Contratti agrari - Affitto di fondo rustico - Estromissione dal

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Contratti agrari - Affitto di fondo rustico - Estromissione dal
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Corte di Cassazione, Sezione 3 civile
Sentenza 29 novembre 2011, n. 25213
Integrale
- Contratti immobiliari - Contratti agrari - Affitto di fondo rustico - Estromissione dal
fondo senza preavviso - Azione di reintegrazione nel possesso - Diritto di rimanere nel
fondo - Esclusione - Inadempienza contrattuale del ricorrente - Per non avere coltivato il
noccioleto né consegnato la metà della raccolta dei tartufi - Fondatezza
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORELLI Mario Rosario - Presidente
Dott. FILADORO Camillo - rel. Consigliere
Dott. D'ALESSANDRO Paolo - Consigliere
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Consigliere
Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
FE. GI. , (OMESSO), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ARCHIMEDE 167, presso lo studio dell'avvocato FONZI MARINA, rappresentato e
difeso dall'avvocato FONZI GIORGIO giusta delega in atti;
- ricorrente e contro
F. M. , DE. DO. QU. , DE. DO. RO. ;
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- intimati avverso la sentenza n. 1061/2005 della CORTE D'APPELLO di L'AQUILA, depositata il 30/11/2005; R.G.N. 681/2001;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/10/2011 dal Consigliere Dott. CAMILLO FILADORO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo che ha concluso per rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 15-30 novembre 2005 (no 40 2006) la Corte d'appello di L'Aquila ha confermato la decisione del Tribunale di Teramo del 19 aprile
2001, che aveva rigettato la domanda dell'attore Fe.Gi. intesa ad ottenere la declaratoria di inadempienza dei concedenti, tutti eredi di De. Do.Ca. ,
al contratto di affitto di fondo rustico, stabilito per la durata di quindici anni, dal (OMESSO).
Con la medesima decisione, il Tribunale dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale proposta in via autonoma da Qu. e De. Do. Ro. , con
ricorso del 19 febbraio 2000.
Il ricorrente Fe. , nel ricorso introduttivo, aveva dedotto che De. Do.Ca. (dante causa dei tre resistenti) gli aveva concesso in affitto un fondo
rustico di sei ettari, coltivato a noccioleto, con la possibilita' di raccolta dei tartufi ivi esistenti.
In forza di tale contratto egli doveva provvedere alla coltivazione del noccioleto e poteva usufruire della parte non abitativa della casa colonica e
delle attrezzature agricole, ripartendosi tra concedente ed affittuario il cinquanta per cento delle spese e del raccolto delle nocciole.
Sotto il controllo del De. Do. - proseguiva il ricorrente Fe. - egli aveva provveduto a piantare alberi tartufigeni.
Deceduto il concedente, gli eredi - subentrati nel contratto lo avevano estromesso senza preavviso dal fondo, chiudendo il recinto e le rimesse degli
attrezzi.
Concludeva il ricorrente che egli aveva, invece, diritto di rimanere nel fondo per la durata di quindici anni. Conseguentemente richiedeva la
reintegra nel possesso del fondo, della rimessa della casa colonica e dei macchinari e la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni o in
subordine al pagamento della indennita' per i miglioramenti da recinzione del fondo.
I convenuti, costituendosi in giudizio, chiedevano il rigetto della domanda, deducendo la inadempienza contrattuale del ricorrente per non avere
questi coltivato il noccioleto ne' consegnato la meta' della raccolta dei tartufi.
In via riconvenzionale, chiedevano la risoluzione del contratto e la condanna del Fe. al pagamento della somma di lire 500 milioni, corrispondente
alla meta' dell'incasso della vendita dei tartufi effettuata in dieci anni.
Con ricorso autonomo, gli eredi di De. Do.Ca. chiedevano l'accertamento della esistenza di un contratto agrario atipico della durata di cinque anni,
con la previsione di recesso anticipato di tre mesi, in via subordinata la declaratoria di un affitto parcellare della durata di sei anni, con scadenza al
10 novembre 2001.
Riuniti i due giudizi, il Tribunale - come gia' precisato - aveva rigettato la domanda del Fe. , dichiarando inammissibili la domanda riconvenzionale
dei De. Do. e quella proposta in via autonoma con separato ricorso.
Queste ultime - rilevava il primo giudice - avrebbero dovuto essere proposte, a pena di decadenza, con la comparsa di risposta.
La domanda del Fe. era respinto con la motivazione che non si trattava di affitto di fondo rustico ma di un contratto avente ad oggetto l'utilizzo del
noccioleto ai soli fini della raccolta dei tartufi, il cui ricavato doveva essere diviso a meta'.
L'obbligo di coltivazione del noccioleto era il corrispettivo per il godimento della gia' impiantata tartufaia, senza obbligo di corresponsione del
canone quale corrispettivo per il godimento del terreno. Del resto, il tartufo costituisce produzione spontanea, il che esclude la costituzione di una
impresa agricola su fondo altrui.
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Confermando la decisione di primo grado, i giudici di appello osservavano che il contratto atipico del (OMESSO) costituiva un contratto agrario di
struttura associativa avente ad oggetto lo sfruttamento agricolo del fondo concesso dai danti causa degli appellati al Fe. perche' questi provvedesse
alla coltivazione del noccioleto dove era impiantata una tartufaia, in modo da garantire la produttivita' della tartufaia in termini di produzione e
raccolta di tartufi stabile e costante nel tempo.
Non era possibile la riconduzione del contratto all'affitto dei fondi rustici ai sensi della Legge n. 203 del 1982, articolo 27 per impossibilita' giuridica
di determinazione dell'oggetto del contratto.
1) Infatti, nel contrasto tra le parti, era impossibile determinare e identificare le superfici di terreno oggetto del contendere, poiche' il contratto
non indicava i metri quadrati di superficie ne' indicazione del foglio o delle particelle catastali. Tra l'altro, il terreno ricompreso nella recinzione con
pali di legno e rete metallica comprendeva particelle di terreno appartenenti ad altri proprietari, che non erano parti del giudizio.
2) La mancata identificazione della esatta superficie del terreno ceduto comportava anche la impossibilita' ulteriore di determinazione del canone
di affitto, da stabilire secondo i criteri di cui alla Legge n. 203 del 1982, articolo 8 e segg., articolo 14, articolo 62.
a) la classe catastale dei terreni risultava essere "seminativo di prima e seconda classe" e "seminativo erborato di seconda classe" con redditi
dominicali appartenenti a ciascuna di queste qualita'. Tali classi catastali erano completamente diverse da quelle, mai operate dagli uffici
competenti, nel territorio in esame (relative ad un terreno adibito a tartufaia).
b) Non esisteva, presso la agenzia del territorio di Teramo, in quanto non censita, la qualita' "tartufaia" ne' la qualita' "noccioleto" neppure nella
ultima revisione degli estimi. Del resto gli interessati (proprietario/concedente e colono/affittuario) non avevano mai presentato istanza agli uffici
competenti per un nuovo classamento, con la conseguente impossibilita' di determinare il canone dovuto sulla base dei redditi dominicali, relativi
alla nuove qualita' e classi catastali e dei coefficienti per le categorie corrispondenti a decorrere dalla domanda di revisione catastale.
