Box di orientamento
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Direzione Generoso Andria, Napoli Gianni Bona, Novara Antonio Cao, Cagliari Liviana Da Dalt, Padova Alberto Martini, Genova Pierpaolo Mastroiacovo, Roma Luigi Daniele Notarangelo, Boston Fabio Sereni, Milano Luigi Titomanlio, Napoli Alberto Villani, Roma Redattore Capo Marina Macchiaiolo, Roma Comitato di Redazione Salvatore Auricchio, Napoli Stelvio Becchetti, Genova Sergio Bernasconi, Parma Enrico Bertini, Roma Andrea Biondi, Monza Sabrina P. Buonuomo, Roma Alessandro Calisti, Roma Mauro Calvani, Roma Virgilio Carnielli, Ancona Gaetano Chirico, Brescia Antonio Correra, Napoli Maurizio de Martino, Firenze Pasquale Di Pietro, Genova Alberto Edefonti, Milano Alberto Fois, Siena Renzo Galanello, Cagliari Carlo Gelmetti, Milano Achille Iolascon, Napoli Giuseppe Maggiore, Pisa Paola Marchisio, Milano Bruno Marino, Roma Eugenio Mercuri, Roma Paolo Paolucci, Modena Franca Rusconi, Firenze Michele Salata, Padova Fabian R. Schumacher, Brescia Alfred Tenore, Udine Redazione e Amministrazione Pacini Editore S.p.A. Via Gherardesca, 1 56121 Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 [email protected] Stampa Industrie Grafiche Pacini, Pisa Invio gratuito per i Soci SIP. Abbonamenti Prospettive in Pediatria è una rivista trimestrale. I prezzi dell’abbonamento annuo sono i seguenti: Italia € 53,00; estero € 67,00; istituzionale € 53,00; specializzandi € 30,00; fascicolo singolo € 27,00 Le richieste di abbonamento vanno indirizzate a: Prospettive in Pediatria, Pacini Editore S.p.A., Via Gherardesca 1, 56121 Pisa – Tel. 050 313011 – Fax 050 3130300 – E-mail: [email protected] I dati relativi agli abbonati sono trattati nel rispetto delle disposizioni contenute nel D.Lgs. del 30 giugno 2003 n. 196 a mezzo di elaboratori elettronici ad opera di soggetti appositamente incaricati. I dati sono utilizzati dall’editore per la spedizione della presente pubblicazione. 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Volume 38 152 Ottobre-Dicembre 2008 INDICE numero 152 Ottobre-Dicembre 2008 Editoriale Pasquale Di Pietro .....................................................................................................................................................................................191 ADOLESCENTOLOGIA (a cura di Sergio Bernasconi, Silvano Bertelloni) Novità in medicina dell’adolescenza Silvano Bertelloni, Salvatore Chiavetta, Cecilia Volta, Piernicola Garofalo, Mirella Strambi, Eleonora Dati, Sergio Bernasconi ................192 Comportamenti a rischio in età adolescenziale: aspetti medici Giuseppe Raiola, Eleonora Dati, Vincenzo De Sanctis, Maria Concetta Galati, Silvano Bertelloni ..............................................................199 Osteoporosi in età adolescenziale Giampiero I. Baroncelli, Francesco Vierucci, Silvano Bertelloni .................................................................................................................209 La sindrome metabolica in età evolutiva Lorenzo Iughetti, Patrizia Bruzzi, Barbara Predieri, Giulia Vellani, Michele De Simone .............................................................................215 MALATTIE METABOLICHE (a cura di Generoso Andria) Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico: nuove patologie, nuovi geni-malattia e novità nel campo della diagnosi e della terapia Daniela Melis, Federica Deodato, Rossella Parini, Carlo Dionisi-Vici .........................................................................................................221 Lo screening neonatale allargato per malattie metaboliche ereditarie: l’esperienza degli Stati Uniti d’America Silvia Tortorelli, Piero Rinaldo ....................................................................................................................................................................232 Terapia genica per le malattie metaboliche ereditarie Nicola Brunetti-Pierri .................................................................................................................................................................................241 FRONTIERE (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon) Riprogrammazione nucleare e cellule staminali Luigi Daniele Notarangelo .........................................................................................................................................................................249 FOCUS SU: (a cura di Generoso Andria) Il trattamento dell’emicrania nel bambino Giuliano Galli Gibertini, Laurence Morin, Laurence Teisseyre, Chantal Wood, Luigi Titomanlio .................................................................259 LINEE GUIDA (a cura di Riccardo Longhi) Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Alessandra Marchesi, Giacomo Pongiglione, Alessandro Rimini, Riccardo Longhi, Alberto Villani ............................................................266 Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica Linee Guida della Società Italiana di Pediatria Coordinatori: Maurizio de Martino, Nicola Principi ...................................................................................................................................284 Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 191 EDITORIALE I congressi SIP: da Genova a Padova Il Congresso di Genova voleva essere un segno tangibile del processo di rinnovamento della SIP e credo che abbia ampiamente colto l’obiettivo prefissato. Raramente un Congresso ha avuto una così ampia produzione scientifica e una partecipazione tanto numerosa ed assidua. Penso soltanto all’ultima sessione plenaria – la tavola rotonda sugli adolescenti – che si è svolta davanti ad un aula affollata da oltre 700 persone. Il merito di questo successo va certamente al Comitato scientifico e organizzatore, al Direttivo della SIP, al contributo dato da Società affiliate e Gruppi di studio, all’autorevolezza dei relatori e alla qualità dei loro interventi. Credo, però, che il salto di qualità che c’è stato a Genova sia essenzialmente dovuto al modo in cui il Congresso è stato vissuto dai tantissimi colleghi che vi hanno partecipato. Un Congresso celebrato non per ossequio ad una scadenza annuale, ma animato da un progetto – “La SIP tra scienza e famiglia” – condiviso e strategico per la nostra Società e la Pediatria tutta. Genova 2008 non segnerebbe, però, il momento di svolta che tutti vi abbiamo letto se rappresentasse un’eccezione a sé stante. L’impegno, mio personale e di tutto il Direttivo, è che possa essere stato l’inizio di un percorso, la cui seconda tappa sarà il Congresso di Padova 2009. “Nuove frontiere della moderna Pediatria” – come titolerà il Congresso – sarà la nostra sfida di quest’anno. E anche quest’anno – come lo ero stato per il Congresso di Genova – sono ottimista sul risultato, perché all’impegno collettivo e alla validità dei colleghi che più da vicino ne seguiranno l’organizzazione si aggiunge l’esperienza acquisita lo scorso anno. Anche a Padova avremo una ampia produzione scientifica “targata SIP” da presentare e sono certo che gli argomenti che verranno individuati per creare l’impalcatura del programma scientifico (ancora una volta in stretta collaborazione con Società affiliate e Gruppi di studio) saranno di grande interesse per moltissimi colleghi. E considero estremamente interessante e coinvolgente il tema conduttore: le nuove frontiere della Pediatria. La frontiera è ciò che ci separa dall’“oltre”; in ogni momento ed in ogni contesto c’è sempre un “oltre” e, quindi, nuove frontiere da esplorare. Ma ci sono contingenze particolari in cui potremmo dire, parafrasando Orwell, che ci sono frontiere “più frontiere” di altre. Ed è quanto sta accadendo oggi nel campo della medicina, in cui i progressi scientifici e tecnologici hanno avuto un incremento talmente rapido da rendere sempre più impegnativo il lavoro di un medico. La formazione permanete da “valore aggiunto” della professionalità del medico è ormai diventata una condizione indispensabile per svolgere in modo adeguato la professione; la qualità, nell’assistenza e nelle cure, è un elemento determinante in un contesto sociale in cui la domanda di salute da parte dei cittadini è diventata, spesso, pretesa di salute; la capacità di comunicare con interlocutori esterni all’ambito medico (dai pazienti alle Istituzioni) è un fattore essenziale per sostenere e far progredire una medicina che culturalmente ed operativamente si sta spostando sempre più dalla cura alla prevenzione. A questo si aggiunge che mai come in questo momento, come ulteriore conseguenza delle frontiere raggiunte dalla medicina, problematiche di tipo medico si interconnettono sempre più a valutazioni di carattere etico. Pensiamo solo, caso emblematico per l’area pediatrica, ai limiti di sopravvivenza dei bambini nati prematuri. Questi aspetti riguardano naturalmente tutti i settori della medicina, ma la Pediatria, se possibile, è ancora più esposta alle conseguenze di queste rapide mutazioni scientifiche ed ambientali, perché bambini ed adolescenti non solo devono essere aiutati a conservare o riacquistare il benessere fisico, ma devono essere accompagnati in un percorso evolutivo in cui gli aspetti psicologici e relazionali sono strettamente collegati con quelli fisici. Ed il pediatra deve imparare a farsene sempre più carico. Il Congresso di Padova 2009, andando ad esplorare le nuove frontiere della moderna Pediatria, sarà certamente un momento di serrato confronto e di crescita culturale per la Pediatria italiana. I presupposti e l’impegno perché ciò avvenga ci sono tutti anche perché conto, come lo scorso anno, sulla collaborazione e il sostegno di tantissimi di voi. Pasquale Di Pietro Presidente della Società Italiana di Pediatria 191 Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 192-198 ADOLESCENTOLOGIA Novità in medicina dell’adolescenza * ** *** Silvano Bertelloni, Salvatore Chiavetta , Cecilia Volta , Piernicola Garofalo , **** ** Mirella Strambi , Eleonora Dati, Sergio Bernasconi Medicina dell’Adolescenza, U.O. di Pediatria II, Dipartimento Materno-Infantile, Azienda Ospedaliero-Universitaria, * Pisa; Pediatra di Famiglia, Palermo; ** Clinica Pediatrica, Dipartimento Materno-infantile, Azienda Ospedalie*** **** ro-Universitaria, Parma; U.O. di Endocrinologia, Ospedale “V. Cervello”, Palermo; Dipartimento di Pediatria, Ostetricia e Medicina della Riproduzione, Università di Siena Riassunto L’adolescenza è un ampio periodo della vita di ogni individuo (10-18 anni), che dal punto di vista culturale e assistenziale è competenza della Pediatria. Condizioni biologiche o sociali possono ampliare i limiti dell’adolescenza. I percorsi assistenziali per gli adolescenti necessitano di una migliore organizzazione sia a livello del territorio (cure primarie e consultoriali) che dell’ospedale. Un aspetto particolarmente delicato è rappresentato dalla transizione delle cure pediatriche a quelle dell’adulto dei soggetti affetti da patologia cronica. L’ottimizzazione di questo percorso permette il completamento del naturale percorso di crescita di ogni individuo. Summary Adolescence represents a large period of life, usually from puberty onset (10-11 years) to adulthood (18 years); biological and/or social issue may anticipate or delay such limits. From a medical point of view, adolescence is part of pediatrics. The organization of care for adolescents needs to be improved both at territorial and hospital setting. More homogeneous indication for adolescent care should be assured among European countries. A main item in adolescent medicine is the transition from pediatric to adult care for children with chronic diseases. The transition should be properly organized at both primary and secondary/tertiary level to assure adequate wellbeing and care in adulthood for each individual. Introduzione L’Adolescentologia è una sub-specialità della pediatria, che si è sviluppata a partire dalla metà degli anni ’50 dello scorso secolo (Alderman et al., 2004), e rappresenta il “fisiologico” completamento del bagaglio culturale e professionale di ogni pediatra, che non può che assumersi il compito di prendersi cura del bambino dalla nascita (o meglio dalla vita prenatale) fino al completamento della sua crescita psico-fisica, cioè almeno fino al raggiungimento della maggiore età (Berg Kelly, 2007; Bertelloni e Raiola, 2007a). Questa sub-specialità è nata e si è sviluppata in considerazione del fatto che molte delle caratteristiche biologiche e psicologiche degli adolescenti, così come le loro principali cause di morbilità e mortalità hanno caratteristiche proprie, che le differenziano sia da quelle dei bambini che da quelle dell’adulto, richiedendo professionisti specificatamente dedicati e formati per questa fascia di età (Alderman et al., 2004; Bertelloni e Raiola, 2007a). In questo ambito, che comprende molteplici argomenti, si è pensato di dare spazio ad aspetti emergenti di tipo organizzativo, come quelli relativi all’assistenza dell’adolescente e alla transizione dalle cure pediatriche a quelle dell’adulto, anche tenendo conto della situazione italiana. Limiti cronologici e attività assistenziali per gli adolescenti Sebbene dal punto di vista cronologico l’adolescenza non abbia limiti rigidamente definibili, usualmente, si tende a far coincidere il suo inizio con la comparsa dei segni di sviluppo puberale ed il suo termine con il raggiungimento dell’età adulta (Tab. I) (WHO, 1975). 192 L’inizio dell’adolescenza viene pertanto uniformemente identificato intorno ai 10-11 anni, mentre il termine dell’adolescenza è meno definito (Tab. I). Un recente pronunciamento della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza ribadisce che l’adolescenza può essere generalmente collocata nel periodo tra i 10 e i 18 anni di età (Raiola et al., 2007). Tuttavia, tenendo conto della tendenza sia ad un inizio più anticipato dello sviluppo puberale sia a un più ritardato raggiungimento di un ruolo indipendente e responsabile nella società, l’adolescenza può estendersi dagli 8-9 anni fino a tutta la terza decade di vita quando condizioni mediche, neuro-psicologiche o sociali ne alterino il fisiologico decorso (Raiola et al., 2007). I pediatri dovrebbero quindi essere in grado di assicurare una adeguata presa in carico dell’adolescente e dei suoi problemi per tutto questo ampio periodo (AAP, 1972; Raiola et al., 2007). A fronte di queste indicazioni rimane tuttavia irrisolto il problema dell’assistenza pediatrica per gli adolescenti. In Italia, a livello territoriale, l’area di interesse e di competenza del pediatra di famiglia (PdF), secondo l’ultimo Accordo Collettivo Nazionale, comprende solo parzialmente l’età adolescenziale, avendo il PdF l’esclusività dell’assistenza fino al 6° anno, la possibilità (facoltativa) di seguire i propri assistiti fino al 14° anno, con l’ulteriore estensione (ma di non uniforme attuazione, a seconda dei diversi Accordi Regionali) fino al 16° anno per casi particolari e/o per patologia cronica. Eppure, secondo il Progetto Obiettivo MaternoInfantile collegato al Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 (Min. Sal., 2000), bisognerebbe “garantire ad ogni bambino-adolescente il suo pediatra e la continuità terapeutica … estendendo l’area pediatrica all’adolescenza” (Min. Sal., 2000). In questa ottica, il pieno riconoscimento dell’età adolescenziale tra le competenze del PdF Novità in medicina dell’adolescenza Tabella I. Evoluzione dei limiti cronologici dell’adolescenza negli ultimi 30 anni (Raiola et al., 2007). Organizzazione Mondiale della Sanità Società Italiana di Pediatria Paese Anno Limiti (anni) CH 1975 10-20 I 1995 11-18 Accademia Americana di Pediatria USA 1995 11-21 Società di Medicina Adolescenza USA 1995 I 2007 10–25 10-18* Società Italiana di Medicina Adolescenza * Da tenere in considerazione che: • inizio fin da 8-9 anni, se pubertà precoce/anticipata; • estensione fino alla III-IV decade di vita nel caso di individui con patologie/disordini cronici (organici o neuro-psichiatrici) o rilevanti problematiche sociali. (Bianchi, 2007), potrebbe determinare consistenti vantaggi per lo stato di salute dei giovani (Tab. II) – in prospettiva anche della popolazione in generale – assicurando livelli uniformi di assistenza specialistica per un’intera fascia di popolazione, che oggi trova spesso come unico – ma assolutamente inadeguato- riferimento per le sue necessità di salute il solo pronto soccorso (Bertelloni e Raiola, 2007b; De Sanctis et al., 2006). Il territorio potrebbe inoltre fornire risposte ai bisogni di salute degli adolescenti attraverso la pediatria di comunità e i consultori giovani. La prima rimane tuttavia poco sviluppata in Italia, essendo presente in forma ben organizzata solo in poche realtà (Farneti et al., 2007). Nei secondi, gli adolescenti, poco disponibili al confronto con modelli organizzativi rigidi e strutturati (come l’ospedale), potrebbero invece trovare “spazi riservati” non burocratizzati e quindi più adeguati alle loro esigenze (Ancora, 2005; Strambi e Lombardi, 2007). In effetti, la distribuzione dei consultori è oggi abbastanza omogenea (Tab. III) (Strambi e Lombardi, 2007). Tuttavia, le figure più rappresentate nei consultori rimangono gli psicologi ed i ginecologi, di rilievo la presenza degli assistenti sociali e delle ostetriche, mentre è ancora carente, nella maggioranza dei consultori, la figura del pediatra che con gli adolescenti dovrebbe avere un rapporto privilegiato (Bertelloni et al., 2001; Strambi et al., 2007). Ancora più rari sono altri specialisti, come dietisti, dermatologi, educatori, sociologi. I maschi continuano ad utilizzare poco le strutture consultoriali (rapporto maschi/femmine < 1/10) (Strambi e Lombardi, 2007), anche perché i principali motivi di accesso a queste strutture rimangono quelli legati alla contraccezione (Tab. IV). Recenti dati epidemiologici sugli aspetti legati all’esercizio della sessualità e sull’utilizzo di sostanze d’abuso (ISTAT, 2007; Min. Sal., 2007a; Min. Sol. Soc., 2007; Strambi e Lombardi, 2007) dimostrano tuttavia come molti obiettivi debbano essere ancora raggiunti (Tab. V) (v. anche articolo Comportamenti a rischio in età adolescenziale, pp. 199-208 di questo stesso fascicolo). Dovranno quindi essere sviluppate nuove modalità di approccio alla prevenzione, che rendano il rapporto degli adolescenti con la “parte tecnica” più vivace, attuale e in grado di suscitare maggiore curiosità e interesse. Sarà inoltre necessario una maggiore interazione con la famiglia, fino ad oggi troppo spesso lasciata “fuori” dai consultori, abbattendo barriere culturali ancora esistenti, ed affrontando con maggiore serenità i vari temi, indipendentemente dalle convinzioni ideologiche (Strambi e Lombardi, 2007). Il mondo pediatrico è probabilmente il solo in grado di dare un contributo importante alla soluzione del problema, con una visione globale delle varie problematiche (cioè non legate a una disciplina specialistica). Il pediatra ha infatti la possibilità di operare un coinvolgimento di tutti gli attori del sistema (minori, famiglie, consultori, scuola, istituzioni) individuando un percorso che già ben prima dell’adolescenza sviluppi un processo pedagogico di educazione a corretti stili di vita (sessuale, alimentare, voluttuaria, ecc.). Si tratta quindi di ripensare i metodi della comunicazione e del funzionamento dei consultori per realizzare una educazione sanitaria più efficiente ed efficace (Bianchi, 2007; Strambi e Lombardi, 2007). Questo nuovo ruolo consultoriale potrebbe forse essere svolto da una figura di “pediatra della scuola” (Bianchi, 2007; Burgio et al., 2007), for- Tabella II. Alcuni interventi assistenziali del PdF e possibili ricadute sulla salute degli adolescenti (Bertelloni e Raiola, 2007a). Tipo di intervento Ricadute sulla salute degli adolescenti Estensione dei bilanci di salute per l’adolescente omogeneamente in tutte le regioni * Monitoraggio dello sviluppo psico-fisico fino al completamento Educazione sanitaria (con particolare riguardo a fumo, alcool, droga, attività sessuale, nutrizione, incidenti stradali, attività fisica, rapporti sociali …) Intercettazione di specifiche patologie adolescenziali maschili e femminili Risoluzione del problema del minor accesso degli adolescenti maschi ai servizi sanitari Collaborazione con i servizi sociali Individuazione e presa in carico precoce delle situazioni di disagio adolescenziale legate a devianze, emarginazione, maltrattamenti, immigrazione Protocolli operativi per malattie croniche Miglioramento dell’assistenza domiciliare integrata per gli adolescenti con patologia cronica. * Da organizzare mediante modalità di chiamata attiva secondo un progetto “Salute adolescenza” analogo a quello “Salute infanzia” (Bianchi, 2007; De Sanctis et al., 2006). 193 S. Bertelloni et al. Tabella III. Attività consultoriali per adolescenti in Italia (Strambi e Lombardi, 2007). Area 1996 2002 Nord 34,2% 29,2% Centro 22,4% 22,0% Sud 27% 30,6% Isole 16,4% – Tabella IV. Principali motivi di accesso al Consultorio giovani di Siena (Strambi e Lombardi, 2007). Motivo consultazione % Gestione della contraccezione, difficoltà psicologiche e relazionali 33 Informazioni sulla contraccezione e visita ginecologica 17 Consulenza per problemi di pediatria generale 12 Consulenza per problemi dermatologici 8 Richiesta di aiuto per problemi di rapporto col cibo 7 Richieste di informazioni sul funzionamento del consultorio Altro 6 17 mato in modo da utilizzare un “linguaggio” particolarmente idoneo ai fini di una comunicazione più efficace nei confronti dei giovani ed operare con interventi globali sulle tematiche di salute (Raiola et al., 2007), superando i “vecchi” programmi centrati sulle malattie e sulle situazioni a rischio ed orientando maggiormente la prevenzione verso il sostegno ai bisogni naturali di crescita, piuttosto che alla sola riduzione dei fattori di rischio” (Bertelloni e Raiola, 2007b; Strambi e Lombardi, 2007; Burgio et al., 2007). Sarebbe inoltre auspicabile una maggiore flessibilità di questo pediatra, potendosi ipotizzare un suo intervento in ambiti assistenziali differenti (scuola, territorio, ospedale) in modo da rappresentare un punto fisso di riferimento per l’adolescente (Bertelloni e Raiola, 2007a e 2007b; Bianchi, 2007; Strambi e Lombardi, 2007). Potrebbe essere utile anche l’istituzione di veri e propri bilanci di salute alla famiglia con metodologia sistemico-relazionale per dare nuove risposte ai problemi comportamentali (De Luca et al., 2009). Il terzo attore nell’assistenza all’adolescente è l’ospedale. Nell’agosto 1987, il Consiglio Superiore di Sanità riconosceva l’opportunità del ricovero dell’adolescente in strutture pediatriche (Bertelloni et al., 2007a). A oltre 20 anni da quella indicazione, la situazione rimane del tutto insoddisfacente. A fronte di un ricovero in Area pediatrica di oltre il 95% dei bambini nel primo anno di vita, solo il 51% di quelli tra 5 e 14 anni trova assistenza nei reparti a loro dedicati (Bertelloni et al., 2007a; Bertelloni e Raiola, 2007a). Se poi si considera l’età adolescenziale più elevata (15-18 anni) solo il 12% dei soggetti trova assistenza in Area pediatrica, mentre il restante 88% è ricoverato in reparti per adulti e quindi assistito da personale medico e paramedico non adeguatamente formato per le necessità dei minori (Bertelloni et al., 2007a; Bertelloni e Raiola, 2007a). Questo dipende probabilmente non solo dal mancato riconoscimento ufficiale dell’adolescente come paziente pediatrico in molte aziende ospedaliere e dalla tendenza dei reparti specialistici dell’adulto a ricoverare gli adolescenti (Bertelloni et al., 2007a; Min. Sal., 2007b), ma anche dal fatto che la grande maggioranza delle Pediatrie italiane non ha operato una riqualificazione professionale e strutturale/alberghiera.Continuano quindi a mancare spazi specificatamente dedicati a questi pazienti, troppo spesso trattati dal personale medico e paramedico pediatrico come bambini (Bertelloni et al., 2007a; Bertelloni e Raiola, 2007a; Min. Sal., 2007b), negando nel momento del ricovero la loro differente identità e trascurando, a volte anche dal punto di vista comunicativo verbale e non verbale (Bertelloni e Raiola, 2007a), un loro maggiore coinvolgimento nei percorsi di cura e nell’acquisizione del consenso informato (Locatelli, 2007). Si dovrebbe invece realizzare un adattamento delle strutture pediatriche di ricovero in senso adolescentologico, attivando, oltre a servizi ambulatoriali e day hospital con orari ed accessi dedicati – separati da quelli per i bambini più piccoli – un numero adeguato di posti letto per adolescenti in aree di degenza specifiche con arredi e cartellonistica adeguati (Bertelloni e Raiola, 2007a; Bianchi, 2007; De Sanctis et al., 2006); cioè dopo aver reso i reparti pediatrici a misura di bambino si dovrebbe essere in grado di trasformarli a misura di adolescente (Bertelloni e Raiola, 2007a; De Sanctis et al., 2006). Le attività di adolescentologia dovrebbero essere sviluppate attraverso collaborazioni interdisciplinari a rete con tutti i professionisti interessati alla salute dell’adolescente sia a livello ospedaliero che territoriale, prevedendo anche una interazione con il mondo della scuola e la realizzazione di programmi di educazione medica continua in modo da realizzare una struttura trans-murale (Bertelloni e Raiola, 2007a; De Sanctis et al., 2006), finalizzata a “promuovere la correttezza e l’efficacia dell’assistenza – ospedaliera e territoriale – nei confronti degli adolescenti” (Bianchi, 2007). Tuttavia, la situazione italiana non è assolutamente isolata. In ambito Tabella V. Alcuni indicatori della salute dell’adolescente: variazioni negli anni. Indicatore I rilevazione II rilevazione Referenza bibliografica Uso di contraccezione nei primi anni dopo l’inizio dei rapporti sessuali (età 14-25 anni) 1987: 55% 2005-2006: 54,5% Strambi e Lombardi, 2007 Interruzione volontaria di gravidanza (età < 20 anni) 1983: 8,0‰ 2005: 7,6‰* Ministero della Salute, 2007 Consumo di alcolici fuori pasto (età 14-17 anni) 1998: 9,7% 2006: 20,5% ISTAT, 2007 Uso di cannabis negli ultimi 12 mesi (età 15-24 anni) 2001: M: 15% - F: 8% 2005: M: 22,0% - F: 17,5% Ministero della Solidarietà Sociale, 2007 Uso di cocaina negli ultimi 12 mesi (età 15-24 anni) 2001 M: 2,8% - F: 1% 2005: M: 4,1% - F: 2,6% Ministero della Solidarietà Sociale, 2007 * Da notare, la riduzione nelle donne di 25-29 anni: 1983: 27,6‰; 2005: 15,3‰ (–44.6%). 