Note sull`interpretazione agostiniana di Proverbi 10, 19

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Note sull`interpretazione agostiniana di Proverbi 10, 19
NOTE SULL’INTERPRETAZIONE AGOSTINIANA
DI PROVERBI 10, 19
Di NICOLÒ M AZZA
Il testo biblico di Proverbi 10, 19 è composto da due stichi di breve estensione, il primo dei quali contiene in particolare un ammonimento contro
l’uso del multiloquium, che ha offerto ad Agostino numerose occasioni di
riflessione sull’abbondanza del loqui e sui suoi molteplici risvolti semantici
in ambiti concettualmente più ristretti che non quello più generale del
loqui stesso. Così recita il passo:
In multiloquio peccatum non deerit 1.
1. Il multiloquium nel Prologus alle Retractationes
Uno dei passi più significativi in cui Agostino si interroga sull’uso del
multiloquium è tratto dal Prologus alle Retractationes2 (opera in due libri redatta
nel 426 o 4273 e lasciata incompiuta al momento della morte, sopraggiunta
1
2
3
Prou 10, 19: «Nel multiloquio non mancherà il peccato». Si riporta qui il testo della
Vulgata nova di Gerolamo, nell’edizione a cura di WEBER 1983. Il testo latino di
Prou 10, 19 presenta, tuttavia, un’altra variante testuale: «Ex multiloquio non effugies
peccatum», [per il multiloquio non sfuggirai il peccato]. Essa è presupposta da
alcuni codici della Vetus Latina e Agostino tende a preferirla rispetto alla variante
geronimiana, salvo che nel caso dello Speculum, in cui si servirà della traduzione
dell’amico Gerolamo, con lo scopo di conferire alla sua riflessione sulla loquacità
una sfumatura diversa.
Per un’introduzione all’opera, con una buona appendice bibliografica, si rimanda
a G. M ADEC 1994.
La datazione è ricavata da quanto Agostino stesso scrive nel Doch, intorno alla
sua missione a Cesarea di Mauritania (cfr. Doch 4, 24, 53; CCL 32, pp. 159-160),
avvenuta nel settembre del 419. A proposito dice: «Et ecce iam ferme octo uel amplius
anni sunt, propitio Christo, ex quo illic nihil tale temptatum est», [certamente già da otto o
più anni, per grazia di Cristo, nessun simile combattimento ha avuto luogo laggiù
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il 28 agosto del 430). Qui l’Ipponense, giunto ormai alla fine di una produzione letteraria che durava da più di quarant’anni (386-427), consapevole
della sua vastità, rivela un acutissimo senso delle proprie responsabilità
pastorali e dottrinali e si lascia attraversare dal grave timore suscitato
dall’ammonimento del libro dei Proverbi contro l’uso del multiloquium e del
uerbum otiosum. A tal proposito scrive:
Sed ut uolet quisque accipiat hoc quod facio; me tamen apostolicam illam sententiam
et in hac re oportuit intueri ubi ait: Si nos ipsos iudicaremus, a domino
non iudicaremur4 . Illud etiam quod scriptum est: Ex multiloquio non
effugies peccatum5, terret me plurimum, non quia multa scripsi uel quia multa
etiam quae dictata non sunt tamen a me dicta conscripta sunt6 – absit enim
ut multiloquium deputetur, quando necessaria dicuntur, quantalibet
sermonum multitudine ac prolixitate dicantur –; sed istam sententiam
scripturae sanctae propterea timeo, quia de tam multis disputationibus meis
sine dubio multa colligi possunt, quae si non falsa, at certe uideantur siue etiam
conuincantur non necessaria. Quem uero Christus fidelium suorum non terruit ubi
ait: Omne uerbum otiosum quodcumque dixerit homo, reddet pro illo
rationem in die iudicii?7 Vnde et eius apostolus Iacobus: Sit, inquit, omnis
homo uelox ad audiendum, tardus autem ad loquendum8; et alio loco:
Nolite, inquit, plures magistri fieri, fratres mei, scientes quoniam maius
iudicium sumitis. In multis enim offendimus omnes. Si quis in uerbo
non offendit, hic perfectus est uir9. Ego mihi hanc perfectionem nec nunc
arrogo, cum iam sim senex quanto minus cum iuuenis coepi scribere uel apud
populos dicere; tantumque mihi tributum est, ut ubicumque me presente loqui opus
esset ad populum, rarissime tacere atque alios audire permitterer, et esse uelox
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8
9
– trad. nostra]. È noto che Agostino ha cercato di portare a termine la stesura del
Doch al momento in cui avrebbe dovuto recensirla nelle Retr.
1 Cor 11, 31.
Prou 10, 19.
Rientrano in questa categoria non solo i Sermones registrati dai notarii e conservati
nella biblioteca d’Ippona, ma anche gli atti di pubbliche discussioni quali i Feli (Retr
2, 8; CCL 57, p. 97) e l’Ad Emeritum episcopum donatistarum post collationem liber unus (Retr
2, 46; CCL 57, pp. 127-128) [opera perduta], nonché alcuni commenti alle Scritture
registrati dagli uditori, quali le Iiob (Retr 2, 13; CCL 57, pp. 99-100) e l’Expositio
epistulae Iacobi ad duodecim tribus (Retr 2, 32; CCL 57, p. 116) [opera perduta].
Mt 12, 36.
Iac 1, 19.
Iac 3, 1-2.