c) Ne' poteva prendersi a base della determinazione del canone il reddito dominicale risultante dalla classe catastale del fondo, ai sensi della Legge
n. 203 del 1982, articoli 9 e 62 in quanto dichiarati incostituzionali dalla Corte Costituzionale, perche' quel catasto ha perso qualsiasi idoneita' a
rappresentare le effettive e diverse caratteristiche dei terreni agricoli (Corte Cost. 318 del 2002).
d) Peraltro, non poteva trovare applicazione neppure i meccanismo di cui alla Legge n. 203 del 1982, articolo 14 che prevede una richiesta alla
Commissione tecnica provinciale per la determinazione del canone di affitto di fondi rustici, qualora manchino - come nel caso di specie - tariffe e
redditi dominicali corrispondenti a particolari qualita' di colture. Infatti, nessuno degli interessati aveva presentato istanze in tal senso e una volta
estinto il contratto di affitto, l'affittuario non aveva piu' legittimazione a fare richiesta di determinazione del canone, ai sensi dell'articolo 14, in
relazione ad un contratto estinto (e privo di oggetto determinato al momento della scadenza).
e) Quanto ai miglioramenti, per i quali il Fe. aveva richiesto la liquidazione di un compenso, doveva escludersi il diritto agli stessi, in mancanza di
autorizzazione scritta del concedente. La recinzione del fondo realizzata con opere stabili avrebbe avuto necessita' di autorizzazione, se non
addirittura di concessione edilizia, che poteva essere rilasciata solo al proprietario del fondo, unico legittimato a condonare la opera abusiva.
Avverso tale decisione il Fe. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da otto motivi. Resistono gli eredi De. De. con controricorso. Nel ricorso
per cassazione vi e' richiesta di distrazione delle spese dell'avv. Fonzi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo si denunciano vizi di motivazione. Ad avviso del ricorrente, i giudici di appello non avevano tenuto conto di alcuni elementi
essenziali, giungendo ad affermare la nullita' di un contratto, che avevano escluso essere di natura agraria.
Il fondo adibito a noccioleto/tartufaia era bene identificato (del resto, lo stesso aveva formato oggetto di ordine del Tribunale di Teramo, di
reimmissione nel possesso del terreno, del 20 maggio 1999) ed era bene individuato da un recinto in rete metallica.
2) Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione o falsa applicazione della Legge n. 203 del 1982, articoli 27, 58, articoli 1421, 2909 c.c., articoli
99, 112, 324 e 345 c.p.c., eccezione di giudicato. Il quesito di diritto e' contenuto a pagg. p. 18/19. La decisione del Tribunale che aveva ritenuto la
validita' ed efficacia del contratto non era stata impugnata dai De. Do. , con la conseguenza che sul punto doveva ritenersi formato il giudicato.
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La indagine dei giudici di appello avrebbe dovuto essere circoscritta alla natura agraria del contratto e conseguente applicabilita' della Legge n.
203 del 1982, articolo 27.
3) Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione e violazione o falsa applicazione della Legge n. 203 del 1982, articolo 27, Legge 606 del 1966,
articolo 3, articoli 61 e 115 c.p.c., articolo 2909 c.c..
Nel ricorso ex articolo 700 c.p.c. il Fe. aveva dedotto di essere coltivatore diretto di un fondo rustico della estensione di sei ettari.
Poiche' egli aveva dimostrato la qualita' di coltivatore diretto, il possesso di tale qualita' lo esimeva dall'onere di provare per iscritto la esistenza del
contratto di affitto.
Tra l'altro, la consulente Pe. aveva individuato senza alcuna difficolta' la superficie di terreno utilizzata per la coltivazione del tartufo e del
noccioleto.
La stessa aveva individuato una estensione di ettari 7.64,30 della tartufaia, indicando in 40 giorni per anno per ettaro la forza lavoro necessaria
per le cure culturali del nocciolo e la raccolta del tubero e delle nocciole in impianti specializzati di tartufaie.
4) Il quarto motivo riguarda la falsa applicazione o violazione della Legge n. 203 del 1982, articolo 6, Legge n. 606 del 1966, articolo 3, articoli 61 e
115 c.p.c., articoli 346, 1418 e 2909 c.c., sin dalle prime difese il Fe. aveva dedotto di essere coltivatore diretto e tale circostanza, in mancanza di
contestazioni doveva darsi per pacifica. La qualita' di coltivatore diretto esime dall'onere di provare per iscritto il contratto di affitto e puo' essere
dedotta anche presuntivamente dalla sufficienza della capacita' lavorativa dell'affittuario e della sua famiglia.
5) Con il quinto motivo si deducono vizi della motivazione e violazione o falsa applicazione della Legge n. 203 del 1982, articoli 27 e 58. Viene
riportato il testo del contratto e si osserva che la Corte territoriale non aveva tenuto conto di quanto rilevato dalla ctu in merito alla esatta
estensione della superficie coltivata a noccioleto (indicata in ettari 7.64,30).
La circostanza che non fosse indicato il corrispettivo dell'utilizzo del fondo non era rilevante considerato che questo e' comunque definito dalla
norma vigente con disposizioni inderogabili (Legge n. 203 del 1982, articolo 58). Non era necessario neppure la esatta determinazione di canone
annuo in denaro, poiche' in corrispettivo dell'utilizzo il Fe. si era impegnato a coltivare il noccioleto a perfetta regola d'arte.
La dichiarazione di nullita' del contratto era, dunque, incompatibile con la realta' fattuale.
6) Il sesto motivo riguarda la violazione o falsa applicazione della Legge n. 203 del 1982, articoli 1, 2, 27 e 58, articoli 1346, 1418 e 2909 c.c.,
articolo 345 c.p.c..
Non puo' ritenersi causa di nullita' del contratto di affitto la mancata indicazione di un canone annuo, qualora sia previsto - come nella specie - un
corrispettivo in natura. In realta', la decisione del Tribunale del 2001 (453), passata sul punto in giudicato, aveva stabilito che il ricavato del
noccioleto doveva andare a totale godimento del proprietario - Il quesito di diritto viene formulato a pag. 31. Un contratto agrario stipulato dopo la
entrata in vigore della Legge del 1982 secondo uno schema contrattuale diverso dall'affitto - senza la osservanza delle forme prescritte - non puo'
considerarsi nullo quando rientri nell'ambito delle disposizioni dell'articolo 27 e ad esso devono applicarsi le norme che regolano il contratto di
affitto con conseguente sostituzione di tali norme alle clausole difformi contenute nella convenzione conclusa dalle parti.
7) con il settino motivo si denunciano vizi della motivazione: il giudice di appello non si era pronunciato su tutte le istanze istruttorie rigettate dal
primo giudice (prove per testi su spese a suo carico e sul suo violento spoglio, il ricorrente aveva chiesto di provare che per oltre dieci anni aveva
allevato la tartufaia, rinvenuta perfettamente produttiva con le ulteriori piante aggiunte dal Fe. , il quale aveva poi recintato tutta la zona. Tutte le
spese di recinzione e coltivazione erano state sostenute dal Fe. ) i capitoli di prova sono riportati a pag. 33.
8) L'ultimo motivo riguarda la violazione e falsa applicazione degli articoli 61, 112, 115 c.p.c., articoli 1453, 1218, 2909 c.c. sin dall'ottobre
dell'annata 1997/98 (dunque 1998) i De. Do. avevano allontanato dal fondo il Fe. , cambiando le chiavi del recinto, e mettendo dei cani nel recinto,
avvisando la Polizia. Dato che il contratto andava a scadenza il 5 marzo 2004, al Fe. competeva il risarcimento dei danni per tutti gli anni per i
quali egli era astato allontanato con violenza dal posto di lavoro. Su questo punto i giudici di appello non avevano pronunciato (donde il vizio
denunciato di ultrapetizione). Osserva il Collegio:
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gli otto motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, sono infondati.