194 Novità in medicina dell’adolescenza Tabella VI. Assistenza pediatrica per gli adolescenti: situazione europea (Ercan et al., 2009). Età massima (anni) di competenza della pediatria in Europa Paesi EU Assistenza territoriale Assistenza ospedaliera Paesi extra-EU Assistenza territoriale Assistenza ospedaliera Bulgaria 18 18 Albania 14 14 Danimarca 0 16 Georgia 14 14 Estonia – 18 Israele 18 18 Finlandia 16 16 Macedonia 18 18 Francia 6 18 Russia 18 18 Germania 18 18 Serbia 18 18 Grecia 20 14 Svizzera − 16 Italia 14 18 Turchia 18 18 Lituania 18 18 Ucraina 18 18 Lussemburgo 14 14 Olanda – 16 Norvegia 16 16 Portogallo – 18 Regno Unito 16 16 Rep. Ceca 19 19 Romania 19 19 Slovenia 19 18 Spagna 14 14 Svezia 19 19 Ungheria 14 14 europeo, vige ad esempio una grande variabilità per quanto riguarda l’assistenza pediatrica territoriale ed ospedaliera agli adolescenti (Tab. VI) (Ercan, 2009), sottolineando la necessità di realizzare una maggiore integrazione tra le esperienze e le normative dei vari paesi almeno a livello di Unione Europea (Bertelloni et al., 2007b; Bertelloni et al., 2009). In sintesi, sebbene a livello teorico non esistono ormai dubbi sul fatto che l’adolescenza è un ambito di competenza della pediatria (Burgio, 2003) (Tab. VII), permane la necessità di migliorare l’offerta assistenziale pediatrica per tutta questa fascia di età con scelte più omogenee e trasparenti in termini di politica sanitaria, formazione e organizzazione dei servizi (Bertelloni e Raiola, 2007a; Raiola et al., 2007; De Sanctis et al., 2006; Ercan et al., 2009; Bertelloni et al., 2007b). In questa ottica, del tutto recentemente, è stato proposto un progetto di legge che cerca di riordinare, almeno in Italia, tutta questa complessa materia, riconoscendo ufficialmente le competenze pediatriche sull’età adolescenziale sia a livello territoriale che ospedaliero e indicando anche dei modelli di transizione dalle cure pediatriche a quelle dei medici dell’adulto per tutti gli adolescenti (Bianchi, 2007). L’attuale attenzione a questa delicata fase di “care” nasce dal fatto che: Il problema della transizione dalle cure pediatriche a quelle dell’adulto • la strutturazione della fase di transizione non sembra essere ancora sufficientemente adeguata, come risulta anche da una recente indagine in Italia, che ha messo in evidenza come il 50% dei medici coinvolti non si ritenga soddisfatto dei risultati raggiunti (Volta et al., 2003). Dati analoghi sono stati rilevati anche da autori statunitensi e britannici, che hanno sottolineato come non si sia ancora raggiunto un grado ottimale di organizzazione di questo processo (Reiss e Gibson, 2002). La Società Americana di Medicina dell’adolescente ha definito la transizione come “un passaggio, programmato e finalizzato, di adolescenti e giovani adulti affetti da problemi fisici e medici di natura cronica da un sistema di cure centrato sul bambino ad uno orientato sull’adulto” (Blum et al., 1993). • l’evoluzione delle conoscenze mediche ha nettamente migliorato la prognosi e la sopravvivenza di molte malattie croniche e/o disabilità, tanto che oltre il 90% dei bambini che nascono affetti da tali condizioni o le sviluppano in età pediatrica ha oggi un’aspettativa di vita notevolmente aumentata e stimata spesso ben oltre i 20 anni d’età (Gortmaker e Sappenfield, 1984; Rosen, 1995); • la transizione clinica è un processo multidimensionale e multidisciplinare, volto non solo ad occuparsi delle necessità cliniche della persona nel passaggio dalla pediatria alla medicina specialistica dell’adulto, ma anche delle esigenze psicosociali, educative e professionali. Si tratta dunque di un delicato processo dinamico, incentrato sul paziente, che deve garantire continuità, coordinazione, flessibilità, sensibilità, secondo linee guida prestabilite con una grande attenzione alle esigenze individuali (Viner, 2008); 195 S. Bertelloni et al. Tabella VII. Definizione dell’area di competenza pediatrica (Bertelloni et al., 2009). Tabella VIII. Differenze tra i modelli di cure delle Unità Operative Pediatriche e quelle dell’adulto. European Accademy of Pediatrics/UNEPSA* CESP/EAP** Caratteristiche del modello pe- Caratteristiche del modello aduldiatrico to Le cure pediatriche sono definibili come l’assistenza medica degli individui durante la crescita e fino al completamento dello sviluppo, cioè dalla nascita a 18 anni. Le cure pediatriche sono rappresentate dall’assistenza medica a bambini e adolescenti fino al completamento della crescita e dello sviluppo. Consultazione familiare * The Union of National European Paediatric Societies and Associations ** Confederation of European Specialists in Pediatrics (specialist section of pediatrics of the European Union of Medical Specialists (UEMS)/European Accademy of Pediatrics Consultazione individuale Team multidisciplinare e supporto Supporto di team limitato psicosociale Numero di pazienti relativamente Numero di pazienti elevato ridotto Competenze specifiche per malat- Scarsa esperienza per malattie rare tie rare pediatriche ad insorgenza in età pediatrica Liste di attesa ridotte Liste di attesa prolungate Sostegno dai coetanei/associazio- Assenza di supporto dai gruppi di ne famiglie coetanei Gli ostacoli che rendono difficile la transizione possono manifestarsi a vari livelli: • da parte del team pediatrico, ad esempio, per il legame affettivo con il paziente, per la non completa fiducia o conoscenza delle strutture internistiche soprattutto riguardo a malattie solo recentemente arrivate alla cura dei medici dell’adulto (es. malattie metaboliche), per l’interesse scientifico nel follow-up del paziente; • da parte dell’adolescente o giovane adulto, per la paura di affrontare un ambiente sconosciuto in cui può non avere un referente fisso, per l’assenza dell’appoggio dei familiari, che gli internisti tendono a coinvolgere molto meno intensamente rispetto a quanto venga fatto dai pediatri e per l’assenza di un ambiente dedicato alla sua età; • da parte della famiglia, che non si sente più un interlocutore importante per il medico, anche se spesso continua a rappresentare per il giovane affetto da patologia cronica un sostegno indispensabile, anche dal punto di vista economico e sociale, con conseguente sentimento di esclusione riferito dai genitori all’atto della transizione. Infine è indubbio che la medicina dell’adulto è praticata in un ambiente dove ci si attende che il paziente sia completamente autonomo, diversamente dal modello pediatrico di assistenza, incentrato su una gestione della malattia più di tipo “familiare”. Nella Tabella VII sono riassunte alcune delle più importanti differenze tra servizi pediatrici e quelli dedicati all’adulto (Watson, 2005). In pratica, nel nostro paese, la transizione è largamente frammentaria e pertanto mantiene i caratteri della volontarietà spontaneistica di cui si fanno carico fra mille difficoltà gli operatori sanitari di singole ed illuminate realtà locali. Manca una cultura specifica allargata agli amministratori, mancano i luoghi stessi della transizione; in questo panorama globale il più delle volte la transizione diventa una realtà largamente disattesa se non addirittura omessa. Prendendo in considerazione questi ed altri fattori che possono rendere difficile la gestione di questa fase, sono comparsi in letteratura pediatrica differenti programmi di transizione, senza però che emergesse un modello unico, privilegiato e scientificamente validato (Viner, 2008; Rosen, 1995; Reiss e Gibson, 2002). Il primo modello – disease-based – è attualmente molto diffuso in USA ed Australia; consente ai ragazzi con specifiche patologie di transitare in un ambulatorio co-gestito per un certo tempo da uno 196 specialista pediatra e da un medico dell’adulto: tipico esempio l’ambulatorio diabetologico condiviso (joint-clinic); si tratta di un’esperienza abbastanza seguita anche nel nostro paese. Il secondo modello assistenziale, prevede invece spazi dedicati ai ragazzi dove le figure tutoriali siano esperti non di patologia ma d’area assistenziale. In sostanza si tratta di formare ed attivare sevizi propri rivolti all’adolescenza. L’obiettivo strategico, anche se dispendioso, è di imbastire una rete globale orientata alla gestione del paziente in età transizionale, alla quale aggregare anche i medici di cure primarie siano essi pediatri di famiglia o medici generalisti. Indipendentemente dal modello, alcune raccomandazioni generali devono essere tenute presenti nel tentativo di organizzare una propria modalità di transizione: • età del trasferimento: non esiste un “momento” fisso anche se molti considerano i 18 anni oppure l’età in cui viene lasciata la scuola come età a cui fare riferimento in modo flessibile, poiché ciò che conta è la maturità raggiunta dall’adolescente nella gestione della propria malattia (Viner, 2008); Tabella IX. Informazioni essenziali da includere nella relazione clinica (Kripalani et al., 2007). Diagnosi primaria e secondaria Storia clinica e reperti obiettivi rilevati Periodo di ricovero, terapie somministrate e breve diario clinico(in caso di ricovero) Risultati di procedure diagnostiche e test di laboratorio Raccomandazioni inerenti ulteriori consulenze specialistiche necessarie Informazioni fornite al paziente e/o alla sua famiglia riguardanti lo stato di malattia Aggiornamento sulle presenti condizioni cliniche del paziente Piano terapeutico aggiornato, con eventuali motivazioni in caso di variazioni ed indicazioni relative alla prescrizione di nuovi farmaci Informazioni dettagliate inerenti a tempi e modalità di follow-up e test diagnostici da effettuare in tale regime Eventuali servizi socio-assistenziali attivati Nome e recapito del medico ospedaliero responsabile di ambulatori per “giovani” Novità in medicina dell’adolescenza • periodo di preparazione e programma di educazione: da iniziarsi nella prima parte dell’adolescenza che tenda a “far comprendere la natura della malattia, il razionale del trattamento, la causa dei sintomi e a far riconoscere un eventuale peggioramento e le misure per contrastarlo oltre che le modalità per chiedere l’aiuto del personale sanitario e per orientarsi nel sistema sanitario” (Viner, 2008); • processo coordinato di trasferimento: va sviluppata e realizzata un’azione congiunta (ad esempio ambulatorio di transizione) con la struttura degli adulti destinata a seguire il singolo paziente, che permetta una reciproca conoscenza e un passaggio coordinato di consegne tra le équipes mediche. Nei sistemi sanitari anglosassoni un ruolo importante in questo senso viene svolto dal personale infermieristico. Sia l’incontro tra il paziente ed il futuro specialista, prima della transizione clinica, sia la presenza del pediatra, durante la prima visita presso la medicina dell’adulto, sembrano essere di notevole efficacia nel successo del trasferimento. Indubbiamente, una vicina localizzazione dei due servizi, eventualmente all’interno dello stesso complesso ospedaliero, agevola la compliance al cambiamento (Vanelli et al., 2004). A questo proposito tra le carenze segnalate nel nostro studio (Volta et al., 2003) emerge la mancanza di comunicazione tra pediatri ed internisti/specialisti dell’adulto, unitamente alle rispettive differenze nella gestione e nel trattamento della patologia cronica. Questo sottintende essenzialmente l’assenza di linee guida condivise da entrambe le figure professionali coinvolte. • Coinvolgimento del pediatra di famiglia e/o del medico di base: in molte esperienze è stata segnalata la scarsa partecipazione del medico delle cure primarie (pediatra di base o medico di me- dicina generale) al processo di transizione; al contrario, si tratta di una figura professionale indispensabile che dovrebbe essere intensamente coinvolta nell’intero processo. Questa situazione è spesso riconducibile alla scarsa capacità di comunicazione tra i medici specialisti delle strutture ospedaliere ed i medici del territorio, per cui informazioni ritardate, imprecise o frammentarie, spesso riportate dal paziente al medico di base possono determinare influenze negative che tendono a ripercuotersi sul paziente, sulla continuità assistenziale, nonché sul personale rapporto di fiducia medico/paziente (Kely et al., 2002). La relazione clinica scritta dovrebbe quindi rappresentare il metodo per documentare i percorsi diagnostico-terapeutici realizzati dallo specialista, fornendo al medico di famiglia gli elementi necessari alla co-gestione del paziente. Le informazioni da includere nelle relazioni cliniche secondo la American Medical Association (Kripalani et al., 2007) sono elencate nella Tabella VII. Dal punto di vista organizzativo, il miglioramento della comunicazione potrebbe realizzarsi anche attraverso la possibilità di creare un archivio tecnologico di facile consultazione, che contenga tutte le relazioni cliniche riguardanti il paziente, in modo da garantire l’accesso ad una storia clinica il più possibile completa ed aggiornata a tutti i professionisti coinvolti nel processo di care. In conclusione, appare oggi indispensabile che i vari “attori” che possono svolgere un ruolo nella fase della transizione (personale sanitario e amministrativo, società scientifiche, responsabili di strutture sanitarie, associazioni di genitori, ecc.) elaborino, nelle varie realtà in cui i pazienti si trovano a vivere, dei percorsi che da un lato facilitino il passaggio dall’organizzazione pediatrica a quella dell’adulto e che dall’altro garantiscano il completo soddisfacimento di quel concetto di care globale, che viene oggi considerato indispensabile per un’assistenza di qualità. Box di orientamento • • • L’adolescenza inizia intorno a 10-11 anni e il suo termine può essere posto al raggiungimento della maggiore età (18 anni). Tenendo conto della tendenza sia a un inizio più anticipato dello sviluppo puberale sia a un più ritardato raggiungimento di un ruolo indipendente e responsabile nella società, l’adolescenza può estendersi dagli 8-9 anni fino a tutta la terza decade di vita quando condizioni mediche, neuro-psicologiche o sociali ne alterino il fisiologico decorso. I percorsi assistenziali per adolescenti necessitano di essere ottimizzati sia a livello territoriale che a livello ospedaliero. La transizione dalle cure pediatriche a quelle dell’adulto rappresenta un fattore cruciale per assicurare un’adeguata assistenza e una crescita psicologica e sociale ottimale agli adolescenti con patologia cronica. Tale transizione può essere effettuata secondo alcuni modelli sperimentati ma ancora troppo poco diffusi in Italia. Bibliografia Alderman EM, Rieder J, Cohen MI. The history of adolescent medicine. Pediatr Res 2004;54:137-47. American Academy of Pediatrics, Council on Child Health. 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Pediatria II, Dipartimento Materno-Infantile Ospedale Santa Chiara, via Roma 67, 56125 Pisa • E-mail: [email protected] 198 Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 199-208 ADOLESCENTOLOGIA Comportamenti a rischio in età adolescenziale: aspetti medici Giuseppe Raiola, Eleonora Dati*, Vincenzo De Sanctis**, Maria Concetta Galati***, Silvano Bertelloni* U.O.S. di Auxoendocrinologia e Medicina dell’Adolescenza, U.O. di Pediatria, A.O. “Pugliese-Ciaccio” Catanzaro; * Sezione di Medicina dell’Adolescenza, Dipartimento di Materno-infantile, A.O.U. Pisana, Pisa; ** U.O. di Pediatria e Adolescentologia, A.O.U. di Ferrara, Arcispedale “S. Anna”; *** U.O. di Emato-oncologia Pediatrica, A.O. “PuglieseCiaccio” Catanzaro Riassunto Si definisce adolescenza il periodo della vita che inizia con la comparsa dei primi segni morfo-funzionali e/o psicosociali di maturazione puberale e si conclude con l’acquisizione, nell’ambito della società, dell’indipendenza e di un ruolo responsabile. È un periodo che può essere definito “a rischio” e in cui si deve attuare un valido piano di prevenzione e di promozione alla salute. In questo lavoro vengono esaminati alcuni aspetti medici dei principali comportamenti a rischio nell’adolescente. Summary Adolescence may be defined as period starting at puberty onset – considering both the physical and psychological changes – and ending with the acquisition of an independent and responsible role in society. This season of the life represent a particular period which, above all, are defined as “at risk” and along which valid prevention and health promotion programs should be efficiently put into practice. This paper examine some health related problems of adolescent taking-risk behaviours. Introduzione L’adolescenza rappresenta il periodo di transizione dall’infanzia all’età adulta e, oltre a varie condizioni mediche o psicologiche, anche aspetti comportamentali e condizioni di disagio sociale ne possono alterare il fisiologico decorso con ripercussioni negative non solo in questa età ma per tutta la vita. I dati sulla “Situazione sanitaria del Paese” (Min. Sal., 2008a) dimostrano una situazione particolarmente preoccupante per quanto riguarda alcuni comportamenti degli adolescenti, come alimentazione, abuso di sostanze (alcol, tabacco, droga), precoce inizio dell’attività sessuale, suggerendo che i programmi di prevenzione fino ad oggi finanziati non hanno dato i risultati sperati (Bertelloni e Raiola, 2007). Stanno inoltre emergendo nuovi problemi di salute, come testimoniato anche dalla cronaca quotidiana, legati al fenomeno del bullismo, che troppo spesso sfocia in atti di vera e propria criminalità minorile (Burgio e Verri, 2007), del doping (Zuccaro et al., 2006), delle modificazioni del corpo (Raiola et al., 2006), degli incidenti (WHO, 2008). In questo articolo saranno presi in esame alcuni dei problemi comportamentali degli adolescenti, facendo riferimento, per quanto possibile, a dati epidemiologici italiani. Alimentazione Le mutate condizioni di vita familiare e lavorativa, il consumismo, la moda e la pubblicità influiscono spesso in maniera negativa sul comportamento alimentare dei giovani (WHO, 2004; Bertelloni et al., 2007). Sempre più frequentemente gli adolescenti mangiano troppo, con incremento di sovrappeso/obesità (Fig. 1) (Lobestein e International Obesity Task Force, 2005), o troppo poco, con disturbi che va- Prevalenza Sovrappeso % Figura 1. Andamento del sovrappeso in Europa nei ragazzi di età scolare e confronto con i dati attesi in rapporto all’incremento dei dati di prevalenza negli anni 1980-1990 (da IOFT, Childhood Obesity Report, 2004; Lobestein, 2005). riano dal semplice “dieting” all’anoressia nervosa (Tab. I) (Gonzales, 2007; Morris e Twaddle, 2007). Gli adolescenti comunque troppo spesso mangiano male e, non infrequentemente, utilizzano il cibo sia come strumento autolesivo che di socializzazione (Curie et al., 2004). In effetti, nell’adolescenza il corpo rappresenta lo specchio di un processo evolutivo psico-somatico e anche un importante elemento di relazione con l’ambiente esterno. In questa epoca può quindi facilmente verificarsi un’insoddisfazione per il proprio corpo e per la propria immagine, che risultano alla base degli alterati comportamenti alimentari. Tale situazione è oggi accentuata dai media che propongono modelli standardizzati di bellezza in cui è dominante da un lato l’ideale della donna alta e magra dall’altro quello dell’uomo alto, aitante e muscoloso (Bertelloni et al., 199 G. Raiola et al. Tabella I. Disturbi della condotta alimentare: dati epidemiologici (III causa di patologia cronica in adolescenza [dopo obesità e asma] I causa di morte per malattie psichiatriche in età adolescenziale e adulta). Sesso Rapporto F: M Età, anni Frequenza, % Anoressia nervosa Bulimia nervosa femminile femminile 9:1* 20:1/30:1 8-24 (picco 14-17) 16-35 0,4-3,7 1,2-4,2 Classi a rischio medio-alte** medio-alte** Paesi a rischio occidentali (razza bianca) occidentali (razza bianca) * con variazioni in rapporto all’età: prepuberi 1:1; prima/media adolescenza 1:10; tarda adolescenza 1:20 (Gonzales, 2007); ** attualmente, tendenza alla diffusione in tutta la popolazione (Gonzales, 2007; Morris e Twaddle, 2007). 2007; Strasburger, 2004); di fatto questa esasperata enfatizzazione della linea e della forma non trasmette messaggi positivi ai fini di una sana alimentazione e di una corretta attività motoria, rischiando di indurre, in uno status psicologico particolarmente vulnerabile come quello degli adolescenti, comportamenti alimentari incongrui, a volte nevrotici (Bertelloni e Raiola, 2007). Questo è favorito anche dall’“inganno” dei prodotti pubblicizzati, usualmente ipercalorici o nutrizionalmente squilibrati (Maffeis, 2006), ma consumati nei media da interpreti con perfette silhouette, caratterizzazione “positiva” e spesso praticanti scarsa attività fisica (Bertelloni et al., 2007; Klein, 2005). Di conseguenza, si assiste sempre più frequentemente a giovani che si sottopongono a diete nutrizionalmente scorrette, a volte associate a un eccesso di attività fisica, anche in ambienti dove il rischio doping è particolarmente presente (Zuccaro et al., 2006), a volte a inattività, anche perché la pratica di attività sportive spesso si riduce in adolescenza, in particolare nelle ragazze (Kimm et al., 2002; Brodersen et al., 2007). Inoltre, sebbene per gli adolescenti il cibo possa rappresentare un’importante “momento” di socializzazione, si tratta quasi sempre di alimenti consumati nei fast food e nei pub, anche questi caratterizzati da un eccesso di calorie, grassi saturi, colesterolo, sale, zucchero e una scarsa quantità di fibre, vitamine e sali minerali (Maffeis, 2006; Brodersen et al., 2007). Altre osservazioni hanno messo in evidenza che la grande maggioranza di quelli che vengono definiti “suggerimenti commerciali” trasmessi durante i programmi televisivi per minori nei vari paesi europei incoraggia il consumo di alimenti nutrizionalmente non adeguati per un adolescente (WHO, 2004; Maffeis, 2006). Alcol L’alcol viene usualmente considerato dalla popolazione come un alimento, per cui sia il suo uso che il suo abuso sono spesso non etichettati come comportamenti a rischio. Probabilmente anche per tale motivo, il consumo di alcol tra i giovani è un fenomeno in costante aumento e preoccupante (Fig. 2) (ISTAT, 2007). Ma l’alcol è una sostanza psicotropa capace di indurre dipendenza. Un recente studio ha dimostrato che il 15% dei soggetti alcol-dipendenti ha sperimentato la sua prima dipendenza prima dei 18 anni, il 47% prima dei 21 e circa 2/3 prima dei 25 anni (Hingson, 2006). Inoltre, i soggetti con più precoce alcol-dipendenza sperimentano ricadute “croniche” e soprattutto richiedono più tardivamente un intervento terapeutico rispetto a quelli con dipendenza esordita in età più avanzata (Hingson, 2006). Negli USA l’alcol è ritenuto uno dei maggiori problemi di salute pubblica e riguarda circa il 90% degli studenti di scuola media superiore 200 Figura 2. Andamento del consumo di alcolici fuori pasto (ultimi 10 anni) negli adolescenti di 14-17 anni: Δ-incremento 1998/2007: Totale +62,7% Maschi +49,3% Femmine +84,5% (ISTAT, 2007) (Min. Sal., 2006), avendo anche un ruolo chiave nel determinare le quattro prime cause di morte tra gli adolescenti: incidenti stradali, ferimenti non intenzionali, omicidi e suicidi (Raiola et al., 2004). Nell’Unione Europea (UE), l’alcol è responsabile della morte di circa 200.000 persone/anno (WHO, 2005), per cause che vanno dagli incidenti stradali, agli omicidi, suicidi, cirrosi epatica, patologie neuropsichiatriche e depressione, cancro; ed è attribuito all’alcol il 25% della mortalità giovanile tra i maschi e il 10% tra le femmine. Si stima inoltre che i prodotti alcolici siano responsabili del 9% del carico totale di malattia con un costo sociale e sanitario pari al 3-5% del Prodotto Interno Lordo europeo (Raiola et al., 2004; WHO, 2005). Nel nostro paese, tra il 1980 e il 2001 si è verificata una diminuzione del consumo medio pro-capite di alcol (–33,3%), dovuto in gran parte al forte calo dei consumi di vino (Raiola et al., 2004). Negli ultimi anni questa tendenza sembra invece essersi interrotta; tra il 2001 e il 2003 il consumo medio pro-capite di alcol è passato da 9,1 litri a 10,5 litri nella popolazione al di sopra di 15 anni; tra il 1998 ed il 2006 si è inoltre avuto un impressionante aumento del consumo di alcolici fuori pasto nella popolazione 14-17 anni con un aumento complessivo di circa il 50% nei maschi e di oltre l’80% nelle femmine (Fig. 2), anche se i dati 2007 dimostrano una leggera flessione almeno per i maschi (Fig. 2) (ISTAT, 2007). Particolarmente Comportamenti a rischio in età adolescenziale: aspetti medici preoccupante appare il dato relativo ai ragazzi tra gli 11 e i 15 anni, per i quali vige il divieto di somministrazione di alcolici (Legge 30 marzo 2001, n. 125: Legge quadro in materia di alcol e problemi alcol-correlati) tra i quali quasi il 20% dichiara di aver bevuto alcolici nel corso del 2005 (ISTAT, 2007). La Tabella II dimostra inoltre che il consumo di almeno una bevanda alcolica/die rimane più frequente nei maschi rispetto alle femmine per ogni fascia di età e che l’uso quotidiano sta probabilmente aumentando in particolare nelle fasce più giovani (Tab. II) (ISTAT, 2007; Raiola et al., 2004). L’analisi qualitativa dimostra che gli adolescenti assumono ogni tipo di bevanda alcolica (vino, birra e superalcolici) (Raiola et al., 2004); sta divenendo inoltre comune l’uso degli alcol-pops. Si tratta di bevande a basso tenore alcolico (5-6%), dal colore invitante, dal sapore dolce e gradevole, presentate come “trasgressive”, caratteristica che le rende ricercate dai giovani. Date le loro caratteristiche organolettiche, può non essere percepita la quantità reale di alcol assunto con possibile intossicazione acuta e/o induzione di dipendenza (Raiola et al., 2004). In aumento è il rito dell’happy hour (per 17,4% delle teenagers è questa l’occasione principale per bere alcolici) e il numero di giovani che bevono fuori pasto per ubriacarsi o per fare baldoria (il cosiddetto binge drinking, cioè l’abuso concentrato in singole occasioni). A questo proposito, merita di essere rilevato che nel 2005 quasi il 50% dei giovani maschi tra i 20 e i 29 anni ed il 14,6% di quelli fra i 18 e 19 anni ammette di essersi ubriacato almeno una volta (ISTAT, 2007; Hingson, 2006; Raiola et al., 2004). Tale fenomeno riguarda anche gli adolescenti di età inferiore a quella legale per la somministrazione di bevande alcoliche (16 anni), tra i quali ammette di essersi ubriacato almeno una volta il 3,2% (Hingson, 2006; Raiola et al., 2004). L’alcol può avere un effetto negativo su diversi aspetti della qualità di vita, danneggiando la salute, la felicità, la vita familiare, le amicizie, lo studio, il lavoro e/o le opportunità di lavoro e, conseguentemente, la situazione finanziaria (Raiola et al., 2004). Inoltre, il consumo di sostanze alcoliche si associa spesso al consumo di sostanze stupefacenti (Ellickson PL et al., 1992), induce problemi di comportamento, scadenti performance scolastiche (Mason e Windle, 2001), anche legate a fenomeni di maggiore assenteismo (Gruber et al., 1996), condotte sessuali a rischio (Bailey, 1999; Flisher e Chalton, 2001), interferendo con la normale transizione dall’età adolescenziale a quella adulta (Schulenberg et al., 1996). La riduzione dei danni causati dall’alcol è una delle più importanti azioni di salute che gli stati dovrebbero favorire per migliorare la qualità della vita, attraverso una efficace azione di educazione, informazione e prevenzione (Hingson, 2006; Raiola et al., 2004; WHO, 2005), erudendo i giovani sui possibili effetti negativi del consumo occasionale o abituale di alcol sullo stato di salute (WHO, 2005; EU Commission, 2006). Questa attività di prevenzione dovrebbe cercare di salvaguardare gli adolescenti anche dalle pressioni mediatiche; il consumo d’alcol, infatti, viene proposto come parte normale, integrante ed appagante, della vita quotidiana, propagandando in maniera diretta o occulta il concetto del bere, incoraggiandone, di fatto, l’utilizzo (Bertelloni et al., 2007; Strasburger VC, 2004). Inoltre, nell’attuale società, come in quella passata, all’alcol – e ai locali dove viene commercializzato – viene conferita una funzione di socializzazione, di rafforzamento dei gruppi e dei rituali collettivi. Così bar, birrerie, osterie, circoli ricreativi vengono identificati quali luoghi privilegiati dove la solidarietà tra gli individui viene sviluppata e mantenuta; luoghi dove i ragazzi ricercano, e a volte trovano, quell’atmosfera che può, purtroppo, mancare all’interno delle famiglie, favorendone la frequentazione. Fumo di sigaretta L’abitudine al fumo comporta pesanti ripercussioni sullo stato di salute (cancro, bronchite cronica, enfisema, arteriosclerosi, infarto, ipertensione, ictus, angina pectoris, gastrite, ulcera gastrica e duodenale, esofagite cronica, ecc.), rappresentando, tra le cause di malattia, quella più facilmente evitabile (Min. Sal., 2008a; Pacifici, 2008). In Italia sono oltre un milione e duecentomila i giovani fumatori: circa il 20% tra i 15 e i 24 anni con un costante incremento con l’età (Tab. III) (Pacifici, 2008). Recenti dati dimostrano un’età media di inizio del fumo intorno ai 17 anni, senza differenze significative tra maschi (17,2 anni) e femmine (17,8 anni), inoltre solo una minoranza inizia a fumare oltre i 18 anni, mentre 1/5 dei fumatori acquisisce l’abitudine prima dei 15 anni (Tab. IV) (Pacifici, 2008), derivandone che per ridurre la diffusione del fumo nei soggetti adulti è indispensabile ridurre il numero delle persone che iniziano a fumare in giovane età mediante interventi molto precoci di prevenzione primaria (Min. Sal., 2008a; Bertelloni e Raiola, 2007). L’inizio dell’abitudine al fumo di sigaretta è il frutto di un complesso processo comportamentale individuale, ambientale e sociale, mentre solo raramente è riconducibile ad un singolo evento. Il giovane emula l’adulto fumatore per sentirsi “grande” e parte integrata di un gruppo sociale (rito di iniziazione) e per affermare la propria personalità (Bertelloni e Raiola, 2007; Curie et al., 2004; Pacifici, 2008). Fin dagli anni sessanta la scuola è stata considerata il luogo più idoneo a diffondere informazioni sulla salute (De Luca, 2007); ma è anche vero che proprio in ambiente scolastico molti giovani iniziano a fumare, stimolati dall’esempio dei coetanei e purtroppo, a volte, anche da quello degli insegnanti. Inoltre, sebbene in Italia sia presente il divieto per la pubblicità diretta delle sigarette (Legge n. 165 del 10/04/62), è tuttavia possibile quella indiretta (sponsorizzazioni Tabella II. Consumo quotidiano (%) di almeno una bevanda alcolica negli adolescenti di 11 e più anni e nei giovani adulti (dati per sesso ed età)*: confronto 2006 vs. 2007. Età, anni Maschi Femmine Totale 2006 2007 2006 2007 2006 2007 11-15 1,7 1,3 0,2 0,7 1,0 1,0 16-17 7,8 8,8 3,8 1,4 5,6 5,2 18-19 9,6 14,1 2,4 4,6 6,2 8,0 20-24 17,9 21,5 4,9 6,2 11,6 13,1 25-29 28,6 29,0 8,1 6,2 18,5 18,0 (ISTAT, 2007) 201 G. Raiola et al. metodi di consumo, come il bong, e la migliore purificazione dei prodotti ha determinato una maggiore pericolosità di tutti i tipi di droga, anche di quelle in passato definite come “leggere”, quasi a volerne erroneamente giustificare una minore pericolosità (Chabrol, 2007). Dal punto di vista epidemiologico, in Italia il numero dei decessi per droga ha presentato una diminuzione nell’ultima decade, ma con un certo incremento negli ultimi anni (Tab. V) (Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007). Non sono noti casi di decesso per overdose in minori di 15 anni e solo una minoranza riguarda la fascia 15-19 anni (Tab. V) (Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007). Questo dipende probabilmente anche dal fatto che i decessi sono in larga prevalenza dovuti all’utilizzo di eroina, che risulta attualmente la droga meno utilizzata dagli adolescenti (Tab. V). La sostanza maggiormente utilizzata dagli adolescenti rimane la cannabis, di cui circa 1/3 degli studenti delle scuole superiori ha fatto uso almeno una volta nella vita e circa 1/4 nell’ultimo anno (Min. Sal., 2008a; Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007). Il confronto tra i consumi riferiti tra il 2000 e il 2006/2007 dimostra che questi rimangono sostanzialmente stabili per le varie sostanze ad eccezione dell’eroina che ha mostrato un consistente calo; l’uso delle varie droghe è di maggiore appannaggio del sesso maschile anche se nei soggetti più giovani vi è la tendenza a consumi analoghi tra i due sessi (Tab. V). I dati epidemiologici mostrano inoltre che, con l’età, il consumo dei vari tipi di droga aumenta progressivamente e vi è una tendenza alla sperimentazione di più sostanze, soprattutto nei consumatori abituali, tanto che il policonsumo è aumentato di circa il 60% tra il 2000 ed il 2005 (Ferrero, 2005) e nel 2007 tra gli studenti che hanno fatto uso di droghe illegali il 12% ha utilizzato due sostanze ed un altro 12% tre sostanze (Giovanardi, 2007). Le prime sostanze sperimentate dai giovani sono legali, tabacco e/o alcol, poi si aggiungono le droghe illegali (Bertelloni e Raiola, 2007; Curie et al., 2004 ; Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007). Tabella III. Fumo di sigaretta negli adolescenti e nei giovani adulti. Età, anni Fumo abituale 11-14 – 15-17 7,4% 18-20 23,5% 21-24 25,9% (Pacifici, 2008) di eventi sportivi, eventi culturali e utilizzo del marchio di sigarette per linee di abbigliamento sportivo), che rappresenta un ulteriore fattore di stimolo per l’inizio di questa abitudine. Si deve infine considerare che in adolescenza il fumo di sigaretta spesso precede o si associa all’abuso di alcol e/o di droga con tutte le conseguenze negative che ne conseguono a breve e a lungo termine (Bertelloni e Raiola, 2007; Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007). Droghe In età adolescenziale l’uso delle droghe può essere occasionale (il cosiddetto sballo) o abituale. La prima modalità di assunzione deriva dal fatto che molti giovani (circa il 20%) non considerano pericoloso, ad esempio, l’uso ricreativo e moderato dei cannabinoidi, ritenendolo compatibile con gli impegni quotidiani (scuola, lavoro, attività sportiva, relazioni familiari e sociali), o ne ritiene dannoso solo l’utilizzo esagerato (35%) (Min. Sal., 2008a; Curie et al., 2004; Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007). Tuttavia è oggi ben noto come si possa instaurare una vera e propria condizione di dipendenza psico-fisica anche nel primo caso (Chabrol, 2007). Si deve inoltre considerare che gli attuali Tabella IV. Età di inizio del fumo di sigaretta*. Anni Maschi, % Femmine, % Totale, % < 15 17,9 15,7 17,0 15-17 48,1 39,7 44,8 18-20 24,6 33,7 28,2 > 20 9,4 10,9 10,0 * Inizio prima dei 18 anni: 61,8% (Indagine DOXA-ISS, 2008) Tabella V. Decessi per droga e uso di sostanze stupefacenti negli adolescenti italiani. Uso negli ultimi 12 mesi 2000 2005 Uso frequente 2007 rapporto M/F 2007 % % % 15 aa 19 aa 1002** 652** 589** 9,3/1° – Cannabinoidi 23,6 23,8 23,0 1,4/1 1,5/1 2,7 Cocaina 3,4 3,5 4,2 ~ 1/1 2,3/1 0,4 Eroina 3,0 1,6 1,4 ~ 1/1 1,4/1 0,4 Allucinogeni 1,9 2,1 2,7 1,4/1 2,1/1 0,4 Stimolanti 2,6 1,7 3,0 ~ 1/1 2,3/1 0,5 Policonsumo 5,0 8,0 24,0 – Decessi* * % – ** Valore più basso periodo 1996-2005: anno 2003 (n. = 517) (Giovanardi, 2007); maschi: > 90% per tutti gli anni; non registrati decessi per soggetti di età < 15 anni; 15-19 anni: 2-3% dei decessi per overdose. 202 Comportamenti a rischio in età adolescenziale: aspetti medici Tabella VI. Fattori protettivi e favorenti l’utilizzo di droga. Fattori protettivi Fattori favorenti Non essere fumatore Assenteismo scolastico Non essersi ubriacato nell’ultimo mese Essere stati coinvolti in risse o incidenti Percepire interessamento nei propri confronti da parte dei genitori Aver avuto rapporti sessuali non protetti, anche a causa di alcol o droghe Avere una positiva relazione con i genitori Avere fratelli o amici che abusano di alcol e/o utilizzano droghe Avere un rendimento scolastico medio-alto Aver fatto uso di psicofarmaci con e, ancor più, senza prescrizione medica Partecipare ad attività sportive Eccessivo consumo di denaro senza controllo dei genitori Avere percezione dei rischi correlati all’uso di droghe Uscire di casa ogni sera Avere cura della casa e/o delle proprie cose Partecipare a giochi in denaro I fattori protettivi e favorenti all’utilizzo di sostanze illegali, a cui dovrebbe prestare particolare attenzione il pediatra, sono riassunti in Tabella VI (Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007). Un aspetto emergente è rappresentato dai cosiddetti smart-shops – in Italia sono già circa un centinaio – che sono dei negozi specializzati nella vendita di particolari prodotti erboristici, diversi per origine o formulazione ma con marchio CE, chiamati genericamente smart-drugs (droghe furbe) (Pichini et al., 2008). Si tratta di una serie di composti, sia di origine vegetale che sintetica, che contengono vitamine e principi attivi di estratti vegetali, tra cui i più diffusi sono l’efedrina, la caffeina, la taurina, ma anche sostanze con caratteristiche allucinogene (Pichini et al., 2008). Negli smart-shops, vengono inoltre venduti degli accessori destinati ad ottimizzare l’effetto derivato dall’assunzione di sostanze legali ed illegali, come cartine, filtri, pipe, bong, vaporizzatori. L’espressione “droghe furbe” sembrerebbe prendere origine dal fatto che queste sostanze non sono perseguite o perseguibili dalla legge in quanto non presenti, come tali o come principi attivi in esse contenuti, nelle tabelle legislative che proibiscono l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope. I commercianti di queste droghe furbe promettono lo “sballo” e/o il miglioramento delle performance intellettive e fisiche con l’impiego di prodotti” naturali”, erboristici, quindi proposti come “innocui”, mentre è assolutamente ingannevole affermare che una sostanza è “buona” perché “biologica” (Pichini et al., 2008); basti pensare all’eroina e alla cocaina, che sono prodotti di origine vegetale. I frequentatori degli smart-shops appartengono a varie categorie: adolescenti, che ricercano in questi negozi stimolanti cerebrali dal basso profilo tossicologico per incrementare la performance scolastica o per i loro presunti effetti psichedelici o semplicemente per curiosità, adulti 40-60enni, soprattutto maschi, che ricercano alcune smart-drugs ritenute afrodisiache o capaci di migliorare le prestazioni sessuali. Problemi inerenti questi composti sono la facilità di acquisto, anche via Internet (il fatturato totale delle smart-drugs ammonta, secondo gli esperti, al miliardo di dollari l’anno), e la scarsissima letteratura scientifica su molti prodotti (principi attivi, tossicità, farmacocinetica, farmacodinamica ecc.), soprattutto per quel che riguarda gli effetti sull’uomo (Pichini et al., 2008). Comportamenti sessuali a rischio L’adolescenza è il periodo della vita in cui, di regola, inizia l’attività sessuale e con essa il rischio di contrarre e diffondere malattie a trasmissione sessuale (MST) o di andare incontro a gravidanze indesiderate (Bertelloni e Raiola, 2007). Le MST sono un problema di particolare rilevanza per l’età adole- scenziale (Bertelloni e Raiola, 2007). Si stima che nel mondo la fascia 15-24 anni rappresenti il 25% della popolazione sessualmente attiva e circa il 50% tutti i nuovi casi di MST (Da Ros et al., 2008). Purtroppo i dati disponibili sono molto eterogenei e probabilmente sottostimati, anche perché alcune infezioni possono essere asintomatiche o non notificate. Spesso si tratta di infezioni multiple (Da Ros et al., 2008; Mo et al., 2005). Negli USA le MST occupano il secondo posto dopo le infezioni delle prime vie respiratorie. In Italia non si hanno dati nazionali omogenei; dal gennaio 1990 al dicembre 2005 sono stati segnalati al Sistema Nazionale di Sorveglianza 18.243 nuovi casi di MST tra i giovani di 15-24 anni; circa il 20% di tutti i casi segnalati (Salfa et al., 2008). La distribuzione per sesso ha dimostrato una lieve prevalenza per quello maschile (51,7%); nel 92,5% si trattava di individui eterosessuali e nel 21% di soggetti non italiani. Quasi il 50% ha riferito di non aver utilizzato alcun metodo contraccettivo negli ultimi 6 mesi. In Tabella VII è riportata la distribuzione delle cause di MST nei due sessi. Gli adolescenti contraggono più frequentemente patologie virali o caratterizzate da scarsa sintomatologia come cerviciti da C. trachomatis e vaginiti aspecifiche, ma anche patologie meno frequenti tra gli adulti come la gonorrea (Schwarzenberg e Buffone, 2000); i giovani rappresentano inoltre circa il 60% dei nuovi casi di infezione da HIV (Da Ros et al., 2008). La diffusione delle MST è influenzata da numerosi fattori: giovane età d’inizio dell’attività sessuale, partner sessuali multipli, rapporti omosessuali, basso livello socio economico, appartenenza a minoranze etniche, disinformazione sul rischio del contagio sessuale, non utilizzo di metodi contraccettivi di barriera, concomitante uso di alcol o sostanze stupefacenti, presenza di fattori immunologici e maturativi dell’apparato riproduttivo (Mo et al., 2005). Tabella VII. MST nei giovani di 15-24 anni (n. = 18.243, anni 1991-2005) notificate al Sistema Nazionale di Sorveglianza Sentinella. MST Femmine, % Maschi, % Condilomi acuminati 49,3 48,7 Clamydia trachomatis 18,5 9,2 Herpes genitale 9,1 8,4 Sifilide latente 9,6 4,1 Sifilide I-II stadio 2,8 4,2 Gonorrea 2,3 10,8 Altre cause 8,4 14,6 203 G. Raiola et al. Tabella VIII. Indicazioni per la prevenzione delle MST in età adolescenziale. Primaria Secondaria Terziaria Ritardare l’inizio dei rapporti sessuali Prevenire l’acquisizione delle MST nell’adole- Negli adolescenti che hanno acquisito una MST scente sessualmente attivo/a o in procinto d’ini- • effettuare una valutazione medica e psicoziare l’attività sessuale sociale; Istituire programmi d’informazione prima che Incoraggiare l’adolescente (maschio e femmina) • evitare che l’adolescente diffonda ulteriormente la MST; l’adolescente inizi ad avere rapporti sessuali ad usare sempre e corretta-mente i metodi di • assistere i giovani ad alto rischio di reinfezione barriera Vaccinazione HPV Effettuare programmi di screening per le MST delle adolescenti (età < 18 anni) abbia effettuato un IVG nel corso del 2006 (valori assoluti < 15 anni: 289; 15-19 anni: 10.422); l’assenso per l’intervento è stato rilasciato dai genitori in circa il 70% dei casi. Ad ogni modo, il tasso di abortività in Italia tra le donne con età < 20 anni rimane tra i più bassi in Europa (Tab. IX) (Min. Sal., 2008b). Per quanto riguarda i parti, L’analisi dell’evento nascita mediante il certificato di assistenza al parto (Boldrini e Di Cesare, 2005; Boldrini e Di Cesare, 2007; Boldrini et al., 2008) mette in evidenza come tra l’1,5% e il 4,0% dei nati in Italia sia attribuibile ad adolescenti; i valori più bassi sono stati rilevati nell’anno 2005 (Tab. X) (Boldrini e Di Cesare, 2005; Boldrini e Di Cesare, 2007; Boldrini et al., 2008). La stessa tabella permette di rilevare l’importante contributo di giovani immigrate, che raggiunge valori quasi quadrupli nelle ragazze dell’Europa dell’Est rispetto a quelle italiane (Tab. X) (Boldrini e Di Cesare, 2007; Boldrini et al., 2008). Nel loro insieme questi dati, simili a quelli rilevati anche in aree territorialmente omogenee (Strambi e Lombardi, 2007), sottolineano la necessità di un miglioramento delle strategie preventive per quanto riguarda le conseguenze dei comportamenti sessuali degli adolescenti. Le metodologie utilizzate non hanno infatti pienamente raggiunto il loro scopo, anche per una probabile inadeguatezza delle modalità di comunicazione tra le agenzie educative e il mondo giovanile (Bertelloni e Raiola, 2007; Strambi e Lombardi, 2007). Tabella IX. Tasso di abortività in donne di età inferiore a 20 anni: confronto tra dati internazionali. Paese Anno Tasso di abortività, ‰ Germania 2007 6,2 Italia 2006 7,8 Olanda 2006 9,4 Finlandia 2004 15,2 Norvegia 2006 15,8 Danimarca 2006 16,3 Francia 2004 16,4 Inghilterra/Galles 2005 23,0 Svezia 2006 25,4 Ungheria 1996 30,4 USA 1996 30,6 Bulgaria 1996 34,2 Nella Tabella VIII vengono riportate alcune indicazioni relative alla prevenzione della MST negli adolescenti. L’altro aspetto legato all’inizio dei rapporti sessuali è quello legato alla procreazione responsabile. In Italia, l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG, legge 194, del 22 maggio 1978) ha mostrato una netta tendenza a calare, negli ultimi 20 anni (2005 vs. 1982: -44,8%) (Bertelloni e Raiola, 2007; Min. Sal., 2008b), anche se negli ultimi 2 anni vi è stato un certo incremento nelle regioni del Nord per il più ampio contributo delle cittadine straniere (Min. Sal., 2008b). Nelle giovani di età inferiore a 20 anni, si è avuta una riduzione del tutto marginale delle IVG (tasso di abortività: 1983 = 8,0‰; 2006 = 7,8‰), probabilmente anche dovuto al contributo di giovani donne straniere coinvolte nel giro della prostituzione (Bertelloni e Raiola, 2007; Min. Sal., 2008b; Burgio et al., 2007a). L’ultimo rapporto al Parlamento (aprile 2008) mette in evidenza come il 4,9‰ Tatuaggi e piercing La pratica degli ornamenti corporei è in netto aumento tra i giovani (Raiola et al., 2006); un recente studio svizzero su oltre 7000 adolescenti ha dimostrato la presenza di almeno un piercing in oltre il 20% dei ragazzi tra 16 e 20 anni con una netta prevalenza per il sesso femminile (ragazze 33,8% vs. ragazzi 7,4%) (Suris et al., 2007). Per i tatuaggi non è stata rilevata una significativa differenza tra i sessi, ma sono risultati maggiormente presenti negli studenti di sesso maschile praticanti attività agonistica rispetto ai non atleti (Mayers et al., 2002). In alcuni casi il ricorso agli ornamenti corporei può rappresentare una vera e propria pratica autolesiva con possibili complicanze secondarie (Raiola et al., 2006). Per il piercing è stata riportata Tabella X. Distribuzione dei parti nelle adolescenti per fascia di età (anni 2003-2005) e per area geografica di provenienza della madre (anno 2005). Età, anni % (totale) % per area geografica (2005) 2003 2004 2005 Italia UE Europa est Africa America CS Asia Altro 12-14 0,4 0,16 0,01 0,01 – 0,02 0,01 0,03 0,02 – 15-19 2,45 3,78 1,55 1,28 0,47 4,80 2,71 2,97 1,10 2,64 UE: Unione Europea; CS: centro-sud. 204 Comportamenti a rischio in età adolescenziale: aspetti medici un’incidenza di complicanze mediche pari al 17% (sanguinamento, trauma tissutale e infezioni batteriche; queste ultime soprattutto nel piercing dell’ombelico), mentre non sono state riscontrate complicanze mediche secondarie alla pratica del tatuaggio (Mayers et al., 2002), sebbene sia stata raccomandata la necessità di eseguire nei soggetti con piercing o tatuaggi un follow-up che comprendesse la sorveglianza sierologica (Mayers et al., 2002). Tatuaggi o piercing si associano inoltre ad una maggiore predisposizione ad assumere comportamenti a rischio (disturbi del comportamento alimentare, uso di droghe leggere e pesanti, condotta sessuale a rischio e suicidio) (Suris et al., 2007; Carroll et al., 2002); in particolare, è stato riscontrato un maggior grado di comportamenti violenti nei maschi con tatuaggi e in femmine con piercing. Il consumo di droghe cosiddette “leggere” è risultato associato sia ai tatuaggi che ai piercing nei soggetti più giovani, mentre il consumo di droghe “pesanti” aumenta con l’incremento del numero di piercing. Un maggiore rischio di suicidio è stato osservato nei soggetti con tatuaggi o piercing sin dall’età più giovane: in generale questo rischio sembra essere maggiormente presente nelle ragazze con tatuaggi (Carroll et al., 2002; Roberts et al., 2004). La presenza di tatuaggi e piercing in adolescenti non indica necessariamente l’assunzione di comportamenti a rischio, anche se deve allertare i genitori, gli insegnati e i medici, che devono assicurare migliori misure preventive (Raiola et al., 2006) e il rilievo obiettivo di ornamenti corporei deve rappresentare un’opportunità per iniziare con l’adolescente una discussione su possibili rischi comportamentali (Suris et al., 2007). Incidenti stradali e trauma cranico Gli incidenti, soprattutto quelli stradali, rappresentano una delle principali cause di morte, in particolare nel sesso maschile e nella fascia di età 10-14 anni e 20-24 anni, mentre sono di gran lunga la causa principale tra i 15 e i 19 anni (WHO, 2008; Burgio et al., 2007b). Spesso questa evenienza è causata da comportamenti a rischio come guida in stato di ebbrezza o sotto l’azione di droga, mancato utilizzo di mezzi di protezione (casco, cinture), mancato rispetto dei limiti di velocità, gare con moto ed auto, ecc. (Burgio et al., 2007b). Dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità confermano che questo problema planetario è di non facile risoluzione (WHO, 2008) e deve impegnare istituzioni diverse, in primo luogo quelle di tipo governativo anche mediante l’emanazione di regole che aumentino la sicurezza attiva e passiva (WHO, 2008). Tuttavia, il coinvolgimento dei pediatri in progetti di prevenzione degli incidenti in età pediatrica sta probabilmente portando a un miglioramento della situazione, almeno per le fasce più giovani (Di Pietro, 2007). Un’importante causa di morbilità in età adolescenziale conseguente agli incidenti è rappresentato dal trauma cranico (TC), che si configura oggi come uno dei maggiori problemi di salute pubblica. Negli Stati Uniti, l’incidenza annuale è intorno a 200 casi per 100.000 abitanti; di questi almeno il 10% sono fatali e il 20-40% di gravità moderata o severa (Frankswki et al., 2005). La causa principale è rappresentata dagli incidenti stradali e il TC viene considerato il principale killer e la prima causa di disabiltà in età pediatrico-adolescenziale: lo subiscono circa 2 milioni di persone ogni anno e comporta lesioni gravi con residua invalidità in circa 80.000 americani (Frankswki et al., 2005; Thurman et al., 1999). In Europa è stata indicata una incidenza intorno 235/100.000 abitanti/anno, ma con consistenti variazioni tra i vari paesi (Tagliaferri et al., 2006). In Italia, vengono ricoverati per TC 300500/100.000 abitanti/anno, quindi con un’incidenza simile a quella riportata in altri paesi europei, il rapporto maschi/femmine è pari a 16/1 e l’età di massima incidenza è tra i 10 e i 30 anni (Tagliaferri et al., 2006). Il TC è spesso correlato all’abuso di alcol (WHO, 2008; Tagliaferri et al., 2006). Ne possono conseguire gravi danni cerebrali con deficit motori e sensoriali, che compromettono in maniera devastante la qualità di vita, soprattutto di un adolescente (WHO, 2008; Frankswki et al., 2005; Tagliaferri et al., 2006). Un aspetto emergente, spesso misconosciuto, è rappresentato dal fatto che molti TC possono danneggiare le strutture ipotalamicheipofisarie, causando un quadro di ipopituitarismo. Un singolo deficit neuroendocrino è stato riscontrato nel 35-50% dei soggetti con TC (Lieberman et al., 2001; Tanriverdi et al., 2006); la più frequente anomalia riscontrata è il deficit di ormone della crescita (50%), seguito da altri deficit di tropine ipofisarie [TSH (40%), ACTH (30%), FSH (30%) ed LH (20%)] (Barreca et al., 1980). Dati analoghi sono stati rilevati in alcuni studi anche nell’adolescente, anche se altri studi hanno prospettato una minore incidenza di complicanze neuroendocrine in questa fascia di età (Einaudi e Bondone, 2007). Un recente studio in giovani adulti ha dimostrato che dopo un anno di follow-up circa il 60% dei deficit endocrini ipofisari presenti in fase acuta si è risolto spontaneamente, mentre si sono manifestate alterazioni endocrine in più della metà dei soggetti con normale funzione ipofisaria nelle prime ore dopo il trauma. Inoltre, non è stata rilevata alcuna correlazione tra la gravità del trauma o la situazione endocrina post traumatica e l’evoluzione a 12 mesi (Tanriverdi et al., 2006). La valutazione in fase acuta non è quindi in grado di predire l’evoluzione a distanza. Il deficit di ACTH è particolarmente insidioso in quanto di non facile individuazione e, poiché gli ormoni surrenalici sono indispensabili per la vita, la mancata rilevazione di quest’ultima anomalia endocrina può mettere a rischio di sopravvivenza il giovane. Il deficit di gonadotropine può compromettere la vita sessuale e le capacità riproduttive. Tutti i ragazzi con dato anamnestico di trauma cranico da modesto a grave andrebbero pertanto tenuti sotto osservazione per quanto riguarda la loro funzione neuroendocrina. Il bullismo: un preoccupante fenomeno Il bullismo costituisce oggi, nel mondo occidentale, un deprecato fenomeno di estrema rilevanza etico-sociale (Burgio e Verri, 2007). Non può considerarsi un fenomeno in sé e per sé nuovo, ma ne sono certamente nuove la dimensione (quantitativa) e la perversità (qualitativa) troppo spesso tristemente raggiunte: viene stimato che il 12,1% dei minorenni sia vittima di una certa aggressività fisica ripetuta da parte di coetanei; il 20,2% si dichiara minacciato da coetanei o da ragazzi più grandi, e ne viene derubato il 4,8% (Caffo e Fara, 2005; Burgio e Bertelloni, 2007). La cronaca è piena di ulteriori esempi (lanci di sassi da parte di ragazzi contro treni o dai cavalcavia, atti di teppismo-vandalismo, violenze-aggressioni sessuali e non; turbolenze esasperate negli stadi e fuori da essi; malvagità e violenza psicologiche su soggetti deboli; stupri di gruppo; ecc.), che sfiorano veri e propri atti di criminalità minorile (Burgio e Verri, 2007). Un recente lavoro (Alikasifoglu et al., 2007) ha tentato di quantificare il fenomeno, esaminando i comportamenti di bullismo in un ampio campione di adolescenti (n. = 3519, maschi 50,5%, femmine 49,5%; età 16,4 ± 1,1 anni), mettendo in evidenza che: • il 22% del campione era stato vittima di atti di bullismo, con una percentuale più alta nei maschi (26,4%) rispetto alle femmine (17,5%); • una percentuale quasi uguale di soggetti è risultata bullo (9,3%; maschi 12,2%, femmine 6,1%) o bullo e vittima contemporaneamente (9,5%; maschi 13,5%, femmine 5,3%); 205 G. Raiola et al. • il 59% degli adolescenti non era stato oggetto di bullismo né aveva compiuto atti di bullismo (maschi 49%, femmine 71%); • i bulli hanno più facilmente presentato altri comportamenti a rischio, come guardare la TV per più di 4 ore/giorno, non usare i sistemi di sicurezza alla guida di motoveicoli, adottare comportamenti violenti, assenteismo scolastico. Inoltre, sia i bulli che i bulli/vittime più facilmente fumavano, bevevano alcol e si ubriacavano, risultavano sessualmente attivi e dedicavano un tempo eccessivo ai videogiochi; • le vittime sono più facilmente ragazzi di più basso livello socioeconomico e con difficoltà ad instaurare relazioni con i coetanei. Inoltre, comportamenti di bullismo possono essere predittivi di disturbi psichiatrici in età adulta (Sourander et al., 2007). In Italia la Polizia di Stato ha formulato un decalogo di consigli (www.poliziadistato.it/pds/ps/consigli/bullismo.htm) per cercare di arginare questo fenomeno, ma indispensabile risulta una collaborazione tra istituzioni diverse, in particolare tra famiglia e scuola. Genitori affetti da “insufficienza sociale” hanno, infatti, notoriamente colpa grave delle attività aberranti dei figli e del degrado morale di questi (Burgio e Bertelloni, 2007). Opporsi alle prime e al secondo, in famiglia e nella scuola, con il sostegno delle autorità impegnate nel sociale, ma anche dei pediatri, “socialmente sensibili”, contribuirebbe alla civiltà dei comportamenti, che è un bene di tutti e che tutti devono responsabilmente difendere (Burgio e Verri, 2007; De Luca, 2007; Burgio e Bertelloni, 2007). Conclusioni Insita nel concetto di “promozione alla salute” è la necessità di intervenire per impedire o limitare il verificarsi e/o il diffondersi di comportamenti sfavorevoli e/o dannosi, attraverso un’azione preventiva; ciò si dovrebbe realizzare con la presa in carico globale del ragazzo, anche educandolo a saper riconoscere ed evitare le principali situazioni a rischio per la salute (Burgio e Raiola, 2007; Strambi e Lombardi, 2007; Omar et al., 2005). Le nuove strategie di prevenzione devono essere orientate verso la scoperta e il potenziamento delle risorse personali e sociali proprie di ogni individuo; lo scopo è quello di mettere al centro del percorso l’adolescente nella sua interezza psico-fisica, superando i “vecchi” programmi centrati sulle malattie e sulle situazioni a rischio, orientando maggiormente la prevenzione verso il sostegno ai bisogni naturali di crescita, piuttosto che alla sola riduzione dei fattori di rischio e sulle ricadute sociali dei propri comportamenti (Burgio e Raiola, 2007; Strambi e Lombardi, 2007). Tutto questo implica forte e costante raccordo tra le varie istituzioni, integrazione di differenti risorse, innovazione dei programmi assistenziali, in grado di realizzare modelli organizzativi che sappiano tenere conto della complessità del problema, intesa come inseparabilità degli aspetti sociali, educativi, relazionali, affettivi dello sviluppo infantile e adolescenziale (Strambi e Lombardi, 2007). Per raggiungere questi scopi è comunque fondamentale una diversa formazione degli operatori che dovrebbero essere pienamente consapevoli che le varie problematiche sanitarie e comportamentali sono spesso tra loro embricate, e che il concetto “salute” non si identifica solo sull’assenza di malattia o infermità, ma piuttosto come uno stato generale di benessere fisico, psichico e sociale e rappresenta un diritto umano fondamentale (Declaration of AlmaAta, 1978). Inoltre, i vari operatori sanitari dovrebbero essere formati a fornire “motivazioni forti” per indurre i giovani a modificare i loro comportamenti a rischio, aiutandoli nella loro crescita umana e sociale e rivolgendo particolare attenzione ai soggetti che sembrano essere maggiormente deboli o esposti a un maggior rischio socioambientale, anche mediante un sistema assistenziale maggiormente dedicato ai loro bisogni di salute (Raiola et al., 2007). Si deve infine considerare che i giovani sono una risorsa e possono contribuire positivamente alla risoluzione di molti dei loro problemi; per tale motivo è indispensabile che essi vengano coinvolti nelle attività di prevenzione a essi destinate (Raiola et al., 2007; Kleinert, 2007; Bertelloni et al., 2008). Gli adolescenti, dietro quell’apparente patina d’indifferenza, superficialità e ignoranza che a volte sembra caratterizzarli, sono infatti quasi sempre attenti e sensibili ai problemi sociali; questa loro caratteristica va indirizzata e valorizzata in modo che non venga dispersa dal mondo degli adulti (Bertelloni et al., 2008). Box di orientamento • • • Comportamenti sociali incidono profondamente sullo stato di salute degli adolescenti e potenzialmente anche sulla successiva vita adulta. I programmi di prevenzione fino ad oggi realizzati/finanziati non hanno dato i risultati sperati, determinandosi dal punto di vita epidemiologico un peggioramento di diversi indicatori di salute. Particolare attenzione da parte del pediatra necessitano vecchi (alimentazione, uso/abuso precoce di alcol/fumo, droghe, comportamenti sessuali) e nuovi (incidenti stradali e loro conseguenze, tatuaggi/piercing, bullismo) comportamenti degli adolescenti nell’ottica di sviluppare nuovi approcci di prevenzione con il coinvolgimento attivo anche di altre istituzioni (famiglia, scuola, ecc.). Bibliografia Alikasifoglu M, Erginoz E, Ercan O, et al. Bullying behaviours and psychosocial health: results from a cross-sectional survey among high school students in Istanbul, Turkey. Eur J Pediatr 2007;166:1253-60. Bailey SL. The measurement of problem drinking in young adulthood. J Stud Alcohol 1999;60:234-44. 