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ad audiendum, tardus autem ad loquendum. Restat igitur ut me ipse iudicem
sub magistro uno10, cuius de offensionibus meis iudicium euadere cupio. Magistros
autem plures tunc fieri existimo, cum diuersa atque inter se aduersa sentiunt. Cum
uero id ipsum dicunt omnes11, et uerum dicunt et ab unius ueri magistri magisterio
non recedunt. Offendunt autem non cum illius multa dicunt, sed cum
addunt sua12 . Sic quippe incidunt ex multiloquio etiam in falsiloquium13.
10
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12
13
Cfr. Mt 23, 8.
Cfr. 1 Cor 1, 10.
Cfr. Io 8, 44.
Per la traduzione dei testi di Agostino si è fatto riferimento all’edizione bilingue
della NBA, salvo che per alcuni passi, che verranno ogni volta indicati, di cui
abbiamo fornito una traduzione nostra o modificata. Retr, Prol. 1, 2; CCL 57, pp.
5-6: «Ognuno, comunque, è libero di accogliere il mio operato a suo beneplacito.
Quanto a me, è stato bene che mi sia attenuto, anche in questa circostanza, alla
raccomandazione dell’apostolo: “Se giudicassimo noi stessi, non saremmo giudicati
dal Signore”. Moltissimo timore mi incute anche l’altro passo: “Per il molto parlare
non riuscirai ad evitare il peccato”. Non perché abbia scritto molti libri o perché
molte cose che non sono state dettate [da me], tuttavia, da me pronunciate, siano
state trasferite ad opere scritte – non sia mai che si attribuisca a loquacità ogni
occasione in cui viene detto ciò che è necessario [dire], per quanto un discorso
possa essere ampio per estensione e prolissità. Questo passo della Sacra Scrittura,
invece, mi incute timore per la seguente ragione: dalle mie svariate discussioni è
indubbiamente possibile ricavare molti tratti che, se non falsi, potrebbero apparire
o anche essere dimostrati come non necessari. Quale dei suoi fedeli il Cristo non
ha gettato nel terrore, laddove dice: “Nel giorno del giudizio l’uomo renderà conto
di ogni parola inutile che avrà pronunciato”? Di qui [la raccomandazione del] suo
apostolo Giacomo: “Ognuno – dice – sia pronto nell’ascoltare, ma lento a parlare”.
In un altro passo dice: “Non fatevi maestri in molti, fratelli miei, ben sapendo
che vi addossate un giudizio maggiore, poiché tutti manchiamo in molte cose. Se
qualcuno non manca nel parlare è un uomo perfetto”. Per quanto mi concerne, non
mi arrogo certo tale perfezione, ora che sono vecchio. Ma ancor meno [avrei potuto
arrogarmela] quando, ancor giovane, incominciai a scrivere o a parlare alla gente e mi
fu accordato un tale credito che dovunque, me presente, ci fosse bisogno di parlare
in pubblico, molto raramente ero lasciato libero di tacere, di ascoltare gli altri e di
essere quindi pronto nell’ascolto, ma lento nel parlare. Non mi resta, dunque, che
autogiudicarmi alla presenza dell’unico Maestro, al cui giudizio sui miei errori vorrei
tanto sottrarmi. Penso che si producano molti maestri quando la pensano in modo
diverso o contrastante. Quando però dicono tutti la stessa cosa, dicono la verità, e
non si discostano dall’insegnamento dell’unico vero Maestro. Sbagliano, non quando
espongono molti dei suoi insegnamenti, ma quando ne aggiungono di propri. In
questo modo, cadono dal multiloquio alla menzogna», (la trad. è stata modificata).
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Nel Prologus, Agostino svela il suo intento di autocensura, e insieme
si giustifica preventivamente14 di fronte alle possibili accuse da parte dei
suoi avversari intorno all’enorme quantità dei suoi discorsi pubblici15 e
delle sue opere scritte16 e alle fisiologiche aporie sicuramente accumulatesi
in esse nel corso di un così ampio arco di tempo.
In questo brano della vecchiaia, Agostino rivela una profonda tensione legata all’intima consapevolezza del rischio di peccato contenuto
nella pratica del multiloquium e ammette di non potersi arrogare, pur desiderandolo, quella perfezione di cui parla l’apostolo Giacomo nella sua
lettera riguardo all’esercizio dell’ascolto e del silenzio17, che diventano,
nella prospettiva dell’apostolo, le discriminanti per qualificare un credente
come un «perfectus uir».
A motivo dei numerosi uffici pastorali che avevano accompagnato
la sua attività di predicatore già dai primi anni di ministero ecclesiale e a
seguito della grande autorevolezza nel frattempo acquisita nell’ambito delle
discipline teologiche, Agostino non solo aveva dovuto parlare molto in svariate occasioni pubbliche, ma aveva anche dovuto scrivere molto, sovente
addirittura contro la propria volontà, perché spinto da amici e conoscenti
o, più semplicemente, da necessità apologetiche, e spesso il suo loqui, come
precisa nel Prologus, si era perciò trasformato in un multum loqui.
2. La polivalenza semantica del multiloquium
In questo brano, Agostino non si limita a collegare la problematica del
multiloquium esclusivamente all’ambito del loqui, della parola, cioè, in senso
stretto, cui di fatto sarebbe immediatamente ascrivibile sia sul piano del
significante che su quello proprio del significato, ma anche a quello delle
14
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16
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Cfr. M ADEC 1994, pp. 12-13.
Spesso trasferiti a opere scritte. Cfr. nota 6.
E 224, 2; CSEL 57, pp. 452-453: «Nam retractabam opuscula mea et, si quid in eis me
offenderet uel alios posset offendere, partim reprehendendo partim defendendo, quod legi posset
et deberet, operabar», [rivedevo infatti i miei scritti e se in essi c’era qualcosa che
offendeva me o poteva offendere altri, in parte criticando, in parte difendendo,
rielaboravo ciò che poteva e doveva essere letto – trad. nostra].
