic service. The politics of black women in Italy, Ashgate,
Aldershot, 2000.
16
Boccia, Maria Luisa, La differenza politica, Il Saggiatore, Milano, 2002.
17
Si veda Maynard, Mary, “Race, gender and the concept ot ‘difference’ in
feminist thought” in Heleh Afshar e Mary Maynard, The dynamics of ‘race’ and
gender, Taylor&Francis, London, 1994.
6
portatrice di un significato al tempo stesso politico e teorico.
In altre parole, considerare le esperienze femminili fornisce un
punto di vista privilegiato dal quale osservare le relazioni fra
donne e il modo in cui differiscono da quelle maschili. Allo
stesso modo, se guardiamo all’esperienza delle donne di colore si
può mettere in luce come la razza giochi sì un ruolo importante
nelle condizioni sociali ed economiche di queste donne, ma che, al
tempo stesso, la razza non sia l’unico fattore di differenziazione
all’interno dell’esperienze femminili, poiché entrano in gioco
altre variabili quali la cultura, la classe o la religione.
La seconda formulazione del concetto di differenza si può
ritrovare, per Maynard, nei lavori dei pensatori e delle
pensatrici postmoderne18. In generale, il postmodernismo mette in
discussione un certo essenzialismo percepito nel pensiero moderno,
ponendo al centro del pensiero filosofico la differenza. Sebbene
gli
scritti
postmoderni
non
sempre
assumano
un’ottica
specificatamente “di genere” o sul tema della razza-etnia, alcune
femministe hanno adottato una visione postmoderna nel loro lavoro.
Il concetto di differenza può assumere diverse sfumature di
significato nel pensiero postmoderno. Per Derrida, ad esempio, la
differenza risiede nella distinzione fra gli oggetti percepiti e
il significato che essi hanno come simboli o rappresentazioni e,
perciò, le identità, dipendono dal linguaggio e dal discorso su di
esse. Al tempo stesso, il postmodernismo si riferisce alla
molteplicità delle voci, dei significati e delle configurazioni
che si devono considerare per comprendere il mondo e ciò, quindi,
nega la possibilità di una qualsiasi posizione più autorevole
delle altre. Inoltre, con differenza ci si può riferire alla
molteplicità delle diverse posizioni soggettive che costituiscono
l’individualità stessa19.
Razza ed Etnia. Vediamo, allora, cosa possano significare le
differenze di razza ed etnia nel pensiero delle donne. Innanzi
tutto, sempre secondo Maynard, da molto tempo ormai si è
riconosciuto che la razza è qualcosa privo di senso dal punto di
vista scientifico. Tuttavia, in diverse parti del mondo le persone
continuano a comportarsi “come se” la razza fosse una categoria
oggettiva e fissa considerandone delle variabili il colore della
18
Mary Maynard definisce il post-modernismo come la teoria per cui non esiste un
mondo oggettivo al di fuori una pre-esistente concezione o un discorso su di
esso. Ciò porta, di conseguenza, un certo scetticismo circa la possibilità di
distinguere fra aspetti “reali” del mondo e concetti o significati attraverso
cui il mondo è concepito. Per definire il post-modernismo lo si deve vedere in
opposizione al pensiero modernista che, al contrario, si basava sulla ricerca d
teorie sistematiche e sull’oggettività delle assunzioni di un soggetto di
conoscenza di tipo razionale e unitario. In opposizione, quindi, il postmodernismo enfatizza la frammentazione, la decostruzione e l’idea della
molteplicità dei soggetti.
19
Fra le autrici femministe che si occupano del tema della differenza etnica o
di razza in un’ottica post-moderna ricordiamo Braidotti, Rosi, Nomadic Subjects,
Columbia University Press, New York, 1994; Brah, cit., e Spivak, Gayatri
Chakravotry,“Can the subaltern speak?” in Cari Nelson e Lawrenec Grossberg (a
cura di), Marxism and the interpretation of culture, Macmillan, Basingstoke,
1988.
7
pelle, il paese d’origine, la religione, la nazionalità e la
lingua. Una seconda confusione è quella fra i termini razza ed
etnia. Floya Anthias definisce la razza come ciò che ha a che fare
con l’immutabilità biologica o culturale di un gruppo a cui è già
stata attribuita un’origine comune, mentre descrive l’appartenenza
etnica come l’identificazione di particolari fattori culturali,
come lo stile di vita e l’identità, che sono basati sulla credenza
di un’origine comune, sia essa reale o mitica20. Finora si è spesso
preferito usare il termine etnia a quello di razza, considerando
quest’ultimo più connotato in senso essenzialista. Al contrario,
l’appartenenza etnica è, spesso, collegata agli ideali liberali
per una società multiculturale e multietnica, oscurando la forza
del razzismo con una benevola celebrazione del pluralismo che
esiste in tali forme di società. In realtà, l’appartenenza etnica,
così come la razza, può essere un fattore di discriminazione,
oppressione, sottomissione e sfruttamento e, soprattutto, può
servire come base per il razzismo. Ma tornando al termine razza,
la definizione di cui si farà uso è quella di Omi e Winant che
vedono la razza come un complesso, instabile e decentrato, di
significati
sociali
costantemente
trasformati
dalla
lotta
politica21.
La
differenza
sessuale.
A
tal
proposito
è
opportuno
aggiungere qualche osservazione sul concetto di differenza
sessuale.
E’
importante
riconoscere
che
nella
riflessione
femminista la differenza sessuale non è qualcosa che semplicemente
“si aggiunge” alle riflessioni sulla differenza di razza piuttosto
che di etnia o classe. Il pensare la differenza sessuale ha
condotto il femminismo a riattraversare il pensiero e la
tradizione occidentali. Ciò è culminato negli anni ’70 con la
pratica del pensare differentemente22. Per Maria Luisa Boccia
pensare differentemente porta a ridefinire l’identità femminile
considerando le qualità, i meriti e anche i valori che
caratterizzano il sesso femminile e con ciò formulando una serie
di prescrizioni che valgono per la soggettività e per l’esistenza
delle donne. In altre parole la differenza è l’oggetto stesso del
“pensiero differente” delle donne e, in quanto tale, dà luogo a
una
riproposizione
degli
ambiti
e
dei
significati
della
femminilità. Adesso, tuttavia, i significati e gli ambiti della
femminilità non sono più relegati alla sfera domestica, ma ne
forzano i confini portando le pratiche e gli obiettivi del pensare
differentemente in tutte le sfere e i luoghi del comportamento e
del pensiero umano. Ciò vuol dire, soprattutto, guardare al
contributo che il pensiero delle donne può dare alla società e
alla politica23.
20
Anthias, F., “Race and class revisited. Conceptualising race and racism” in
Sociological Review, 20, 1990.