206 Barreca T, Perria C, Sannia A, et al. Evaluation of anterior pituitary function in patients with posttraumatic diabetes insipidus. J Clin Endocrinol Metab 1980;51:1279-82. 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La diagnosi, oltre che su accurati criteri clinici, si basa su indagini strumentali sia radiologiche che densitometriche. Le metodiche densitometriche consentono una stima quantitativa dello stato minerale osseo del paziente che è fondamentale per la diagnosi e per il decorso clinico. Le metodiche densitometriche attualmente più utilizzate nella pratica clinica sono la densitometria ossea a doppio raggio-X applicata alle vertebre lombari, al corpo in toto e al collo femorale, e l’ultrasuonografia quantitativa con misurazione a livello delle falangi della mano, della tibia e del calcagno. I bisfosfonati rappresentano il trattamento più efficace dell’osteoporosi nell’adolescente anche se l’esperienza è attualmente limitata solo ad alcune condizioni patologiche. I bisfosfonati devono essere somministrati da personale medico con specifica esperienza nel settore e previo consenso informato dei genitori. Summary Various disorders, by different mechanisms, may affect bone health in adolescents. The diagnosis of osteoporosis in adolescents is based on an accurate history and clinical examination in addition to radiologic and densitometric evaluation. Densitometric techniques have a key role not only in the diagnosis but also in the follow-up of patients with osteoporosis. They give a quantitative estimation of bone mineral status. Dual energy X-ray absorptiometry at lumbar spine, whole body, or femoral neck, and quantitative ultrasound at phalanges of the hand, tibia, or calcaneus are the main densitometric techniques used in adolescents to assess bone mineral status. Bisphosphonates treatment is the more efficacious approach for adolescents with osteoporosis but the experience is limited only to few patients and some disorders. Therefore, bisphosphonates should be administered only in selected patients by experts in the field and after informed consent by parents. Definizione di osteoporosi e di osteopenia nell’adolescente L’osteoporosi è definita “una malattia scheletrica caratterizzata da una compromissione della resistenza ossea che predispone un individuo ad un aumentato rischio di frattura” (NIH Consensus Statements, 2000). Tale definizione è valida non solo per l’adulto ma anche per il bambino e l’adolescente. Con il termine di osteopenia si intende invece una riduzione (> 30%) del contenuto minerale osseo valutato mediante radiografia tradizionale oppure una riduzione ben definita (vedi sotto) dei valori di densità minerale ossea (comunemente abbreviata come BMD da Bone Mineral Density) misurata mediante tecniche densitometriche. Dal punto di vista quantitativo, l’osteoporosi e l’osteopenia possono essere definite in base all’entità della riduzione dei valori di BMD. Nella donna di origine caucasica, l’OMS definisce osteopenia una riduzione dei valori di BMD compresa tra -1 e -2,5 DS rispetto al valore medio trovato nelle giovani donne adulte (c.d. T-score, che corrisponde al valore medio del picco di massa ossea) ed osteoporosi una riduzione dei valori di BMD di oltre 2,5 DS rispetto a questo parametro. È definita come osteoporosi grave quella condizione nella quale una riduzione dei valori di BMD superiore a -2,5 DS si associa ad una o più fratture. Questi criteri non possono però essere applicati all’adolescente in quanto non sono stati ancora stabiliti né la soglia di frattura né i criteri per la diagnosi di osteoporosi sulla base dei valori di BMD. L’International Society for Clinical Densitometry (Lewiecki et al., 2008) ha suggerito che, per quanto riguarda la densitometria a doppio raggio-X (dual energy X-ray absorptiometry, DXA), in età pediatrica dovrebbe essere utilizzata la definizione “ridotti valori di densità minerale ossea per l’età cronologica” quando i valori densitometrici risultano inferiori o uguali a -2 DS rispetto ai valori di riferimento per l’età ed il sesso (c.d. Z-score), in sostituzione dei termini osteopenia ed osteoporosi. Alcuni autori (Baroncelli et al., 2005; Antoniazzi et al., 2006) hanno suggerito di applicare il limite di -2 DS per tutte le metodiche densitometriche impiegate nei minori. Dimensioni del problema e diagnosi A tutt’oggi la prevalenza di osteoporosi nell’infanzia e nell’adolescenza non è conosciuta. Questo probabilmente è il risultato di diversi fattori tra i quali la mancata diagnosi per scarse conoscenze culturali o la difficoltà di eseguire accertamenti strumentali adeguati, l’assenza di studi epidemiologici, l’assenza di una soglia per la diagnosi di osteoporosi mediante tecniche densitometriche e l’evidenza che l’osteoporosi può essere asintomatica. Tuttavia, la maggiore sopravvivenza di pazienti con patologie croniche e il ricorso con sempre maggiore frequenza ad indagini densitometriche ossee hanno determinato un aumento dei casi di osteoporosi nell’adolescente. Infatti, molte condizioni patologiche, alcune delle quali molto rare, possono associarsi a fratture da osteoporosi (Tab. I) (Baroncelli et al., 2005; Saggese et al., 2001). Le condizioni associate ad osteoporosi primaria sono rare e sono rappresentate essenzialmente da forme genetiche. Solo in alcune condizioni, come l’osteogenesi imperfetta, è stata dimostrata una fragilità ossea dovuta ad una alterazione primitiva di alcune componenti strutturali, ed in particolare del tessuto collageno. Infatti, l’osteoporosi che si associa a molte patologie genetiche potrebbe essere dovuta, almeno parzialmente, anche ad altri fattori, come scarso uso, ipotonia muscolare, alterazioni del metabolismo osseo, malassorbimento, disturbi nutrizionali, alterazioni 209 G.I. Baroncelli et al. Tabella I. Principali condizioni patologiche associate ad osteoporosi in età evolutiva*. Forme primarie • Immunologiche (mastocitosi sistemica, sindrome da iper-IgE) • Osteoporosi idiopatica giovanile Malattie endocrine Difetti genetici • Ipogonadismo • Osteogenesi imperfetta • Sindrome da insensibilità agli estrogeni • Omocistinuria • Sindrome da insensibilità agli androgeni • Sindrome di Marfan • Deficit di ormone della crescita • Sindrome di Ehlers-Danlos • Panipopituitarismo • Sindrome di Bruck • Sindrome di Weill-Marchesani • Sindrome di Menkes Forme secondarie Errori congeniti del metabolismo** • Fenilchetonuria • Acidemia propionica • Glicogenosi • Galattosemia • Malattia di Wilson • Ipertiroidismo • Sindrome di Cushing • Iperparatiroidismo primitivo • Sindrome di McCune Albright Malattie cromosomiche • Sindrome di Turner • Sindrome di Klinefelter Alterazioni nutrizionali • Anoressia nervosa • Malattia di Gaucher • Intolleranza alle proteine del latte • Fibrosi cistica • Carenza di calcio, rame Iatrogene • Diete vegetariane • Corticosteroidi • Malnutrizione • Anticonvulsivanti (fenobarbital, fenitoina, carbamazepina) • Carenza di vitamina C, K, D • Chemioterapici • Nutrizione parenterale totale • Analoghi del GnRH • Eccessivo consumo di bevande a base di cola • Dosi elevate di L-tiroxina Malattie maligne • Terapia antiretrovirale in pazienti HIV positivi • Leucemia • Anticoagulanti • Linfoma Malattie croniche • Tumori solidi • Reumatiche (artrite giovanile idiopatica, lupus eritematoso sistemico, dermatomiosite) Miscellanea • Renali (insufficienza renale cronica, acidosi tubulare renale, ipercalciuria idiopatica) • Infiammatorie intestinali (malattia di Crohn, colite ulcerosa) • Epato-biliari (forme colestatiche) • Cardiache (insufficienza cardiaca congestizia) • Ematologiche (talassemia, emocromatosi ereditaria, emofilia A, anemia a cellule falciformi) • Immobilizzazione-scarso uso (malattie neuromuscolari, malattie neurologiche con paralisi cerebrale) • Post-trapianto • Morbo di Paget giovanile • Ipofosfatasia • Malattie osteolitiche • Malattia di Rett * Per una più ampia descrizione delle varie forme di osteoporosi si rimanda alle voci bibliografiche Baroncelli et al., 2005 e Saggese et al., 2001. Alcune condizioni potrebbero associarsi ad una alterazione primitiva della struttura ossea ed essere quindi incluse nel capitolo delle forme primarie, ma i dati sono ancora insufficienti per confermare tale possibilità. ** endocrine, ecc. (Baroncelli et al., 2005; Saggese et al., 2001). La diagnosi di osteoporosi idiopatica giovanile si basa sulla esclusione di tutte le cause conosciute di osteoporosi. Questa rara condizione deve essere differenziata soprattutto dalle forme lievi di osteogenesi imperfetta. Le forme di osteoporosi secondaria, che rappresentano la grande maggioranza, possono essere dovute a varie cause; le più frequenti sono le malattie croniche, l’uso prolungato di alcuni farmaci, in particolare dei corticosteroidi, alterazioni nutrizionali, disordini me- 210 tabolici, malattie endocrine e immobilizzazione/scarso uso. La patogenesi è spesso multifattoriale. Le cause di osteoporosi in età adolescenziale sono sostanzialmente le stesse del bambino in età prepuberale. Tuttavia, durante il periodo adolescenziale alcune forme, come quelle associate a malattie croniche o a disordini metabolici, che spesso si associano ad un ritardato sviluppo puberale e ad una scarsa maturazione ossea, possono mostrare un aggravamento dovuto ad un ridotto accumulo di massa ossea, che potrebbe anche causare il raggiungimento di un ridotto Osteoporosi in età adolescenziale Tabella II. Condizioni nelle quali sospettare la presenza di osteoporosi. Patologie nelle quali è stata dimostrata una possibile associazione con un ridotto stato minerale osseo* Insorgenza di fratture spontanee o causate da un minimo trauma** Fratture recidivanti Presenza di dolori ossei (soprattutto a carico delle vertebre) e deformità scheletriche invalidanti e permanenti Evidenza di osteopenia radiologica in qualsiasi sede scheletrica esaminata Evidenza di un ridotto stato minerale osseo mediante tecniche densitometriche * vedi Tabella I; ** l’insorgenza di una frattura in conseguenza di un impatto ad alta energia non esclude “a priori” una condizione di osteoporosi picco di massa ossea (a livello del collo femorale e delle vertebre il picco di massa ossea viene acquisito entro i 18-20 anni) che sembra essere una delle cause principali di fratture da osteoporosi nell’età giovane-adulta (Baroncelli et al., 2005). Una condizione tipica dell’adolescenza che spesso si associa ad osteoporosi, fino a circa il 50% dei pazienti, è l’anoressia nervosa. La diagnosi di osteoporosi è in primo luogo clinica e deve prendere in considerazione tutte le condizioni patologiche che possono associarsi a tale patologia. In Tabella II sono riportate le principali situazioni nelle quali dovrebbe essere sospettata la presenza di osteoporosi. Fratture spontanee o causate da un minimo trauma o recidivanti rappresentano un sintomo importante che deve essere adeguatamente indagato. Nella maggior parte dei casi le fratture sono determinate da una patologia precedentemente diagnosticata ma probabilmente non ben indagata per quanto riguarda la possibile presenza di osteoporosi. In alcuni casi l’insorgenza di una frattura o di deformità a carico del rachide può essere il sintomo rivelatore di una patologia associata ad osteoporosi. Le fratture nell’adolescenza L’insorgenza di una frattura è una evenienza abbastanza frequente nel bambino e nell’adolescente. È stato stimato che circa il 2% di tutti i minori si frattura almeno una volta nella vita, e che nell’infanzia circa il 7% dei bambini sono ospedalizzati per frattura (Cheng et al., 1993). Nel Regno Unito la prevalenza di fratture in età pediatrica varia dall’1,6% (Stark et al., 2002) al 3,6% (Lyons et al., 2000). Uno studio svedese ha rilevato che all’età di 16 anni il 42% dei ragazzi ed il 27% delle ragazze hanno presentato almeno una frattura (Landin, 1983). Un altro studio in soggetti fino a 18 anni ha evidenziato una incidenza di fratture recidivanti del 12-20%; inoltre, il 66% del numero totale di fratture era avvenuto nei soggetti che avevano avuto più di una frattura (Goulding et al., 2001). Il picco massimo di frattura avviene durante l’adolescenza, intorno a 14 anni nei ragazzi e a 11 anni nelle ragazze; l’incidenza di fratture a tali età risulta molto simile a quella riportata nel soggetto anziano. Studi recenti hanno dimostrato che, in adolescenti in apparente buona salute, un ridotto stato minerale osseo, misurato con la DXA (Goulding et al., 1998; Ma D et al., 2003; Manias et al., 2006) o con metodiche ad ultrasuoni (quantitative ultrasound, QUS) (Suriniemi et al., 2003; Schalamon et al., 2004), potrebbe esporli ad un aumentato rischio di fratture. Goulding (Goulding et al., 2000) ha calcolato che una riduzione di 1 DS dei valori di BMD aumenta il rischio di frattura di circa 2 volte, mentre uno studio prospettico condotto su oltre 6000 bambini di circa 10 anni, seguiti per un periodo di 2 anni, ha messo in evidenza che il rischio di frattura aumenta di circa il 90% per ogni riduzione dei valori di BMD di 1 DS (Clark et al., 2006). Tuttavia, questi studi non hanno consentito di individuare una soglia ben definita di frattura nei soggetti in età evolutiva, né i criteri per la diagnosi di osteoporosi sulla base dei soli valori di BMD. Probabilmente, come è avvenuto nell’adulto, sarà necessario identificare, tra le variabili cliniche, quelle più importanti da associare alla valutazione densitometrica dello stato minerale osseo per aumentare le possibilità di diagnosi di osteoporosi. Le cause dell’aumentata incidenza di fratture durante l’adolescenza non sono ancora chiare. È stato ipotizzato che una rapida crescita staturale che non si accompagni ad un contemporaneo ed adeguato accumulo della massa ossea possa essere correlata ad un aumentato rischio di frattura (Bonjour et al., 1994; Faulkner et al., 2006). Secondo un’altra ipotesi l’aumento della porosità dell’osso corticale che avviene fisiologicamente durante il periodo puberale (che riflette un aumentato rimodellamento intracorticale) può contribuire alla transitoria fragilità ossea osservata durante lo scatto di crescita adolescenziale (Parfitt, 1994). Infine, potrebbe essere in causa uno squilibrio tra incremento dei tessuti molli (massa grassa e massa muscolare) ed aumento della massa ossea (Goulding et al., 2005). L’aumentata incidenza di fratture osservata durante l’adolescenza in soggetti peraltro sani non deve essere interpretata come una condizione di osteoporosi e non richiede alcun trattamento medico che, Tabella III. Caratteristiche principali delle metodiche densitometriche utilizzate in età evolutiva. Tecnica Sito di misurazione Componente ossea misurata Precisione, % Accuratezza, % ED, μSv Durata esame, min Doppio raggio-X* (DXA) Vertebre lombari, collo femore, radio, corpo in toto Corticale e trabecolare integrata 0,7-2,6 4-7 0,02-4.6** 2-15** Tomografia computerizzata quantitativa periferica (pQCT) Radio/ulna, tibia Corticale e trabecolare separate 1-3 5-14*** 3-10 3-5 Ultrasonografia quantitativa (QUS) Falangi della mano, calcagno, tibia Corticale e trabecolare integrata 0,4-5,4 - Nessuna 5 ED: dose radiante effettiva. * Metodi pencil beam. Per i metodi fan beam il tempo di scansione è di 10-30 sec. con ED 6,7-48,3 μSv. ** Colonna lombare, femore e corpo in toto. *** Limiti riferiti alla densità minerale ossea volumetrica corticale e trabecolare. 211 G.I. Baroncelli et al. oltre ad essere inutile, può risultare dannoso (v. dopo). Tuttavia, i soggetti che presentano una recidiva di fratture, in particolare per traumi apparentemente banali, devono essere adeguatamente indagati per escludere una condizione di osteoporosi. Valutazione dello stato minerale osseo Lo stato minerale osseo di un individuo può essere misurato in diverse sedi scheletriche mediante varie metodiche densitometriche (Tab. III). La DXA è attualmente la metodica maggiormente utilizzata sia nell’adulto che nel bambino e nell’adolescente per la bassa dose radiante, la breve durata dell’esame e l’ampia diffusione delle apparecchiature sul territorio nazionale. Le sedi scheletriche più frequentemente misurate con la DXA sono le vertebre lombari, il collo femorale o il corpo in toto (Antoniazzi et al., 2006). I valori di BMD ottenuti mediante questa tecnica, che si basa su una valutazione bi-dimensionale della massa ossea, dovrebbero essere corretti, almeno in parte, per le dimensioni del segmento osseo esaminato, poiché queste, che sono in relazione con le caratteristiche auxologiche del soggetto, influiscono sensibilmente sulla stima dello stato minerale osseo. Comunque, non vi è ancora accordo su quale sia il metodo migliore per per correggere i valori di BMD nel bambino e nell’adolescente. L’altra metodica che in questi ultimi anni ha mostrato un interesse sempre crescente in pediatria, in particolare per l’assenza di esposizione del soggetto a radiazioni ionizzanti, la trasportabilità delle apparecchiature ed il basso costo, è la QUS. Le sedi scheletriche comunemente valutate con questa tecnica sono le falangi prossimali della mano, il calcagno e la tibia (Antoniazzi et al., 2006). Le metodiche QUS si differenziano tra loro non solo per la sede scheletrica di valutazione ma soprattutto per le caratteristiche tecniche che ne determinano le prestazioni e l’applicazione clinica (Baroncelli, 2008). Date le caratteristiche fisiche degli ultrasuoni queste metodiche possono fornire utili informazioni, non solo sulla densità ossea, ma anche sulla struttura e sulle proprietà meccaniche dell’osso (Baroncelli, 2008). La tomografia computerizzata quantitativa (quantitative computed tomography, QCT) della colonna vertebrale e della porzione mediale del femore è una metodica molto precisa in quanto misura la densità ossea volumetrica, ma richiede la disponibilità di apparecchiature costose, ambienti protetti e dedicati, e personale specializzato. La dose radiante effettiva varia a seconda dell’esame da 3 a 30 μSv. Una valida alternativa è rappresentata dalla QCT periferica (pQCT) che misura la densità ossea volumetrica a livello del radio, dell’ulna o della tibia (Antoniazzi et al., 2006). Tuttavia, questa metodica è ancora poco utilizzata sia perché i valori di riferimento per la popolazione normale ed i risultati nelle patologie del metabolismo minerale ed osseo sono attualmente piuttosto scarsi sia per la disponibilità molto limitata delle apparecchiature. In sintesi, le tecniche attualmente impiegate per la valutazione dello stato minerale osseo nel bambino e nell’adolescente sono la DXA con misurazione a livello delle vertebre lombari o del corpo in toto e la QUS falangea o calcaneale. Per una corretta applicazione di tutte le metodiche densitometriche nella pratica clinica è fondamentale la disponibilità di accurati valori di riferimento per ciascuna metodica, considerando che questi variano tra apparecchiature DXA e QUS in relazione al loro produttore. Tabella IV. Possibili meccanismi d’azione dei bisfosfonati. • Inibizione della differenziazione e del reclutamento dei precursori degli osteoclasti • Induzione dell’attività degli osteoblasti tramite l’inibizione del riassorbimento osseo • Stimolazione degli osteoblasti a secernere un fattore anti-osteoclastico • Effetti sugli osteoclasti maturi: - inibizione del metabolismo - distruzione del citoscheletro e dell’orletto a spazzola - inibizione della produzione degli enzimi lisosomiali e blocco delle pompe acidificanti - inibizione di protein-chinasi e fosfatasi che regolano il citoscheletro - induzione dell’apoptosi - inibizione della prenilazione delle proteine (via metabolica del mavelonato) sibile solo in alcune condizioni, come le endocrinopatie, le alterazioni nutrizionali o in alcune malattie croniche. Quando tale approccio non è realizzabile, o in associazione alla terapia della malattia di base quando questa si dimostra insufficiente a garantire un soddisfacente recupero dello stato minerale osseo, possono essere impiegati alcuni farmaci in grado di stimolare la formazione ossea e/o inibire il riassorbimento osseo. Negli anni passati sono stati utilizzati soprattutto la vitamina D o i suoi metaboliti, spesso in associazione con sali di calcio, e la calcitonina per via sottocutanea o per spray nasale, con risultati piuttosto scarsi. Un adeguato apporto di calcio e di vitamina D, sulla base dei fabbisogni raccomandati, deve essere comunque assicurato in tutti i pazienti affetti da osteoporosi in quanto è dimostrato che essi hanno un ruolo importante nel processo di acquisizione della massa ossea. Un altro fattore molto importante nell’acquisizione della massa ossea è l’attività fisica, soprattutto se di tipo weight-bearing (cioè con effetto di carico corporeo; es. salto, corsa, ginnastica). Infatti, lo scarso uso rappresenta un fattore patogenetico primario di osteoporosi, come evidenziato nei pazienti affetti da disordini neurologici con paralisi muscolare (Baroncelli et al., 2005). Questi pazienti, quando possibile, devono essere regolarmente sottoposti, ad opera di personale specializzato, a mobilizzazione passiva e ad esercizi Tabella V. Potenza farmacologica relativa (in rapporto all’etidronato), via di somministrazione e dosaggio dei principali bisfosfonati utilizzati in età pediatrica. Potenza relativa Via di somministrazione Dosaggio in età pediatrica Etidronato 1 os 20 mg/kg Clodronato 10 os, ev, im 2 mg/kg (ev, im) 1200 mg/die (os) Pamidronato 100 ev 0,5-1,5 mg/kg Neridronato 100 ev, im 2 mg/kg Terapia Alendronato 1000 - 2000 os 5-10 mg/die; 70 mg/sett. La terapia dell’osteoporosi si basa, prima di tutto, su un adeguato trattamento della patologia che l’ha determinata. Questo è però pos- Zoledronato 10000 ev 0,0125 – 0,025 mg/kg 212 Bisfosfonato Osteoporosi in età adolescenziale fisici “assistiti” che consentano di creare un effetto di carico, dovuto al peso corporeo, sulle strutture articolari e ossee. Negli ultimi anni, tra i vari farmaci utilizzati nell’adulto per la terapia dell’osteoporosi, solo i bisfosfonati hanno trovato, per il momento, applicazione in età pediatrica. Infatti, diversi studi hanno dimostrato che i bisfosfonati possono migliorare lo stato minerale osseo ma soprattutto possono ridurre la prevalanza di fratture in diverse forme di osteoporosi dell’adolescente (Allgrove, 2002; Koné Paut et al., 2002; Batch et al., 2003; Ward et al., 2007). Attualmente le maggiori esperienze cliniche sono state acquisite nel trattamento dell’osteogenesi imperfetta (Antoniazzi et al., 2007) e di alcune condizioni di osteoporosi da scarso uso. Il meccanismo d’azione dei bisfosfonati non è interamente conosciuto; in Tabella IV sono riportate alcune possibili azioni dei bisfosfonati sul metabolismo osseo. I bisfosfonati hanno una diversa potenza farmacologica che è legata alla loro struttura chimica, ed in particolare alle due catene laterali R1 e R2 (28) (Fig. 1). La capacità di legarsi al tessuto osseo è maggiore quando la catena laterale R1 è rappresentata da un gruppo idrossilico OH, il quale aumenta l’affinità per il calcio. È stato dimostrato che è necessaria l’intera molecola del bisfosfonato per svolgere la sua azione sul riassorbimento osseo. I due gruppi fosfonati della molecola del bisfosfonato ed il gruppo idrossilico della catena laterale R1 agiscono insieme come un bone hook (gancio osseo), determinando la grande affinità dei bisfosfonati per il tessuto osseo (Russell et al., 1999). La catena laterale R2 determina invece la potenza con cui i bisfosfonati esercitano il loro effetto antiriassorbitivo osseo. In Tabella V sono riportati i principali bisfosfonati utilizzati in età pediatrica per la terapia dell’osteoporosi, la via di somministrazione ed il dosaggio. Un aspetto molto importante per quanto riguarda la terapia con bisfosfonati nel bambino e nell’adolescente è che attualmente solo un farmaco (neridronato) ha come unica indicazione terapeutica l’impiego nell’osteogenesi imperfetta. In tutte le altre forme di osteoporosi e per tutti gli altri bisfosfonati l’utilizzo è off label (assunzione non prevista) e quindi il medico deve assumersi, previo consenso dei genitori (che devono essere adeguatamente informati sui possibili benefici ma anche sui possibili effetti indesiderati), la responsabilità della loro somministrazione. Generalmente i bisfosfonati sono ben tollerati anche se possono Figura 1. Comparazione tra la struttura chimica del pirofosfato e di un bisfosfonato. Il legame P-C-P, caratteristico dei bisfosfonati, è responsabile della forte affinità di tali farmaci per il tessuto osseo. La sostituzione dell’atomo di ossigeno (O) con un atomo di carbonio (C) consente alla molecola di legare due catene laterali, chiamate R1 e R2, che determinano le differenze tra i vari bisfosfonati. determinare la comparsa di eventi avversi soprattutto durante i primi cicli di somministrazione (febbre, artralgie, mialgie, ipocalcemia) (Antoniazzi et al., 2007; Russell et al., 1999). In Tabella VI sono riportati gli eventi avversi osservati nell’adulto e nel bambino. I dati a lungo termine nei pazienti pediatrici sono comunque piuttosto scarsi e sono necessari ulteriori studi su casistiche ampie ed omogenee per verificarne l’efficacia clinica ed evidenziare eventuali eventi avversi in rapporto ad un uso prolungato. In particolare, la lunga emivita di tali farmaci (> 10 anni) pone dei quesiti ancora irrisolti sui possibili effetti teratogeni sullo sviluppo scheletrico in future gravidanze di ragazze trattate durante l’adolescenza. Uno studio recente ha dimostrato che l’assunzione di bisfosfonati prima del concepimento o durante il primo trimestre di gravidanza non sembra esporre il feto ad un aumentato rischio di malformazioni (Levy et al., 2009). Comunque i bisfosfonati devono essere utilizzati con molta prudenza e solo in casi accuratamente selezionati considerando, caso per caso, i rischi ed i benefici. La loro somministrazione deve essere effettuata sotto stretto controllo medico e in centri con provata esperienza nel loro uso. Tabella VI. Possibili eventi avversi in seguito alla somministrazione di bisfosfonati. Bisfosfonato Eventi avversi* Etidronato Più frequenti: nausea, diarrea, stipsi, dolori addominali. Rari: reazioni cutanee (angioedema, orticaria, prurito), iperfosfatemia transitoria, cefalea, parestesie e neuropatia periferica, disturbi ematologici (leucopenia, agranulocitosi, pancitopenia), rachitismo, osteonecrosi della mascella (solo nell’adulto). Clodronato Più frequenti: disturbi digestivi, dolori addominali, disturbi della deglutizione, stipsi, diarrea, dolori ossei, mialgie, artralgie, cefalea. Rari: osteonecrosi della mascella (descritto solo nell’adulto). Pamidronato Più frequenti: febbre, mialgie, artralgie, dolori ossei, astenia, ipocalcemia. Neridronato Più frequenti: febbre, mialgie, artralgie, dolori ossei, ipocalcemia. Rari: ipofosfatemia, vertigini, eruzioni cutanee, orticaria. Alendronato Più frequenti: disturbi digestivi, dolori addominali, disturbi della deglutizione, stipsi, diarrea, dolori, ossei, mialgie, artralgie, cefalea. Rari: ipocalcemia, prurito, dolori oculari, sclerite, episclerite, allergie, ulcere esofagee, gastriche o duodenali (se le compresse vengono trattenute in cavità orale: ulcere bocca e faringe), sindrome di Stevens-Johnson, necrosi epidermica tossica. Zoledronato Più frequenti: febbre, mialgie, artralgie, cefalea, astenia, dolori ossei, ipocalcemia. Rari: nausea, vomito, uveite, episclerite, irite, congiuntivite, insufficienza renale acuta, allergia, vertigini, insonnia, ipotensione, anemia, linfocitopenia, trombocitopenia, leucopenia, ipofosfatemia, ipomagnesemia, ipopotassiemia, osteonecrosi della mascella (descritto solo nell’adulto). • riportati nel foglietto illustrativo e/o dalla letteratura. 