Cfr. Iac 1, 19; 3, 1-2.
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opere scritte, il contenuto delle quali rischia di tradire l’inevitabile mutabilità del suo pensiero e di rivelare le numerose incongruenze presenti
nei suoi libri. Il multiloquium viene ad assumere, in questa prospettiva, una
bivalenza di significato che lo accosta sia alla sfera del multum loqui che a
quella – se si può dire – del multum scribere.
Di notevole interesse non è solo l’accento posto da Agostino sulla
loquacità e sul rilievo più o meno negativo, o comunque ambiguo, che
questa può assumere nella comunicazione sia scritta che verbale, ma anche
la relazione che emerge tra multiloquium e un’altra dimensione della parola
qualificata a priori come negativa: il falsiloquium.
Egli si preoccupa di chiarire le analogie e le differenza tra queste due
caratterizzazioni del parlato (e, quindi, anche dello scritto) e lo fa a partire
dalla propria personale esperienza. Per evitare pericolose semplificazioni,
che rischierebbero di nuocere alla sua attività di predicatore e di scrittore,
egli chiarisce che il multiloquium non consiste semplicemente nell’essere
chiacchieroni o nel dire molte cose a proposito di un argomento, quanto
piuttosto nel dire cose non necessarie rispetto a ciò che si qualifica come
essenziale allo sviluppo del pensiero.
Il falsiloquium, invece, rappresenta, in qualche modo, uno sviluppo in
senso negativo del multiloquium e costituisce l’atteggiamento tipico di chi,
allontanandosi dall’unica Verità esistente, finisce col dire molte cose tra
loro discordi e, per tale ragione, inevitabilmente false.
L’errore, secondo Agostino, non nasce quando viene detto ciò che
è necessario dire né dall’esposizione degli insegnamenti dell’«unico Maestro», quale che sia il numero e l’ampiezza dei discorsi fatti, ma dall’aggiunta di commenti personali o di propri punti di vista, che rischiano di
compromettere l’integrità delle Scritture e diventare così inutili o superflui
rispetto all’economia del discorso.
Riferendosi alla vastità della sua produzione libraria e della sua attività di predicatore, Agostino riconosce perfino la possibilità di avere scritto o detto cose che, se non proprio false, potrebbero comunque rivelarsi,
per la loro enorme quantità, come non necessarie all’essenzialità degli
insegnamenti dell’«unico Maestro», ai quali tutti gli altri insegnamenti dovrebbero essere uniformati, per essere riconosciuti come veri e non essere
sottoposti al giudizio finale. Il timore suscitatogli dal passo del libro dei
Proverbi, quindi, non nasce tanto dall’esercizio del multiloquium in sé, dal
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fatto cioè di avere scritto o detto molte cose, ovvero da una valutazione
oggettivamente negativa di questa dimensione del parlato, quanto piuttosto dal rischio («non effugies»18) contenuto nella loquacità di sconfinare nel
superfluo e – direi, di conseguenza – nel falso.
La linea di demarcazione tra multiloquium e falsiloquium appare molto
sottile, tanto che – precisa Agostino nella conclusione al Prologus – quando al
multiloquium si aggiungano considerazioni personali non necessarie, quando,
cioè, il multiloquium si fa uerbum otiosum, il numero di maestri che pretendono di presentare ciascuno una propria versione della verità non può che
aumentare e, di fronte a tante verità tra loro diverse, se non addirittura contrastanti, il rischio più immediato diventa appunto quello della menzogna.
3. Il multiloquium e la concordia nell’insegnamento
In presenza di tali condizioni, il multiloquium, inteso come ipertrofia di
molteplici (e presunte) verità, cessa di mantenersi sul piano della verbosità e della loquacità e, a causa del suo essere un loqui otiosum, sconfina
irrimediabilmente nell’ambito della falsità.
Per ovviare alle prevedibili conseguenze provocate da una variabilità di pareri attorno alle categorie della rivelazione, Agostino individua
un criterio che funge da garanzia di verità e di fedeltà alle Scritture e che
finisce col confermare quella neutralità intrinseca19 del multiloquium, inteso come dimensione plastica del loqui, che può, però, assumere una valenza negativa in presenza delle particolari condizioni fin qui esaminate. Si
tratta della concordia nell’insegnamento, premessa che rende possibile, se
non addirittura lecito, anche un parlare con abbondanza di parole.
Il tema della concordia, non solo tra più voci, ma anche tra la bocca
e il cuore, concepito come anticamera della parola, era già stato sviluppato
da Agostino in opere della giovinezza riguardanti il tema della preghiera
cristiana e trova qui un’ulteriore e suggestiva possibilità di applicazione,
18
19
Vedi nota 1.
Il giudizio di Agostino sul multiloquium, considerato come una dimensione
moralmente neutra del loqui, è il risultato di un’evoluzione del suo pensiero che
giunge qui a una formulazione matura.
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che richiama, seppure implicitamente, tutta la trattazione d’argomento
ermeneutico che Agostino aveva svolto nei libri II e III del De doctrina
christiana 20. In particolare nel libro III era emersa l’annosa difficoltà di
distinguere, nelle Sacre Scritture, tra linguaggio proprio e linguaggio figurato, di fronte alla quale l’Ipponense era arrivato ad accettare che per
uno stesso passo si potessero proporre diverse interpretazioni in sostanza
equivalenti tra loro. In questo modo, egli sembrava aver fatto proprio
uno degli esiti più caratterizzanti dell’esegesi alessandrina, la possibilità,
cioè, di proporre per un singolo passo della Scrittura una pluralità d’interpretazioni spirituali, tali, però, da non escludersi l’una con l’altra, ma
da cumularsi l’una all’altra.