21
Omi, M. e Winant, H., Racial formation in the United States, Routledge,
London, 1986.
22
Boccia, cit. e Cavarero, Adriana, “Il pensiero femminista” in Cavarero,
Adriana e Restaino, Franco, Le filosofie femministe, Paravia, Torino, 1999.
23
Boccia, cit., pagg. 49-52.
8
Ci soffermiamo brevemente su quelli che, per Maria Luisa
Boccia, sono i due elementi più originali del pensiero femminista
sulla differenza sessuale. Il pensare differentemente è, innanzi
tutto, un pensiero “a partire da sé”. Ciò vuol dire porre la
soggettività come punto di partenza della riflessione che sarà,
quindi, una riflessione filosofica basata sul dato esperenziale.
In questo senso, il pensiero delle differenza può forse rientrare
nella categoria che Maynard chiama differenza di esperienze.
Questo aspetto è radicalmente in opposizione alla tradizione
filosofica occidentale, la quale persegue la presa di distanza
dagli oggetti di conoscenza come condizione necessaria della
ricerca. Al contrario “pensare a partire da sé” è un’esigenza tra
le donne, semplice e fondamentale, di mostrare, al momento della
presa di parola, la propria competenza e autorevolezza su fatti e
idee che provengono dalle proprie esperienze. In secondo luogo, il
pensiero è praticato “tra donne”. Questo tratto distintivo del
pensiero femminista deve essere considerato in tutta la sua
importanza, poiché ha permesso lo sviluppo della singolarità,
assieme all’emergere della soggettività femminile. Infatti, la
relazione “tra donne” consente alle singole di essere riconosciute
e di dare voce, narrando e scrivendo, ai pensieri sulla propria
vita. In precedenza ciò non era possibile, se non come
stravaganza, sregolatezza, eccezionalità. L’esito del pensare
differentemente è la conquista della libertà femminile, intesa
come la rottura della complicità con l’uomo. Con ciò s’intende
che, per arrivare alla propria libertà, “una donna deve, innanzi
tutto, logorare dentro di sé i legami con l’identità di cui la
cultura dell’uomo l’ha dotata, rinunciare all’io femminile,
costruito su ciò che l’io maschile non vuole essere”24.
Questa descrizione del pensiero sulla differenza sessuale è
importante per i nostri perché esplicita l’impostazione teorica
con cui si è cercato di affrontare il tema della relazione fra
donna-nativa-emancipata e donna-immigrata-colf. E’ una riflessione
che abbiamo condotto a partire da interrogativi soggettivi, ma al
tempo stesso condivisi, da donne i cui percorsi intellettuali ed
esistenziali s’intrecciano attorno al significato della sfera
domestica per la libertà femminile. Inoltre è in tale ottica che
si sono prodotte le interviste e le riflessioni alla base dei
paragrafi precedenti. Tali ricerche, infatti, fotografano le
condizioni delle donne immigrate in Italia, ma con un occhio
particolare a come loro mettono in gioco la propria soggettività e
la propria relazione con la cultura patriarcale, cultura che,
spesso, si lasciano alle spalle nelle terre d’origine, ma che
ritrovano in altre forme in Italia.
Femminismo e razza. Consideriamo, allora, le interazioni fra
il femminismo e gli studi sulla razza e l’etnia. All’inizio degli
anni ’80, tuttavia, emersero da più parti le critiche al
femminismo occidentale da parte delle pensatrici dei paesi excoloniali. Quest’ultime criticarono le pensatrici americane ed
24
Boccia, cit., pag. 51.
9
europee per aver troppo spesso trascurato le questioni razziali e
coloniali. Probabilmente la prima occasione in cui questo dissenso
e quest’incapacità comunicativa sono emerse è stata la ‘Wellesley
Conference on Women and Development’ del 197625. Le partecipanti
provenienti dai paesi del cosiddetto Terzo Mondo criticarono
questa conferenza perché interamente pianificata e organizzata
dalle donne americane e perché metteva le partecipanti del Terzo
Mondo
nella
posizione
del
pubblico
passivo.
Mancava,
in
particolare, la presa di coscienza, da parte delle donne
occidentali, circa gli effetti dell’imperialismo e del razzismo
sull’ipotesi
di
una
“sorellanza
internazionale”
che
loro
avanzavano. Gli stessi problemi ci furono nelle due Conferenze
dell’ONU sulla Donna del 1975, a Città del Messico, e del 1980, a
Copenhagen. Nel 1984 Pratibha Parmar e Valerie Amos criticarono la
tendenza “imperialista” del femminismo euro-americano a proporsi
come l’unico femminismo legittimo, cancellando l’esperienza delle
donne non bianche e del Terzo Mondo26. Il loro lavoro è stato un
atto d’accusa forte nei confronti di quelle femministe bianche e
occidentali che desideravano lavorare al fianco delle femministe
dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Le autrici polemizzavano
sottolineando tutti gli errori fino ad ora fatti e le loro
conseguenze, sostenendo che il femminismo europeo ed americano era
limitato
teoricamente
e
di
conseguenza
politicamente.
La
tradizione femminista statunitense ed europea, infatti, non
parlava delle esperienze delle donne di colore e, anche quando
cercava di farlo, spesso adottava una prospettiva di ragionamento
razzista. Le autrici sostenevano l’esistenza di un consenso
implicito fra le femministe occidentali sulle questioni più
importanti da discutere. Spesso le questioni identificate come
prioritarie erano quelle che contribuivano al miglioramento delle
condizioni di vita di un limitato numero di donne bianche della
classe media, spesso a spese delle loro “sorelle” di colore e
lavoratrici. Per Parmar e Amos, in conclusione, il potere della
‘sorellanza’ si ferma nel momento in cui ci sono da prendere delle
difficili decisioni politiche. Chandra Talpade Mohanty, inoltre,
accusò le studiose femministe occidentali di costruire una figura
monolitica della donna del Terzo Mondo come oggetto di conoscenza,
mentre le femministe non occidentali scrivevano storie alternative
dell’oppressione delle donne e offrivano modelli diversi per
l’azione27. Nel suo celebre articolo Under Western Eyes, ella
criticava le femministe occidentali per aver prodotto una
costruzione concettuale razzista della “Donna del Terzo Mondo” nei
loro testi. Il problema, per la Mohanty, derivava dal fatto che le
stesse femministe statunitensi che mentre scrivevano nel loro
25
Si veda Fatima Mernissi e Mallica Vajarathon in “A Critical Look At The
Wellesley Conference” in
Quest, IV, 1978, pag.101-107.
26
Parmar, Pratibha e Amos, Valerie, “Challenging Imperial Feminism”, in Feminist
Review 17, autunno 1984
27
Mohanty, Chandra Talpade, “Under Western Eyes. Feminist Scholarship and
Colonial Discourses”, in Feminist Review, n° 30, autunno, 1988.