213 G.I. Baroncelli et al. Box di orientamento • • • • • L’osteoporosi può insorgere anche nel bambino e nell’adolescente ed è causata da diverse condizioni patologiche. La manifestazione clinica dell’osteoporosi è la comparsa di una o più fratture. L’adolescente è particolarmente esposto al rischio di frattura, anche in assenza di osteoporosi. Le metodiche densitometriche sono fondamentali per una valutazione quantitativa dello stato minerale osseo. I bisfosfonati possono essere utili per il trattamento di alcune forme di osteoporosi ma il loro uso deve essere limitato a casi selezionati e sotto stretto controllo medico. • Gli effetti indesiderati a lungo termine del trattamento con bisfosfonati eseguito durante l’età evolutiva non sono ancora completamente conosciuti. Bibliografia Allgrove J. Use of bisphosphonates in children and adolescents. J Pediatr Endocrinol Metab 2002;15:921-8. Antoniazzi F, Baroncelli GI, Bertelloni S, et al. Metodiche di valutazione della densita’ minerale ossea nel bambino e nell’adolescente. Riv Ital Med Adol 2006;4:25-9. Antoniazzi F, Donaldi L, Benessai M, et al. Terapia con bisfosfonati nella osteogenesi imperfecta in età pediatrica. Prospettive in Pediatria 2007;37:49-57. Baroncelli GI, Bertelloni S, Sodini F, et al. Osteoporosis in children and adolescents: etiology and management. Paediatr Drugs 2005;7:295-323. Baroncelli GI. 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Cochrane Database Syst Rev 2007;4: CD005324. Corrispondenza dott. Giampiero I. Baroncelli, U.O. Pediatria II, Ospedale Santa Chiara, via Roma 67, 56126 Pisa • Tel. +39 050 993168 • Fax +39 050 992641 • E-mail: [email protected] 214 Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 215-220 ADOLESCENTOLOGIA La sindrome metabolica in età evolutiva Lorenzo Iughetti*, Patrizia Bruzzi**, Barbara Predieri*, Giulia Vellani**, Michele De Simone*** * Clinica Pediatrica, ** Scuola Specializzazione in Pediatria, Università di Modena e Reggio Emilia; *** Dipartimento Materno-infantile, Università de L’Aquila Riassunto La prevalenza di sovrappeso e obesità nei bambini è aumentata rapidamente negli ultimi anni in molte regioni del mondo. Al giorno d’oggi, l’aumentata prevalenza di obesità tra i bambini e gli adolescenti è uno dei principali problemi di salute pubblica. L’obesità si associa a problemi di salute rilevanti ed è un importante fattore di rischio di morbilità e mortalità in età adulta. Molte delle complicanze metaboliche e cardiovascolari dell’obesità si possono riscontrare già durante l’infanzia o l’adolescenza e sono strettamente correlate alla presenza di insulino-resistenza o iperinsulinemia, la più comune alterazione presente nei soggetti obesi. L’insulino-resistenza è la componente principale della sindrome metabolica, un insieme di fattori di rischio cardiovascolari, riscontrabili in una gran parte di adolescenti obesi. L’insorgenza precoce di obesità in bambini e adolescenti, accompagnata da un progressivo peggioramento della sua gravità, può essere responsabile di uno stato di insulino-resistenza di lunga durata che può spiegare il concomitante esordio precoce di intolleranza glicidica o diabete tipo 2. Oggigiorno uno degli obiettivi principali dei pediatri risulta quindi la prevenzione dell’obesità. Summary The prevalence of overweight and obesity in childhood has rapidly increased over the past years in many regions of the world. Although this trend for increase seems to be uniform within each country, the prevalence of overweight and obesity in children differs considerably between countries. The rise in the prevalence of obesity in children and adolescents is one of the most alarming public health issues facing the world today. Obesity is associated with significant health problems and is an important early risk factor for adult morbidity and mortality. Many of the metabolic and cardiovascular complications of obesity are already present during childhood and are closely related to the presence of insulin-resistance or hyperinsulinemia, the most common abnormality seen in obesity. Insulin-resistance is the main component of the metabolic syndrome that a large number of overweight adolescents already show. The earlier onset of obesity in children and adolescents, accompanied by a worsening of its severity, may be responsible of the longer duration of the insulin-resistant status that may thus explain the concomitant earlier onset of impaired glucose tolerance and type 2 diabetes. Today prevention of obesity is one of the main goal of the pediatricians. Introduzione L’obesità rappresenta oggi il disordine nutrizionale più importante e frequente in tutte le fasce d’età ed è attualmente considerato uno dei maggiori problemi di salute pubblica nei paesi industrializzati. Gli studi in letteratura stimano la sua presenza in età pediatrica tra il 6 e il 22%, con una crescita dell’incidenza direttamente proporzionale al miglioramento delle condizioni economiche e sociali. La pandemia sembra essere incontrollabile: circa il 7% della popolazione mondiale, pari a 250 milioni di persone, è obesa; due o tre volte maggiore è il numero di persone in sovrappeso e nel 2006, per la prima volta nella storia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato maggiore, a livello planetario, il numero dei soggetti in sovrappeso rispetto a coloro che sono affetti da denutrizione. Negli Stati Uniti, nel corso degli ultimi quattro decenni, la prevalenza dell’obesità in età evolutiva si è duplicata nei bambini di età compresa tra i 6 e gli 11 anni ed è addirittura triplicata nei ragazzi dai 12 ai 17 anni (Kimm et al., 2002). Approssimativamente il 14-15% dei quindicenni americani può essere classificato come obeso (Ogden et al., 2002). I tassi di prevalenza variano nei diversi stati. In Europa è stata osservata una prevalenza maggiore di obesità nelle regioni orientali e meridionali, sia in età infantile che in età adulta. I paesi che si affacciano sul bacino Mediterraneo mostrano tassi di prevalenza di sovrappeso infantile del 20-40%, mentre gli stati settentrionali hanno tassi del 10-20%. Anche in Italia questa tendenza appare evidente: negli ultimi decenni l’incremento della prevalenza sembra salito del 40% circa nelle regioni del centro-sud (Maffeis et al., 2006). L’obesità del bambino e dell’adolescente deve essere considerata come una condizione gravata da complicanze sia a breve che a lungo termine. La sindrome metabolica (SM) è definibile come un insieme di condizioni di rischio associate allo sviluppo di complicanze (morbilità e mortalità) cardiovascolari e metaboliche. Fino a pochi anni fa la SM veniva considerata come esclusiva dell’età adulta, ma a causa del trend pandemico dell’obesità in età evolutiva, alcune condizioni metaboliche, cliniche e vascolari tipiche della SM sono state diagnosticate già in bambini ed adolescenti obesi o in sovrappeso (Bitsori e Kafatos, 2005; Cruz e Goran, 2004). Definizione di sindrome metabolica La SM è stata per la prima volta definita da Reaven come combinazione di diversi fattori di rischio per malattie cardiovascolari presenti in un individuo, tra cui l’obesità, l’insulino-resistenza, l’intolleranza glucidica, l’ipertensione arteriosa e una caratteristica dislipidemia (riduzione dei livelli di lipoproteine ad alta densità, HDL, associata ad elevati valori di trigliceridi) (Reaven et al., 1989). Tre grandi organi di sanità pubblica, quali la World Health Organization (WHO), il National Cholesterol Education Program-Third Adult Treatment Panel (NCEP ATP III) e la International Diabetes Federation (IDF) hanno redatto le proprie definizioni cliniche di SM in età adulta. Tutte includono sostanzialmente i fattori di rischio proposti da Reaven, ma ognuna con cut-offs differenti dei parametri valutati (Tab. I) (NCEP, 2001; IDF; De Ferranti e Osganian, 2007). Le differenze prin- 215 L. Iughetti et al. Figura 1. Cut-off points dei parametri della sindrome metabolica (circonferenza addominale, HDL-C, pressione arteriosa, trigliceridi) (da Jolliffe e Janssen, 2007, mod.). I cut-points all’età di 20 anni corrispondono ai cut-points della definizione di sindrome metabolica ATP III e IDF in età adulta. cipali tra le diverse definizioni di SM riguardano le tecniche utilizzate per stimare l’adiposità (Body Mass Index – BMI o circonferenza vita) e per valutare il metabolismo glucidico (glicemia a digiuno, insulinemia a digiuno, HOMA index, test con carico orale di glucosio). In campo pediatrico non esiste una definizione unanimemente accettata di SM. Per lungo tempo, nell’ambito della ricerca in età evolutiva, sono stati utilizzati i criteri di diagnosi di SM degli adulti, dimenticando che le complicanze che caratterizzano la sindrome si sviluppano gradual- mente, in funzione dei cambiamenti età-correlati dell’obesità, e che le basi patogenetiche e le caratteristiche della SM vengono influenzate dalla crescita e dallo sviluppo puberale. Inoltre nei diversi studi su popolazioni pediatriche, i cut-offs dei parametri indagati per definire la SM sono stati fissati discrezionalmente dagli autori. Di frequente sono state usate, come riferimento per i diversi parametri diagnostici, curve percentili età e sesso-specifiche arbitrarie, perché costruite su database nazionali. Questo ha comportato difficoltà nella stima della prevalenza di SM nei diversi paesi del mondo e nel confronto dei risultati ottenuti dai diversi studi. Nel 2007, Jolliffe e Janssen hanno proposto nuovi criteri di diagnosi di SM in età adolescenziale. Sulla base dei criteri proposti dalla NCEP ATP III e dalla IDF per gli adulti, questi autori hanno estrapolato da un database composto da 6000 adolescenti (con età superiore ai 12 anni, di ambo i sessi) del National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) dei cut-offs età-dipendenti dei singoli parametri diagnostici di SM (fatta eccezione per i livelli di glicemia a digiuno considerati patologici se superiori ai 5,6 mmol/l) (Fig. 1) (Jolliffe e Janssen, 2007). Recentemente anche l’IDF ha proposto una nuova definizione di SM in età evolutiva con lo scopo di rendere più facile e pratica la sua identificazione e quindi di individuare quei bambini ed adolescenti a rischio di sviluppare diabete tipo 2 (Zimmet et al., 2007). Come per gli adulti (Tab. I), la misura della circonferenza addominale è rimasta la componente principale e costante per definire la SM ma, piuttosto che i valori assoluti, sono state proposte curve percentili di circonferenza addominale al fine di compensare le variazioni tipiche del processo evolutivo e dell’origine etnica. Inoltre la nuova definizione di SM proposta dall’ IDF varia a seconda di distinte fasce d’età: • in bambini di età compresa tra i 6 e 10 anni si consiglia di non utilizzare il termine di SM, ma di identificare come condizioni ad alto rischio di evoluzione quei casi di obesità centrale (circon- Tabella I. Confronto tra le definizioni di sindrome metabolica in età adulta di WHO, IDF e NCEP ATP III (De Ferranti e Osganian, 2007). WHO IDF NCEP ATP III Obesità centrale (CA o BMI o rapporto CA:CF) BMI > 30 kg/m2 o rapporto CA/ CF > 0,9 in M e > 0,85 in F Alterazioni del metabolismo glucidico Glicemia a digiuno: 110-125 mg/dl Glicemia a digiuno > 100 mg/dl o precedente diagnosi di diabete o intolleranza glucidica (glicemia dopo 2 ore da carico di glucosio tipo 2 140-199 mg/dl) o diagnosi di diabete tipo 2 o di insulino-resistenza * Pressione arteriosa SP ≥ 140 mmHg o DP ≥ 90 mmHg e/o uso di farmaci anti-ipertensivi SP ≥ 130 mmHg o DP ≥ 85 mmHg SP ≥ 130 mmHg o DP ≥ 85 mmHg o precedente diagnosi di ipertensio- e/o uso di farmaci anti-ipertensivi ne in trattamento farmacologico Riduzione del HDL Valori < 35 mg/dl nei M e < 39 mg/dl in F Valori < 40 mg/dl nei M e < 50 mg/dl in F o precedente diagnosi di dislipidemia in trattamento specifico Valori < 40 mg/dl nei M e < 50 mg/dl in F o precedente diagnosi di dislipidemia in trattamento specifico Aumento dei livelli di trigliceridi Valori a digiuno ≥ 150 mg/dl Valori a digiuno ≥ 150 mg/dl o precedente diagnosi di dislipidemia in trattamento specifico Valori a digiuno ≥ 150 mg/dl o uso di farmaci ipo-lipidemizzanti Albuminuria ≥ 20 μg/min o rapporto albumina: creatinina ≥ 30 mg/g Non valutata Non valutata * CA > 94 cm in M caucasici, CA > 80 cm in F caucasiche (valori razza-specifici)* CA > 102 cm in M e > 88 cm in F caucasiche (valori razza-specifici) Glicemia a digiuno > 110 mg/dl o uso di farmaci ipoglicemizzanti criteri necessari; CA: circonferenza addominale; CF: circonferenza fianchi; BMI: indice di massa corporea; SP: pressione sanguigna sistolica; DP: pressione sanguigna diastolica; HDL: lipoproteine ad alta densità; p°: percentile per età e sesso; M: maschi; F: femmine. 216 La sindrome metabolica in età evolutiva Tabella II. Studi di prevalenza della sindrome metabolica in età evolutiva (modificato da De Ferranti e Osganian, 2007). Autore, paese, anno, Tipo di studio Num. partecipanti Età partecipanti (anni) Criteri di diagnosi di SM Prevalenza SM (%) De Ferranti et al., USA, 2006 Studio di popolazione NHANES 1988-1994 1960 12-19 CA ≥ 75° p SP o DP ≥ 90°p TG ≥ 100 mg/dl HDL < 45 mg/dl in M 15-19 anni, < 50 per altri G ≥ 110 mg/dl 9,2 M 9,5 F 8,9 De Ferranti et al., USA, 2006 Studio di popolazione NHANES 1999-2000 1960 12-19 CA ≥ 75° p SP o DP ≥ 90°p TG ≥ 100 mg/dl HDL < 45 mg/dl in M 15-19 anni, < 50 per altri G ≥ 110 mg/dl 12,7 M 13,8 F 11,6 Duncan et al., USA, 2004 Studio di popolazione NHANES 1999-2000 991 12-19 CA ≥ 90° p SP o DP ≥ 90°p TG ≥ 110 mg/dl HDL < 40 mg/dl G ≥ 110 mg/dl 6,4 M 9,1 F 3,7 Cook et al., USA, 2003 Studio di popolazione NHANES III1988-94 2430 12-19 CA ≥ 90° p SP o DP ≥ 90°p TG ≥ 110 mg/dl HDL < 40 mg/dl G ≥ 110 mg/dl 4,2 M 6,1 F 2,1 Raitakari et al., Finlandia, 1994 Studio di popolazione Cardiovascular Risk in Young Finns Study 3457 3-18 Somma delle pliche bicipitali, sottoscapolari e tricipitali ≥ 75° p SP ≥ 75° p LDL ≥ 75°p 3,1 M 3,56 F 2,64 9-12 anni: M 3,48 F 2,80 15-18 anni: M 4,49 F 2,92 Retnakaran et al., Canada, 2006 Studio di comunità Oji-Cree Canadian Children 236 10-19 CA ≥ 90° p SP o DP ≥ 90°p TG ≥ 1,1mmol/l HDL < 1,2 mmol/l in M 15-19 anni, < 1,3 mmol/l in altri G ≥ 110 mg/dl 18,6 M 14,3 F 21,4 Morrison et al., USA, 2007 Coorte scolastica Princeton Lipid Research Clinic 1973-76 771 6-19 BMI ≥ 90° p SP o DP ≥ 90°p G ≥ 110 mg/dl TG ≥ 110 mg/dl HDL < 40 mg/dl M, < 50 mg/dl F 4 Lambert et al., Canada, 2004 Coorte scolastica The Quebec Child and Adolescent Health and Social Survey 1369 13-16 BMI ≥ 85° p SP o DP ≥ 75°p Insulina a digiuno ≥ 75° p TG ≥ 75° p HDL ≥ 25°p G ≥ 110 mg/dl 11,5 13 anni: M 11,9 F 11,8 16 anni: M 12,2 F 10,8 Katzmarzyk et al., USA, 2004 Coorte scolastica Bogalusa Heart Study 2597 5-18 SP o DP ≥ 80°p TG ≥ 80° p HDL ≥ 20°p LDL ≥ 80°p G ≥ 80°p Insulina a digiuno ≥ 80° p Caucasici: M 18,2 F 16,5 Afro-americani M 17,3 F 16,6 (continua) 217 L. Iughetti et al. (Tabella II segue) Autore, paese, anno, Tipo di studio Num. partecipanti Età partecipanti (anni) Criteri di diagnosi di SM Prevalenza SM (%) Freedman et al., USA, 1999 Coorte scolastica Bogalusa Heart Study 9167 5-17 SP o DP ≥ 95°p Insulina a digiuno ≥ 95° p TG ≥ 130 mg/dl HDL < 35 mg/dl LDL ≥ 130 mg/dl 5-10 anni: 2 In sovrappeso: 11% 11-17 anni: 2 In sovrappeso: 10% No differenze tra caucasici e afro-americani Viner et al., Inghilterra, 2005 Studio clinico 103 2-18 BMI ≥ 95° p SP o DP ≥ 95°p G ≥ 110 mg/dl TG ≥ 95°p o ≥ 1,75 mmol HDL < 0,9 mmol Obesi: 33 M 34 F 33 2-11 anni: 30 12-18 anni: 36 Caucasici: 37 Afro-americani 13 Asiatici: 22 Invitti et al., Italia, 2006 Studio clinico in pazienti obesi 588 6-16 BMI o CA ≥ 97° p G ≥ 100 mg/dl TG ≥ 95°p HDL ≥ 5°p SP o DP ≥ 95°p 23,3 No differenze tra M e F Cruz et al., USA, 2004 Studio clinico in pazienti obesi con familiarità per diabete tipo 2 126 8-13 CA ≥ 90° p SP o DP ≥ 90°p TG ≥ 90°p HDL ≥ 10°p Glicemia dopo 2 ore (OGTT): 140-199 mg/dl 30 Weiss et al., USA, 2004 Studio clinico in pazienti obesi 439 4-20 BMI > 97° p SP o DP > 95°p TG > 95°p HDL < 5 °p Glicemia dopo 2 ore (OGTT): 140-199 mg/dl Obesità moderata: 38,7 Obesità severa: 49,7 Calcaterra et al., Italia, 2008 Studio clinico in pazienti obesi 191 8-15 BMI > 97° p SP o DP > 95°p TG > 95°p HDL < 5 °p Glicemia dopo 2 ore (OGTT): 7,8-11,1 mmol/l 13,9 Obesità moderata: 12 Obesità severa: 31,1 CA: circonferenza addominale; SP: pressione sanguigna sistolica; DP: pressione sanguigna diastolica; BMI: indice di massa corporea; HDL-C: lipoproteine ad alta densità; TG: triglicerdi, G: glicemia a digiuno; p°: percentile per età e sesso; M: maschi; F: femmine. ferenza addominale superiore al 90° percentile) con familiarità positiva per SM e/o diabete tipo 2 e/o dislipidemia e/o malattie cardiovascolari e/o ipertensione e/o obesità; • in adolescenti di età compresa tra i 10 e i 16 anni, la diagnosi di SM viene formulata se si associano ad un valore di circonferenza addominale superiore al 90° percentile almeno 2 dei seguenti criteri: - glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dl o diagnosi di diabete tipo 2; - pressione sistolica ≥ 130 mmHg o pressione diastolica ≥ 85 mmHg; - livelli di trigliceridi a digiuno ≥ 150 mg/dl - livelli di HDL-C < 40 mg/dl; 218 • in adolescenti di età superiore ai 16 anni vengono proposti gli stessi criteri diagnostici utilizzati per gli adulti (Tab. I). Tale definizione appare piuttosto restrittiva. Sorprende poi la scelta di considerare patologici anche in età evolutiva gli stessi valori di rischio di pressione arteriosa degli adulti. Prevalenza I risultati emersi dagli studi epidemiologici condotti in età evolutiva sembrano confermare l’aumento della prevalenza della SM con l’aumentare dell’età. Weiss et al. hanno dimostrato un rapporto direttamente proporzionale tra peggioramento del grado di obesità e aumento dell’incidenza di SM (Weiss et al., 2004). I dati in letteratura devono però essere interpretati con cautela. Ogni studio utilizza infatti criteri arbitrari di definizione di SM e i risultati ottenuti subiscono l’influen- La sindrome metabolica in età evolutiva za delle diverse condizioni ambientali e genetiche delle popolazioni studiate (Tab. II). A conferma di ciò, studiando un’unica popolazione composta da 1205 adolescenti caucasici in sovrappeso, Reinehr et al. hanno ottenuto percentuali di prevalenza di SM oscillanti tra il 6 e il 39% a seconda dei criteri diagnostici usati (Reinehr et al., 2007). Negli studi condotti in USA, la SM raggiunge il 30% circa negli adolescenti con BMI superiore o uguale al 95° percentile adeguato per età e sesso e scende al 7,1% nella classe con BMI compreso tra 85° e il 95° percentile ed intorno allo 0,1% negli adolescenti con BMI inferiore al 85° percentile (Duncan et al., 2004). Altri studi statunitensi non hanno confermato percentuali così elevate. I risultati emersi dall’analisi del database NHANES 1988-1994, ad esempio, hanno evidenziato una prevalenza di SM in età evolutiva pari al 9,2% e l’analisi del database NHANES 1999-2000, pur mostrando un incremento del 38% della prevalenza della SM, ne ha dato una stima pari al 12,7% nella fascia d’età compresa tra i 12 e i 19 anni (De Ferranti et al., 2006). Nel 2007 Jolliffe e Janssen studiando la stessa popolazione NHANES hanno calcolato che la prevalenza della SM è pari al 7,6% utilizzando i criteri diagnostici della NCEP ATP III e pari al 9,6% secondo i criteri della IDF (Jolliffe e Janssen, 2007). Dati americani meno recenti hanno addirittura quantificato la prevalenza della SM pari al 2% in età evolutiva (Freedman et al., 1999). Tale dato è giustificato dal fatto che sono state considerate diagnostiche di SM solo le modificazioni vascolari e metaboliche tipiche della sindrome. Anche i primi dati europei hanno descritto uno scenario estremamente preoccupante seppure con frequenze leggermente inferiori a quelle della popolazione statunitense. Recentissimi sono i dati italiani di Calcaterra et al. che hanno stimato la prevalenza di SM in una popolazione di 191 adolescenti obesi (età media 11,15 ± 3,4 anni) pari al 14% circa, con percentuali oscillanti tra il 12% negli obesi di grado moderato (BMI z-score 2-2,5) e il 30% nei casi più gravi (BMI z-score > 2,5) (Calcaterra et al., 2007). Come accade in età adulta, la prevalenza della SM sembra variare a seconda del sesso e delle etnie indagate. Gli studi condotti sulla popolazione NHANES hanno dimostrato una maggior incidenza di SM nei maschi e nei bianchi rispetto ai neri non-ispanici (probabilmente perché questi ultimi presentano un miglior profilo lipidico) (De Ferranti et al., 2006, Cook et al., 2003). Altri studi americani non hanno confermato il dato (Freedman et al., 1999; Katzmarzyk et al., 2004). Anche i recenti dati italiani non hanno rilevato alcuna differenza statisticamente significativa tra i 2 sessi (Calcaterra et al., 2007). Eziopatogenesi L’obesità è il maggior fattore di rischio per l’insorgenza di alterazioni metaboliche e della SM sia in età evolutiva che in età adulta. Il Bogalusa Heart Study, un importante studio epidemiologico condotto attraverso un follow-up a lungo termine in una popolazione di adolescenti divisi per etnia, età, sesso e BMI, ha dimostrato un aumento del rischio di sviluppare SM in età adulta 11,7 volte maggiore negli adolescenti con BMI elevato rispetto ai coetanei normopeso (Srinivasan et al., 2002). Altri autori hanno confermato un aumento del rischio di SM di circa tre volte negli adulti già in sovrappeso in età evolutiva (Vanhala et al., 1998). Emerge che la presenza della SM nei genitori condiziona, in età pediatrica, un aumento medio significativo di BMI, circonferenza addominale, pliche adipose tricipitali e subscapolari, percentuale di grasso corporeo e livelli postprandiali di insulina. Ciò, oltre a dimostrare la possibilità di diagnosticare precocemente la SM, ne conferma una sua possibile trasmissione familiare (Pankow et al., 2004). Il meccanismo attraverso il quale l’obesità, da sola o nell’ambito della SM, contribuisce al processo aterosclerotico responsabile del danno cardiovascolare non è completamente noto, ma sembra correlato all’attivazione di un stato infiammatorio nel quale svolgono un ruolo fondamentale la produzione da parte del tessuto adiposo di citochine infiammatorie, in particolare Tumor Necrosis Factor (TNF), Interleuchina-6 (IL-6), Reactive C Protein (PCR). In età evolutiva il sovrappeso sembra accelerare l’insorgenza di diabete tipo 2 mediante un’esposizione precoce delle cellule βpancreatiche ad una condizione cronica di insulino-resistenza potenzialmente responsabile di una disfunzione secretoria insulinica permanente. La prevalenza di SM aumenta infatti significativamente all’aumentare della resistenza insulinica (Weiss et al., 2004). In bambini prepuberi l’aumento della circonferenza addominale sembra strettamente correlato alle alterazioni del profilo insulinico e al peggioramento di quello lipidico (Maffeis et al., 2001). Nel Cardiovascular Risk in Young Finns Study i livelli di insulina a digiuno sembrano avere valore predittivo nei confronti dell’insorgenza di SM (Raitakari et al., 1994). A livello eziopatogenetico, gli effetti dell’aumentata insulino-resistenza sono molteplici ed includono: aumento della sintesi epatica di lipoproteine a molta bassa densità, resistenza all’azione dell’insulina sulle lipoproteinlipasi nei tessuti periferici, aumento della sintesi di colesterolo, della degradazione delle HDL e dell’attività nervosa simpatica, proliferazione delle cellule muscolari lisce dei vasi ed aumentata formazione delle placche aterosclerotiche. Conclusioni L’età evolutiva deve essere considerata un momento cruciale nel controllo della SM, non solo per il potenziale peggioramento dei fattori di rischio, ma anche per le difficoltà diagnostiche elencate. Sebbene attualmente manchino linee-guida per lo screening e management della SM in età evolutiva, il pediatra deve essere innanzitutto consapevole dell’importanza di una diagnosi precoce e ancora prima del suo ruolo nella promozione di una cultura preventiva. Box di orientamento Cosa ricordare • La prevalenza di obesità sta aumentando rapidamente in tutti gli stati del mondo. • L’obesità è correlata ad alterazioni metaboliche e cardiovascolari che aumentano la morbilità e mortalità in età adulta. • L’iperinsulinismo e l’insulino-resistenza legati all’obesità favoriscono l’insorgenza di intolleranza glicidica e diabete tipo 2. • La sindrome metabolica, considerata fino a pochi anni fa appannaggio dell’età adulta, è invece già riscontrabile in bambini e adolescenti sovrappeso e obesi. • Fondamentale è il ruolo del pediatra nella diagnosi precoce ma soprattutto nella promozione di uno stile di vita che prevenga l’obesità. 219 L. Iughetti et al. Bibliografia Bitsori M, Kafatos A. Dysmetabolic syndrome in childhood and adolescence. Acta Paediatr 2005;94:995-1005. Calcaterra V, Klersyt C, Muratori T, et al. Prevalence of metabolic syndrome in children and adolescents with varying degrees of obesity. Clin Endocrinol 2008;68:868-72. 