Deve innanzi tutto rilevarsi la inesistenza di qualsiasi giudicato in ordine alla validita' ed efficacia del contratto. La decisione del giudice di primo
grado era stata di rigetto della domanda del Fe. . Deve escludersi, pertanto, che il rilievo officioso di nullita' del contratto, operato dal giudice di
appello, possa costituire vizio di ultrapetizione e violazione di giudicato interno.
Con motivazione adeguata, che sfugge a tutte le censure di violazione di legge e di vizi della motivazione, la Corte territoriale ha ritenuto che il
contratto atipico stipulato tra le parti dovesse configurarsi come un contratto agrario a struttura associativa, avente ad oggetto lo sfruttamento
agricolo del fondo concesso dal dante causa degli appellati al Fe. . La Corte ha ritenuto che il contratto atipico non era riconducibile all'affitto di
fondi rustici, ai sensi della Legge n. 203 del 1982, articolo 27.
Vi era incertezza, innanzi tutto , sulla estensione dell'appezzamento di terreno concesso a quest'ultimo. Da cio' derivava, in concreto, la
impossibilita' di qualsiasi determinazione dal canone annuo.
Avverso tale statuizione, il ricorrente si limita a dedurre che la consulente tecnica di ufficio aveva bene individuato la estensione di terreno adibita
alla coltivazione del noccioleto e che in ogni caso il possesso della qualifica di coltivatore diretto lo esimeva dall'onere di provare per iscritto il
contratto di affitto, con la descrizione del fondo. Quanto al canone annuo, la circostanza che non fosse stato stabilito una somma di danaro non era
sufficiente a giustificare la decisione di nullita' del contratto, essendo sufficiente che fosse stabilita una utilita' anche di altra natura.
Il Fe. si era impegnato alla coltivazione del noccioleto. I frutti di questi dovevano andare interamente al concedente, unitamente ad una parte dei
tartufi, senza limitazioni se raccolti personalmente.
In ogni caso, osserva il ricorrente, la presenza di eventuali clausole nulle non comportava, di necessita', la dichiarazione di nullita' del contratto,
poiche' le clausole nulle devono essere sostituite da quelle di legge.
Le censure formulate dal ricorrente non colgono nel segno.
I giudici di appello, sul punto, hanno osservato che non era possibile far riferimento al reddito catastale secondo le disposizioni di legge dichiarate
incostituzionali dalla Corte Costituzionale.
Infatti, gli interessati non avevano avanzato richiesta alla Commissione tecnica provinciale, competente ai sensi della Legge n. 203 del 1982,
articolo 14.
Tale rilievo, unitamente a quello della impossibilita' di individuazione del fondo, conduceva di necessita' alla nullita' del contratto per impossibilita'
giuridica di determinazione del contratto.
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato. Nessuna pronuncia in ordine alle spese, non avendo gli intimati svolto difese in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di cassazione.
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Corte di Cassazione, Sezioni Unite civile
Ordinanza 22 giugno 2011, n. 13641
Integrale
- GIURISDIZIONE - ORDINARIA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PREDEN Roberto - Primo Presidente f.f.
Dott. MORELLI Mario Rosario - Presidente di sezione
Dott. MASSERA Maurizio - Consigliere
Dott. FORTE Fabrizio - Consigliere
Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere
Dott. DI PALMA Salvatore - Consigliere
Dott. VIVALDI Roberta - rel. Consigliere
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Consigliere
Dott. TIRELLI Francesco - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COMUNE DI LAGO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA UGO OJETTI 114, presso lo studio
dell'avvocato CAPUTO FRANCESCO A., rappresentato e difeso dall'avvocato BARBA GREGORIO, per delega a margine del ricorso;
- ricorrente contro
MA. GI. ;
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- intimata per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 470/2010 del TRIBUNALE di PAOLA;
udito l'avvocato Gregorio BARBA;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 17/05/2011 dal Consigliere Dott. ROBERTA VIVALDI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott. Rosario Giovanni RUSSO, il quale chiede che le Sezioni unite della Corte,
rigettando con ordinanza il ricorso in epigrafe indicato siccome manifestamente infondato, statuiscano la giurisdizione del giudice ordinario.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Ma.Gi. conveniva, davanti al tribunale di Paola, il Comune di Lago (CS) chiedendone la condanna al risarcimento dei danni.
Esponeva, a tali fine, che: a) nel (OMESSO) il Sindaco del comune convenuto le aveva imposto l'immediato sgombero della propria abitazione per il
distacco di un muretto di contenimento di un costone roccioso posto sul retro della stessa; b) successivamente, il Comune aveva concluso un
contratto di locazione con terzi di un immobile concedendolo in uso all'attrice per circa undici anni; cioe' fino al momento in cui erano state
ripristinate le condizioni di sicurezza dell'abitazione; c) le pessime condizioni igienico - sanitarie dell'immobile, pero', le avevano causato gravi
patologie delle quali chiedeva, appunto, il risarcimento.
Si costituiva il Comune di Lago che eccepiva, in via pregiudiziale, il difetto di giurisdizione del giudice ordinano, e, nel merito, contestava la
fondatezza della domanda, proponendo anche domanda riconvenzionale per la restituzione delle spese dallo stesso sostenute.
Con atto regolarmente notificato il Comune proponeva, quindi, ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione.
L'intimata non ha svolto attivita' difensiva.
Il PG ha depositato conclusioni scritte, con le quali chiede dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario.
Il ricorrente ha anche depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L'attuale ricorrente prospetta la domanda di risarcimento danni quale conseguenza di un danno alla salute alla stessa causato dall'inosservanza, da
parte della P.A., dei comuni canoni di diligenza e prudenza, integranti il precetto di cui all'articolo 2043 cod. civ., in applicazione dei quali la P.A. e'
tenuta a far si' che i beni pubblici non costituiscano fonte di danno per il privato.
Ha, infatti, dedotto che il distacco di un muretto di contenimento di un costone roccioso posto alle spalle del fabbricato ove era ubicata la propria
abitazione, aveva reso precaria la staticita' dell' appartamento abitato dall'attrice, imponendole, con provvedimento sindacale, l'immediato
sgombero, per consentire al Comune gli interventi necessari. Al fine di ovviare al danno cosi' procurato alla Ma. , il Comune le aveva procurato
temporaneamente altra sistemazione abitativa, protrattasi, peraltro, per circa undici anni; ma le carenze igienico-sanitarie della nuova abitazione
avevano causato serie infermita' all'attuale ricorrente. Nel caso in esame, quindi, non e' prospettata la lesione del diritto della parte quale effetto di
un comportamento materiale, espressione di poteri autoritativi, in conseguenza di atti posti in essere dall'ente pubblico di cui venga denunciata
l'illegittimita', in materie riservate alla giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi (come quella della gestione del territorio; cfr. Cass. sez. un.