10
paese erano effettivamente marginalizzate, quando come femministe
occidentali scrivevano sulle donne del Terzo Mondo si dovevano
considerare nel contesto dell’egemonia globale dell’accademia
occidentale,
un’egemonia
nei
termini
della
produzione,
pubblicazione, distribuzione e consumo d’informazioni ed idee. Nel
corso degli anni Novanta molte autrici femministe ‘occidentali’
hanno cercato di modificare le loro teorie per risolvere questi
problemi di profonda incomunicabilità. Inoltre, un lavoro serio ed
utile è stato fatto sul campo dalle attiviste impegnate negli
incontri e nello scambio di idee e pratiche fra le donne di tutto
il mondo. La situazione attuale, grazie anche alla maggior
facilità di comunicazione e alla gran quantità d’esperienze
accumulate, sembra essere positiva sia sul piano teorico che
operativo28.
D’altronde si può dire che se il femminismo è stato criticato
per aver trascurato, e almeno inizialmente è stato vero, la
questione razziale, d’altra parte gli studiosi di problematiche
razziali ben poco si sono curati/e finora delle tematiche legate
al genere e alla differenza sessuale nelle proprie ricerche. Di
conseguenza, la vasta letteratura prodotta sul tema della razza e
dell’appartenenza
etnica
non
è
presentata
attraverso
una
cosiddetta ottica di genere. Al contrario, quando le donne sono
prese in analisi, gli studi sulla razza considerano solo le figure
stereotipizzate di mogli, madri e sorelle.
§3. Le Donne delle donne
§3.1 - Le donne immigrate come collaboratrici domestiche
Abbiamo visto nel primo paragrafo come le donne immigrate in
Italia siano spesso relegate al lavoro della colf. Capire che cosa
sia una colf e che mansioni svolga è qualcosa di particolarmente
difficile. Da una parte possiamo rifarci alle definizioni
utilizzate dalle istituzioni come l’ILO (International Labour
Office) che si occupano delle colf in quanto lavoratrici. Tuttavia
questo tipo di definizioni non rappresentano la stessa figura
della donna immigrata che emerge dalle interviste. Come si evince,
infatti, dalle loro esperienze, queste donne ricoprono delle
funzioni che vanno ben oltre la semplice erogazione di un servizio
di collaborazione. In molti casi, infatti, le donne italiane
presso cui sono impiegate richiedono loro di avere delle
attenzioni di cura e di affetto nei confronti dei bambini/e o
degli anziani. Anzi è ritenuta una cosa quasi scontata che la
domestica si affezioni ai bambini e abbia una sorta di
coinvolgimento emotivo nei loro confronti29. La domestica, in
questi casi, non è semplicemente una persona che svolge un lavoro:
28 Sul tema si veda fra altri Harcourt, Wendy (a cura di) Feminist Perspectives
on Sustainable Development, Zed Books, London, 1994.
29
Ehrenreich, Barbara e Arlie Russel Hochschild, cit.
11
come la “madre” e la “moglie” lei sta ricoprendo un ruolo
all’interno della famiglia. Il lavoro domestico, allora, non è
definibile come un’insieme di compiti, ma piuttosto come un ruolo
che determina la posizione della lavoratrice in un certo sistema
di relazioni. In casi di tipo diverso si richiede loro di svolgere
dei compiti che la loro “padrona” non accetterebbe mai di svolgere
se dovesse occuparsi della casa in prima persona, come la pulizia
accurata e talvolta maniacale della casa e degli abiti. Alcuni
studi, infatti, rivelano che solo un quarto delle “padrone” sono
occupate da un impiego full-time fuori casa, mentre la maggioranza
di loro ricorre ad una domestica per avere più tempo libero e per
migliorare lo status del proprio stile di vita. Ciò permette alle
donne-native-emancipate di raggiungere uno stile di vita che si
esprime in certi status simbols (aspetto della casa, varietà del
guardaroba, disponibilità di tempo libero) che possono essere
sostenuti solo a prezzo di sacrifici che, in realtà, loro stesse
non accetterebbero mai di fare in prima persona. In altre parole,
in questi casi le donne immigrate vengono incaricate di svolgere
quei compiti che la donna italiana non riesce neanche ad
immaginare di svolgere30.
Se ci concentriamo sul secondo caso, osserviamo che fra le
due donne esiste una relazione impari nella quale la donna
italiana ritiene che la donna straniera possa svolgere mansioni di
basso livello, faticose, noiose, logoranti e, soprattutto,
“sporche” che lei stessa non accetterebbe mai. Le donne italiane
della classe media, invece, ricoprono il ruolo di colei che
organizza il lavoro domestico: scelgono con cura la domestica
migliore,
le
assegnano
i
compiti
da
svolgere,
decidono
l’educazione dei bambini e la loro alimentazione. Così facendo le
donne italiane riescono ad essere, in un certo senso, “domestiche”
senza essere “sporche”. La dicotomia fra domesticità e sporcizia
si basa sull’idealizzazione della donna di classe media, pia,
virtuosa e morale, come centro della famiglia, e richiede una
scissione
in
stereotipi
antagonisti:
puro/sporco,
emozionale/fisico, madonna/prostituta. Questa serie di opposizioni
si riproduce nella relazione fra colf e “padrona”. Allora, mentre
le domestiche rispondono alle necessità fisiche e materiali, le
donne italiane presso cui sono impiegate sono libere di esaudire i
desideri emozionali del marito e dei figli. E’ sintomatico che,
come è sempre stato per gli uomini, ora anche le donne italiane
esaltino la casa come luogo di rifugio, un luogo di riposo dallo
stress del lavoro produttivo. Anderson usa a tal proposito
l’immagine di Dr Jekyll a Mrs Hyde per rappresentare due donne
unite da due stereotipi femminili interdipendenti. Le domestiche
esprimono fisicità e sporcizia per le mansioni a cui sono
destinate, mentre le “padrone” confermano la propria superiorità
nella loro femminilità e nelle loro capacità manageriali31.
30
a tal proposito si fa principalmente riferimento a Anderson, cit. Si veda
inoltre Andall, cit. e Morini, cit.
31
Anderson, cit.
12
Qual è l’alternativa che si offre alla donna-nativa che
voglia sfuggire al ruolo di “padrona” eppure non riesce ad
occuparsi della propria casa e famiglia senza rinunciare agli
impegni lavorativi? Per Anderson, l’opzione sarebbe quella di
tollerare camere in disordine e scaffali impolverati. Tuttavia
esiste un certo tipo di pressione a mantenere standards
accettabili di rispettabilità da parte dei parenti, degli amici e
degli altri che visitano la casa, da parte della donna stessa che
introietta queste aspettative e, in modo cruciale, da parte del
marito. Al di sopra di questa relazione rimane, in realtà, il
controllo maschile. Il duro lavoro della domestica, infatti, si
rivolge al credito della donna italiana presso cui è impiegata che
può così dimostrare le sue abilità nell’aver trovato tale
meravigliosa
domestica.