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In particolare la disponibilità di nuovi strumenti diagnostici, il follow-up a lungo termine di patologie che in passato determinavano una precoce mortalità, e le nuove conoscenze eziopatogenetiche, hanno permesso rispettivamente la conferma diagnostica, il delinearsi della storia naturale e l’identificazione di approcci terapeutici specifici per molte malattie metaboliche. Forniscono un esempio la disponibilità dello studio dell’attività di specifici enzimi e delle proteine di trasporto su fibroblasti ottenuti da biopsia cutanea e dell’analisi molecolare per la diagnosi di difetti di glicosilazione. Ancora la disponibilità di un follow-up a lungo termine per i pazienti con glicogenosi tipo1, ha permesso di dimostrate la presenza, in tali pazienti di un coinvolgimento multi sistemico che inficia notevolmente la qualità di vita e la sopravvivenza dei pazienti. Inoltre l’identificazione di mutazioni del gene che codifica per una α-aminoadipico semialdeide deidrogenasi (ALDH7A1/antiquitina), e del gene che codifica per la piridossamina fosfato ossidasi (PNPO), ha permesso di dimostrare l’efficacia della somministrazione di piridossina e piridossalfosfato nelle epilessie neonatali; così come la identificazione di mutazioni di CoQ10 ha permesso di dimostrare l’efficacia della terapia con ubiquinone. Infine la disponibilità di sofisticate tecniche biochimiche e molecolari ha permesso l’identificazione di geni le cui alterazioni sono responsabili di quadri clinici e/o biochimici noti, permettendo di inquadrare tali fenotipi come errori congeniti del metabolismo. Ne sono un esempio l’identificazione di mutazioni del gene MPV17 in pazienti con sindrome epatocerebrale (MIM 137960), di deficit acil-CoA deidrogenasi 9 (ACAD 9) (MIM 611126) in pazienti con quadri multisistemici con interessamento epatico, muscolare e cardiaco, deficit di glutammina sintetasi (GS) (MIM 610015) e di di fosfoserina amino transferasi (MIM 610992) in pazienti con anomalie cerebrali, ed infine di mutazioni del gene SUCLA2 in pazienti con encefalopatia ad esordio precoce con grave ipotonia/ritardo psicomotorio, progressiva distonia/atetosi, sordità neurosensoriale e lesioni dei gangli basali a tipo sindrome di Leigh, con pressoché esclusivo coinvolgimento di putamen e caudato. Summary The recent literature has testified an increase in the studies on the inborn errors of metabolism. The availability of new diagnostic facilities, long-term follow-up of several diseases and the new etiopathogenetic findings, have open the route to the increase in the number of the diagnosis of IEM, the definition of the natural history and the identification of specific therapeutic approaches for several IEM. In particular, the possibility to study the activity of specific enzyme and of the transport protein on fibroblast and the availability of the molecular analysis have increased the number of diagnosis of carbohydrate glycosilation defect. The availability of a long-term follow-up for most of the patients affected by glycogen storage disease type 1, have demonstrated the presence, in these patients of a multi-systemic involvement which impair the quality of life of the patients and are responsible of the mortality of the disease. Furthermore, the identification of mutation in the gene coding for alpha-aminoadipic semialdehyde dehydrogenase (ALDH7A1/ antiquitin) and in the gene coding for pyridoxine-5’-phosphate oxidase (PNPO) has explained the efficacy of pyridoxal phosphate as well as pyridoxine in the management of infants and young children with intractable seizures. Moreover, with the availability of biochemical and molecular investigation facilities, new gene have been identified as responsible of clinical and biochemical phenotype of known inborn error of metabolism. Examples are: the identification of mutation of MPV17 gene in patients affected by hepatocerebral syndrome (MIM 137960), of Acil-CoA dehydrogenase deficiency (MIM 611126) in patients with liver, muscle and heart involvement, of GLUTAMINE SYNTHASE DEFICIENCY (MIM 610015) and of PHOSPHOSERINE AMINOTRANSFERASE DEFICIENCY(MIM 610992) in patient with cerebral anomalies and of SUCLA2 mutation in patients with encephalopathy and showing severe hypotonia and developmental delay, progressive dystonia, deafnees and involvement of basal ganglia. Introduzione Le malattie metaboliche ereditarie rappresentano un capitolo sempre più rilevante nell’ambito della patologia pediatrica. Le recenti innovazioni tecnologiche e la conseguente modernizzazione delle tecniche di diagnostica biochimica e genetico-molecolare hanno portato nel corso degli anni ad una crescita significativa delle conoscenze in questo settore. In particolare negli ultimi anni l’attenzione è stata rivolta alla comprensione dei meccanismi fisiopatologici di malattie già note da tempo, alla scoperta di geni responsabili di quadri clinici/biochimici noti, alla ridefinizione di fenotipi clinici e al conseguente tentativo di correlazioni genotipo-fenotipo, nonché allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici (Campeau et al., 2008). Sebbene rare, se considerate individualmente, le malattie metaboliche rappresentano una causa rilevante di morbilità e mortalità in età pediatrica. Si tratta di malattie che possono avere un’espressione multisistemica con conseguente coinvolgimento dei vari organi ed 221 D. Melis et al. apparati, pertanto i sintomi d’esordio e le complicanze sono spesso eterogenei e possono coinvolgere inizialmente il pediatra generalista così come il pediatra ospedaliero e/o universitario o specialisti in neurologia, nefrologia, cardiologia, ecc. Questo articolo affronta alcuni temi più rilevanti e riguardanti le novità emerse dalla revisione della letteratura recente. Per evitare di affrontare in maniera sistematica le differenti patologie abbiamo raggruppato in due principali capitoli gli argomenti in modo da rendere la lettura più interessante e comprensibile anche al lettore non specialista. Novità in tema di ipoglicemia L’ipoglicemia rappresenta un evenienza di frequente osservazione in epoca pediatrica, sia nel periodo neonatale che nelle età successive. Per semplificare, le ipoglicemie possono essere classificate su base clinica o su base patogenetica (Tab. I). Iperinsulinismo La PET scan nella diagnosi di forme focali e/o diffuse di iperinsulinismo L’iperinsulinismo congenito è la causa più comune di ipoglicemia persistente in età pediatrica e rappresenta un’entità eterogenea che comprende condizioni clinicamente, geneticamente e morfologicamente distinte, tutte accomunate da inappropriata secrezione insulinica da parte delle cellule β-pancreatiche (Tab. II). Generalmente si manifesta in epoca neonatale o nella prima infanzia con ipoglicemia ad andamento “capriccioso”, senza compromissione d’organo, con assenza di chetoni urinari e pronta risposta alla somministrazione di glucagone. Anatomicamente si riconoscono forme focali e forme diffuse, indistinguibili clinicamente, ma sostenute da meccanismi molecolari e genetici differenti. Le forme focali, che rappresentano circa il 30% dei casi, sono caratterizzate da iperplasia delle cellule β-pancreatiche in una porzione limitata del pancreas, nel contesto di una ghiandola normale (Delonlay et al., 2007). La forma diffusa, che comprende tutte le forme genetiche attualmente note, recessive e dominanti, corrisponde ad un’abnorme secrezione insulinica da parte di tutte le cellule β-pancreatiche, che presentano nuclei di dimensioni aumentate e disseminate in tutta la ghiandola. Le forme “focali” sono sporadiche e riconoscono un preciso meccanismo di tipo genetico caratterizzato, esclusivamente a livello delle cellule coinvolte dalla lesione iperplastica, da una perdita dell’allele materno a livello della regione del braccio corto del cromosoma 11. L’allele paterno, che è invece portatore di mutazioni dei geni SUR1 o KIR6.2, risulta quindi attivo in maniera emizigote. Esiste infine un 10% di casi atipici non classificabili. Tabella I. Classificazione delle ipoglicemie. Clinica Modalità d’insorgenza A digiuno – postprandiale – capricciosa Età d’insorgenza Neonatale – prima infanzia – seconda infanzia Chetoni urinari Presenti – assenti Risposta al glucagone Presente – assente Coinvolgimento d’organo Fegato – cuore – muscolo scheletrico – sistemico Etio-Patogenetica Forme metaboliche Glicogenosi, difetti gluconeogenesi, difetti ossidazione acidi grassi, malattie mitocondriali, intolleranza al fruttosio, galattosemia, ipoglicemia chetotica, ecc. Forme endocrine Iperinsulinismi, difetti ormoni controinsulari Forme transitorie Prematurità/dismaturità, diabete materno, ecc. Forme secondarie Epatopatie, farmaci, ecc. Tabella II. Classificazione degli iperinsulinismi. Genetica Forme autosomiche dominanti Mutazioni gk, gdh (iperinsulinismo – iperammoniemia), slc16a1 (ipoglicemia indotta da esercizio) Forme autosomiche recessive Mutazioni sur, kir6.1, Schad, pmi (cdg1b) Forme sporadiche Forme focali, mutazioni gdh (iperinsulinismo-iperammoniemia) Istopatologica Forme diffuse Trattamento farmacologico, indicazione chirurgica solo nei casi resistenti Forme focali Indicazione chirurgica elettiva Clinica Risposta ai farmaci (diazossido – somatostatina – nifedipina) Presente – assente (indicazione chirurgica elettiva) GK: glucochinasi; GDH: glutammato deidrogenasi; SLC16A1: trasportatore dei monocarbossilati 1; SUR: recettore delle sulfaniluree; SCHAD: idrossiacilCoA deidrogenasi a catena corta. 222 Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico Il trattamento delle forme focali vede l’indicazione chirurgica elettiva con risoluzione completa della sintomatologia. Nelle forme diffuse l’approccio terapeutico è più conservativo e si basa sull’uso di diazossido, somatostatina e, più raramente, nifedipina; l’indicazione chirurgica è limitata ai soli casi non rispondenti ai farmaci per l’elevato rischio di insorgenza di diabete iatrogeno. La diagnosi differenziale tra forma focale e forma diffusa rappresenta pertanto un elemento chiave per la prognosi e la qualità di vita di questi pazienti e le loro famiglie. Purtroppo le metodiche di imaging convenzionali (ecografia, TC, RM) non permettono di identificare e localizzare le forme focali. Fino a pochi anni fa la diagnosi differenziale tra le due forme si basava sul cateterismo venoso pancreatico, tecnica estremamente complessa e di fatto limitata ad un unico centro in tutto il mondo. Recentemente è stata utilizzata una tecnica innovativa di più facile uso basata sulla PET (Fig. 1), utilizzando come tracciante la [18F]Fluoro-L-DOPA (Otonkoski et al., 2003; Ribeiro et al., 2005). La capacità di captare L-DOPA e convertirla in dopamina è correlata alle caratteristiche neuroendocrine delle cellule pancreatiche iperfunzionanti rispetto alle β-cellule normali. Il potere di risoluzione delle lesioni focali con la PET è di circa 1 mm di diametro, con una sensibilità del 94% ed una specificità del 100% in confronto con l’istochimica (Hardy et al., 2007). Per ottimizzare la risoluzione della PET è necessaria l’integrazione e la fusione delle immagini con quelle ottenute con le TC o con RMN (Barthlen et al., 2008) mentre, per l’esatta delimitazione della lesione focale, è comunque necessario l’esame istologico estemporaneo durante l’intervento chirurgico. Box 1 Fino a pochi anni fa la diagnosi differenziale tra le forme di iperinsulinismo focale e diffuso era possibile solo mediante cateterismo pancreatico, tecnica invasiva, rischiosa, realizzabile in pochissimi centri al mondo. Oggi la 18F-DOPA PET si è dimostrata strumento capace di distinguere le due forme istologiche. L’utilizzo combinato della PET /TC è in grado di definire con precisione la localizzazione anatomica con ovvio vantaggio vista l’indicazione chirurgica elettiva nelle forme focali Complicanze della glicogenosi I La glicogenosi tipo I (GSDI) è un errore congenito del metabolismo del glicogeno causato dal difetto del sistema della glucosio 6-fosfatasi; sono note due forme, la GSD1a e la GSD1b. Entrambe le forme si presentano con epatomegalia, ipoglicemia da digiuno, latticoacidemia ed iperlipidemia; nella forma Ib è presente neutropenia con deficit funzionale dei neutrofili e suscettibilità a infezioni severe e malattie infiammatorie croniche intestinali. La terapia, basata sulla somministrazione di pasti frequenti, supplementazione con amido di mais crudo (maizena) e/o alimentazione enterale notturna, risulta efficace nel prevenire l’ipoglicemia, gli episodi di scompenso metabolico acuto e l’accumulo di glicogeno e lipidi nel fegato e ha determinato un cambiamento nella storia naturale della glicogenosi tipo 1, permettendo il prolungamento della sopravvivenza. Parallelamente a questo fenomeno si è però osservata la comparsa di tardivo coinvolgimento di diversi organi ed apparati. Relativamente a queste tematiche, grazie anche al contributo di ricerche cliniche condotte in Italia, sono emerse negli ultimi anni alcune novità di rilievo. La nefropatia glomerulare In molti pazienti con GSD1 la funzione renale si caratterizza con una fase iniziale di iperfiltrazione glomerulare, seguita da comparsa di proteinuria e ipertensione e successiva insufficienza renale cronica. Un recente studio multicentrico ha valutato retrospettivamemente in 95 pazienti provenienti da 9 centri di riferimento italiani l’efficacia degli ACE-inibitori nel ridurre l’iperfiltrazione, la microalbuminuria e la proteinuria (Melis et al., 2005). Lo studio ha dimostrato l’efficacia degli ACE-inibitori nel ridurre l’iperfiltrazione glomerulare, permettendo di ritardare l’evoluzione del danno renale cronico, ma solo a condizione che il trattamento venga iniziato nelle fasi iniziali del coinvolgimento renale; gli ACE-inibitori sono invece risultati inefficaci nel ridurre la microalbuminuria e la proteinuria. Attualmente è in corso una prosecuzione dello studio su base prospettica per confermare i risultati del precedente lavoro, nonché per validare approcci terapeutici alternativi più efficaci sulla microalbuminuria e la proteinuria. L’ipotirotidismo La frequente osservazione di una bassa statura nei pazienti con GSD ha suggerito la presenza di alterazioni della funzione endocrina per il possibile coinvolgimento dell’asse Growth Hormone, insuline-like growth factor (GH-IGF1) e/o della funzionalità tiroidea. Sulla base di queste ipotesi precedentemente proposte, è stata recentemente dimostrata l’elevata prevalenza di ipotiroidismo – in entrambe le forme di GSDI – e di autoimmunità nei soli pazienti GSD1b (Melis et al., 2007). L’alterazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide, che sembra peraltro peggiorare il controllo metabolico, è caratterizzata da una riduzione dei livelli di FT4, con aumentati livelli basali di Thyroid-stimulating hormone (TSH) e aumentata risposta del TSH al test dinamico. Nei soli pazienti con GSDIb è stato osservato aumento di autoimmunità tiroidea, un fenomeno probabilmente ascrivibile alla neutropenia e /o al deficit funzionale dei neutrofili, che. come è noto, rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di patologie autoimmuni. L’ipotesi che i pazienti GSD1b siano a rischio per lo sviluppo di patologie autoimmuni è inoltre supportata dall’osservazione di Miastenia Gravis nella GSD1b (Melis et al., 2008). Nuove malattie associate a ipoglicemia Mutazioni del gene MPV17 associate a sindrome epatocerebrale (MIM 137960) Seppur rare, le malattie da deplezione del DNA mitocondriale ad espressione prevalentemente epatica possono causare, oltre ad acidosi lattica, ipoglicemia. Negli ultimi anni sono state identificate numerose forme genetiche responsabili di sindrome da deplezione (POLG, TWINKLE, TK2, DGUOK, TP, ANT1, SUCLA2, SUCLG1) associate a miopatie, encefalomiopatie e quadri epatocerebrali. A questo ultimo gruppo appartiene la malattia causata da mutazioni del gene MPV17 recentemente descritta da un gruppo italiano (Spinazzola et al., 2006). Il quadro clinico è un continuum tra una forma ad esordio nei primi mesi di vita con gravi ipoglicemie, modesta iperlatticoacidemia e danno epatocellulare, che conduce a cirrosi e morte entro l’anno di vita – ed una con epatopatia più lieve con maggior sopravvivenza e con coinvolgimento neurologico che si manifesta negli anni successivi. Complessivamente finora sono stati descritti 34 pazienti di cui 24 affetti dalla forma precoce e 10 dalla forma lieve. È stato recentemente messo in evidenza l’efficacia terapeutica di un regime dietetico simile a quello utilizzato nelle glicogenosi (Parini et al., 2008). 223 D. Melis et al. Il deficit acil-CoA deidrogenasi 9 (ACAD 9) (MIM 611126) Numerose sono le malattie legate a deficit della β-ossidazione responsabili di quadri multisistemici con interessamento epatico, muscolare e cardiaco. Caratteristico è il riscontro di ipoglicemia ipochetotica indotta da digiuno o stress associata a aumento delle transaminasi (talvolta con manifestazioni acute a tipo sindrome Reye), cardiomiopatia, rabdomiolisi e mioglobinuria intermittente. Il deficit di ACAD9 è stato descritto per la prima volta nel 2007 in 3 pazienti di età pediatrica (He 2007), il primo dei quali è un ragazzo di 14 anni che, dopo assunzione di aspirina nel corso di un episodio febbrile, ha presentato ipoglicemia e un quadro tipo sindrome di Reye con iperammoniemia, iperCKemia ed iperLDHemia; l’evoluzione clinica successiva è stata fatale con edema cerebrale, morte e riscontro autoptico di steatosi epatica. Gli altri due pazienti hanno sviluppato intorno al primo anno di vita insufficienza epatica acuta in seguito ad una malattia intercorrente. L’evoluzione successiva è stata caratterizzata da episodi ricorrenti di ipoglicemia con ipertransaminasemia/iperCKemia, debolezza muscolare e difficoltà nella marcia sempre scatenati da eventi trigger. Il primo caso è stato complicato da un infarto lacunare ai gangli della base, il secondo da una cardiomiopatia dilatativa che ha condotto a morte a 4 anni. Per la diagnosi è stato dirimente lo studio biochimico degli acidi organici urinari e delle acilcarnitine. Nuove malattie e nuove cause genetiche di patologie neurometaboliche Malattie metaboliche con epilessia L’epilessia raramente riconosce come agente etiologico una malattia metabolica quando si presenta isolata da altri segni e sintomi, mentre la presenza di episodi convulsivi in contesti clinici multisistemici rappresenta un segno comune in numerosi errori congeniti del metabolismo. Negli ultimi anni in questo settore si è osservato un notevole incremento delle conoscenze con ricadute pratiche di rilievo per il riconoscimento di nuove forme trattabili. Nel presente paragrafo verranno discusse le nuove cause metaboliche di epilessia nel neonato e affrontata la diagnostica differenziale con altre forme già note. Epilessia piridossina-dipendente (PDE) (MIM 266100) Si presenta nei primi giorni di vita con convulsioni generalizzate resistenti al trattamento anticonvulsivante convenzionale. Sono state descritte inoltre casi con convulsioni prenatali che esordiscono intorno alle 20 settimane di gestazione (Wolf et al., 2005). Nel 30% dei neonati viene riportata una sindrome neurologica neonatale con ipereccitabilità, irritabilità ed aumentata sensibilità agli stimoli; tale quadro può essere accompagnato da segni sistemici quali distress respiratorio, distensione addominale, vomito ed acidosi metabolica. Possono essere presenti anomalie cerebrali quali ipoplasia del corpo calloso, idrocefalo, emorragia cerebrale, ipoplasia cerebellare ed anomalie della sostanza bianca (Surtees e Wolf, 2007). L’ Elettroencefalogramma (EEG) è alterato ma non diagnostico. Gli episodi critici e le alterazioni rilevate all’EEG rispondono prontamente, generalmente entro pochi minuti, alla somministrazione endovenosa di 100 mg di piridossina, una terapia che deve essere protratta per tutta la vita. Nei casi trattati precocemente la prognosi è generalmente buona anche se talora essi possono presentare nel tempo difficoltà di apprendimento 224 o ritardo del linguaggio. Se il trattamento è ritardato, i bambini sviluppano un severo ritardo mentale con distonie e disturbi sensoriali. Un’alterazione del gene che codifica per una α-aminoadipico semialdeide deidrogenasi (ALDH7A1/antiquitina), presente nel sistema nervoso centrale, è stata riscontrata in diversi pazienti affetti da PDE. Il deficit del suddetto enzima determina un accumulo di α−aminoadipico semialdeide (α-AASA) che è in equilibrio reversibile con la piperideina-6-carbossilato che può condensarsi con il piridossalfosfato e inibire la sua attività. Pertanto nella PDE è presente un deficit secondario di piridossalfosfato, la forma attiva della piridossina o vitamina B6. L’accumulo di AASA nel plasma e nelle urine rappresenta il marker specifico della PDE causata da deficit di aminoadipico semialdeide deidrogenasi. Un altro metabolita della via di degradazione della lisina è l’acido pipecolico, che può risultare aumentato nella PDE ma risulta meno specifico e sensibile di AASA. Entrambi i marcatori risultano presenti anche durante il trattamento con piridossina. Deficit di piridossamina fosfato ossidasi (PNPO) (epilessia rispondente al piridossalfosfato oppure epilessia piridossal-fosfato dipendente) (MIM 610090) Il deficit di PNPO si manifesta con sofferenza fetale negli ultimi mesi di gestazione. Le convulsioni compaiono nei primi giorni di vita e sono resistenti agli anticonvulsivanti, l’EEG mostra un’alterazione dell’attività di fondo e scariche di punta-onda, mentre inizialmente la Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) encefalo non mostra alterazioni della struttura cerebrale. Le convulsioni non rispondono alla piridossina, mentre si ha una risposta immediata e persistente alla somministrazione orale di piridossal-fosfato (di qui il nome alternativo di convulsioni piridossal-fosfato dipendenti) (Clayton et al., 2003). Il trattamento tempestivo si associa a prognosi favorevole, a differenza dei casi non trattati o con inizio tardivo, in cui si osserva morte entro il primo anno o presenza di danni neurologici severi con grave atrofia cerebrale. Dal punto di vista biochimico i marcatori del deficit di PNPO sono presenti nel liquor, nel plasma e nelle urine. Il deficit di piridossalfosfato determina una ridotta attività della L-aminoacido aromatico decarbossilasi, del sistema di clivaggio della glicina e della treonina deidratasi. I pazienti mostrano una caratteristica riduzione nel liquor di acido omovanillico e 5-idrossi-indolacetico con aumento di 3-metossitirosina; nel liquor e nel plasma si riscontra un lieve aumento nella concentrazione di glicina e treonina mentre nelle urine è presente l’acido vanil-lattico. Tali alterazioni biochimiche non sono necessariamente presenti in tutti i pazienti ma, se presenti, si normalizzano con il trattamento. Convulsioni rispondenti all’acido folinico oppure folinico-dipendenti I pazienti presentano nei primi giorni di vita convulsioni resistenti ai comuni antiepilettici e possono essere presenti i segni di una encefalopatia neonatale. L’EEG è alterato con punte-onda multifocali ma non diagnostico e la RMN encefalo è normale. Sono riportati casi con transitoria risposta alla piridossina ma il trattamento elettivo si basa sulla somministrazione di acido folinico. Gli episodi critici possono ripresentarsi successivamente e talora rispondono ad un aumento della dose di acido folinico, talvolta richiedendo l’aggiunta di antiepilettici. In assenza della terapia specifica questa encefalopatia risulta letale ma anche nei pazienti trattati è riportato un aumentato rischio di mortalità e di difficoltà cognitive. Nel liquor è presente un marcatore biochimico, ancora non ben definito, ma identificabile per le sue caratteristiche cromatografiche in HPLC, che si riduce in corso di trattamento (Surtees e Wolf, 2007). Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico Deficit del trasportatore del glutammato mitocondriale (MIM 609304) Recentemente sono stati descritti 4 bambini con epilessia mioclonica precoce, microcefalia progressiva, pattern elettroencefalografico a tipo burst suppression, alterazione dei potenziali evocati visivi e atrofia cerebrale alla RM nei quali, attraverso studi genetici di linkage, è stato possibile documentare la presenza di una mutazione missenso del gene SLC25A22 codificante per la sintesi di un carrier mitocondriale specifico per il co-trasporto del glutammato con ioni H+ in scambio con ioni OH-. Gli studi di espressione hanno mostrato come questa proteina sia specificamente espressa durante lo sviluppo in aree del sistema nervoso centrale (Molinari et al., 2005). Questa nuova malattia, seppur priva di marcatori biochimici e di trattamento, dimostra l’associazione tra il metabolismo mitocondriale del glutammato e l’epilessia mioclonica offrendo nuove indicazioni, sia diagnostiche che fisiopatologiche, nell’approccio alle epilessie neonatali con burst suppression. La flow-chart diagnostica delle epilessie neonatali prevede in prima battuta l’esclusione di condizioni precipitanti quali infezioni, ipoglicemia, alterazione elettrolitica. Sono comunque applicabili due approcci alla diagnosi. Il primo è basato sulla verifica della risposta clinica alla somministrazione del supplemento vitaminico, il secondo è invece basato sulla ricerca dei marcatori biochimici. Quest’ultimo approccio richiede però la collaborazione e/o la disponibilità di un laboratorio altamente specializzato e va inoltre sottolineato che oltre alle difficoltà metodologiche e ai lunghi tempi di risposta non tutti i pazienti mostrano alterazioni utili per la diagnosi (Hoffmann et al., 2007). La Figura 2 e la Tabella III illustrano in dettaglio questi aspetti. Box 2 Sono state identificate nuove malattie metaboliche, la maggior parte delle quali è suscettibile di trattamento con vitamine, che causano epilessia in epoca neonatale Malattie metaboliche con malformazioni cerebrali Le malattie metaboliche spesso si associano ad un coinvolgimento del sistema nervoso centrale ma solo alcune di esse causano quadri di tipo malformativo/displastico (es. malattie perossisomiali, deficit di piruvico deidrogenasi, glutarico aciduria tipo I). Recentemente sono state descritte due nuove patologie da difetto nella sintesi di aminoacidi che determinano alterazioni nella morfogenesi cerebrale. Deficit di glutammina sintetasi (GS) (MIM 610015) Il deficit di GS è stato descritto per la prima volta nel 2005 (Häberle et al., 2005) in due neonati con esito infausto che presentavano già in età prenatale alterazioni ecografiche cerebrali all’ecografia, con dilatazione ventricolare e della fossa cranica posteriore e cisti paraventricolari. In un caso erano presenti polidramnios e micromelia. Alla nascita erano presenti convulsioni, severa ipotonia, tratti grossolani del volto, insufficienza respiratoria e la RM mostrava una grave atrofia con completa agiria in uno e grave ritardo di girazione nell’altro, immaturità della sostanza bianca e numerose cisti paraventricolari subependimali frontali e temporali. Le indagini metaboliche mostravano livelli bassissimi di glutammina nel siero, urine e liquor mentre lo studio del gene GS evidenziava mutazioni missense in omozigosi. Questa osservazione è importante in quanto evidenzia gli effetti della carenza di un singolo aminoacido sulla morfogenesi cerebrale; il quadro clinico, principalmente neurologico e malformativo e con modeste dismorfie facciali, entra in diagnosi differenziale con le malattie dei perossisomi e con i difetti mitocondriali. Deficit di fosfoserina amino transferasi (MIM 610992) È stato descritto nel 2007 in 2 fratelli, entrambi portatori di mutazioni nel gene PSAT1 (Hart et al., 2007), che mostravano livelli ridotti di serina e glicina nel liquor. Dal punto di vista clinico, il primo paziente presentava all’età di 2 mesi convulsioni farmacoresistenti, ipertono, microcefalia acquisita e quadro RM con atrofia cerebrale, ipoplasia del verme cerebellare e alterazioni della sostanza bianca. In seguito al riscontro delle alterazioni metaboliche, il bambino è stato trattato con supplementazione di glicina e serina, ma tale trattamento non ha modificato il grave quadro neurologico progressivo con successivo decesso all’età di 7 mesi. La sorella minore, trattata invece fin dalle prime ore di vita, ha avuto un normale sviluppo della circonferenza cranica ed è risultata asintomatica a 3 anni di vita La serina è un aminoacido non essenziale che viene scarsamente trasportata attraverso la barriera ematoencefalica, un fenomeno che sottende la probabile sintesi de novo nel sistema nervoso centrale necessaria per il funzionamento e la morfogenesi cerebrale. La serina è inoltre il substrato per la sintesi della glicina, il che spiega il riscontro di livelli ridotti di glicina nel deficit del metabolismo della serina. La normale circonferenza cranica alla nascita suggerisce la funzione vicaria della placenta per il mantenimento di un livello adeguato di serina nel cervello fetale. Questa malattia è suscettibile di trattamento in fase presintomatica e pertanto risulta cruciale il suo riconoscimento precoce. Per la diagnosi è necessario il dosaggio degli aminoacidi liquorali, poiché i livelli plasmatici di serina e glicina possono risultare solo di poco ridotti. L’attività enzimatica nei fibroblasti è ridotta parzialmente e probabilmente il deficit totale è incompatibile con la vita. Box 3 Due nuove malattie metaboliche causate da un difetto nella sintesi di aminoacidi causano malformazione cerebrale. Nuove forme di acidemia metilmalonica Forme “atipiche” Le metilmalonico acidurie (MMA) raggruppano una categoria geneticamente eterogenea di malattie autosomiche recessive che coinvolgono il metabolismo del metilmalonato e della cobalamina nella conversione del metilmalonil-CoA a succinilCo-A. Le cause genetiche responsabili delle forme “classiche” di MMA comprendono il difetto dell’apoenzima metilmalonil-CoA mutasi e i difetti della sintesi del cofattore adenosilcobalamina (cblA, cblB, cblH). Accanto a queste forme di MMA sono state recentemente descritte e caratterizzate forme “atipiche di MMA associata a difetti della succinil-CoA sintetasi (SCS), il complesso enzimatico che catalizza la conversione del succinil-CoA a succinato nel ciclo di Krebs. Mutazioni del gene SUCLA2 codificante la β-subunità della SCS