n. 27187 del 2007), ma e' addebitata alla P.A. la cattiva gestione e l'omessa manutenzione di un proprio bene, in violazione delle disposizioni di
legge e di regolamento, nonche' delle generali norme di prudenza e diligenza, imposte dal precetto del neminem laedere a tutela dell' incolumita'
dei cittadini e dell' integrita' del loro patrimonio. Le Sezioni Unite hanno ripetutamente affermato - ed a tale principio consolidato va data
continuita' - che, in caso di inosservanza da parte della pubblica amministrazione, nella sistemazione e manutenzione di aree o beni pubblici (delle
regole tecniche, ovvero) dei comuni canoni di diligenza e prudenza, ricorre la giurisdizione del giudice ordinario. E cio' perche' anche la
manutenzione di tali beni pubblici deve adeguarsi alle regole di comune prudenza e diligenza, prima fra tutte quelli del neminem laedere di cui all'
articolo 2043 cod. civ., in applicazione del quale la pubblica amministrazione e' tenuta a far si' che il bene pubblico non sia fonte di danno per il
privato ( Sez. Un. ord., 22 dicembre 2010, n. 25982; Sez. Un. ord. 20 marzo 2008, n. 7442; Sez. Un. 20 ottobre 2006, n. 22521; Sez. Un. 28
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novembre 2005, n. 25036 ).
Non vale, in tal caso, invocare la giurisdizione esclusiva introdotta nella materia urbanistica dal Decreto Legislativo n. 80 del 1998, articolo 34, (nel
testo sostituito dalla Legge n. 205 del 2000), perche' il dato normativo, ivi contenuto, rimanda ad attivita' che esprimono l'esercizio del potere
amministrativo nella forma tipica degli atti o provvedimenti attraverso i quali si esterna l'attivita' amministrativa, ovvero attraverso
comportamenti, che pero' debbono, pur sempre, essere ancorati, sia pure in via mediata, all'esercizio di un potere amministrativo.
Ne deriva che, quando, come nel caso in esame, si sia in presenza di comportamenti (positivi ovvero omissivi) meramente materiali, che non
risultino "espressione di una volonta' provvedimentale", ne' alla stessa comunque collegabili, tali comportamenti, pur se implicanti un uso del
territorio non sono riconducibili alla materia urbanistica (Cass. sez. un. 9139/2003 e succ; Corte Costit. 191/2006).
Ne' vale, in senso contrario, affermare - secondo la tesi prospettata dal ricorrente in memoria - che non si verterebbe in materia di beni pubblici,
posto che la causa della precarieta' dell'abitazione in questione non sarebbe dovuta al distacco del muretto di contenimento, ma al distacco di
materiali lapidei dal costone roccioso e dalla mancanza del piede d'appoggio al " bordo di recinzione in cemento su detto costone roccioso". Da un
lato, infatti, la precisazione e' irrilevante, posto che, in ogni caso, si tratterebbe, pur sempre, di modalita' attinenti ad un bene pubblico; dall'altro, il
ricorrente contesta, in memoria, quanto dallo stesso richiamato, in sede di ricorso (pag. 4), laddove afferma che la domanda risarcitoria proposta
dalla Ma. si fondava su lamentati comportamenti omissivi e danni prodotti " dall'esercizio illegittimo di un potere e della funzione amministrativa
afferente e discendente - in esito all'accertata situazione di instabilita' e pericolo in cui versavano le abitazioni dei sigg.ri Ma. Gi. (odierna attrice) e
Ma. Fr. a causa del distacco di un costone roccioso posto nelle vicinanze delle predette costruzioni - dall'Ordinanza sindacale contingibile e urgente
di sgombero ...";
concludendo che i danni alla salute lamentati "non trovano causa in un rapporto fra soggetti confinanti o nel dovere di neminem laedere tra
soggetti in piano di parita', ma che sono piuttosto espressione di scelte urbanistico - edilizie riservate al potere della pubblica
amministrazione" (pag. 6 del ricorso).
Conclusione questa esclusa dalle considerazioni che precedono.
E', pertanto, dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.
Nessun provvedimento deve essere adottato in ordine alle spese, non avendo l'intimata svolto attivita' difensiva.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, dichiara a giurisdizione del giudice ordinario. Nulla spese.
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Corte di Cassazione, Sezione 3 penale
Sentenza 7 febbraio 2008, n. 6087
Integrale
- TRIBUTI - REATI TRIBUTARI
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAPA Enrico - Presidente
Dott. CARROZZA Arturo - Consigliere
Dott. TERESI Alfredo - Consigliere
Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere
Dott. LOMBARDI Alfredo Maria - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) CO. FR., N. IL (OMESSO);
2) MA. DO., N. IL (OMESSO);
avverso SENTENZA del 04/12/2006 CORTE APPELLO di TORINO;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. SQUASSONI CLAUDIA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. DI POPOLO ANGELO, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio per prescrizione, con
conferma delle statuizioni civili;
udito il difensore Avv. ROSSOMANDO ANNA di Torino.
MOTIVI DELLA DECISIONE
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In parziale riforma della sentenza del Tribunale, la Corte di Appello di Torino ha ritenuto Ma. Do. e Co. Fr. responsabili del reato previsto dalla
Legge n. 516 del 1982, articolo 4, lettera f, ora Decreto Legislativo n. 74 del 2000 articolo 3 (dichiarazione di imposte fraudolenta mediante artifici)
e, concesse le attenuanti generiche, li ha condannati alla pena di giustizia. Per giungere a tale conclusione, la Corte ha reputato che l'accertato
comportamento degli imputati - i quali avevano indicato nei contratti notarili di compravendita, allegati alla dichiarazione dei redditi, un prezzo
minore del reale - costituisse un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare la verifica tributaria; sul punto - secondo i Giudici - non influiva
l'accertamento della evasione operato dalla Guardia di finanza dopo complesse investigazioni.
La Corte territoriale ha ritenuto la continuita' di tipo di illecito tra la abrogata e la attuale normativa in quanto le soglie introdotte con il Decreto
Legislativo n. 74 del 2000 articolo 3 sono da considerarsi condizioni di punibilita' che non influiscono sulla struttura della fattispecie. In merito alla
prescrizione, i Giudici hanno rilevato che il caso fosse regolato dalla normativa della Legge n. 516 del 1982 perche' piu' favorevole, ed hanno
escluso che fossero applicabile i termini piu' brevi introdotti con la Legge n. 251 del 2005 perche' il processo era pendente in appello alla data del 8
dicembre 2005; sul tema, la Corte ha osservato come l'individuazione della sentenza di primo grado come criterio distintivo per l'applicazione della
nuova disciplina fosse ragionevole ed hanno dichiarata infondata la relativa questione di legittimita' costituzionale. Da ultimo, la Corte non ha
concesso la attenuante dell'articolo 62 c.p., n. 6, in quanto incompatibile con la condanna al risarcimento dei danni alla parte civile (Agenzia delle
Entrate).
Per l'annullamento della sentenza, gli imputati, con atti separati, hanno proposto ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge e
introducendo i seguenti comuni motivi.
Per quanto concerne l'applicabilita' dei termini prescrizionali introdotti con la Legge n. 251 del 2005 ai processi in corso, i ricorrenti osservano
come la sentenza della Consulta 393/2006, abbia dichiarato incostituzionale solo la barriera costituita dalla dichiarazione di apertura del
dibattimento lasciando insoluta la problematica nei processi in fase di appello o di legittimita'. Ora la deroga alla retroattivita' della norma piu'
favorevole deve avere una ragionevolezza che non e' riscontrabile nello individuare nella sentenza di primo grado, pur dotata di valenza
interruttiva ex articolo 160 c.p., il discrimine per l'applicazione della nuova normativa.
