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Angelo Stefanini
L’asimmetrico conflitto israelo-palestinese è una lotta per la terra che si consuma metro
dopo metro, casa dopo casa, a danno della popolazione palestinese autoctona in patente
violazione dei Trattati internazionali e della Convenzione di Ginevra.
Art 53, IV Convenzione di Ginevra (1949)
“È proibita da parte della Potenza Occupante qualsiasi distruzione
di beni immobili o personali appartenenti, a titolo individuale o
collettivo, a persone private o allo Stato o ad altre autorità
pubbliche o a organizzazioni sociali o cooperative, eccetto laddove
tale distruzione sia resa assolutamente necessaria da operazioni
militari.”
Osservando sconsolati la
propria casa distrutta
Il 9 novembre il quotidiano israeliano Haaretz riportava che,
nonostante il rimprovero della Casabianca per la ininterrotta
costruzione di abitazioni illegali sul territorio palestinese occupato
(TPO), il piano israeliano di edificazione di centinaia di nuovi alloggi
a Gerusalemme Est proseguiva imperterrito[1].
Contemporaneamente, in quegli stessi giorni, continuavano gli
ordini di demolizione di case e di sfratto di famiglie palestinesi nella
parte araba della città[2].
L’ICHAD (Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case) stima che, dal
1967 al 28 luglio 2010, nel TPO siano state demolite 24.813 strutture abitative
palestinesi, 2.000 soltanto a Gerusalemme Est. Dall’anno 2000 al gennaio 2009
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sono state abbattute 10.105 case, una media di 1.011 all’anno. Il numero di ordini
di demolizione ancora da eseguire e’ a tutt’oggi pari a circa 20.000[3].
Le autorità israeliane giustificano la demolizione di case con ragioni o militari (deterrenza e
anti-terrorismo) o amministrative per la mancanza di permessi o la violazione di norme
abitative. Secondo molte organizzazioni, come Amnesty International e il Comitato
Internazionale della Croce Rossa, questi interventi hanno invece due principali motivazioni:
infliggere una “punizione collettiva” alla popolazione innocente (comportamento considerato
un crimine di guerra dalla 4° Convenzione di Ginevra);
appropriarsi di territorio palestinese e, a Gerusalemme Est, modificare la percentuale della
popolazione residente a favore della componente ebraica. Il primo tipo di demolizioni
avviene soprattutto durante i periodi di conflitto armato; il secondo tipo, più importante in
termini numerici e per il suo significato politico, si sta protraendo da decenni con un picco
di particolare frequenza in questi ultimi mesi.
L’autorità israeliana persegue come illegali le costruzioni effettuate senza autorizzazione
per le quali in genere fa seguire l’ordine di abbattimento. I palestinesi che vivono sotto
occupazione israeliana a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania sono sottoposti a
divieti di edificazione talmente rigidi che molte famiglie devono subire la violenza distruttiva
delle ruspe e la privazione del diritto ad una casa.
Gli Accordi di Oslo (1993) prevedevano che Israele mantenesse per alcuni anni il controllo
civile e militare della cosiddetta Area C, equivalente a più del 60% della Cisgiordania. I circa
150.000 palestinesi che vivono in quelle zone soffrono di notevoli restrizioni a costruire e a
muoversi liberamente. Migliaia di ettari (il 18% della Cisgiordania), in particolare la Valle
del Giordano e le colline a sud di Hebron, sono classificati come “area militare inaccessibile”
dove è vietato edificare.
A Gerusalemme Est, area della città occupata nel 1967 e annessa illegalmente nel
1980, Israele ha espropriato il 35% del territorio, circa 24 Kmq, allo scopo di
costruire nuovi insediamenti ebraici. Su queste terre il governo israeliano ha finanziato
l’edificazione di quasi 50 mila unità residenziali per la popolazione ebraica e meno di 600
per quella palestinese, l’ultima delle quali più di 30 anni fa[4]. Nonostante la popolazione
palestinese rappresenti il 30% dell’intera Gerusalemme, essa è confinata sul 7% della
superficie della città in abitazioni il più delle volte inadeguate. La maggior parte della terra
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che rimane nelle mani dei palestinesi, circa 45 Kmq, non è edificabile mentre negli ultimi 40
anni i residenti di Gerusalemme Est sono praticamente quadruplicati (da 69.000 a 273.000).