Tenendo conto di queste considerazioni, è facile comprendere
come, nel nostro Prologus, Agostino non stia apostrofando il fatto che ci
siano molti maestri che propongono una pluralità d’interpretazioni del
testo sacro, ma piuttosto la loro tendenza a far diventare contraddittorie,
e di conseguenza false, le loro disquisizioni teologiche.
Sempre nel De doctrina christiana, tuttavia, emerge, a ben guardare,
una differenza di fondo a caratterizzare la posizione di Agostino rispetto
a quella alessandrina. Questa, infatti, scaturiva dalla convinzione che la
Parola divina, quale c’è stata consegnata nella Sacra Scrittura, è inesauribilmente feconda, tale perciò da non poter essere circoscritta ed esaurita
da una qualsiasi interpretazione umana: potenzialmente, dunque, secondo questa prospettiva, ogni espressione della Scrittura ammetterebbe una
pluralità infinita di interpretazioni.
Se si guarda meglio al complesso delle affermazioni del De doctrina christiana su questo punto essenziale, la convinzione di Agostino
che appare prevalente è invece un’altra. Secondo lui, l’esegeta cristiano
si dovrebbe soprattutto proporre il fine di mettere in luce l’intenzione
dell’autore sacro, ricorrendo a tutti i procedimenti ermeneutici che gli
vengono da lui suggeriti, soprattutto quello, tradizionale da Ireneo in
poi, di interpretare il passo di difficile comprensione sulla scorta di altri
di analogo significato e di più chiara intelligenza21: soltanto quando ciò
20
21
Per un’introduzione al Doch si rimanda a SIMONETTI 1994 e a MOREAU 1986.
Cfr. Doch 3, 28, 39; CCL 32, p. 100. In questo stesso passo Agostino osserva che, in
mancanza di ogni altro criterio d’interpretazione ricavabile dalla Scrittura stessa,
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non riesca possibile, Agostino riconosce la possibilità di sopperire con
una o più interpretazioni, purché non contravvengano alla fede e alla
morale trasmesse dalla Tradizione apostolica22 .
In sintesi, si può concludere che la polisemia della Scrittura è, per
gli esegeti di scuola alessandrina, conseguenza della ricchezza del significato, mentre per Agostino essa scaturisce dall’inadeguatezza del significante, che è quanto dire dei segni, e quindi anche – o forse soprattutto
– del uerbum e del suo esplicarsi attraverso il loqui23.
Egli, dunque, non mette in discussione tanto la presenza di molti
maestri o le loro molteplici interpretazioni o ancora la possibilità di ricavare dal testo sacro un’inesauribile polivalenza di significati, quanto più
il rischio contenuto in questa prassi, che tende a farsi multiloquium, di generare otiosa et falsa uerba, che si discostano dal senso originario del testo e
rischiano di far dire all’autore sacro cose che egli di fatto non voleva dire.
In ultima istanza, Agostino individua nel precetto evangelico della
«gemina caritas» di Dio e del prossimo, in cui si compendiano tutta la
fede e la morale cristiane, l’unico criterio che funge da referente esterno
per valutare l’accettabilità, o meno, di ogni proposta interpretativa della
Scrittura24. Agostino riconosce anche qui, seppure implicitamente, che il
multiloquium rappresenta una dimensione della parola moralmente neutra,
la quale può addirittura diventare una pratica utile ed efficace laddove
sia presente la carità che unisce i maestri tra loro, rendendoli così capaci
di interpretare e insegnare le Scritture nella concordia; e la concordia,
generando la verità, rende lecito il ricorso alla verbosità25.
Per concludere, Agostino chiarisce che la possibilità di parlare a
lungo per esporre gli insegnamenti del Maestro, benché nutriti e numerosi, senza che questo faccia diventare il proprio multiloquium un falsiloquium,
22
23
24
25
si può fare anche ricorso alla ratio, ma considera questo procedimento pericoloso,
mentre il cammino attraverso le Scritture si rivela molto più sicuro.
Cfr. Doch 1, 36, 40; 3, 27, 38; 28, 39; CCL 32, p. 29, 99-100.
Cfr. SIMONETTI 1994, pp. 24-30.
Cfr. Doch 1, 36, 40; CCL 32, p. 29. Questa citazione di Mt 22, 37-39 ricorre anche in
Conf 12, 25, 35; CCL 27, pp. 235-236, in un contesto sulle difficoltà di interpretare
la Scrittura e sulle interpretazioni plurime, che è molto vicino a quello del Doch e,
per certi versi, analogo anche a quello del Prologus alle Retr.
Cfr. SIMONETTI 1994, pp. 19 ss.
100
nasce dal fatto che le parole di Cristo sono sostanzialmente vere, anzi
sono esse stesse la Parola del Padre, la Sapienza incarnata di Dio26, rispetto alla quale la quantità delle parole usate assume un valore assolutamente
strumentale e relativo27.
La liceità del multiloquium, dunque, viene sempre connessa alla dimensione della verità e all’esercizio della carità, al di fuori delle quali esso
rischia di qualificarsi come peccato ed essere così sottoposto al giudizio
finale di Cristo.
Multiloquium e falsiloquium, dunque, non vengono presentate come
due dimensioni del loqui compendiate in determinazioni categoriali assolute, proprio perché solo il secondo assume una valenza di carattere
assolutamente negativo, mentre il multiloquium, alla luce di tutta la riflessione agostiniana che aveva preceduto il Prologus, viene a rivestire una
variabilità plastica e fluttuante capace di ricoprire molteplici significati,
che possono di volta in volta assumere accezioni diverse, a seconda dei
prodromi comunicativi dei soggetti interloquenti.