Pertanto, gli imputati solevano questione di legittimita' costituzionale della Legge n. 251 del 2005 articolo 10 comma 2, per violazione dell'articolo
3 Cost..
Entrambi i ricorrenti sostengono che non si possa riscontrare una continuita' tra gli elementi strutturali dello abrogato Legge n. 516 del 1982,
articolo 4, e il vigente Decreto Legislativo n. 74 del 2000 articolo 3: la condotta prevista dalle due norme e' differente in quanto solo la nuova
individua il comportamento artificioso nello ambito delle scritture contabili e richiede il verificarsi dell'evento di evasione che costituisce elemento
essenziale della fattispecie.
Oltre alle ricordate censure comuni, il ricorrente Co. rileva come, stante l'abrogazione della Legge n. 516 del 1982, articolo 9, e' applicabile la
disciplina dell'articolo 157 c.p., per cui il reato, riguardante l'anno di imposta 1997, e' estinto per prescrizione.
La ricorrente Ma. osserva che il delitto contestato non punisce la condotta di evasione delle imposte, ma un comportamento fraudolento nei mezzi
e nelle finalita' che non e' evidenziabile nella fattispecie concreta; essa e' sussumibile nella diversa ipotesi di reato prevista del Decreto Legislativo
n. 74 del 2000 articolo 4 (dichiarazione infedele) gia' estinta per prescrizione. Da ultimo la ricorrente rileva come avesse definito, prima della
apertura del dibattimento, la sua posizione finanziaria con il ed accertamento con adesione per cui, in virtu' del Decreto Legge n. 669 del 1996
articolo 6 vigente all'epoca del commesso reato, il danno doveva considerarsi risarcito con applicabilita' della attenuante prevista dell'articolo 62
c.p., n. 6.
Il Legislatore ha inteso porre un limite, per evidenti ragioni di politica criminale, alla retrodatazione delle norme piu' favorevoli in tema di
prescrizione introdotte con la Legge n. 251 del 2005 ed ha precisato, all'articolo 10, comma 3, che le stesse fossero impraticabili per i processi
pendenti in primo grado (individuando la relativa nozione nella apertura del dibattimento) o in appello oppure avanti alla Corte di Cassazione. In
pratica, la legge piu' favorevole era applicabile solo per i processi per i quali non si era ancora aperto il dibattimento in primo grado. La Consulta
con sentenza 393/2006 - dopo avere chiarito che il principio della irretroattivita' della legge piu' favorevole non e' tutelato a livello costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimita' della disposizione transitoria ed ha eliminato la locuzione "processi gia' pendenti in primo grado ove vi sia
stata la apertura del dibattimento"; cio' essenzialmente per la considerazione che l'apertura del dibattimento non connota tutti i processi e non e'
atto interruttivo della prescrizione.
Dopo l'intervento della Corte Costituzionale, le aporie della pregressa normativa, ritenute non ragionevoli, sono state superate e la deroga alla
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retroattivita' della legge piu' favorevole e' rimasta in vigore solo per i processi pendenti in grado di appello (e tale e' il caso in esame) o dinanzi alla
Cassazione; la Corte costituzionale ha inteso escludere dalla applicazione delle nuove norme i processi in avanzato stato di trattazione che
sarebbero stati compromessi dalle riformulate disposizioni in tema di prescrizione (Sez. 5, 27 novembre 2006, Oliva 42189/06).
Pertanto, non e' sostenibile la tesi dei ricorrenti secondo i quali la sentenza della Corte Costituzionale ha risolto solo il problema della
irragionevolezza di individuare nella apertura del dibattimento in primo grado il discrimine per l'applicazione della nuova normativa; la sentenza
della Consulta salva, nella norma scrutinata, la preclusione alla applicazione della legge piu' favorevole ai processi pendenti in appello o in
Cassazione.
Di conseguenza, le censure dei ricorrenti sono superate dalla sentenza della Corte Costituzionale.
Sul tema della continuita' normativa tra le ipotesi di reato previste dalla Legge n. 516 del 1982, articolo 4, e del Decreto Legislativo n. 74 del 2000
articolo 3 l'indagine deve incentrasi sulla permanenza del giudizio, pur parzialmente mutato, di disvalore delle condotte e sulla sussistenza di
omogeneita' degli elementi strutturali delle vigenti e delle abrogate fattispecie criminose.
La nuova normativa, ha ristretto numero delle condotte penalmente rilevanti, che sono ora correlate agli interessi connessi al prelievo fiscale, ed
ha escluso dal novero dei reati le violazioni prodromiche ad una falsa dichiarazione o all'evasione fiscale.
In coerenza con tale politica criminale, alcune ipotesi di reato enucleate dalla Legge n. 516 del 1982, articolo 4, lettera f, sono state abrogate e non
piu' riprodotte nella vigente normativa: non assumono piu' rilievo penale la esibizione di una falsa documentazione, la allegazione della stessa in
una dichiarazione di sostituto di imposta, la sua utilizzazione in una dichiarazione dei redditi senza superamento delle soglie di punibilita'. La nuova
fattispecie di reato non e' totalmente sovrapponibile alla pregressa; si puo' riscontrare un nesso di continuita' normativa solo quando la
documentazione contraffatta o alterata con mezzi fraudolenti, idonei ad ostacolare l'accertamento, sia stata utilizzata in concreto da un soggetto
obbligato alla tenuta delle scritture contabili e sia stata inserita in una dichiarazione di redditi che, redatta sulla base di una contabilita' artefatta
con modalita' insidiose, contiene una falsa indicazione di elementi attivi o passivi (con superamento congiunto delle soglie indicate all'articolo 3,
lettera a e b Decreto Legislativo citato). Solo tale condotta (che e' quella contestata ai ricorrenti nel capo di imputazione e ritenuta sussistente dai
Giudici) era gia' punibile a sensi della Legge n. 516 del 1982, articolo 4, lettera f, continua a configurare una ipotesi di reato nella attuale disciplina
posto che il bene tutelato e' il medesimo e omologhe sono le modalita' di aggressione al bene stesso (ex plurimis; Cassazione Sez. 3 sentenza
33887/2001).
Le soglie inserite nella Legge n. 74 del 2000 (e superate nella ipotesi che ci occupa), che restringono l'area del penalmente punibile, devono essere
considerate quali condizioni intrinseche e improprie di punibilita' che incidono sul bene tutelato ed, in base al principio di colpevolezza, devono
essere imputabili allo agente a titolo di dolo.
Per quanto esposto, la fattispecie contestata ai ricorrente nel capo di imputazione (che assume profili fraudolenti che rientrano nel novero della
frode fiscale) si inserisce nell'ambito della persistente illiceita' penale.
Il raffronto tra le due discipline che si sono succedute nel tempo porta alla conclusione che quella prevista dalla Legge n. 516 del 1982, articolo 4, e'
la piu' favorevole allo imputato atteso che la misura edittale della pena e' piu' mite, la estensione delle pene accessorie e' minore ed il termine
prescrizionale piu' breve (anni nove tenuto conto della interruzione).
Tale periodo si e' maturato nel caso concreto dal momento che il dies a quo dello stesso deve essere fissato alla data della presentazione della
dichiarazione dei redditi (30 luglio 1998).