Si stima che la crescita naturale della popolazione palestinese richiederebbe la costruzione
di 1.500 unità abitative all’anno, mentre nel 2008 sono stati accordati soltanto 125 permessi
che hanno consentito la costruzione di 400 alloggi.
A causa della crescente e soffocante densità abitativa nella parte palestinese della città, che
nel 2002 era pari a quattro volte quella della zona ebraica occidentale, per i pochi
palestinesi che ancora possiedono un pezzo di terra non rimane che sperare nella remota
possibilità di un permesso di costruzione. Quando questo, come nella maggior parte dei casi,
non arriva, non rimane che costruire abusivamente.
I palestinesi di Gerusalemme Est sono estremamente vulnerabili agli interventi di
demolizione. Delle 46 mila abitazioni del settore orientale della città soltanto 20 mila sono
state costruite con la dovuta autorizzazione. In qualsiasi momento, quindi, quasi la metà
della popolazione palestinese di Gerusalemme può essere soggetta a sfratto o alla
demolizione della propria casa. Il recente Piano regolatore[5], che cita esplicitamente tra i
suoi obiettivi quello di mantenere l'”equilibrio demografico” tra residenti ebrei (70%) e
palestinesi (30%), prevede 13.550 nuove unità abitative per la popolazione palestinese di
Gerusalemme Est, 10 mila delle quali, tuttavia, da costruire soltanto nel 2030.
All’inizio degli anni 90, l’allora sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, aveva riconosciuto
esplicitamente la profonda ingiustizia delle demolizioni per una popolazione costretta a
costruire illegalmente per l’assenza quasi totale delle dovute autorizzazioni. Contro la sua
volontà di modificare le cose, tuttavia, la destra israeliana al governo aveva istituito
un’apposita unità operativa a Gerusalemme Est, tuttora in funzione, che si occupa soltanto
delle case abusive della popolazione palestinese. Nessun’altra unità del genere esiste in
tutto Israele e nessuna abitazione di proprietà ebraica è mai stata demolita.
Quando arrivano le ruspe, la tragedia raggiunge il culmine. Accompagnate da
agenti di polizia e soldati israeliani, le squadre di demolizione possono presentarsi
in qualsiasi momento del giorno e della notte, concedendo soltanto un breve
preavviso per rimuovere beni e masserizie. Secondo la legge militare israeliana, le
famiglie sfollate non hanno diritto a ottenere un alloggio né a essere compensate. Se non
vengono ospitate da familiari, amici o organizzazioni caritatevoli, sono abbandonate a se
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stesse[6].
È difficile quantificare il trauma e la sofferenza che comporta la distruzione della propria
abitazione. La casa è più di una semplice struttura fisica e il suo significato è soprattutto
simbolico. È il luogo dove si svolge la parte più intima dell’esistenza personale. È il rifugio,
la rappresentazione fisica della famiglia e il posto dove si trovano gli oggetti più cari. Nella
cultura palestinese la casa possiede un ulteriore significato. I figli che si sposano tendono a
fissare la propria residenza accanto alla famiglia di origine allo scopo di preservare non
soltanto la vicinanza fisica ma, soprattutto, una continuità nella proprietà della terra dei
propri avi. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per una società agricola e di
rifugiati che hanno perduto la casa nativa a seguito dei conflitti del 1948 e del 1967. La
demolizione dell’abitazione o la sua espropriazione rappresenta un’ulteriore aggressione
all’identità di una persona[7].
Le famiglie le cui case sono demolite spesso non possono permettersene un’altra e devono
contare sull’ospitalità di parenti o amici. Il trauma viene percepito in modo diverso da
uomini, donne e bambini. L’uomo rimane profondamente umiliato per il senso di impotenza
a proteggere la propria famiglia, la perdita dei legami con la terra dei suoi avi, la sua
eredità e quella della sua gente. La maggior parte delle donne non lavorano fuori casa, la
quale costituisce la loro principale sfera d’influenza ed è lo spazio che appartiene a loro.
Esse sono quindi molto più traumatizzate dall’obbligo di trovare un’altra sistemazione, in un
territorio altrui in cui non hanno più la responsabilità di gestire spazi e attività familiari.