In
quest’ottica,
l’impiego
di
una
domestica innesca la negoziazione di certe contraddizioni insite
nell’ideale dell’emancipazione femminile, non solo circa la
distinzione pubblico/privato, ma sulla differenza delle identità
di genere e le richieste e tensioni correlate ai diversi modi di
“essere donna”.
§3.2 - Sporcizia, rispettabilità, abiezione.
I lavori a cui sono destinati/ gli immigrati e le immigrate a
livello globale sono chiamati “i lavori delle tre D”: Dirty,
Dangerous and Demanding (sporchi, pericolosi e logoranti). Nel
caso del lavoro domestico, l’attributo più ricorrente è “sporco”:
la domestica compie i lavori più sporchi nella casa, pulisce,
lava, riordina ciò che le altre persone sporcano e non hanno poi
voglia di ripulire. In questa luce si vede come l’idealizzazione
delle donne della classe media cerchi di mantenere la propria
purezza e il proprio candore delegando la parte “sporca” della
propria esistenza al lavoro di un’altra donna.
A tal proposito guardiamo, innanzitutto, a quello che George
Mosse chiama l’ideale della rispettabilità32. Il concetto di
rispettabilità è particolarmente idoneo per
comprendere le
stereotipizzazioni e le discriminazioni che hanno a che fare con
la
dicotomia
pulito/sporco.
Il
comportamento
rispettabile,
infatti, tiene molto alla pulizia, alla correttezza e ad altre
regole meticolose che riguardano la decenza. Il corpo, in tale
quadro, deve essere ripulito di tutti gli aspetti che ricordano il
suo essere fatto di carne: i fluidi, lo sporco, gli odori. Anche
l’ambiente in cui vivono le persone rispettabili deve essere
pulito e curato: niente sporcizia, niente polvere, niente
spazzatura e ogni indizio delle funzioni fisiologiche – mangiare,
evacuare, fare sesso, partorire – deve essere nascosto dietro
porte chiuse. Come non vedere a tal proposito l’importanza del
ruolo della domestica come colei che si fa carico di questa
pulizia? Ella rimuove tutte le tracce di corporeità che possono
32
Mosse, Gorge, Nationalism and sexuality, Fertig, New York, 1985.
13
aver lasciato la donna-nativa-emancipata e i suoi familiari, pena
per loro la perdita di rispettabilità. La domestica stessa è, poi,
oggetto di un codice di comportamento ancora più severo, che le
vieta di mangiare e parlare se non nei momenti e nei luoghi che la
propria “padrona” decide con attenzione. Pensiamo, ad esempio,
alla struttura degli appartamenti borghesi che prevedono un
piccolo settore della casa dove la domestica può vivere senza
essere a contatto con eventuali ospiti e col resto della famiglia.
In un certo senso la sporcizia degli oggetti di cui la
domestica si deve prendere cura si ripercuote sull’immagine della
donna stessa. Ella stessa diviene “sporca” agli occhi di chi la
incontra e il suo essere, spesso, di pelle scura facilita il
rafforzarsi dello stereotipo. Non solo nella casa dove lavora a
lei competono le mansioni più basse e sporche che nessun altro/a
avrebbe voglia di fare, ma anche al di fuori degli orari di
lavoro, la donna immigrata continua ad essere vista come “sporca”
e perciò destinata ad un atteggiamento di umiltà e subordinazione.
Ma cosa c’è dietro a questa visione dello sporco e della sporcizia
personificata, per così dire, dalle donne immigrate che lavorano
come colf? Possiamo rifarci, almeno in parte, alla concezione
dell’abietto che Iris Marion Young applica alle categorie
emarginate ed escluse dalla società. Ossia Young utilizza la
categoria di abietto, formulata da Kristeva, per analizzare le
paure e le avversioni automatiche ed inconsce che definiscono
alcuni corpi come brutti, disprezzati e, aggiungeremmo noi,
‘sporchi’33. Per Young e Kristeva queste paure hanno a che fare con
l’angoscia per la perdita della propria identità34. Secondo Julia
Kristeva l’abiezione è il sentimento d’odio e di disgusto che il
soggetto prova nell’incontro con determinate materie, immagini e
fantasie. Si tratta dell’orrido che provoca nel soggetto una
reazione di avversione, nausea e disgusto. Il processo di
abiezione si manifesta nelle reazioni di ribrezzo verso la materia
espulsa dalle viscere: il sangue, il pus, il sudore, gli
escrementi, le urine, il vomito, il mestruo nonché gli odori
33
Young, Iris Marion, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano, 1990 e
Kristeva, Julia, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, Milano,
1981.
34
Per
rintracciare
la
ragione
di
tale
angoscia
si
fa
riferimento
all’appartenenza di classe non più fondata sulla tradizione o la famiglia, bensì
su un’intelligenza, un sapere e una razionalità superiori. Ciò che predomina la
concezione di appartenenza di classe è la razionalità come pensiero strategico e
calcolatore con proprietà organizzative. Tale Ragione manipola per i suoi fini
la natura e il corpo. Si crea così la dicotomia ragione/corpo che ritroviamo in
quella lavoro intellettuale/ lavoro materiale. Al tempo stesso, la razionalità è
associata all’idea di bianco, mentre il corpo e la materia con quella di nero.
Questa identificazione consente a coloro che rivendicano il colore bianco della
propria pelle di porsi nella posizione del soggetto e considerare la gente di
colore come oggetto della propria conoscenza. La ragione scientifica e
filosofica, se associata alla cultura bianca e maschile, si conserva in una
società strutturata da relazioni di classe, razza, genere e razionalità,
attraverso dinamiche non direttamente dipendenti dal pensiero scientifico e
filosofico stesso. A tal proposito di veda Said, Edward, Orientalismo, Bollati
Boringhieri, Torino, 1991.
14
associati a queste materie. La sopravvivenza degli esseri umani,
infatti, è legata all’espulsione di ciò che si ha dentro di sé e
la reazione di disgusto verso ciò che si è espulso è finalizzata a
mantenere il confine del proprio sé. A questo punto, tuttavia,
l’abietto/a non si pone di fronte al soggetto così che il soggetto
lo possa definire. L’abietto/a è altro/a dal soggetto e sta
proprio appena passato il confine: non sta di fronte al soggetto,
ma di fianco minacciando al sua tranquillità.