Di conseguenza, la Corte annulla senza rinvio la impugnata sentenza per essere il reato estinto per prescrizione; stante la condanna, nei precedenti
gradi di giudizio, al risarcimento dei danni e la comprovata responsabilita' degli imputati (che il contenuto dell'atto di ricorso non e' idoneo a
mettere in discussione), la Corte, a sensi dell'articolo 578 c.p.p., conferma le statuizioni civili della decisione in esame.
Le esposte conclusioni superano il problema della applicabilita' dell'attenuante prevista dall'articolo 62 c.p., n. 6, e la questione sul totale (come
sostengono i ricorrenti) o parziale (come ritenuto in sentenza) risarcimento dei danni sara' affrontata e risolta dal Giudice competente per la loro
liquidazione.
P.Q.M.
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LA CORTE
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perche' il reato e' estinto per prescrizione; conferma le statuizioni civili della sentenza.
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Corte di Cassazione, Sezione 3 penale
Sentenza 25 gennaio 2005, n. 1994
Massima
- FINANZE E TRIBUTI - IN GENERE - Reato di cui all'art. 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000 Pregressa disposizione di cui all'art. 4 lett. a) legge n. 516 del 1982 - Trattamento
sanzionatorio più favorevole - Individuazione.
In tema di reati finanziari, le disposizioni sanzionatorie previste per la violazione dell'art. 4 lett. a) delle legge 7 agosto 1982 n. 516 hanno carattere
più favorevole al reo di quelle previste per la violazione dell'art. 3 del D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, atteso che la misura edittale della pena principale è più mite, le pene accessorie della interdizione dai pubblici uffici e dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese sono più brevi, così come il periodo di decorrenza della prescrizione.
PUBBLICAZIONE
CED, Cassazione, 2005
La Tribuna, Rivista Penale, 2006, 1, pg. 142
Corte di Cassazione, Sezione 3 penale
Sentenza 25 gennaio 2005, n. 1994
Massima
- FINANZE E TRIBUTI - IN GENERE - Frode fiscale - Dichiarazione fraudolenta Coincidenza parziale - Abrogazio cum abolitione ex parte
Sussiste parziale coincidenza tra gli elementi che qualificano la fattispecie di frode fiscale di cui all'art. 4, comma 1, lett. a) della previgente legge n.
516/1982 e quella di dichiarazione fraudolenta introdotta dall'art. 3 della legge n. 74/2000, configurandosi quindi un'ipotesi di abrogatio cum
abolitione ex parte da parte di quest'ultima disposizione. (Massima non ufficiale).
PUBBLICAZIONE
CED, Cassazione, 2005
Il Sole 24 Ore, Diritto e Pratica delle Società, 2005, 12, pg. 73, annotata da G. Cardamellis
Corte di Cassazione, Sezione 3 penale
Sentenza 25 gennaio 2005, n. 1994
Massima
- FINANZE E TRIBUTI - IN GENERE - False indicazioni nella dichiarazione sul valore
aggiunto o sui redditi - Reato di cui all'art. 3 del D. L gs. n. 74 del 2000 - Elementi
costitutivi - Individuazione.
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In tema di reati finanziari, tra la pregressa disposizione di cui all'art. 4 lett a) della legge 7 agosto 1982 n. 516 e quella di cui all'art. 3 del D.Lgs. 10
marzo 2000 n. 74 si configura un'ipotesi di "abrogatio cum abolitione ex parte", atteso che sussiste coincidenza strutturale allorché l'agente utilizzi documentazione contraffatta o alterata per supportare una infedele dichiarazione dei redditi o relativa all'imposta sul valore aggiunto, ma non
assumono rilievo penale la esibizione della falsa documentazione, la allegazione della falsa documentazione in una dichiarazione di sostituto
d'imposta, la sua utilizzazione nelle predette dichiarazioni senza superamento delle soglie di punibilità.
PUBBLICAZIONE
CED, Cassazione, 2005
La Tribuna, Rivista Penale, 2006, 1, pg. 142
Corte di Cassazione, Sezione 3 penale
Sentenza 25 gennaio 2005, n. 1994
Integrale
- FINANZE E TRIBUTI - IN GENERE - False indicazioni nella dichiarazione sul valore
aggiunto o sui redditi - Reato di cui all'art. 3 del D. L gs. n. 74 del 2000 - Elementi
costitutivi - Individuazione.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta dagli Ill.mi Signori
Antonio ZUMBO - Presidente
Pierluigi ONORATO (est.) - Consigliere
Carlo GRILLO - Consigliere
Mario GENTILE - Consigliere
Aldo FIALE - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto per Et. Mo., nato a Fr. (PV) il (...),
avverso la sentenza resa il 29.1.2004 dalla corte d'appello di Milano.
Vista la sentenza denunciata e il ricorso,
Udita la relazione svolta in udienza dal consigliere Pierluigi Onorato,
Udito il pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Antonio Albano, che ha concluso chiedendo l'annullamento senza rinvio
della sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione,
Udito il difensore dell'imputato, avv. ==
Osserva:
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1 - Con sentenza del 29.1.2004 la corte d'appello di Milano, parzialmente riformando quella resa il 13.3.2003 dal tribunale di Vigevano, ha ridotto
a un anno di reclusione e Euro 3.000 di multa la pena inflitta, col beneficio della sospensione condizionale, a Et. Mo., quale colpevole del delitto
continuato di dichiarazione fiscale fraudolenta di cui all'art. 3 D.Lgs. 74/2000, perché, quale legale rappresentante della s.n.c. Et. Mo., al fine di evadere le imposte sui redditi (per gli anni 1990 e 1991) e sull'I.V.A. (per gli anni dal 1988 al 1995), aveva indicato nelle relative dichiarazioni
annuali della società elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili dell'attività sociale (omessa annotazione di larga parte delle operazioni commerciali, registrate in una contabilità occulta) e con l'impiego di mezzi fraudolenti atti ad ostacolarne l'accertamento (utilizzazione di 16 bolle di accompagnamento alterate in ordine alla quantità di merce acquistata).
Per l'esattezza. al Et. Mo. era stato originariamente contestato il delitto di cui all'art. 4, comma 1, lett. a) legge 516/1982. Ma nel corso del
dibattimento di primo grado, risultando superate le soglie di punibilità previste dal citato art. 3 D.Lgs. 74/2000, e cioè una imposta evasa superiore a lire centocinquanta milioni, e un ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione superiore al 5% dell'ammontare
complessivo degli elementi attivi indicati nella dichiarazione, il pubblico ministero, all'udienza del 27.11.2000, aveva riformulato l'imputazione nel
senso anzidetto in conformità alla fattispecie penale prevista appunto dall'art. 3 D.Lgs. 74/2000.
Il tribunale, quindi, ritenuta la continuità normativa tra il delitto di frode fiscale previsto dall'art. 4 lett. a) legge 516/1982 e quello di dichiarazione fraudolenta di cui all'art. 3 D.Lgs. 74/2000, condannava il Et. Mo. per quest'ultimo delitto, in concorso delle attenuanti generiche, alla pena di un
anno e dieci mesi di reclusione ed euro 4.000 di multa.
La corte d'appello -come già detto- ha confermato il giudizio di responsabilità riducendo soltanto la pena inflitta.