sono state descritte in pazienti con moderata metilmalonico aciduria e deplezione del DNA mitocondriale (mtDNA) che presentavano un peculiare fenotipo clinico, biochimico e neuroradiologico (Elpeleg et al., 2005; Carrozzo et al., 2007; Ostergaard et al., 2007a). Si tratta di una encefalopatia ad esordio precoce con grave ipotonia/ritardo psicomotorio, progressiva distonia/atetosi, sordità neurosensoriale 225 D. Melis et al. Tabella III. Errori congeniti del metabolismo in pazienti con convulsioni neonatali. Patologia Parametri diagnostici Terapia Responsive al trattamento Epilessia piridossino-dipendente Acido pipecolico e del α−aminoadipico semial- Piridossina 15 mg/kg/die deide nel liquor Deficit di piridossamina-fosfato-ossidasi Aumento di 3-metossitirosina, glicina e treonina Piridossale / fosfato 30-50mg/kg nel liquor Riduzione dei livelli di acido omovanillico e di acido 5 idrossi indolacetico nel liquor Convulsioni folinico-dipendenti Metabolita caratteristico in HPLC Acido folinico 2,5-5 mg x 2/die Deficit di biotinidasi Attività plasmatica della biotinidasi Trial terapeutico con biotina Biotina 5-10 mg 2 vv/die Altre epilessie metaboliche suscettibili di trattamento Dieta chetogena Deficit di trasportatore del glucosio (GLUT1) Livelli di glucosio nel liquor < 2,2 mM Rapporto glucosio liquor/plasma < 0,5 Studio del trasporto di glucosio negli eritrociti Analisi molecolare del gene SLC2A1 Deficit di serina Livelli sierici di serina ridotti a digiuno Serina 200-600 mg/kg/die Livelli di serina e glicina ridotti nel liquor Dosaggio enzimatico di 3-fosfoglicerato deidrogenasi (PHGDH) e fosfoserina aminotrasferasi (PSAT1) nei fibroblasti Analisi molecolare di PHGDH e PSAT1 Deficit di creatina Rapporto creatina/creatinina nelle urine Creatina 0,5-2g/kg/die Rapporto Guanidinoacetato/creatinina nelle urine Ornitina 100 mg/kg/die Ridotta creatina nel liquor Dieta ristretta in arginina Riduzione picco creatina + creatinina alla RMN spettroscopica Attività guanidino-acetato-metiltrasferasi nei fibroblasti Analisi molecolare dei geni guanidino-acetatometiltrasferasi (GAMT) arginino-glicina amidinotrasferasi (AGAT), SLC6A8 Fenilchetonuria non trattata Fenilalanina plasmatica Analisi molecolare del gene fenilalanina idrossilasi Dieta ristretta in fenilalanina Altre epilessie metaboliche non trattabili o scarsamente rispondenti Deficit di solfito ossidasi isolato o combinato con deficit di xantina ossidasi Ipouricemia Positività Sulfitest urine Nessun trattamento specifico Iperglicinemia non chetotica Aumento glicina liquor e sangue Rapporto glicina liquor/glicina sangue > 0,02 Scarsa/assente risposta a Benzoato e Destrometorfano D-2-idrossiglutarico aciduria Presenza di acido D-2-idrossiglutarico nelle urine Nessun trattamento specifico Malattia di Menkes Ridotto rame e ceruloplasmina nel sangue Rame istidinato sottocute Malattie perossisomiali Aumento VLCFA, ac. fitanico sangue Epossidicarbossilico aciduria Nessun trattamento specifico Deficit del trasportatore mitocondriale del glutammato Nessun marker biochimico Nessun trattamento specifico Modificata da Surtees e Wolf, 2007. e lesioni dei gangli basali a tipo sindrome di Leigh, con pressoché esclusivo coinvolgimento di putamen e caudato. Il profilo biochimico è diagnostico ed è caratterizzato da acidosi lattica, moderata MMA associata alla presenza nel sangue e nelle urine di un caratteristico estere della carnitina, la C4-dicarbossilico-carnitina, corrispondente alla succinil-carnitina. Analoghe alterazioni biochimiche sono state riscontrate in tre pa- 226 zienti provenienti da una famiglia consanguinea, che presentavano un gravissimo quadro neonatale caratterizzato da dismaturità, encefalopatia, epatopatia e fatale acidosi lattica. L’analisi di linkage ha permesso di identificare nei pazienti la presenza di una mutazione nel gene SUCLG1, codificante la α-subunità della SCS (Ostergard et al., 2007). Infine, in altri pazienti con MMA atipica, è stato recentemente de- Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico Tabella IV. Acidurie Metilmaloniche classiche, atipiche e difetti del metabolismo della cobalamina. Gene MUT Gruppo di complementazione Mut0/mut Enzima/proteina Metaboliti caratteristici Metilmalonil-CoA mutasi MMA elevato Propionil-carnitina MMAA cblA Trasporto mitocondriale della cobalamina MMA elevato Propionil-carnitina MMAB cblB ATP: cobalamina adenosyl-transferase MMA elevato Propionil-carnitina MMACHC cblC Trasporto citosolico della cobalamina MMA medio/elevato Omocisteina MMADHC cblD trasporto citosolico della cobalamina MMA medio/elevato Omocisteina MMADHC cblD var1 trasporto citosolico della cobalamina Omocisteina MMADHC cblDvar2 trasporto citosolico della cobalamina MMA medio ? cblE Rilascio lisosomiale della cobalamina Omocisteina ? cblF ? MMA medio/elevato Omocisteina ? cblG Metionina sintasi Omocisteina MCEE Metilmalonil-CoA epimerasi MMA basso SUCLA2 Succinil-CoA sintetasi βsubunità MMA basso Succinil-carnitina SUCLG1 Succinil-CoA sintetasi αsubunità MMA basso Succinil-carnitina MMA: acido metilmalonico urinario scritto un nuovo difetto genetico a carico del gene della metilmaloni-CoA epimerasi, associato ad una lieve MMA ed una ampia eterogeneità fenotipica, che comprende forme asintomatiche, casi con grave acidosi metabolica, o quadri clinici con atassia, disartria e parapresi spastica (Dobson et al., 2006; Bikker et al., 2006; Gradinger et al., 2007). Identificazione dei geni responsabili dei difetti di cobalamina C e cobalamina D Sono noti nove differenti difetti del metabolismo intracellulare della cobalamina (cbl) inizialmente definiti attraverso studi di complementazione cellulare (Tab. IV). I difetti cblA, cblB, e cblH causano MMA isolata, mentre i difetti di cblE e cblG causano omocistinuria isolata. I difetti cblC, e cblF causano MMA associata ad omocistinuria in quanto interferiscono nella conversione della cobalamina nelle due forme metabolicamente attive, l’adenosilcobalamina e la metilcobalamina, cofattori rispettivamente della MMA mutasi e della metionina sintasi. Il difetto di cblD è più complesso in quanto può determinare MMA isolata, MMA con omocistinuria come anche omocistinuria isolata. Nel 2006 è stato mappato il locus cblC sul cromosoma 1 mediante analisi di linkage e successivamente mediante analisi di aplotipo è stato identificato il gene MMACHC; l’esatta funzione del prodotto genico non è tuttora chiara ma sembra che sia coinvolto nell’uptake intracellulare della cobalamina (Lerner-Ellis et al., 2006). Nel 2008 infine è stato individuato il gene MMADHC responsabile della forma cblD (Coelho et al., 2008). Questo lavoro appare molto interessante dal punto di vista biologico in quanto ha permesso di differenziare i differenti fenotipi biochimici. Nei casi con MMA isolata le mutazioni MMADHC sono localizzate nella porzione N-terminale della proteina e consistono in mutazioni nonsense, duplicazioni e frame-shift; nei casi con sola omocistinuria le mutazioni, tutte missense, sono localizzate nella regione C-terminale; infine, nei casi con MMA e omocistinuria le alterazioni genetiche sono presenti nella regione C-terminale e consistono in mutazioni nonsense, delezioni splice-site, e duplicazioni frame-shift. Questa chiara correlazione genotipo-fenotipo si spiega con la presenza di almeno due domini funzionali della proteina che, in base alla localizzazione ed al tipo di mutazione, sono in grado di alterare la sintesi della sola adenosilcobalamina, della sola metilcobalamina o di entrambe. Difetti di sintesi del coenzima Q10 Il coenzima Q10 (CoQ10) è situato nella membrana mitocondriale interna e ha un ruolo di primo piano nel metabolismo ossidativo in quanto trasporta gli elettroni dal complesso I e II al complesso III della catena respiratoria. I difetti di CoQ10 sono stati inizialmente descritti alcuni anni fa, ma solo ultimamente sono stati identificati i geni malattia. I difetti di CoQ10 possono essere classificati in 4 forme cliniche (Rötig et al., 2007): 1) una forma encefalomiopatica con debolezza muscolare, atassia, convulsioni, difficoltà di apprendimento e mioglobinuria; 2) una forma sistemica con encefalopatia tipo sindrome di Leigh, tipicamente associata a sindrome nefrosica nella primissima infanzia e/o epatopatia (meno frequente) e coinvolgimento dell’occhio e dell’orecchio; 227 D. Melis et al. 3) una forma puramente miopatica con intolleranza allo sforzo, mioglobinuria e miopatia; Box 4 Fino a pochi anni fa erano note le cause genetiche delle cosiddette forme “classiche” di metilmalonico aciduria (il difetto dell’enzima metilmalonil CoA mutasi e/o del suo cofattore adenosilcobalamina) Oggi conosciamo alcune delle cause responsabili di forme “atipiche” di metilmalonico aciduria che si presentano con quadri clinici e biochimici caratteristici. La corretta definizione del fenotipo clinico (ipotonia/ritardo psicomotorio e successiva distonia, sordità) e neuroradiologico (iperintensità di putamen e caudato), associato ad uno studio biochimico accurato (lieve metilmalonico aciduria, aumento della succinil-carnitina) orienta verso la corretta diagnosi genetica (mutazioni SUCLA2) evitando l’esecuzione di complesse ed invasive procedure quali la biopsia muscolare. La diagnosi differenziale della MMA associata ad omocistinuria, dapprima possibile solo mediante complessi studi di complementazione cellulari, è oggi possibile con l’analisi molecolare di geni recentemente identificati, responsabili dei difetti di cblC e cblD 4) una forma atassica con convulsioni, ipotrofia cerebellare o alterazioni dei gangli della base. Dal punto di vista biochimico è presente acidosi lattica; caratteristicamente, la biopsia muscolare mostra normale attività dei complessi della catena respiratoria mitocondriale se analizzati singolarmente, mentre se analizzati in maniera combinata è presente ridotta attività dei complessi CoQ10 dipendenti I+III e II+III. Nell’uomo sono noti almeno 11 geni codificanti le proteine necessarie per la biosintesi del CoQ10 e solo negli ultimi 2 anni sono stati scoperti alcuni dei determinanti genetici responsabili del difetto. In ordine cronologico è stata prima descritta la presenza di mutazioni COQ2 in due pazienti con encefalomiopatia e nefropatia (Quinzii et al., 2006), successivamente mutazioni del gene PDSS2 in un paziente con sindrome di Leigh e nefropatia (Lòpez et al., 2006), poi di mutazioni del gene PDSS1 in due pazienti con una forma sistemica meno grave (Mollet et al., 2007) ed infine sono state descritte contemporaneamente da due gruppi di autori mutazioni del gene COQ8/ADCK3/CABC1 nei pazienti con la forma atassica (Mollet et al., 2008; Lagier-Tourenne et al., 2008. È (invece) probabile, invece, che il difetto di CoQ10 sia di origine secondaria nei Tabella V. Classificazione dei difetti congeniti di glicosilazione: difetti della N-glicosilazione. Disordine Proteina alterata Gene mutato Quadro clinico CDG-Ia Fosfomannomutasi II PMM2 Ritardo di crescita, anomalie del sistema nervoso centrale, retinite pigmentosa, cardiomiopatia, capezzoli invertiti, epatomegalia, fibrosi epatica, sindrome nefrosica, osteoporosi, alterata distribuzione del grasso sottocutaneo, ipotiroidismo, trombocitosi CDG-Ib Fosfomannosio isomerasi MPI Ritardo di crescita, epatomegalia, fibrosi epatica, vomito diarrea, atrofia dei villi, ipoglicemia iperinsulinemica, trombocitosi CDG-Ic Glucosil-trasferasi I ALG6 Ritardo dello sviluppo psicomotorio, convulsioni, note dismorfiche CDG-Id Mannosiltrasferasi VI ALG3 Artrogripposi, atrofia ottica CDG-Ie Dol-P-Man sintasi I DPM1 Strabismo, coinvolgimento del sistema nervoso centrale, deficit del fattore XI CDG-If Man-P-Dol utilizzazione 1 MPDU1 Note dismorfiche, encefalopatia severa, contratture, difetti cutanei ittiosi formi CDG-Ig Mannosiltrasferasi VIII ALG12 RSPM, note dismorfiche, riduzione del fattore XI CDG-Ih Glucosiltrasferasi II ALG8 Enteropatia protido-disperdente, epatomegalia, bassi livelli di fattore XI, proteina C, antitrombina, ipoplasia polmonare, anomalie del sistema nervoso centrale, oculari, pan citopenia CDG-Ii Mannosiltrasferasi II ALG2 Coloboma, cataratta, spasmi infantili, ipsaritmia, dismielinizzazione alla RMN encefalo, bassi livelli di fattore IX CDG-Ij UDP-GlcNAc: Dol-P-GlcNAc-P trasferasi DPAGT1 Note dismorfiche, spasmi infantili, RSPM CDG-Ik Mannosiltrasferasi I ALG1 Epilessia, severo RSPM, cardiomiopatia, epatopatia, sindrome nefrosica, ipogonadismo, riduzione delle cellule ed infezioni severe, atrofia cerebrale alla RMN encefalo. CDG-Il Mannosiltrasferasi I ALG9 RSPM, convulsioni, microcefalia, epatomegalia. CDG-IIa N-acetilglucosoamiltrasfe- MGAT2 rasi II Bassa statura, note dismorfiche, osteopenia, cifoscoliosi, ritardo mentale, difetto dei fattori IX, XI,XII, proteina C ed S CDG-IIb glucosidasi I Ipotonia severa CDG-IIc trasportatore di fucosio- SLC35C1/FUCT1 GDP Immunodeficienza con ridotta funzionalità dei neutrofili, neutrofilia, scarsa crescita, ritardo mentale CDG-IId B 1,4 galactosiltrasferasi RSPM, malformazione di Dandy Walker, idrocefalo, miopatia, epatopatia colestatica, riduzione di IGF-I e IGF-BP3 nonostante una crescita normale Modificato da Jaeken and Matthijs, 2007. 228 GLS1 B4GALT1 Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico Tabella VI. Quadri clinici dei difetti congeniti di glicosilazione: difetti di O-glicosilazione e difetti combinati. Difetti di O-glicosilazione Disordine Proteina alterata Gene mutato Quadro clinico Difetti di O-xilosilglicani Esostosi cartilaginee multiple Sindrome di Ehlers Danlos Glucuroniltrasferasi/N-acetilgluco- EXT1/EXT2 samiltrasferasi b-1,4 galattosiltra- B4GALT7 sferasi7 Esostosi cartilaginee multiple Sindrome di Ehlers Danlos Difetto di O-Nacetilgalattosamilglicani Calcinosi familiare tumorale Polipeptide N-acetilgalattosamiltra- GALNT3 sferasi 3 Calcinosi familiare tumorale: deposizione ricorrenti di calcio nei tessuti sottocutanei associata sia a livelli normali che elevati di fosfato sierico Difetto di O-mannosilglicani Sindrome di WalkerWarburg Malattia muscolo-occhiocervello O-mannosiltrasferasi 1 POMT1/POMT2 O-mannosio b-1,2-N-acetilglucosa- POMGnT1 miltrasferasi Sindrome di Walker-Warburg: anomalie strutturali del SNC e dell’occhio, distrofia muscolare Distrofia muscolare dei cingoli: ritardo mentale, microcefalia, distrofia muscolare Malattia muscolo-occhio-cervello Distrofia muscolare congenita associata a difetto della migrazione neuronale Difetto di O-fucosil-glicano Disostosi spondilo-costale tipo III O-fucosio-specifico b-1,3-N-acetil- SCD03 glucosamiltrasferasi Disostosi spondilo-costale tipo III: disordine della segmentazione vertebrale Difetti combinati di N e O-glicosilazione Miopatia ereditaria inclusion UDP-GlcNAc epimerasi/chinasi body GNE CDG-II/COG7 Complesso oligomerico conservato COG7 del Golgi subunità 7 Note dismorfiche, encefalopatia, epatopatia col estatica, ritardi di crescita pre e post-natale Deficit del trasportatore del CMP-acido sialico Trasportatore del CMP-acido sialico Macrotrombocitemia, neutropenia, sanguinamenti spontanei di cute e mucose CDG-II/COG1 Complesso oligomerico conservato COG1 del Golgi subunità 1 SLC35A1 Ipotonia generalizzata, disturbo dell’alimentazione, microcefalia, rime palpebrali rivolte in basso ed all’esterno, mani e piedi piccoli, bassa statura rizomelica Difetto di glicosilazione dei lipidi Epilessia infantile Amish Lattosilceramide a-2,3 sialiltrasfe- SIAT9 rasi Epilessia, RSPM con regressione, atrofia cerebrale alla RMN encefalo. Deficit di glicosilfosfatidilinositolo Fosfatidilinositologlicano Convulsioni, trombosi vena porta Epilessia infantile Amish Lattosilceramide a-2,3 sialiltrasfe- SIAT9 rasi PIGM Epilessia, RSPM con regressione, atrofia cerebrale alla RMN encefalo. Modificato da Melis 2002; Jaeken and Matthijs, 2007. pazienti con atassia e con mutazioni sul gene apratassina/APTX, responsabile della sindrome atassia e aprassia oculomotoria tipo 1 (AOA1) (Quinzii et al., 2005), e nei pazienti miopatici con glutarico aciduria tipo II e mutazioni nel gene ETFDH (Gempel et al., 2007). L’importanza dell’espandersi delle conoscenze in questo settore è soprattutto legata alla possibilità di trattare una buona parte dei pazienti con difetto di CoQ10 con alte dosi di ubiquinone (30-50 mg/kg/die). In particolare, un recentissimo lavoro italiano documenta la completa normalizzazione della funzione renale (sindrome nefrosica) e la prevenzione del danno neurologico in una neonata trattata con supplementazione di CoQ10 fin dai primi giorni di vita, il cui fratello maggiore con mutazioni COQ2 presentava un quadro sistemico con interessamento neurologico progressivo e insufficienza renale cronica per la quale si era reso necessario il trapianto di rene (Montini et al., 2008). Novità nei difetti della glicosilazione delle proteine I disordini congeniti della glicosilazione (CDG) sono patologie secondarie al difetto o all’aumento della glicosilazione di glicoconiugati, principalmente glicoproteine e glicolipidi. Le proteine sintetizzate nei ribosomi vengono trasportate dal reticolo endoplasmico al Golgi e dal Golgi agli endosomi, ai lisosomi e alla membrana plasmatica mediante vescicole di trasporto. Durante tale processo nell’apparato del Golgi si verifica una serie di modifiche post-trascrizionali quali glicosilazione, sulfurazione di tirosine, assemblaggio di proteine multimeriche. Il legame covalente di un glicano ad una proteina costituisce il processo di glicosilazione, una modifica che regola la struttura tridimensionale, la stabilità e l’interazione tra glicoproteine. La glicosilazione può essere divisa in N-, O- e C-glicosilazione: gli Nglicani sono attaccati ad un amminogruppo di asparagine, gli O-glicani al gruppo idrossile di serine e/o treonina e i C glicani all’atomo 229 D. Melis et al. Box 5 I difetti di sintesi del CoenzimaQ10 sono stati recentemente identificati, si presentano con quadri clinici eterogenei che interessano il sistema nervoso centrale ma anche, in maniera isolata o combinata, l’apparato renale. A differenza di altre malattie mitocondriali per le quali non esistono terapie efficaci, i difetti di CoenzimaQ10 rispondono al trattamento sostitutivo con ubiquinone. C2 del triptofano. Recentemente è stato sottolineato come l’assemblaggio delle strutture di glicani sulle glicoproteine ad opera degli enzimi della glicosilazione, dipenda dalla distribuzione degli stessi all’interno dell’apparato del Golgi. Tale compartimentalizzazione viene raggiunta attraverso un bilanciamento tra il flusso anterogrado e retrogrado delle vescicole. Quando tale equilibrio viene alterato, l’apparato di glicosilazione non ha una corretta localizzazione, come avviene nei difetti del Complesso Oligomerico conservato del Golgi (COG) che sono associati al fenotipo CDG-II (Zeevaert et al., 2008). Lo spettro fenotipico dei CDG è estremamente variabile e comprende patologie gravi come anche disordini lievi, spesso si ha un interessamento multi sistemico, ma possono essere presenti quadri che interessano un solo organo o sistema (Jaeken e Matthijs, 2007). Dal 1980, anno in cui venne descritto il primo paziente, il gruppo dei CDG si è ampliato rapidamente; ad oggi sono noti 28 difetti: 16 nella N-glicosilazione delle proteine, 6 nella O-glicosilazione delle proteine, 4 nella N e O-glicosilazione delle proteine, 2 nella glicosilazione dei lipidi (Tabb. V, VI). È stato infine suggerito che mutazioni che determinano un aumento della glicosilazione possano avere un ruolo patogenetico. In particolare sono stati descritti tre bambini con una suscettibilità a sviluppare infezioni da micobatteri; in tali pazienti è stata descritta una mutazione missense nel gene del recettore del- l’Interferon gamma che crea un nuovo sito di N-glicosilazione (Vogt et al., 2005). Esiste inoltre un gruppo di CDG in cui il gene mutato è stato identificato, ma nei quali non è stata ancora scoperta la funzione della proteina. Tali condizioni vengono definite CDG putative (Jaeken e Matthijs, 2007). Viceversa, con il termine CDG-x vengono indicate tutte le condizioni in cui viene fortemente sospettata una diagnosi di CDG, ma nelle quali non è stato ancora identificato il gene responsabile; rientrano in tale gruppo: l’anemia diseritropoietica tipo II (Lanzara et al., 2003), la epatopatia isolata (Mandato et al., 2006) e la sindrome glomerulopatia-buftalmia. Il test screening utilizzato per lo studio dei disordini della N-glicosilazione e per il deficit di acido sialico è basato sull’isoelectrofocusing della trasferrina sierica. Nei disordini dell’assemblaggio degli N-glicani viene ottenuto un pattern tipo 1 caratterizzata da un aumento della disialo- e asialotrasferirna. Il pattern tipo II identifica i difetti del processamento degli N-glicani e mostra un aumento di trisialo- e monosialo trasferrina. Lo screening per i difetti di O-glicosilazione non è ancora perfettamente standardizzato e si basa sull’isoelectrofocusing della proteina apo-CIII, una glicoproteina esclusivamente O-glicosilata. Nei difetti di N e O-glicosilazione lo studio in isoelectrofocusing della trasferrina mostra un pattern tipo II e lo studio della Apo-CIII un pattern di ipoglicosilazione. Nei pazienti con diagnosi clinica di GSD-II senza un pattern specifico all’isoelectrofocusing andrebbe ricercata una eventuale presenza di difetti del COG mediante analisi di Western blot effettuata sulle proteine estratte da fibroblasti cutanei (Zeevaert et al., 2008). Lo studio dell’attività dei singoli enzimi e delle proteine di trasporto è possibile su fibroblasti ottenuti da biopsia cutanea (Jaeken e Matthijs, 2007) e l’analisi molecolare è disponibile per molti dei geni responsabili di CDG. Una terapia specifica è ipotizzabile, oltre che con il mannosio nella CDG1b, anche per il deficit di glicosiltrasferasi II (CDG-Ih) attraverso una dieta povera in grassi e supplementazione di acidi grassi essenziali. Box di orientamento • • • • Le malattie metaboliche ereditarie rappresentano un capitolo sempre più rilevante nell’ambito della patologia pediatrica. Sono stati identificati diversi geni le cui alterazioni sono causa di ipoglicemia. Le malattie metaboliche possono essere causa di malformazioni cerebrali ed epilessia neonatale; recentemente sono stati identificati i meccanismi molecolari che spiegano l’efficacia della terapia con piridossina e piridossale fosfato nelle epilessie neonatali. In presenza di quadri clinici specifici quali ritardo nell’acquisizione delle tappe dello sviluppo psicomotorio associato a sordità, anomalie del sistema nervoso centrale associate a nefropatia, interessamento multi sistemico, considerare nella diagnostica differenziale, le metilmalonicoaciduria, i difetti di sintesi del Coenzima Q10 ed i difetti di glicosilazione delle glicoproteine. Bibliografia Barthlen W, Blankenstein O, Mau H, et al. Evaluation of [18F]DOPA PET-CT for surgery in focal congenital hyperinsulinism. J Clin Endocrinol Metab 2008;93:869-75. Bikker H, Bakker HD, Abeling NG, et al. A homozygous nonsense mutation in the methylmalonyl-CoA epimerase gene (MCEE) results in mild methylmalonic aciduria. Hum Mutat 2006;27:640-3. Campeau PM, Scriver CR, Mitchell JJ. A 25-year longitudinal analysis of treatment efficacy in inborn errors of metabolism. Mol Genet Metab 2008;95:11-6. * Carrozzo R, Dionisi-Vici C, Steuerwald U, et al. 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Carlo Dionisi-Vici, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, p.zza Sant’Onofrio 4, 00165 Roma • E-mail: [email protected] 231 Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 232-240 MALATTIE METABOLICHE Lo screening neonatale allargato per malattie metaboliche ereditarie: l’esperienza degli Stati Uniti d’America Silvia Tortorelli, Piero Rinaldo Biochemical Genetics Laboratory, Department of Laboratory Medicine, Mayo Clinic College of Medicine, Rochester, MN, USA Riassunto Nell’ultimo decennio la spettrometria di massa è stata adottata in un numero sempre maggiore di laboratori di screening neonatale. L’introduzione di questa metodica ha radicalmente cambiato la concezione stessa di screening e si è passati dall’idea “un test-una malattia” all’identificazione di diverse decine di condizioni con un solo rapido test. Allo scopo di standardizzare i programmi di screening neonatale statunitensi, l’American College of Medical Genetics ha compilato una lista uniforme di patologie. Parallelamente sono state portate avanti altre iniziative, quali l’elaborazione di linee guida riguardanti la presa in carico dei casi positivi e l’iter da seguire per aggiungere nuove condizioni alla lista originaria. In Minnesota a partire dal giugno 2004 è stata varata una parternship pubblico-privata tra Dipartimento della Salute Pubblica, Università del Minnesota e Mayo Clinic. Una delle aree in cui il nostro laboratorio è particolamente attivo è la riduzione del numero di falsi positivi, con l’istituzione di un sistema a due livelli. Questo sistema si avvale della disponibilità di tests specifici per markers, quali acido metilmalonico, omocisteina, acido metilcitrico, alloisoleucina per citarni alcuni, che permettono di aumentare la specificità di analiti altrimenti non sufficientemente specifici. Altro punto discusso è lo sviluppo e il monitoraggio di obiettivi e parametri di valutazione comparabili da inserire come parte integrante dei programmi di screening. In conclusione viene brevemente analizzata la situazione attuale in Italia. Summary In the last decade tandem mass spectrometry has been widely adopted in newborn screening laboratories. The introduction of this technique has profoundly changed the idea of screening, going from the “one-test-for-one disease” concept to a multiplex approach that allows for the identification of more than 40 conditions. To help standardize newborn screening program across US, the American College of Medical Genetics developed a uniform condition panel and related projects, like the formulation of guidelines for follow up of abnormal results and a nomination process for new conditions to be included in the panel. In June 2004 a public-private partnership has been launched, involving Minnesota Health Department, University of Minnesota and Mayo Clinic. Our laboratory is being particularly active in the effort to reduce the number of false positive results by developing a second-tier test strategy. Another point of discussion is the development and monitoring of objective performance metrics as integral part of newborn screening programs. We’ll end the review with a brief analysis of the today’s newborn screening situation in Italy. Introduzione L’efficacia di un test di screening neonatale si basa sulla capacità di diagnosticare una patologia prima dell’apparire dei sintomi in modo da intervenire tempestivamente riducendo morbidità e mortalità connesse alla malattia in questione. Diverse patologie metaboliche ben si adattano a questo tipo di approccio, in quanto una terapia appropriata instaurata in fase preclinica è in grado di modificare radicalmente la prognosi. I criteri di selezione delle patologie da screenare si sono parzialmente modificati negli ultimi anni, in relazione anche all’acquisizione di nuove tecniche e metodiche. Non solo vengono reputati importanti le caratteristiche cliniche della patologia, ma anche la disponibilità di approcci terapeutici, di tests di screening specifici e sensibili, e di esperti professionisti. Nell’arco degli ultimi dieci anni, un numero sempre maggiore di laboratori di screening neonatale ha adottato la spettrometria di massa (MS/MS). Questa metodica si basa sulla capacità di analizzare molecole dopo la loro conversione in ioni in funzione del loro 232 rapporto massa/carica. Il test si basa sull’analisi di amino acidi ed acilcarnitine su uno spot del diametro di circa 5 mm di sangue essicato su carta bibula, preferibilmente in seconda giornata di vita. Il tempo necessario per analizzare un singolo campione è poco più di un minuto. Come conseguenza diretta dell’introduzione di questa tecnica è aumentato notevolmente il numero di condizioni diagnosticabili con un unico test. Questo cambiamento se da una parte ha migliorato la diagnosi e prevenzione di malattie metaboliche e non nel neonato, è stato seguito da notevoli