Vedono distrutta la propria immagine e il loro ruolo di mogli e di madri, il ruolo di chi dà
praticamente espressione alla vita domestica. Una casa distrutta è come una persona cara
che muore, un vuoto che non può essere colmato da soluzioni alternative che, in genere, si
rivelano disastrose. Una donna costretta a sistemarsi in un’altra famiglia va ad occupare
l’ambito vitale di un’altra donna (la madre o la cognata) e perde inevitabilmente il controllo
su marito e figli[8]. La perdita della privacy causa spesso un aumento dei conflitti tra i
membri della famiglia con un’esplosione della violenza domestica.
Salwa, 28 anni, così esprime la sua tragedia personale: “La gente potrà anche
provare dispiacere quando sente il frastuono della demolizione, ma pensi che
qualcuno sia capace di sentire la demolizione dei nostri cuori? dei nostri sogni? dei
nostri programmi futuri? Credo che queste voci non siano mai udite. Pensi che si
siano accorti della mia paura, della mia agonia, del mio orrore? Niente affatto.
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Paura, agonia, orrore non hanno voce, non fanno rumore, e l’occupazione militare
non ha occhi, non ha moralità, non ha coscienza, non ha Dio”[9].
Nei bambini il trauma della demolizione della casa lascia un marchio indelebile che dura
tutta la vita. Già nei mesi che precedono l’intervento demolitivo essi sono testimoni della
paura e del senso di inadeguatezza dei propri genitori che vivono costantemente in
un’atmosfera di insicurezza. All’arrivo delle squadre di demolizione, vedono i propri cari
sottoposti a violenze e umiliati, circondati dal fragore delle ruspe che sradicano e
distruggono la loro dimora, il loro mondo, i loro giocattoli. La presenza di decine di
poliziotti, assistiti da soldati in tenuta da combattimento, disegna nella mente del bambino
un quadro dei propri genitori come pericolosi criminali. Questo processo ha un enorme
impatto sulle condizioni psichiche e fisiche di tutti membri della famiglia, non soltanto dei
bambini.
La demolizione della casa è seguita da lunghi periodi di instabilità della famiglia. Secondo
uno studio della ONG Save the Children[10], la maggior parte delle famiglie impiegano
almeno due anni prima di trovare un luogo di residenza permanente. Un’altra ricerca rivela
il profondo impatto psicologico sulle donne che tendono a sviluppare sintomi depressivi di
vario tipo[11]. Altri studi hanno descritto gli effetti deleteri sui bambini che si manifestano
con disturbi emotivi e comportamentali[12]. Le maggiori fonti di tensione nella famiglia
sono, per i bambini, la sensazione di essere abbandonati e, per i genitori, la comparsa della
depressione.
Commenta Meir Margalit, storico israeliano della comunità ebraica in Palestina ed
ex-sionista radicale, “Non c’è nessun dubbio: il bulldozer prende posto accanto al
carro armato come simbolo del modo in cui Israele si relaziona con i palestinesi.
Entrambi i simboli dovrebbero comparire sulla bandiera nazionale. Entrambi sono
espressione dell’aggressione che ha preso il sopravvento dell’esperienza nazionale
israeliana. L’uno completa l’altro. Entrambi simbolizzano il lato oscuro del progetto
che Israele sta portando avanti di sradicare ed espellere i palestinesi dalle terre in
cui si trovano”[13].
Sia sul territorio israeliano sia nel TPO, Israele è vincolato dalla legislazione internazionale
inclusi quei trattati internazionali sui diritti umani di cui Israele è uno Stato firmatario
(State Party), come il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, il Patto
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Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di
Tutte le Forme di Discriminazione Razziale. Nel Territorio Occupato, inoltre, la condotta di
Israele come potenza occupante deve conformarsi ai dettati della legislazione umanitaria
internazionale che si applica in tutti i casi di occupazione militare, compresa la 4°
Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione delle Persone Civili in Tempo di Guerra.
Israele è l’unico Stato appartenente all’ONU che rifiuta di riconoscere i propri obblighi nei
confronti della Convenzione di Ginevra nonostante le sconfessioni e le condanne ricevute in
varie sedi dalla comunità internazionale, in particolare la Corte Internazionale di
Giustizia[14].
Angelo Stefanini. Centro Studi e Ricerche sulla Salute Internazionale e
Interculturale,
Universita’ di Bologna. Coordinatore Sanitario Cooperazione Italiana – Gerusalemme.
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