Il multiloquium, in Agostino, subisce così una relativizzazione semantica che ottiene all’Ipponense la legittimità della sua verbosità e la
giustificazione per l’abbondanza dei suoi scritti. Così egli può esaurire
tutte le esigenze contenute e premesse nel Prologus, quelle, cioè, relative
alla necessità di autocensura e di discolpa, ed è pronto ad avviarsi al regesto di tutte le sue opere e alla composizione di quello che sarà uno degli
ultimi scritti della sua vita.
Per dimostrare la parabola evolutiva nella concezione agostiniana
della loquacità, che culminerà nella formulazione di neutralità contenuta
nel Prologus, analizzeremo, a titolo d’esempio, alcuni testi tratti da opere
specificamente polemiche. L’abbondanza del loqui, infatti, sembra assumere un valore rappresentativo nell’ambito di quegli scritti polemici, in
26
27
Cfr. Ioha 21, 4; CCL 36, p. 214 : «Verbum patris est filius, nihil dixit deus quod non dixit in
filio», [il Figlio è la Parola del Padre, e Dio non ha detto nulla che non abbia detto
nel Figlio – trad. nostra]. Cfr. A NTONI 1997, pp. 20-23.
Lo stesso Origene aveva opposto alla , cioè dire all’abbondanza di
parole che generano molteplici verità, la «Parola unica», il Verbo di Dio, verso la
quale tendono e nella quale sono unificate tutte le scritture e tutti i discorsi dei
cristiani (cfr. Comjo 5, 4, 5; GCS 10, p. 102; Philo 5, 3-4). Cfr. Anche D’H AMONVILLE
2000, p. 221.
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cui Agostino si confronta spesso direttamente con l’uso improprio o superficiale che i suoi interlocutori fanno delle parole, e della Parola.
Alcuni dei passi più significativi in cui la problematica afferente
al multiloquium riceve una trattazione ormai complessa ed eterogenea,
soprattutto in ordine alla sua intrinseca neutralità, sono tratti dal Contra
Iulianum haeresis Pelagianae defensorem 28 (scritta intorno al 421) e dal Contra
Iulianum opus imperfectum 29 (scritta qualche anno dopo, a partire dal 423,
e lasciata incompiuta per il sopraggiungere improvviso della malattia e
della morte) e quasi sempre essi si configurano in un contesto d’accusa all’avversario Giuliano d’Eclano, sostenitore e diffusore dell’eresia
pelagiana.
Frequenti sono nel testo le battute sarcastiche sull’uso del multiloquium e della prolixitas. A Giuliano, che ostenta più volte il suo studium
breuitatis 30, Agostino risponde:
Mirabili studio breuitatis octo libros uni meo reddis, quem nec tanta multiloquii
prolixitate conuellis […] Quid uanis uera inuoluere et occultare conaris?31
28
29
30
31
Comunemente citata col titolo di Contra Iulianum. Per un’introduzione generale
agli scritti contro Giuliano, dotata di un’ampia bibliografia, si rimanda a CIPRIANI
1993; per un’introduzione particolare al Iuli vedi CIPRIANI 1985.
Nota anche con il titolo di Contra secundam Iuliani responsionem imperfectum opus.
Cfr. Iuoi 1, 12; CSEL 85, I, pp. 11-12: «IUL : Priori ergo operi quattuor libellis ea quam
suppeditauit ueritas, facultate respondi praefatus sane praeteriturum me, quae et pro dogmate
illius nihil habere ponderis apparebat, et me possent arguere multiloquii, si fuissem imbecilla
quaeque et inania persecutus. Quamquam, si hanc regulam ut decuit seruare licuisset, id est ut
nec oppugnationem ex professione inepta mererentur, paene omnia eius inuenta publico fuerant
spernenda silentio», [GIUL .: Alla sua prima opera ho risposto dunque in quattro libri
con la forza ispiratami dalla verità, dopo aver doverosamente premesso che avrei
tralasciato e quanto non appariva importante nei riguardi del suo dogma e quanto
poteva farmi accusare di troppa loquacità, se avessi seguito tutte le questioni
stupide e vane. Benchè, se mi fosse stato lecito osservare come conveniva, questa
regola di considerare non meritevoli nemmeno di confutazione le sue affermazioni
apertamente sballate, sarebbero state da condannare con il disprezzo di un
pubblico silenzio quasi tutte le sue invenzioni].
Iuoi 3, 141; CSEL 85, I, p. 446: «AG: Con un’ ammirevole preoccupazione di
brevità, rispondi con otto libri ad uno solo dei miei, che non smonti nemmeno
con l’eccessiva prolissità del tuo multiloquio […] Perché tenti di avvolgere e di
occultare la verità con falsi discorsi?», (la trad. è stata lievemente modificata).
102
In questo passo, Agostino accosta significativamente il multiloquium
alla prolixitas, servendosi di un’espressione pleonastica che rivela tutta la
frondosità della loquela di Giuliano, unitamente alla falsità contenuta nella sua logorrea. Attraverso la ridondanza dell’espressione usata, Agostino
mette in rilievo anche la vacuità del suo contenuto, creando così una locuzione in grado di far coincidere perfettamente il significante espressivo
con il significato di cui è portatore. Sarebbe come dire che la ridondanza
delle parole usate per esprimere il concetto diventa espressione della ridondanza del concetto stesso.