2 - Il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi a sostegno. In particolare lamenta:
2.1 - violazione di legge penale, laddove i giudici di merito hanno ritenuto la continuità normativa tra il delitto di cui all'art. 4, comma 1, lett. a) legge 516/1982 e quello di cui all'art. 3 D.Lgs. 74/2000 in ordine alle condotte di alterazione delle bolle di accompagnamento;
2.2 - ancora violazione di legge penale, giacché in primo luogo le condotte fraudolenti contestate (alterazione di bolle d'accompagnamento, conti bancari della società intestati a prestanomi e mantenimento di contabilità occulta) nulla hanno a che fare con la dichiarazione fiscale annuale e non rientrano nella fattispecie punita dall'art. 4 comma 1 lett. a) legge 516/1982, e in secondo luogo quest'ultima fattispecie si riferisce esclusivamente
alla dichiarazione delle imposte dirette e non alla dichiarazione I.V.A.;
2.3 - violazione dell'art. 25 D.Lgs. 74/2000 e dell'art. 2, comma 3, c. p., laddove la corte milanese ha escluso la prescrizione del reato nella
considerazione che fosse applicabile il termine prescrizionale previsto dall'art. 9 legge 516/1982: al contrario -secondo il ricorrente- la legge più favorevole era quella dell'art. 4 legge 516/1982, ma non poteva applicarsi l'art. 9 di questa legge, essendo stato abrogato dall'art. 25 D.Lgs.
74/2000, con la conseguenza che doveva applicarsi il termine prescrizionale ordinario di cui all'art. 157 n. 4 c. p. (cioè quello massimo di sette anni e mezzo), posto che sono state riconosciute le attenuanti generiche.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3 - I primi due motivi di ricorso sono destituiti di fondamento giuridico.
La norma di cui all'art. 4 lett. a) della legge 516/1982, ora abrogata, puniva chiunque. al fine di evadere le imposte sui redditi o l'imposta sul valore
aggiunto, ovvero al fine di conseguire un indebito rimborso, ovvero di consentire a terzi l'evasione o l'indebito rimborso, allegava alla dichiarazione
dei redditi, a quella dell'imposta sul valore aggiunto, o a quella di sostituto di imposta, ovvero esibiva agli uffici finanziari o di polizia tributaria,
documenti contraffatti o alterati.
L' art. 3 del D.Lgs. 74/2000 punisce chiunque (al di fuori dei casi previsti dall'art. 2 dello stesso decreto, che riguarda la dichiarazione fraudolenta
mediante uso di fatture per operazioni inesistenti) al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, sulla base di una falsa
rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei a ostacolarne l'accertamento, indica in una delle
dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi, quando
congiuntamente: a) l'imposta evasa, anche per talune delle singole imposte, è superiore a 150.000.000 di lire (ora 77.468,53 euro); b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione è superiore al 5% dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati nella dichiarazione, o comunque è superiore a lire 3.000.000.000 (ora Euro 1.549.370,70).
Dall'esame comparativo delle due fattispecie risulta una parziale coincidenza strutturale tra le stesse. Infatti:
a) coincide il dolo specifico di frode al fisco, nel caso in cui l'agente intenda evadere a suo vantaggio le imposte sui redditi o quella sul valore
aggiunto;
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b) non coincide il dolo specifico quando l'agente intenda consentire a terzi l'evasione fiscale presentando una falsa dichiarazione di sostituto di
imposta;
c) coincide la condotta materiale, nella misura in cui l'agente utilizzi documentazione contraffatta o alterata per supportare una infedele
dichiarazione dei redditi o una infedele dichiarazione relativa all'imposta sul valore aggiunto: deve infatti ritenersi superflua la precisazione
contenuta nella nuova fattispecie secondo cui l'utilizzo dei mezzi fraudolenti deve essere idoneo a ostacolare l'accertamento fiscale, giacché alla luce del principio di offensività tale idoneità era implicita anche nella vecchia fattispecie;
d) non coincide la condotta materiale laddove la vecchia fattispecie considerava sufficiente a integrare il reato anche la esibizione della falsa
documentazione agli uffici finanziari o di polizia tributaria o comunque la sua utilizzazione fiscalmente rilevante, nonché l'indicazione della falsa documentazione nella dichiarazione del sostituto di imposta: tali condotte infatti non sono più contemplate nella figura penale disegnata dalla nuova norma;
f) non coincide infine la condotta materiale laddove la nuova fattispecie richiede come soglia di punibilità un'evasione tributaria superiore a euro 77.468,53 e una sottrazione all'imposizione di elementi attivi superiori al 5% dell'ammontare complessivamente indicato o comunque superiori a
euro 1.548.370,70.
Tanto premesso, si deve concludere che la normativa introdotta dal D.Lgs. 74/2000, abrogando la vecchia fattispecie (con l'art. 25) e configurando
il nuovo reato di cui all'art. 3, ha avuto l'effetto di abolire parzialmente il reato precedentemente previsto dall'art. 4 lett. a) della legge 516/1982, di
talché non sono più previste come reato:
- la esibizione della falsa documentazione contabile alla polizia tributaria o agli uffici finanziari;
- la allegazione della falsa documentazione contabile in una dichiarazione di sostituto di imposta;
- la utilizzazione della falsa documentazione in una dichiarazione fiscale dei redditi o dell'i.v.a. quando non siano superate le soglie di punibilità sopra ricordate.
Invece continua ad essere prevista come reato da entrambe le norme incriminatrici la utilizzazione della falsa documentazione come giustificazione
di una dichiarazione fiscale dei redditi o dell'i.v.a. quando l'imposta evasa e la sottrazione al fisco di elementi imponibili superino le soglie suddette.
In altri termini, si tratta -per riprendere e adattare la formulazione tradizionale- non di una completa abrogatio, né di una abrogatio sine abolitione, ma di una abrogatio cum abolitione ex parte,
(A conclusioni parzialmente simili arriva Cass. Sez. III, n. 30896 dell'8.8.2001, Giandolfo, rv. 219935, che però, sul filo delle diverse motivazioni di Sez. Un. n. 27 del 25.10.2000, Di Mauro, afferma la continuità normativa tra le due fattispecie senza distinguere espressamente tra "parte" abolita e "parte" sopravvissuta).
Da quanto ora detto deriva che, secondo i criteri indicati dalla Sezioni Unite di questa corte con la sentenza Giordano n. 25887 del 16.6.2003, un
fatto punibile secondo la disposizione abrogata è ancora punibile se integra gli estremi previsti dalla nuova disposizione incriminatrice, mentre non è più punibile se esula dal perimetro penale configurato da quest'ultima disposizione (ad esempio perché non viene superata la soglia di punibilità, o perché la falsa documentazione non è utilizzata nella dichiarazione fiscale).
In questo secondo caso opera l'efficacia (parzialmente) abrogatrice della nuova norma.
Mentre nel primo caso, poiché la legge del tempo in cui il reato è stato commesso e la legge posteriore sono diverse, si deve ricorrere alla regola di cui al terzo comma dell'art. 2 c. p., che impone di applicare, tra le disposizioni di legge cronologicamente successive, quella più favorevole al reo.
3.1 - In base alle argomentazione testé svolte risulta chiara l'infondatezza non solo del primo ma anche del secondo motivo di ricorso (nn. 2.1 e 2.2).