La tesi di Young è che nella società contemporanea il
razzismo, sessismo, omofobia, giovanilismo ed integriamo fisico
siano retrocessi dal “livello della coscienza discorsiva”35. In
altre parole, nelle nostre società, la maggior parte della gente
non pensa coscientemente che certi gruppi siano migliori di altri.
Anzi il diritto pubblico e le pratiche istituzionali affermano il
principio dell’eguaglianza formale e delle pari opportunità,
mentre le discriminazioni esplicite sono proibite dalle regole
fondamentali della società. Ciò determina una sorta di “galateo
pubblico” fondato sulla disapprovazione di certi gesti, parole e
comportamenti. Tuttavia nel privato delle pareti domestiche e,
soprattutto, nella cultura di tipo mediatico, si trovano di
continuo dei giudizi, talora inconsci, di bellezza o bruttezza,
attrazione o avversione che segnano, stereotipizzano, svalutano o
degradano determinati gruppi. Nelle intenzioni di Iris Marion
Young l’uso della categoria di abietto permette la comprensione di
un estetica del corpo che definisce come brutti, temibili o, nel
nostro caso, sporchi, taluni gruppi e provoca un’avversione o una
discriminazione verso di loro. Il processo di abiezione si somma,
inoltre, alle dinamiche dell’imperialismo culturale a cui sono
soggetti i gruppi culturalmente minoritari, in particolare gli/le
immigrati/e.
I
membri
dei
gruppi
soggetti
a
imperialismo
culturale, infatti, introiettano il dato culturale che il gruppo
dominante prova per loro disprezzo, fino ad assumere tale visione
nei confronti di se stessi e degli altri membri del proprio
gruppo36.
§3.3 - Un contratto sessuale fra donne?
Vorrei avanzare l’ipotesi che la forma del contratto sessuale
fra uomini e donne si estende alla relazione fra donne-nativeemancipate e donne-immigrate-colf. La causa di ciò è la falsa
apparenza
dell’emancipazione
femminile
e
il
perdurare
dell’associazione fra donne e sfera domestica, associazione che è
stata trasferita sulle spalle delle donne immigrate viste come
donne di status inferiore.
Presentiamo, innanzitutto, la teoria di Carole Pateman che è
alla base del nostro ragionamento. Pateman nel 1988 in The Sexual
35
Giddens, Anthony, The constitution of society, University of California Press,
Berkeley and Los Angeles, 1984.
36
Said, cit.
15
Contract sostiene che la società umana e la convivenza fra
individui si basa non solo sul contratto sociale, così come
teorizzato dagli autori contrattualisti, ma anche, ed ad un
livello più profondo, su una forma di contratto che ella chiama
contratto sessuale37. Per Pateman la società civile creata
attraverso il contratto originario si fonda su di un ordine
sociale di tipo patriarcale. La storia del contratto sessuale,
infatti, smaschera la radice del diritto politico e della
legittimità del suo esercizio, poiché presenta i diritti politici
come diritti patriarcali o diritti sessuali che legittimano il
potere degli uomini sulle donne. Se guardiamo alle diverse teorie
del contratto
sociale possiamo individuare alcune costanti
significative. Da una parte, infatti, alla loro base troviamo
l’ideale illuminista che gli individui sono nascono liberi ed
eguali e, proprio in quanto tali, le relazioni sociali che
intercorrono fra di essi possono prendere la forma di un
contratto.
Ma
d’altra
parte,
per
Pateman,
le
teorie
contrattualiste concepiscono un’unica origine del diritto politico
nella quale l’uomo ha un diritto naturale nei confronti della
donna e solo gli uomini hanno gli attributi di “individui” liberi
ed eguali. Di conseguenza, mentre le relazioni di subordinazione
che possono esistere fra uomini per essere legittime, devono
essere sancite da un contratto, al contrario le donne sono già
nate nella condizione di subordinazione. Infatti, la concezione
classica dello stato di natura si basa sull’assunzione della
differenza sessuale fra uomini e donne. Anche le contemporanee
teorie del contratto non prestano attenzione a quest’aspetto della
vita e della natura umana. Ciò dipende al fatto che quando si
considerano come soggetti gli individui si trascura di esplicitare
che con individui s’intendono gli uomini, i maschi. L’attenzione è
talvolta posta sui diversi individui, ma sempre maschili o neutri.
Quel che notiamo, in sostanza, è che per tutti gli autori
contrattualisti esiste una diversità su base sessuale nelle
capacità e negli attributi della cittadinanza. Questa differenza è
però mascherata dalla categoria apparentemente sessualmente neutra
d’individui. Le donne nello stato di natura sono sottomesse agli
uomini, mancano delle capacità di “individui” e quindi delle
capacità per entrare a far parte del contratto originale. Nelle
teorie contrattualiste, tuttavia, le donne hanno la capacità di
entrare, e devono entrare, in un’altra forma di contratto, quella
di tipo matrimoniale. Così troviamo diverse forme di contratto di
tipo civile, come quello fra padrone e lavoratore, a cui si
aggiunge il contratto matrimoniale, ma che non è un contratto di
tipo civile perché non coinvolge due individui, bensì un individuo
ed un altro essere a lui “naturalmente” subordinato. Questa
differenza nei contratti e nelle caratteristiche di soggetti
coinvolti/e, determina la descrizione della società come scissa
37
Pateman, Carole, The sexual contract, Polity Press, Cambridge e Oxford, 1988.
16
fra sfera pubblica, dove vigono i contratti civili, e sfera
privata, dove la relazione principale è quella matrimoniale38.
A questo punto, seguendo Pateman, possiamo decostruire la
concezione contrattualista grazie a due tipi di argomentazioni:
riguardo all’idea stessa di contratto e, in secondo luogo,
riguardo alla cosiddetta schiavitù civile. La schiavitù civile è
una relazione di subordinazione resa possibile dalla maggior parte
delle visioni contrattualiste e che, in questa sede, analizzeremo
nel rapporto matrimoniale fra uomini e donne nella sfera privata.
Innanzi tutto, ci chiediamo perché il contratto è visto come il
modello del libero accordo. Tale libertà è basata sul fatto che
gli individui che si apprestano a entrare nel contratto hanno il
pieno possesso delle proprie capacità e hanno eguale potere sulle
loro proprietà. Il contatto fra due individui si realizza tramite
uno scambio di parole che rappresenta uno scambio “eguale” fra
individui, della loro proprietà. In realtà le critiche socialiste
al contratto di lavoro e quelle femministe al contratto di
matrimonio, hanno messo in dubbio che quando due individui
stipulano un contratto, lo scambio sia effettivamente sempre
eguale. Queste critiche mettono in luce che la parte in posizione
inferiore (il lavoratore o la donna) spesso non ha altra scelta
che accettare le condizioni, anche se svantaggiose, offerte dalla
parte più forte. Spesso questa disparità prende forma in una
promessa di obbedienza in cambio di protezione39. In secondo luogo,
il matrimonio per Pateman è una forma di contratto di lavoro come
quello che lega lo schiavo al padrone. Difatti diventare moglie
(wife) implica diventare allo stesso tempo casalinga (housewife).