Agostino chiarisce poco dopo il risvolto negativo della facondia di
Giuliano, quando spiega che essa ha come scopo quello di nascondere la
verità, attraverso l’utilizzo di uani sermones, dove l’aggettivo uanus non va
qui inteso semplicemente come sinonimo di otiosus. Esso, infatti, non ha
solo il significato di «vuoto», «vano», «inutile» et similia, ma anche quello di
«ingannatore», «menzognero» e «falso».
Il uaniloquium, dunque, è implicitamente assimilato al falsiloquium, ne
diventa quasi un sostituto sul piano semantico e un sinonimo su quello
linguistico. Secondo un sillogismo pacificamente inferibile dall’analisi di
questo testo e sulla base delle considerazioni fin qui fatte, si può concludere che, se il multiloquium rischia di diventare un uaniloquium, poiché
il uaniloquium può rappresentare l’equivalente sinonimico del falsiloquium,
esso, divenuto uanum, tende a caratterizzarsi come falsum.
Per l’ennesima volta, Agostino sostiene che, qualora il multiloquium
diventi un parlare di argomenti inconsistenti e non necessari, esso rischia
di produrre un’escrescenza di verità contrastanti e, per tale ragione, non
può che scadere nel falsiloquium.
Poco oltre, egli ritorna sullo stesso argomento, ma con un tono ancora più beffardo:
Homo enim stupenda ubertate facundus, qui prius uni meo tuos quattuor, et
alteri meo tuos octo putasti esse reddendos; quis non timeat ne forte sex libris meis
amplius quam mille tuos reddere mediteris […]32.
32
Iuoi 4, 5; PL 45, col. 1342: «Uomo facondo di ammirevole fecondità, che al mio
unico libro hai pensato di dover rispondere con quattro libri e con otto al mi
secondo libro. Chi non dovrebbe temere che ai miei sei libri [del Contra Iulianum]
tu non mediti di risponedere con più di altri mille?», (la trad. è nostra).
103
Inania loqueris, superfluis tempus impendis: quod agitur deseris, et unde non
dubitatur, tamquam dubitetur, uel etiam negetur, docere moliris.33
Interessante è qui notare l’insistenza di Agostino sulla vacuità e
l’inutilità degli argomenti trattati da Giuliano, il quale perde il suo tempo
a disquisire su questioni assolutamente superflue e non necessarie. Ancora
una volta, l’Ipponense qualifica negativamente il multiloquium del suo avversario tenendo conto, in ultima istanza, non della quantità delle parole
usate da quello per argomentare il suo pensiero, ma dell’oggetto interno di
quei medesimi ragionamenti, che si presenta come inutile e privo di valore
oggettivo e di qualsiasi riferibilità alle categorie della verità rivelata.
In molti altri passi, Agostino rimprovera Giuliano di blaterare cose
34
inutili , di abbandonarsi al multiloquium per cercare spazi dove divagare35
o delirare36, per confondere i suoi lettori37 o anche addirittura per divertire38. Da qui il frequentissimo invito di Agostino a tacere o perché gli è
stato già risposto39 o perché, a ogni modo, non avrebbe niente da dire40 o,
peggio, perché non sa quello che dice41 o parla senza in realtà dire nulla di
concludente42 , o, ancora, ripetendo all’infinito cose già dette, suscita con il
suo uanum multiloquium un odioso fastidio:
Multiloquio tibi excitas caliginem, quae te non permittit malitiam uitiorum
a naturae bonitate discernere, et usque ad odiosum fastidium eadem per eadem
repentes nondum dicis43.
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Iuoi 4, 117; PL 45, col. 1411: «Dici cose vane e perdi il tempo in cose superflue. Lasci
da parte l’argomento di cui trattiamo e cerchi di insegnare a partire da quello di
cui nessuno dubita, come se qualcuno ne dubitasse o lo negasse», (la trad. è nostra).
Cfr. Iuoi 2, 82 ; CSEL 85, I, p. 220.
Cfr. Iuoi 6, 39 ; PL 45, col. 1598.
Cfr. Iuoi 5, 15 ; PL 45, col. 1447.
Cfr. Iuoi 3, 14 ; CSEL 85, I, p. 359.
Cfr. Iuoi 5, 25 ; PL 45, col. 1463.
Cfr. Iuoi 1, 130 ; 2, 44. 47. 48. 83 ; CSEL 85, I, pp. 141-143 ; 194, 195-196, 197-198,
220-221.
Cfr. Iuoi 2, 102. 104. 106 ; CSEL 85, I, pp. 233, 236-237, 240.
Cfr. Iuoi 2, 191. 194 ; CSEL 85, I, pp. 308, 309-310.
Cfr. Iuoi 2, 56. 70. 71 ; CSEL 85, I, pp. 204-205, 214-216.
Iuoi 2, 44 ; CSEL 85, I, p. 194 : «Con il tuo multiloquio ti crei una cortina di nebbia
che ti impedisce di distinguere il male dei vizi dal bene della natura, ripetendo
104
Hoc est nempe, quod non eloquio, sed multiloquio prosecutus es44.
Viene ribadita così da Agostino la medesima concezione di multiloquium, qui significativamente contrapposto all’esercizio dell’eloquium, al
quale è riconosciuta una legittimità che viene tuttavia snaturata dall’esagerazione e dall’eccesso, che ne fanno inevitabilmente un multiloquium secondo l’accezione negativa già esaminata.