L'imputato infatti aveva utilizzato una documentazione contabile contraffatta e altri mezzi fraudolenti (bolle di accompagnamento alterate,
intestazione fittizia di conti correnti bancari) per giustificare false dichiarazioni dei redditi nonché degli incassi ai fini dell'imposta sul valore aggiunto, al fine di lucrare una evasione di imposta e una sottrazione di elementi alla imposizione che superavano le soglie previste dall'art. 3
D.Lgs. 74/2000. La sua condotta, quindi, integrava sia il reato previsto dalla legge 516/1982, sia quello previsto dal successivo D.Lgs. 74/2000.
Ne può dirsi -come sostiene il ricorrente- che la fattispecie abrogata non si riferisse anche alla dichiarazione ai fini dell'imposta sul valore aggiunto,
perché una tesi siffatta contrasta col chiaro tenore letterale della norma.
4 - Resta quindi il problema di verificare quale delle due normative sia più favorevole al reo.
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Com'è noto, questa verifica deve essere condotta confrontando complessivamente e in concreto le due leggi, per scegliere quella la cui integrale applicazione dia un risultato meno gravoso per il reo, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti per il trattamento sanzionatorio, quali la specie e
l'entità della pena, la previsione di circostanze attenuanti, le pene accessorie, il termine di prescrizione e altre cause di estinzione del reato, etc.
Non può invece il giudice combinare un mixtum compositum di disposizioni più favorevoli delle due leggi, perché ciò porterebbe alla inammissibile creazione di una terza legge, diversa sia da quella abrogata sia da quella in vigore.
Alla luce di questi criteri. si deve concludere che il trattamento sanzionatorio più favorevole al reo è quello della legge 516/1982perché:
- la misura edittale della pena principale detentiva è più mite (reclusione da sei mesi a cinque anni, a fronte di una reclusione da un anno e sei mesi a sei anni) anche se è prevista congiuntamente una pena pecuniaria (la multa da 5 a 10 milioni di lire);
- la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici ha durata più breve (da tre mesi a due anni, contro una durata da uno a tre anni) (art. 6 legge 516/1982 e art. 12 D.Lgs. 74/2000);
- la pena accessoria della interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese ha durata più breve (da tre mesi a due anni, rispetto a una durata da sei mesi a tre anni); anche se era prevista una pena accessoria ormai abolita, quella della temporanea esclusione dalla
borsa per gli agenti di cambio e i commissionari di borsa;
- il periodo prescrizionale è più breve (sei anni ex art. 9 legge 516/1982, contro dieci anni ex art. 157, comma 1 n. 3 c. p.: infatti, considerando le attenuanti generiche riconosciute dal giudice di merito, agli effetti della prescrizione si deve calcolare la diminuzione minima ex art. I57 comma 2 c.
p., cosicché la pena massima edittale da prendere in considerazione non scende al di sotto dei cinque anni di reclusione previsti dal suddetto n. 3).
Tuttavia, anche applicando la normativa più favorevole, la prescrizione del reato non è ancora maturata, giacché il reato contestato si è consumato con la presentazione dell'ultima dichiarazione i.v.a., avvenuta il 31.3.1996, sicché il periodo prescrizionale, calcolato l'aumento sino alla metà per le interruzioni, scadrà solo il 31.3.2005.
4.1 - Concludendo sul punto, la sentenza impugnata è incorsa in un errore di diritto laddove ha ritenuto più favorevole la norma dell'art. 3 D.Lgs. 74/2000, anziché quella dell'art. 4 lett. a) legge 516/1982, peraltro applicando anche la pena pecuniaria che la norma posteriore non prevede più.
Ma l'errore non ha avuto influenza sul dispositivo, giacché, da una parte, la corte milanese ha comunque escluso la prescrizione del reato, e dall'altra ha determinato ugualmente la pena principale secondo la misura edittale prevista dal suddetto art. 4 (dal momento che -come detto- ha
irrogato sia la pena detentiva, di un anno di reclusione, sia la pena pecuniaria, di euro 3.000 di multa).
I giudici di merito hanno inoltre omesso, per errore, di irrogare le pene accessorie.
Poiché l'errore omissivo non può, essere corretto in assenza di impugnazione del pubblico ministero, il giudice di legittimità deve limitarsi a rettificare l'errore di qualificazione del fatto ai sensi dell'art. 619 c. p.p., appunto perché non ha avuto influenza sul dispositivo e non produce l'annullamento della sentenza impugnata.
In questi limiti va disattesa anche l'ultima censura (n. 2.3).
5 - Con queste precisazioni, il ricorso va quindi rigettato. Consegue ex art. 616 c. p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali. Considerato il contenuto dell'impugnazione, non si ritiene di comminare anche la sanzione pecuniaria a favore della cassa delle
ammende.
P.Q.M.
la corte suprema di cassazione, riqualificato il fatto come delitto di cui all'art. 4, comma 1, lett. a) legge 516/1982, rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Corte di Cassazione, Sezione 3 penale
Sentenza 25 gennaio 2005, n. 1994
LEX24 - Gruppo 24 ORE
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Massima redazionale
- TRIBUTI E FINANZE (IN MATERIA PENALE) - REATI FINANZIARI IN GENERE ILLECITI DI CUI ALL'ART. 4 DEL D.L. N. 429/ 82 - NUOVA DISCIPLINA CONTINUITÀ NORMATIVA - SUSSISTENZA - INDIVIDUAZIONE DELLA NORMA PIÙ FAVOREVOLE.
In tema di reati fiscali, con riguardo a condotte già inquadrabili nelle previsioni di cui all'art. 4 del D.L. 10/7/1982, n. 429, convertito in legge n. 516/1982 ed attualmente punibili anche ai sensi dell'art. 3 del D.Lgs. 10/3/2000 n. 74, deve ritenersi tuttora applicabile, in quanto più favorevole al reato, la prima delle due citate norme incriminatrici.
PUBBLICAZIONE
La Tribuna, Rivista Penale, 2005, 6, pg. 708
Corte di Cassazione, Sezione 3 penale
Sentenza 25 gennaio 2005, n. 1994
Massima redazionale
- REATI TRIBUTARI - INDIVIDUAZIONE DEL TRATTAMENTO SANZIONATORIO PIÙ FAVOREVOLE PER IL REO
Il trattamento sanzionatorio più favorevole al reo è quello della legge n. 516/1982 perché le pene sono più miti e il periodo prescrizionale è più breve.
PUBBLICAZIONE
Il Sole 24 Ore, Diritto e Pratica delle Società, 2005, 6, pg. 92
LEX24 - Gruppo 24 ORE
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Corte di Cassazione, Sezione 3 penale
Sentenza 3 luglio 2000, n. 7589
Massima redazionale
- TRIBUTI E FINANZE (IN MATERIA PENALE) - SCRITTURE CONTABILI - REATO DI
OMESSA FATTURAZIONE ED ISCRIZIONE DI CORRISPETTIVI DEPENALIZZAZIONE.
Ai sensi del D.L.vo n. 74 del 2000 l'omessa fatturazione ed iscrizione nelle scritture contabili obbligatorie di corrispettivi non è, più configurabile come reato, avendo il nuovo sistema inteso limitare la repressione penale ai soli fatti che comportino una effettiva lesione di interessi fiscali,
escludendo perciò gli atti «prodromici» all'evasione fiscale che non siano ex se direttamente lesivi degli interessi considerati.
PUBBLICAZIONE
La Tribuna, Rivista Penale, 2001, 3, pg. 320
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