Se la sfera pubblica e quella privata sono separate nella società,
al tempo stesso, riflettendo l’ordine naturale della differenza
sessuale, sono inseparabili e incapaci di essere comprese in
isolamento l’una dall’altra. Allora, la figura robusta del
lavoratore che sia avvia con la cassetta degli attrezzi e il sacco
col pranzo è sempre accompagnata dalla figura spettrale di sua
moglie. In altre parole, la costruzione della figura del
lavoratore presuppone che si tratti di un uomo con una donna, una
casalinga, che si prende cura dei suoi bisogni quotidiani.
Infatti, in The Sexual Contract, la moglie è definita come colei
che lavora per suo marito nella casa maritale. Confrontando il
contratto matrimoniale con quello fra datore di lavoro e
dipendente, si può notare che il contratto matrimoniale è
caratterizzato dal fatto che le donne, e soltanto loro, sono in
una forma di subordinazione, ossia l’essere casalinga. Come
abbiamo visto, nella sfera domestica vige ancora la legge di
natura patriarcale cosicché la diseguale divisione del lavoro a
scapito della donna-casalinga non contraddice l’universalità del
principio di eguaglianza fra gli individui che vale nella sfera
della vita pubblica. L’autrice esplora con cura l’ipotesi che la
subordinazione della moglie al marito possa essere assimilata ad
38
39
Pateman, cit.
Pateman, cit.
17
una condizione di schiavitù. Il confronto tra moglie e schiave è,
difatti, non del tutto esagerato se pensiamo che in alcuni Paesi i
mariti sono “proprietari” del corpo delle proprie mogli. Inoltre,
le donne che lavorano full-time come casalinghe non percepiscono
nessun
compenso
ma,
come
le
schiave,
ricevono
solo
il
mantenimento, in cambio del loro lavoro domestico. Tuttavia,
poiché le donne-casalinghe non sono più dei soggetti senza diritti
civili, ma godono dello status di cittadine, possiamo pensare ad
esse come “schiave civili” oppure come domestiche. Diverse ipotesi
si possono percorrere nel considerare la moglie come una
lavoratrice subordinata al proprio marito. In ognuno di questi
casi, la moglie ottiene i mezzi di sostentamento (la “protezione”)
da suo marito e gli strumenti per assolvere i propri compiti. Ella
perciò è dipendente dalla benevolenza del marito e può solo
augurarsi di avere “un buon padrone”. I compiti che una mogliecasalinga deve realizzare dipendono dalla volontà del marito,
anche se l’assolverli nella maniera migliore non vuol dire
ottenere sicuramente una migliore qualità della vita. In realtà
uno dei modi certi per una donna-casalinga di raggiungere uno
standard di vita più alto è quello di sposare un uomo più ricco,
anche se la generosità del marito non può mai essere prevista, sia
esso un capitalista o un proletario40. Il marito esercita il suo
controllo non solo in termini economici, ma anche con i propri
giudizi sul lavoro compiuto dalla moglie. La cura della casa e
l’educazione dei figli devono rispondere alle aspettative del
capo-famiglia, ossia alla sua visione della ‘sua’ famiglia. In
altre parole il lavoro della casalinga che amministra e gestisce
da sé la propria giornata lavorativa e i propri compiti è solo
apparentemente libero e indipendente, per la presenza del
controllo del marito-capo famiglia.
Gli elementi fondamentali del contratto matrimoniale sono,
tra l’altro, proprio quelli che lasciano pensare ad una
sovrapposizione fra moglie e schiava:
(1) si tratta, in primo luogo, della funzionalità del ruolo
della donna alla completa realizzazione del marito-uomo;
(2) l’acquisizione di uno status sociale sempre più alto da
parte del marito grazie alla bravura e alla perfezione della
propria moglie nell’occuparsi della casa e dell’educazione dei
figli in modo che siano all’altezza del giudizio altrui;
(3) il rapporto di dipendenza economica della donna che
lavora senza essere retribuita in denaro ma in cambio di
protezione;
(4) la forma di controllo da parte del marito sui compiti che
la donna svolge quando si trova da sola in casa;
40
A tal proposito, si è dimostrata l’infondatezza delle analisi economiche che
valutano la qualità della vita dei componenti di una famiglia sul dato del
reddito del marito-capo famiglia. Ciò trascura, infatti, che le condizioni delle
donne sono spesso inferiori rispetto agli altri membri del nucleo familiare. Si
veda Sen, Amartya, Risorse, valori e sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino,
1992.
18
(5) l’appartenenza dell’uomo alla sfera pubblica del “fuori”,
mentre la donna “resta a casa” ed è condannata all’invisibilità
sociale del ruolo domestico;
(6) la creazione di una gerarchia in termini di capacità e
attributi fra moglie e marito, per cui le donne sono “inferiori”
all’uomo come cittadine e lavoratrici, ossia nell’ambito della
sera pubblica alla quale si affacciano grazie a grandi sforzi41.
Vediamo, però, che l’impiego fuori casa per la donna può
costituire un momento di svolta. Il fatto che anche le donne
possano sottoscrivere un contratto d’impiego dimostra, al di là di
ogni dubbio, che anch’esse possiedono le capacità richieste agli
individui nel contratto. Che anche le donne possano diventare
“lavoratrici” vuol dire che anche loro hanno la proprietà di
qualcosa, ossia la propria forza lavoro, che possono vendere in
cambio di uno stipendio. Tuttavia anche per le donne che entrano
nel mercato del lavoro, continua la divisione sessuale dei ruoli.
Lo stipendio che viene corrisposto ad una donna è, a parità di
mansioni, quasi sempre inferiore a quello di un uomo. Il rischio
di molestie sessuali da parte di colleghi e superiori è forte in
molti luoghi di lavoro e, in diverse circostanze, emerge con
chiarezza la forza dell’ordine patriarcale nello strutturare le
competenze e i riconoscimenti nella sfera della produzione del
sistema capitalistico. Allo stesso tempo si deve considerare la
differenza di significato che ricopre l’andare a lavorare fuori
casa per le donne-mogli rispetto agli uomini-mariti. Quando
entrambi i coniugi escono di casa la mattina per andare a lavoro
quest’azione ha due significati molto diversi per il marito
rispetto alla moglie. Trascorrere otto ore al giorno sul posto di
lavoro e riportare a casa una busta paga è fondamentale per
l’identità maschile, ossia per quello che vuol dire “essere uomo”
e, nello specifico, il lavoro duro, pericoloso e manuale è
concepito come “lavoro da uomini”. Altri tipi di lavori, più
puliti e di precisione, ma anche meno remunerati e precari, sono
stati etichettati come “lavoro da donne”, e ciò vuol dire che tale
lavoro sottolinea la “femminilità” sia degli uomini che delle
donne che lo svolgono. In molti casi, una donna-che-lavora-fuoricasa non smette mai di essere una casalinga, ma diventa una
moglie-che-lavora allungando così la propria giornata lavorativa.