4. Multiloquium inteso come «copiosa egestas»
In un altro passo, Agostino associa l’esercizio del multiloquium al rischio di
una prolixa et superuacanea disputatio, dove colpisce ancora il ricorso di Agostino al lessico della vacuità attraverso l’uso di locuzioni pleonastiche, per
definire il loqui del suo avversario come strumento meramente riempitivo
rispetto alle numerose pagine dei suoi libri:
Ventilandum totum istum in apostolicis litteris de corporis resurrectione locum
ideo te suscepisse, ut haberes occasionem qua tuum multiloquium copiosa, si
dici potest, egestate diffunderes, et ad tot libros implendos tibi euagandi spatia
procurares, in ipsa tua prolixa et superuacanea disputatione clarebit45.
Di rilevante interesse, in questo testo, è il ricorso all’ossimoro della
«copiosa egestas», col quale Agostino dà vita a un’immagine assai suggestiva, eloquente di tutta la sua concezione del multiloquium fin qui esaminata.
L’espressione sembra richiamare, benché implicitamente, l’uso che egli fa
del nesso «egestas sapientiae» nel del De beata uita, in cui esso viene ad as-
44
45
fino a un odioso fastidio le medesime idee con le medesime parole», (la trad. è
stata lievemente modificata).
Iuoi 6, 15; PL 45, col. 1533: «Questo è appunto ciò che hai inseguito non con
eloquio, ma con multiloquio».
Iuoi 6, 32; PL 45, col. 1586: «Per questo ti sei deciso di sventolare tutto questo
passo della Lettera dell’Apostolo sulla resurrezione del corpo, perché tu avessi
l’occasione di diffondere – se si può dire – con una abbondante deficienza il tuo
multiloquio, e perché ti procurassi spazi dove poter divagare allo scopo di riempire
tanti libri. Ciò si farà chiaro nella tua stessa prolissa e vanissima discussione», (la
trad. è stata lievemente modificata).
105
sumere il significato della mancanza radicale, del bisogno per eccellenza,
dell’intima “nostalgia” che caratterizza la condizione d’infelicità dell’uomo.
Come ha dimostrato il Pizzolato in uno studio sul processo argomentativo nel De beata uita, «attraverso una catena di equazioni, Agostino
dimostra, a due riprese46, che l’egestas coincide con la miseria. […]. Se egere
significa “sapientiam non habere”, e se “sapientiam non habere” significa “habere
stultitiam”, ne deriva che egestas è uguale a stultitia; ma stultitia, in quanto
“contraria sapientiae”, è uguale a miseria» 47. Attraverso questo semplice sillogismo, verrebbe dimostrata la coincidenza concettuale tra miseria ed egestas,
sfruttando sempre il postulato, indimostrato per l’intellettualismo antico,
e che Agostino non mette mai in discussione, che identifica sapienza e
felicità e, per contrario, stultitia e miseria. Agostino scrive:
Dedimus autem rationem recte stultitiam uocari egestatem. Sicut ergo et omnis
stultus miser et omnis miser stultus est, ita necesse est non solum omnem, qui egeat,
miserum, sed etiam omnem, qui miser sit, egentem esse fateamur. At si ex eo,
quod et omnis stultus miser est et omnis miser stultus est, conficitur stultitiam esse
miseriam, cur non ex eo, quod et quisquis eget miser et quisquis miser est eget, nihil
aliud miseriam quam egestatem esse conficimus?48
Se in un primo momento, «Agostino aveva connotato la miseria
come instabilità ed era approdato alla felicità come “avere Dio” quale unico bene imperituro, ora ha trovato una caratteristica più radicale della
miseria: la mancanza (egestas) che sta alla base della stessa instabilità, perché
proprio il timore legato alla caducità si configura come mancanza (di sapienza): e quindi la sapienza/felicità sarà il contrario dell’egestas» 49:
46
47
48
49
Cfr. Vita 4, 28-29; CCL 29, pp. 80-81.
PIZZOLATO 1987, p. 93.
Vita 4, 29; CCL 29, p. 81: «Abbiamo spiegato che la stoltezza giustamente significa
privazione. Dunque dobbiamo ammettere che, come lo stolto è infelice e l’infelice
è stolto, così non solo chi soggiace a privazione è infelice ma anche chi è infelice
soggiace a privazione. Dal principio che ogni stolto è infelice e ogni infelice è
stolto si deduce che la stoltezza è infelicità. Così dal principio che chi soggiace alla
privazione è infelice e chi è infelice soggiace alla privazione, dobbiamo dedurre
che l’infelicità è essenzialmente privazione».
PIZZOLATO 1987, p. 93.
106
Illud iam, inquam, sequitur, ut uideamus, quis non egeat; is enim erit sapiens et
beatus. Egestas autem stultitia est egestatisque nomen; hoc autem uerbum sterilitatem
quandam et inopiam solet significare. Adtendite quaeso altius, quanta cura
priscorum hominum siue omnia siue, quod manifestum est, quaedam uerba creata
sunt earum rerum maxime, quarum erat notitia pernecessaria. Iam enim conceditis
omnem stultum egere et omnem qui egeat stultum esse; credo uos etiam concedere
animum stultum esse uitiosum omniaque animi uitia uno stultitiae nomine includi50.
Se, come nel De beata uita, anche in questo caso si potesse con certezza dimostrare una soggiacenza concettuale di questo tipo, si potrebbe
concludere che: se l’egestas è in ultima istanza per Agostino «egestas sapientiae», e se il «sapientiam non habere» coincide con la «stultitia», che per sua
stessa natura si caratterizza come «contraria sapientiae», e perciò equivalente
a miseria, il multiloquium di Giuliano sarebbe messo qui sullo stesso piano
della miseria. Benchè il sillogismo, valido per il De beata uita, appaia qui
forse un po’ forzato, tuttavia il contesto della polemica contro Giuliano
sembra avvalorare la tesi proposta. Giuliano, infatti, con il suo multiloquium
ha dimostrato di essersi allontanato dalla ricerca dell’unica verità per approdare a soluzioni che tradiscono di fatto il suo «sapientiam non habere»,
quindi la sua «stultitia» e la sua miseria.
Agostino, dunque, non fa altro che agganciare, in questo caso, con
maggiore ricchezza di apporti, una problematica che è sempre stata al
fondo del suo discorso e che non è mai stata messa in discussione, dal De
beata uita fino alla stesura dell’Opus imperfectum, per una specie di petizione
d’un principio che si è solo limitato ad arricchire a proposito della sua
riflessione sul multiloquium. D’altra parte, una messa in discussione di quel
principio appare, nella logica agostiniana, davvero impensabile.
50
Vita 4, 30; CCL 29, p. 81: «Ora è opportuno – proseguii – che esaminiamo chi
non soggiace a privazione. Questi sarà l’uomo saggio e felice. Ora la stoltezza è
privazione. Il nome stesso indica privazione, poiché la parola si usa per significare
una certa improduttività e insufficienza. Considerate dunque più attentamente
con quanta diligenza gli antichi hanno foggiato tutte o, come si può vedere,
alcune parole relative a significati la cui conoscenza era indispensabile. Ormai
ammettete che lo stolto soggiace a privazione e chi soggiace a privazione è stolto.
Penso che siate anche d’accordo che l’animo stolto è vizioso e che tutti i vizi dello
spirito sono inclusi nell’unico concetto di stoltezza».
107
Il nesso «copiosa egestas», inoltre, contiene una coppia contrapposta di
concetti51, il primo dei quali sembra afferire all’ambito relativo alla felicità,
intesa come effetto della sapientia, e il secondo, di conseguenza, a quello
dell’infelicità che nasce dalla stoltezza. Si avverte, ancora, nella nostra coppia, l’ambito della metretica, tipico della gnoseologia, in quanto la felicità
si configura sempre come conseguimento pieno della conoscenza52.
Agostino, invocando implicitamente la dimensione della sapientia (la
quale rappresenta il grado più alto di conoscenza di tutte le cose) nella sua
caratterizzazione del multiloquium, sta in realtà richiamando, nel testo contro Giuliano, tutta la problematica inerente la ricerca della verità. La vera
sapienza, infatti, come più volte ribadito nel Contra academicos, non sarà mai
fine a se stessa, ma è sempre ricerca riferita alla verità. E il cercare la verità,
che è già in se stesso un trovare, non può mai prescindere dalla carità, in
quanto è la carità che rende possibile la comprensione della verità. A tal
proposito, Agostino scrive:
Non intratur in ueritatem, nisi per caritatem53.
Caratterizzando il multiloquium come un «sapientiam non habere»,
Agostino sembra sostenere la difficoltà, se non anche l’impossibilità, da
parte del ciarliero, di mettersi alla ricerca della verità, che viene altresì
ostacolata da una mancanza di caritas, che lo priva – come già detto – di
quei requisiti ritenuti fondamentali a una corretta interpretazione delle
Sacre Scritture.
Il multiloquium di Giuliano, perciò, viene a subire, in questa prospettiva, un giudizio di carattere propriamente gnoseologico. Esso, infatti, in
quanto copiosum loqui, ostacola la conoscenza dell’unica Verità, attraverso la
proliferazione di molte verità in contrasto tra loro54.
Benchè copiosum, o forse proprio perché copiosum, il multiloquium si caratterizza in realtà come un’egestas, ma – come già visto – come una «egestas
sapientiae». In questo modo, attraverso l’equazione sillogistica individuata,
51
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53
54
Cfr. nota 32 in PIZZOLATO 1987, p. 94.
Cfr. ibidem.
Faus 32, 18; CSEL 25, I, p. 779: «Non si entra nella verità, se non attraverso la
carità».
Cfr. Prol. alle Retr.
108
il multiloquium di Giuliano subisce un ulteriore giudizio di natura etica e
morale.
Per concludere, Agostino precisa come l’abbondanza e l’eccesso delle parole non siano direttamente proporzionali alla ricchezza del
senso e del contenuto che esse esprimono, o hanno la pretesa di esprimere. Nell’eccesso e nella prolissa esagerazione del “significante”, infatti,
rischiano di nascondersi l’insufficienza e la povertà del “significato”, del
contenuto semantico, mentale o emotivo dell’espressione verbale.
Scopo di tale abbondanza di parole – precisa Agostino – è quello
di crearsi degli spazi autonomi di divagazione, semplicemente riempitivi,
ma privi di un qualsiasi significato compiuto. L’inevitabile risultato di un
simile atteggiamento non può che essere quello di uno sproloquio, di un
discorso cioè lungo e prolisso, a tratti anche enfatico, ma in ultima istanza
inconcludente e vano, in cui l’ipertrofia della forma e l’ipotrofia del contenuto vengono a sovrapporsi e a coincidere all’interno di un medesimo
discorso, di cui è impossibile afferrare gli sviluppi, perché ciclicamente
riaperto da pensieri che non progrediscono linearmente, ma per ritorni
ricomprensivi.
Le argomentazioni di Giuliano, infatti, sembrano progredire ritornando su di sé, in un movimento comunicativo a spirale (che perde
tuttavia la sua stessa funzione comunicativa), senza dire nulla di nuovo
o di concreto. Esse sono, cioè, copiosae sul piano formale della quantità,
ma caratterizzate da egestas su quello del contenuto e del suo spiegarsi in
categorie di pensiero utili e subordinate alla verità.
109
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