Come entra in tale quadro la figura della donna immigrata?
Ricapitoliamo brevemente i modelli finora in gioco. In primo luogo
abbiamo la donna che svolge il ruolo tradizionale di casalinga
occupandosi della casa e dei bambini. In questo caso il marito ha
una funzione di controllo sul lavoro domestico della moglie, ruolo
reso più forte dalla dipendenza economica del nucleo familiare dal
suo stipendio. Per la donna-casalinga i diritti civili e politici
esistono certamente, ma il ruolo sociale che ricopre è “nascosto”
dall’impermeabilità della sfera domestica e privata e, di
conseguenza, le capacità di queste donne sono “per natura”
determinate secondo la visione contrattualista della famiglia e
41
Pateman, cit.
19
del matrimonio. In secondo luogo, abbiamo la donna-che-lavora. Si
tratta di donne che per motivazioni diverse lavorano fuori casa
ricoprendo allo stesso tempo il ruolo di lavoratrice e quello di
moglie-madre. Su questa figura occorre fermarsi con attenzione
poiché si tratta di donne che sfuggono alla descrizione
contrattualista della donna-casalinga e, entrando nel mondo del
lavoro, esplicitano le proprie capacità come “individui”. Da molte
parti si è pensato che proprio questo riconoscersi come donne
titolari dei diritti propri dell’individuo fosse l’obiettivo del
percorso emancipatorio. Ciò avrebbe permesso una sostanziale
parità tra i sessi nella sfera pubblica del diritto e della
politica, neutralizzando, per così dire, le differenza sessuale
dei soggetti coinvolti.
Cercheremo, a questo punto, di minare la convinzione che
questo sia l’obiettivo adeguato. Intendo sostenere, infatti, che,
almeno nel contesto italiano, il raggiungimento di una parità di
accesso
al
mercato
del
lavoro
e
quindi
il
superamento
dell’identità fra la figura della donna-moglie-madre con quella
della casalinga, non ha realmente risolto la disparità nella
divisione sessuale del lavoro. A tal proposito, invece, la
costruzione sociale della famiglia italiana non ha subito
sostanziali modifiche come, invece, la forza del movimento delle
donne degli anni ’70 lasciava ben sperare. Quel che è accaduto,
infatti, è stata la sostituzione della donna-nativa-emancipata nel
ruolo di casalinga con la donna-immigrata-colf che riempie il
vuoto, simbolico e fisico al tempo stesso, lasciato nelle proprie
case dalle donne-che-lavorano. Ribadiamo, inoltre, che riferirsi
al caso delle donne immigrate è particolarmente significativo
perché si può notare il sovrapporsi dello status di donna con
quello di immigrata. Proprio tale sovrapposizione agevola per le
donne italiane l’acquisizione di un diritto e di un percorso
emancipatorio “col doppio fondo”, in cui tutte le conquiste delle
donne italiane sono possibili non grazie ad un cambiamento
radicale delle relazioni di potere e della divisione sessuale del
lavoro, ma bensì grazie alla comparsa sulla scena, o meglio a dire
“dietro le quinte”, di “un’altra Donna”42.
Se torniamo, allora, alla teoria del contratto sessuale di
Carole Pateman, potremmo, seguendo la proposta di Bridget
Anderson, esaminare i passi in cui Pateman guarda al ruolo della
donna come funzionale all’immagine dell’uomo che si avvia al
lavoro, con la cassetta degli attrezzi e il pacchetto col pranzo43.
In questi passi potremmo sostituire l’uomo lavoratore con la donna
lavoratrice e la moglie con la domestica che rimane in casa alla
mattina quando la “padrona” esce per andare la lavoro. In
generale, potremmo pensare che attualmente non solo l’uomo-capo
famiglia si avvia al lavoro, ma che è accompagnato dalla moglie,
entrambi indossando abiti puliti a ben stirati, adeguati al
proprio lavoro, e con in borsa il pranzo pronto. Chi rimane sulla
42
43
cfr. Andall, cit.
Anderson, cit.
20
porta è la donna-immigrata-colf, che poi dedicherà il resto della
giornata perché i due lavoratori trovino tutto in ordine al loro
rientro, le camicie e il pranzo pronto per il giorno dopo.
Vediamo,
allora,
come
si
ripresentino
gli
elementi
fondamentali del contratto sessuale che abbiamo precedentemente
sintetizzato in sei punti.
(1) La colf è funzionale alla completa realizzazione della
propria “padrona”. In effetti, abbiamo visto che il suo lavoro
consente alla donna italiana di raggiungere degli obiettivi per
lei importanti, siano essi obiettivi di carriera lavorativa, di
disponibilità di tempo libero da trascorrere in attività diverse o
il
raggiungimento
di
un
certo
standard
di
rispettabilità
nell’estetica della casa e del vestiario.
(2) Si ribadisce, inoltre, la funzionalità della colf
all’acquisizione di uno status sociale sempre più alto da parte
della
“padrona”
che,
grazie
all’aver
trovato
una
“brava
domestica”, potrà ottenere i vantaggi connessi con la cura della
casa e dei beni che in essa si trovano (stoviglie, mobili,
tappeti, argenteria, biancheria). Inoltre la donna italiana potrà
essere tranquilla dell’educazione e della cura dei propri/e
figli/e, perché la domestica seguirà le direttive generali che lei
stessa ha deciso. Tutto ciò permette alla sua famiglia di
raggiungere quell’ideale di rispettabilità così importante per il
giudizio altrui.
(3) Talvolta le colf sono retribuite solo in parte in termini
monetari, poiché spesso la “padrona” offre loro l’alloggio e il
mantenimento in cambio di una gran disponibilità di tempo da parte
della domestica, praticamente dalla sveglia fino al momento di
coricarsi. In queste situazione si rafforza il legame di
dipendenza della donna immigrata, soprattutto nel caso che sia da
poco arrivata in Italia e abbia, come spesso accade in base alla
normativa italiana in materia d’immigrazione, la necessità di
mantenere l’impiego a tutti i costi per non essere rimpatriata e
che, in generale, non abbia altre possibilità d’inserimento socioeconomico.
(4) La donna italiana esercita una forma di controllo
particolare sull’operato della propria domestica. Si tratta di un
controllo su tutto ciò che ella ha fatto durante la sua assenza,
mentre era sola, che riduce al minimo gli spazi per una
organizzazione indipendente dei tempi e delle modalità dello
svolgimento delle mansioni domestiche. Ciò ricalca l’atteggiamento
del marito-capo famiglia che controlla non solo il raggiungimento
degli
obiettivi
da
parte
della
moglie,
ma
spesso
anche
l’organizzazione stessa dei compiti. Il controllo della donnapadrona, tuttavia, non è il controllo ultimo sull’operato della
domestica perché ci sarà un’ulteriore giudizio da parte del
marito-capo famiglia che si preoccupa del raggiungimento di certe
aspettative e del soddisfacimento di certi suoi bisogni da parte
della moglie e, nel nostro caso, della domestica.
(5) Si ripete la dicotomia fra pubblico e privato, in cui le
donne italiane sono coloro che vivono e lavorano “fuori casa”
21
mentre le numerosissime donne straniere sono del tutto assenti
dalla sfera pubblica, visto che trascorrono tutta la giornata
lavorativa all’interno delle pareti domestiche. A tal proposito,
si deve aggiungere che l’invisibilità nella sfera pubblica delle
colf è determinata anche dal loro status d’immigrate e quindi di
donne prive di diritti di cittadinanza nel nostro Paese.
(6) Ma, soprattutto, fra donna-nativa e donna-immigrata si
ristabilisce una gerarchia in termini di capacità e qualità che
determinano un’inferiorità nello status della donna immigrata. A
tal proposito vale certamente quanto finora detto sul processo di
abiezione e sullo stereotipo della sporcizia. Si può pensare,
inoltre, che la donna nativa riconosca nella migrante alcuni
elementi fondamentali di inferiorità in un immaginario cammino
verso l’emancipazione. La donna immigrata è considerata “più in
basso” nella possibile graduatoria verso l’emancipazione completa
perché: (a) ha meno potere decisionale poiché le difficoltà
economiche la spingerebbero ad accettare qualsiasi occupazione;
(b) è culturalmente meno avvezza all’”emancipazione”, in base alla
credenza generale per cui le culture dei paesi del cosiddetto
Terzo Mondo vengono considerate retrogradi dal punto di vista dei
“diritti delle donne”; (c) essere nel nostro Paese è per lei un
traguardo già sufficiente da far mettere da parte le ambizioni ad
un
posto
di
lavoro
migliore,
meno
sottomesso,
meno
stereotipizzante.
§4. Conclusioni. Un paradosso della cittadinanza
Arriviamo, così, alla critica al modello emancipazionista
perseguito dal movimento delle donne e da alcune femministe negli
scorsi decenni. All’interno del femminismo viene spesso messo in
dubbio che la prospettiva emancipazionista sia davvero quella
auspicabile, nella misura in cui ciò significa considerare le
soggettività e le relazioni togliendo loro il significato della
differenza fra uomo e donna. Il progetto emancipazionista,
inoltre, s’ispira ai principi della cittadinanza moderna, principi
a cui si possono rivolgere tutte le critiche avanzate da Carole
Pateman. Tuttavia, veniamo così al contributo di questo lavoro,
sono
proprio
le
donne
che
considerano
l’emancipazione
e
l’acquisizione della cittadinanza qualcosa di scontato, a mettere
in dubbio che ciò consenta di essere realmente soggetti nella
propria vita. La contraddizione fra titolarità dei diritti e
effettiva capacità di essere soggetti che si sono liberati dei
vincoli patriarcali nelle sfere più intime della loro vita,
portano a quelli che sono stati chiamati paradossi della
cittadinanza44.
Questi
paradossi
sono
determinati
dal
fatto
che
l’acquisizione della cittadinanza ha un senso diverso per gli
uomini rispetto alle donne. Se, infatti, l’uomo-cittadino non
44
Cavarero, cit. e Boccia, cit.
22
subisce la propria identità sessuale e al tempo stesso non deve
negarla, la donna-cittadina, invece, deve farlo. Ossia, le donne
possono prendere parte alla società e allo Stato solo se la loro
identità sessuale non intacca la comprensione e la realizzazione
dei principi fondamentali dello Stato moderno45. In altre parole,
esiste una contraddizione fra i termini “cittadino” e “donna” che
conduce le donne ad una sorta di doppia appartenenza e provoca una
scissione difficilmente sanabile. A mio parere, tale scissione è
alla base della problematica qui esaminata e deriva dal paradosso
fondamentale per cui l’emancipazione delle donne, in quanto
cittadine, non ha portato ad una modificazione dell’identità di
genere. Infatti, il “modello della casa”, su cui si è retta la
costruzione dello stato moderno, si è certamente modificato negli
ultimi decenni, ma come credo dimostri questo lavoro, non si è
ancora incrinato nelle sue fondamenta46. Abbiamo, quindi, da una
parte la casa e la donna-moglie come perno dello Stato e della
società, dall’altra un processo di “aggiunta delle donne alla
democrazia” che non esplicita il conflitto sulle norme maschili o
neutre che sono alla base di tutto il sistema. Questo processo,
inoltre, lascia un vuoto nel “modello della casa”, ossia nella
sfera domestica, agevolmente ricoperto dalle donne immigrate
poiché non sono considerate soggetti di diritti civili e politici
“alla pari” delle donne italiane. In altre parole, queste donne
non sono coinvolte nel processo di acquisizione di cittadinanza a
causa del loro status di immigrate e sono così destinate ad una
condizione di invisibilità che ne fa i soggetti ideali per
riempire
le
falle
aperte
dai
cosiddetti
paradossi
della
cittadinanza.
In conclusione, il progetto di tipo emancipazionista mostra i
suoi limiti e lo stereotipo della domestica immigrata è la cartina
di tornasole in tale analisi. Il problema sta nel fatto che le
donne italiane non hanno superato il modello della donna-moglie
nel modo auspicato. L’obiettivo della parità con l’uomo è stato
raggiunto solo dal punto di vista formale e allo status socioeconomico delle donne italiane “emancipate” si contrappone quello
di nuovi soggetti femminili che entrano in massa nelle famiglie
italiane47. Con un esempio potremmo dire che così come s’importano
dai paesi del cosiddetto Terzo Mondo materie prime e prodotti
coloniali di cui la produzione industriale non può fare a meno,
così le famiglie e le donne italiane importano “femminilità”, per
tenere in piedi il sistema delle relazioni patriarcali non ancora
superato48.
45
Boccia, cit., pagg. 30-39.
Boccia, cit., pag. 137.
47
Su questo punto si veda ancora Andall, cit.
48
Nell’uso del termine ‘femminilità’ mi discosto da Barbara Ehrenreich e Arlie
Russel Hochschild che parlano piuttosto di ‘amore’, si veda Ehrenreich, Barbara
e Arlie Russel Hochschild, cit
46
23