discussioni e controversie (Tarini et al., 2006; Pollitt, 2007). In questa review saranno presi in considerazione alcuni degli aspetti e sviluppi più recenti che hanno caratterizzato questo processo di trasformazione. In particolare, saranno considerati: • il processo di standardizzazione tra i vari laboratori statunitensi Lo screening neonatale allargato per malattie metaboliche ereditarie con l’identificazione della cosiddetta lista uniforme di patologie da screenare, elaborazione di linee guida riguardanti le suddette condizioni e di una strategia comune per aggiungere nuove malattie; • il modello Minnesota come esempio di collaborazione tra diversi enti e parti coinvolte nei programmi di screening neonatali; • la creazione di un sistema con tests di secondo livello per diminuire il numero di falsi positivi, riducendo i costi complessivi e migliorando la percezione dei programmi di screening neonatali sia da parte dei pediatri di base che da parte dei genitori; • i parametri di valutazione da inserire come parte integrante del programma di screening, allo scopo di monitorarne e migliorarne le performances; • lo sviluppo di programmi di collaborazione con l’obiettivo di utilizzare al meglio le risorse disponibili; role newborn screening su siti quali Pubmed e Medline genera una quantità impressionante di citazioni (più di 500.000 articoli). Per questo motivo e visti gli scopi di questa review, la ricerca bibliografica è stata circoscritta solo ad alcune delle tematiche emergenti in cui il nostro laboratorio è particolarmente coinvolto. Oltre ad utlizzare i convezionali succitati modelli di ricerca bibliografica, sono stati consultati i seguenti siti: • http://www.acmg.net; • http://region4genetics.org/; • http://genes-r-us.uthscsa.edu/index.htm; dove sono reperibili informazioni utili sia per gli addetti ai lavori (personale di laboratorio, specialisti metabolici) sia per pediatri e specialisti di altre discipline, coinvolti nella gestione di risultati positivi. Standarizzazione dei programmi di screening • la situazione italiana. Lista uniforme Obiettivo e metodologia della ricerca bibliografica L’argomento screening neonatale ha ricevuto una grande attenzione negli ultimi anni. Una generica ricerca bibliografica inserendo le pa- La MS/MS permette di analizzare rapidamente e in contemporanea amino acidi e acilcarnitine in poche gocce di sangue. In questo modo, è possibile screenare per oltre 40 malattie con un unico test (Tab. I). Nonostante negli ultimi anni la MS/MS sia stata quasi universalmen- Tabella I. Elenco delle patologie incluse nella lista uniforme raccomandata dall’ACMG, raggruppate secondo la loro appartenenza al core panel o ai secondary targets. Core panel MS/MS Non MS/MS Acidurie organiche Difetti della β-ossidazione Aminoacidopatie Emoglobinopatie Acidemia isovalerica Acidemia glutarica tipo I Deficit di 3-idrossi 3-metil-glutaril CoA liasi Acidemie metilmaloniche (deficit di mutasi e di cobalamina A e B) Deficit di 3-metilcrotonilCoA carbossilasi Acidemia propionica Deficit di β-chetotiolasi Deficit di acil-CoA deidrogenasi a catena media Deficit di acil-CoA deidrogenasi a catena molto lunga Deficit di idrossiacil-CoA deidrogenasi a catena lunga Deficit della proteina funzionale Deficit del trasportatore della carnitina Fenilchetonuria Malattia delle urine a sciroppo d’acero Omocistinuria Citrullinemia tipo I Acidemia Argininosuccinica Tirosinemia tipo I Anemia a cellule falciformi Malattia da emoglobina S-β-talassemia Malattia da emoglobina S-C Altre condizioni Ipotiroidismo congenito Deficit di biotinidasi Sindrome adreno-genitale Galattosemia Ipoacusie Fibrosi cistica Secondary targets MS/MS Non MS/MS Acidurie organcihe Difetti della β-ossidazione Aminoacidopatie Emoglobinopatie Altre condizioni Acidemie metilmaloniche (deficit di cobalamina C e D) Acidemia malonica Deficit di isobutiril-CoA deidrogenasi Aciduria 2-metil 3-idrossi butirica Deficit di 2-metil butiril-CoA deidrogenasi Aciduria 3-metil glutaconica Deficit di acil-CoA deidrogenasi a catena corta Deficit multiplo di acil-CoA deidrogenasi Deficit di idrossiacil-CoA deidrogenasi a catena media/corta Deficit di carnitina palmitoil transferasi tipo II Deficit del carnitina-acilcarnitina translocasi Deficit di carnitina palmitoil transferasi tipo IA Deficit di dienoil reduttasi Malattie da varianti emoglobiniche Deficit di galattochinasi Deficit di uridin-difosfato galattosio-4-epimerasi Iperfenilalaninemie Tirosinemia tipo II Difetti della biosintesi del cofattore biopterina Argininemia Tirosinemia tipo III Difetti della rigenerazione del cofattore biopterina Ipermetioninemia Citrullinemia tipo II 233 S. Tortorelli, P. Rinaldo Figura 1. Distribuzione della lista uniforme nei vari programmi di screening neonatale in US. La figura mostra come è distribuito il numero di patologie appartenenti al core panel (in grigio chiaro) e ai secondary targets (in grigio scuro) tra i vari programmi di screening neonatale in US. te adottata come parte delle tecniche di screening nei vari laboratori americani, esiste a tutt’oggi una notevole disparità riguardo al numero di patologie screenate. Allo scopo di colmare tali differenze, l’American College of Medical Genetics (ACMG) sotto l’egida del Maternal and Child Health Bureau ha sviluppato linee guida inerenti non solo al numero e tipo di malattie da screenare ma riguardanti anche la standardizzazione e ottimizzazione del processo stesso (ACMG, 2006). Inizialmente sono state prese in considerazione 84 patologie basandosi sui seguenti criteri: quadro clinico, comprese incidenza, età d’esordio e storia naturale; esistenza e caratteristiche di appropriati test di laboratorio, con particolare enfasi su metodiche in grado di analizzare più metaboliti contemporaneamente e di utilizzare sangue raccolto su carta bibula; benefici derivati da diagnosi precoce e disponibilità di esami diagnostici, terapie efficaci e personale specializzato per la presa in carico. Dalla revisione dei dati generati, sono emersi tre gruppi di patologie: • malattie che soddisfano tutti i criteri presi in cosiderazione e che sono state incluse nella cosidetta lista uniforme o core panel; • condizioni che pur non soddisfacendo appieno i criteri di valutazione entrano nella maggior parte dei casi in diagnosi differenziale con la malattie del gruppo precedente: i secondary targets; • malattie non adatte per lo screening neonatale, principalmente per mancanza di appropriati tests diagnostici Ad oggi (settembre 2008) la maggior parte degli stati americani ha adottato lo screening allargato neonatale, includendo tutte o almeno la maggioranza delle patologie incluse nel core panel. Per legge la lista uniforme di condizioni raccomandata dall’ACMG è applicata Tabella II. Descrizione del processo di nomina che deve seguire ogni patologia prima di essere inclusa nella lista uniforme. Fase Azione Fase 1 Compilazione del modulo per la candidatura (comprensivo delle caratteristiche chiave della patologia, riguardanti attributi clinici, disponibilita terapeutiche ed analitiche e qualifiche dei proponenti) Fase 2 Verifica della completezza del modulo e dell’idoneità della nomina alla revisione scientifica Fase 3 Revisione scientifica (evidenced-based) da parte di un gruppo di esperti del materiale presentato Inclusione nella lista uniforme Esclusione nella lista uniforme Richiesta di ulteriori studi 234 Lo screening neonatale allargato per malattie metaboliche ereditarie al 98% dei neonati statunitensi (Fig. 1). Per una lista aggiornata e completa delle condizioni screenate nei diversi stati degli USA vedi http://genes-r-us.uthscsa.edu/nbsdisorders.pdf. ACMG fact sheets Diversi studi hanno evidenziato la scarsa familiarità e preparazione da parte dei medici e pediatri di base nei riguardi delle malattie metaboliche comprese nella lista uniforme (Thompson et al, 2005; Gennaccaro et al, 2005). Per aiutare i professionisti coinvolti nella gestione di un risultato positivo, l’ACMG ha dato vita ad un’altra iniziativa, parallela e complementare alla precedente, riguardante la formulazione di linee guida concernenti le azioni da attuare in seguito ad un risultato anormale. Esperti nei settori della endocrinologia, ematologia, malattie genetiche e metaboliche hanno formulato ACTion sheets specifiche per ogni analita screenato, visibili all’indirizzo internet http://www.acmg. net/resources/policies/ACT/condition-analyte-links.htm. Tali documenti sono rivolti principalmente proprio ai pediatri e medici di famiglia e forniscono informazioni su diagnosi differenziale, sintomatologia, prognosi e conseguenze cliniche, e tests di conferma diagnostica; forniscono inoltre direttive su come agire per l’immediato follow-up. Sono inoltre disponibili algoritmi diagnostici per i diversi marker biochimici di facile consultazione che forniscono un lista completa delle analisi di follow-up che devono essere intraprese ogni qualvolta un neonato viene diagnosticato positivo allo screening per determinare l’autenticità del risultato. Aggiunta di altre condizioni La lista uniforme di malattie raccomandate dall’ACMG è destinata a crescere. Alcune condizioni non necessitano di nuove metodiche o tecnologie e potranno essere screenate semplicemente utilizzando diversi cut-offs e tests di secondo livello già utilizzati per differenti scopi (vedi paragrafo Sistema a due livelli). Già numerose patologie sono state prese in considerazione come futuri nuovi targets (Rinaldo, 2008). Per molte di tali condizioni sono già in atto validazione clinica e studi pilota (Meikle et al, 2006; Gelb et al, 2006; Kroll et al, 2006; Hubbard et al, 2006; Carducci et al, 2006). Dall’anno scorso è stato pubblicato l’iter che una patologia deve seguire per poter essere aggiunta al core panel (Tab. II) (Green et al, 2007). Tra i requisiti essenziali per l’inserimento sono la disponibilità di studi pilota prospettici e alta specificità e sensibilità dei metodi utilizzati. Un’altra caratteristica preferenziale è la possibilità di screenare più condizioni con la stessa metodica. Il “modello Minnesota” Nel giugno 2004 è stata varata una partnership pubblico-privata tra Dipartimento della Salute Pubblica del Minnesota (MDH), Università del Minnesota e la Mayo Clinic. Questo modello presenta diversi elementi innovativi, alcuni dei quali sono elencati di seguito: • la parte analitica è suddivisa tra Mayo Clinic, responsabile dello screening mediante MS/MS, e MDH che screena per emoglobinopatie, ipotiroidismo congenito, fibrosi cistica, deficit di biotinidasi, galattosemia, e sindrome adrenogenitale; • disponibilità di tests di secondo livello allo scopo di ridurre il numero di falsi positivi; Figura 2. Il Modello Minnesota. La figura mostra come le diverse componenti coinvolte nel programma di screening neonatale del Minnesota siano interconnesse. 235 S. Tortorelli, P. Rinaldo • rapido e tempestivo follow-up, con estesa comunicazione (tramite telefono, fax e sito web sicuro) tra le diverse parti e coinvolgimento dello specialista clinico sin dall’inizio del processo diagnostico (Fig. 2). Lo scopo è di espandere e migliorare l’intero processo di screening ad iniziare dalla parte analitica per continuare con la tempestiva ed efficace comunicazione di un risultato anormale sino a conferma diagnostica e presa in carico del paziente. La notifica di un risultato anormale utilizza diversi canali, quali telefono, fax e sito web sicuro. In particolare l’utilizzo di un sito web sicuro permette di comunicare in tempo reale con tutte le persone coinvolte nel processo rispettando le leggi federali riguardo la privacy. Nel momento in cui al pediatra di famiglia viene notificato un risultato anormale, sono informate anche tutte le altre parti interessate (MDH, laboratorio, specialista metabolico). In questo modo la conferma diagnostica e la presa in carico da parte dello specialista avvengono in modo appropriato e senza ritardi. Un altro vantaggio è la rapida esecuzione del follow-up a breve termine, che nella maggior parte dei casi viene completato entro 24 ore. Dal gennaio 2006 è stato istituito un protocollo specifico per i neonati di peso inferiore ai 1800 grammi. In questi casi, oltre allo screening iniziale prelevato in seconda giornata di vita, vengono richiesti due successivi prelievi a 14 e 30 giorni allo scopo di minimizzare il numero di falsi positivi, legati ad artefatti terapeutici o dietetici, e negativi, dovuti principalmente a terapia steroidea (Gatelais et al, 2004) e ad immaturità dell’asse ipotalamico-ipofisario con inadeguata sintesi di hTSH nel prematuro (Tylek-Lemanska et al, 2005), che possono mascherare rispettivamente casi di sindrome adrenogenitale e di ipotiroidismo congenito. Sistema a due livelli (2nd tier testing) Contenere il numero di falsi positivi è uno degli obiettivi primari di un programma di screening neonatale. Lo scopo è duplice: riduzione dei costi associati al follow-up, e inoltre controllo dell’aumento del livello di stress e del rischio di un’alterata relazione genitore-figlio, che diversi studi hanno evidenziato anche nei casi di risultati falsi positivi (Hewlett e Waisbren, 2006; Gurian et al, 2006). A questo proposito, un’attenta e accurata interpretazione post-analitica, pur indispensabile, non sempre è sufficiente ad evitare followup clinici e laboratoristici non necessari. Per ovviare a questa situazione, il nostro laboratorio è attivamente coinvolto nello sviluppo di tests di secondo livello per migliorare l’outcome di metodi (immunoassay per la sindrome adreno-genitale) e analiti (tirosina come marker diagnostico per la tirosinemia tipo I, metionina per l’omocistinuria, isoleucina/leucina per la malattia delle urine a sciroppo d’acero, propionilcarnitina per acidemie metilmalonica e propionica) particolarmente problematici. Sindrome adreno-genitale I tests immunologici utilizzati per lo screening della sindrome adreno genitale (SAG) sono associati ad un alto numero di falsi positivi, con un conseguente valore predittivo positivo (PPV) < 1% (Olgemoller et al., 2003). Numerose cause contribuiscono alla scarsa sensibilità del test. Gli anticorpi usati reagiscono aspecificamente con altri steroidi, in particolare con il 17-idrossipregnenolone che tende ad essere elevato nei neonati, l’enzima 11-β-idrossilasi è immaturo nel prematuro, e i livelli di 17 idrossiprogesterone (17OHP) sono elevati in neonati con gravi patologie (Gatelais et al., 2004). 236 Tutti i casi positivi al test immunoenzimatico vengono ritestati in meno di 24 ore mediante un metodo che utilizza la LC-MS/MS e che misura non solo il 17OHP, ma anche altri steroidi, permettendo la valutazione di altri parametri, quali l’aumento di androstenedione e riduzione di cortisolo (Lacey et al, 2004). Questo approccio ha permesso di ridurre il numero di falsi positivi allo 0,06% e di aumentare il valore predittivo positivo a 7.3% nel periodo compreso tra giugno 2004 e marzo 2007 (Matern et al, 2007). Tirosinemia tipo I – Succinilacetone Per quanto riguarda altri tests di secondo livello entrati nella nostra pratica clinica, il dosaggio del succinilacetone mediante LC-MS/MS è diventato obsoleto quando, nel maggio del 2007, tale metabolita è diventato parte degli analiti misurati nel test di primo livello (Turgeon et al, 2008; La Marca et al, 2008). Dal gennaio 2005 ad aprile 2007, ogni valore di tirosina superiore a 150 μmol/L (corrispondente al 97 percentile della popolazione normale) veniva rianalizzato per la presenza di succinilacetone. Diversi parametri venivano adottati per neonati di peso inferiore a 2500 grammi e/o di età gestazionale inferiore alle 36 settimane (Magera et al, 2006). In questo modo si è ridotto notevolmente il numero di falsi positivi dovuti alla molto più frequente ipertirosinemia transitoria benigna del neonato. Tuttavia è noto che neonati affetti da tirosinemia tipo I possono avere livelli di tirosina completamente comparabili con la popolazione normale nei primi giorni di vita (Tanguay, 2001; Turgeon et al, 2008). Quindi la pratica di analizzare per la presenza di succinilacetone solo i casi con elevata tirosina rischia di non identificare circa il 25% di casi di tirosinemia tipo I (Turgeon, Magera et al, 2008). Metilmalonico acidemie, propionico acidemia e omocistinuria – Acido metilmalonico, e omocisteina Un aumento di propionilcarnitina è un evento relativamente frequente, circa 1 campione ogni 2000 testati. Come nel caso della tirosina, basandosi solo sulla propionilcarnitina come marker per la diagnosi delle metilmalonico acidurie, il numero di falsi positivi è troppo elevato, e la possibilità di non diagnosticare casi di difetti di cobalamina C è tangibile, in quanto circa il 10% di questi casi si presenta alla nascita con un valore di C3 < 5.25 μmol/L. Questi dati hanno portato allo sviluppo di un metodo che analizza omocisteina e acido metilmalonico nello stesso campione mediante LC-MS/MS (Cuthbert, 2005). Questo stesso test si rileva utile anche per aumentare la specificità analitica della metionina, come marker per l’omocistinuria. Inoltre, bassi livelli di metionina sono stati riscontrati in neonati con difetti di rimetilazione, un gruppo di patologie che trae notevole giovamento da una diagnosi presintomatica (Strauss et al, 2007). È quindi possibile screenare anche per questo gruppo di malattie, in quanto si presentano alla nascita con livelli di metionina inferiore all’1 percentile della popolazione e con elevata omocisteina. Malattie delle urine a sciroppo d’acero – Alloisoleucina L’ultimo, in ordine di tempo, test di secondo livello ad essere inserito nella nostra pratica è il dosaggio dell’alloisoleucina, marker patognomonico per malattie delle urine a sciroppo d’acero (MSUD) (Oglesbee et al., 2008). Lo screening con MS/MS permette la misurazione degli amino acidi a catena ramificata. Tuttavia non permette la distinzione tra gli isomeri leucina, isoleucina, alloisoleucina e idrossiprolina. Inoltre un aumento dei questi analiti è un evento che coinvolge circa lo 0,1% di tutti i campioni analizzati nel nostro laboratorio (Matern et al, 2007). La possibilità di quantificare specificamente l’alloisoleucina, permette di ridurre notevolmente il nu- Lo screening neonatale allargato per malattie metaboliche ereditarie mero di falsi positivi, spesso correlati a artefatti dietetici (nutrizione parenterale totale). Parametri di valutazione (Performance metrics) Specificità e sensibilità sono da sempre considerati i parametri ideali per la valutazione delle prestazioni di un test. In particolare, viene preferita l’assenza di falsi negativi, ovvero una sensibilità del 100%, a discapito di un maggior numero di falsi positivi. Tuttavia una specificità del 99,76% in una popolazione annua di 4.1 milioni come quella degli Stati Uniti determina ipoteticamente un numero insostenibile di falsi positivi (Rinaldo, 2008). Altri parametri sembrano più appropriati per determinare la validità di un programma di screening neonatale, quali il tasso di identificazione (detection rate: DR), il valore predittivo positivo (positive predictive value: PPV) e il tasso di falsi positivi (false positive rate: FPR). La Tabella III elenca i dati estrapolati dalla letteratura. Dall’introduzione dello screening con MS/MS in Minnesota, il PPV è passato dal 4% nel 2001 al 54% nei primi 8 mesi del 2008 con una riduzione del numero di falsi positivi ed un incremento del tasso di identificazione (Fig. 3). L’introduzione nella pratica clinica di tests di secondo livello ha sicura- mente contribuito in modo determinante ad aumentare specificità e sensibilità. Un altro importante strumento, a questo proposito, è la determinazione dei cosiddetti disease ranges, ovvero i valori degli analiti di interesse nei casi con patologia confermata (vedi paragrafo successivo). Region 4 Genetics Collaborative Il Region 4 Genetics Collaborative è uno dei sette consorzi regionali (Fig. 4) nati nel 2004 a seguito dello stanziamento di fondi da parte dell’agenzia governativa Maternal Child Health Bureau of Health Resources and Service Administration (MCHB/HRSA) allo scopo di migliorare ed uniformare i programmi di screening neonatale, promuovendo la collaborazione tra i vari laboratori e dipartimenti della salute. Sette stati nella regione dei Grandi Laghi fanno parte di tale progetto con circa 730.000 nati all’anno. Uniformità nel numero di malattie screenate nella regione, miglioramento delle performances analitiche, e riduzione delle differenze di accesso ai servizi di diagnosi e cura sono alcuni degli obiettivi iniziali del progetto di collaborazione. Figura 3. Distribuzione dei parametri di valutazione (tasso di individuazione (Det. Rate 1:XXXX), tasso di falsi positivi (FPR) e valore predittivo positivo (PPV)) dal 2001 al maggio 2008 per quanto riguarda lo screening neonatale allargato in Minnesota. Mentre il tasso di falsi positivi si e’ ridotto nel tempo con conseguente aumento del valore predittivo positivo, il tasso di individuazione e’ rimasto stabile. 237 S. Tortorelli, P. Rinaldo Tabella III. Comparazione dei dati pubblicati riguardo ai parametri di valutazione in diversi programmi di screening neonatale. Programma USA – North Carolina DR PPV FPR Durata dello studio Volume Referenza bibliografica 1:4300 53%* ND 8 anni (1997-2005) 944078 Frazier et al, 2006 8%§ 9% 0,3% 2 anni >160.000 Zytkovicz et al, 2001 USA – New England Germania 1:2400 11,31% 0,33% 3 anni 5 mesi 250.000 Schulze et al, 2003 USA – California 1:6939 11% 0,49%-0,07% 18 mesi 353894 Feuchtbaum et al, 2006 Mexico (Stato di Neuvo Leon) 1:5000 4% 0.22% 2 anni 42.264 Torres-Sepulveda et al, 2008 Australia – New South Wales 1:6350 10% 0,1% 4 anni 362.000 Wilcken et al 2003 (Wilcken, Wiley et al. 2003) 4 anni 2 mesi 371.519 Dati non pubblicati USA – Minnesota 1:1652 44% 0,08% Valori ideali 1:3000 >20% < 0,3% * Per gli anni 2003-2004; § rispettivamente per amino acidi e acilcarnitine; ND: non disponibile Figura 4. Divisione delle Region Genetics Collaboratives. Gli Stati Uniti sono divisi in sette consorzi regionali. Ogni gruppo comprende da 5 stati a 10 stati raggruppati geograficamente. NEGC: New England Genetics Collaborative NYMAC: New York – Mid Atlantic Consortium for Genetic and Newborn Screening Services MSGRCC: Mountain States Genetics Regional Collaborative Center Uno dei punti principali del progetto è lo sviluppo di standards e parametri di valutazione basati sull’evidenza clinica, creando le premesse per attiva collaborazione, comunicazione e confronto tra laboratori. Tale iniziativa non è solo riservata ai laboratori facenti parte della Region 4 Genetics Collaborative ma è estesa ad ogni laboratorio americano o internazionale che sia disposto a contribuire attivamente alla raccolta dati. Ad oggi (settembre 2008), 95 laboratori hanno aderito all’iniziativa. I dati raccolti riguardano la strumentazione in uso, percentili nella popolazione normale per tutti gli analiti e relativi rapporti, valori di riferimento utilizzati, numero di casi positivi che in 8 anni sono stati confermati con altri test biochimici e/o molecolari (5809 casi, Fig. 5) e parametri di valutazione, quali quelli discussi nel precedente paragrafo. Nel 2005 in Kentucky è passata la legge che aumentava il numero delle condizioni da screenare alla nascita da 4 a 31, con successiva introduzione della MS/MS come metodica integrante dello screening. Nei primi undici mesi di vita del nuovo programma, sono 238 Figura 5. Numero dei casi positivi confermati suddivisi per provenienza geografica. stati testati 59,605 neonati e sono stati identificati 46 casi con 10 diverse patologie, con un tasso di identificazione di 1:1295 e un tasso di falsi positivi dello 0,21% (Lim, 2007). La costituzione della Region 4 Genetics Collaborative è stata particolarmente funzionale al raggiungimento di tali parametri in un tempo relativamente breve. I tests di secondo livello, disponibili nel nostro laboratorio, sono stati inclusi nella pratica quotidiana allo scopo di aumentare la specificità di alcuni analiti. La situazione italiana In Italia, la legge-quadro n. 104 del 5 maggio 1992 e la legge n. 548, 23 dicembre 1993, Decreto del Presidente del Consiglio, 9 luglio 1993 hanno stabilito l’obbligatorietà, nel periodo neonatale, degli accertamenti utili alla diagnosi precoce delle malformazioni e del controllo per l’individuazione e il tempestivo trattamento dell’ipotiroidismo congenito, della fenilchetonuria e della fibrosi cistica. Da allora, in alcuni programmi regionali lo screening è stato esteso ad altre patologie quali leucinosi, galattosemia, sindrome adrenogenitale, difetto di biotinidasi e il deficit di G6PD. Una delibera regionale del 2004 prevede lo screening allargato ob- Lo screening neonatale allargato per malattie metaboliche ereditarie bligatorio per tutti i neonati toscani a cui si sono aggiunti nel 2006 anche quelli appartenenti all’ASL 1 umbra. Inoltre alcuni altri centri hanno iniziato negli ultimi anni studi pilota con l’utilizzo della spettrometria di massa (Cerone et al, 2007). I dati pubblicati riguardanti lo screening di 170.983 neonati indicano un tasso di identificazione (1:1878) simile a quello derivato dalle esperienze di altri paesi. Recentemente, la legge finanziaria 2008 (Legge 244 del 24 dicembre 2007), che prevede uno stanziamento di tre milioni di euro per l’estensione dello screening neonatale allargato in tutto il territorio nazionale (disegno di Legge n.1815), è stata approvata in via definitiva dal Senato. La situazione Italiana attuale è molto simile a quella degli Stati Uniti di diversi anni fa, con alcuni centri altamente qualificati che offrono uno screening esteso ma solo nella loro regione, mentre la grande maggioranza dei neonati rimane esclusa. Ci si augura che il successo americano di standardizzazione e particolarmente l’esempio del Region 4 Genetics Collaborative, a cui partecipano ben sette laboratori Italiani, possano portare in tempi brevi ad una situazione di simile uniformità nel nostro paese. A prescindere dai principi di universalità e di uguali diritti dei cittadini, vale la pena di ricordare che ulteriori espansioni del pannello uniforme di screening neonatali sono molto probabili nei prossimi anni, con un rischio tangibile di trovarsi ancora più in ritardo in confronto ai paesi all’avanguardia in questo settore molto importante di medicina pediatrica preventiva. Box di orientamento L’adozione della spettrometria di massa ha rivoluzionato l’ approccio tradizionale allo screening neonatale, creando notevoli vantaggi e anche sollevando alcune questioni: • espansione del numero di malattie screenabili con un unico test, utilizzando un unico campione; • necessità di standardizzare vari programmi di screening, con la creazione di una lista uniforme di malattie uguale per tutti e formulando linee guida per il follow up dei casi positive e una strategia comune per aggiungere nuove patologie alla suddetta lista; • strategie di riduzione del numero di falsi positivi, quali lo sviluppo di tests di secondo livello, mantenendo basso il numero di falsi negativi e contenendo i costi complessivi legati ai tests di conferma; • inclusione di parametri di valutazione quali tasso di identificazione (detection rate), valore predittivo positivo (positive predictive value) e tasso di falsi postivi (false positive rate) nella pratica laboratoristica per monitorare le prestazioni dei programmi di screening; • opportunità di migliorare le performances analitiche e ridurre le differenze di accesso ai servizi di diagnosi e cura con la creazione di progetti di collaborazione tra enti specializzati. 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Piero Rinaldo, Biochemical Genetics Laboratory, Department of Laboratory Medicine and Pathology, 200 First Street SW, Rochester, Minnesota 55905, USA • E-mail: [email protected] 240 Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 241-248 MALATTIE METABOLICHE Terapia genica per le malattie metaboliche ereditarie Nicola Brunetti-Pierri Department of Molecular and Human Genetics, Baylor College of Medicine, Houston, TX, USA Riassunto Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie si basa su terapie dietetiche, farmacologiche e cellulari (trapianto epatico). Nonostante tali interventi queste malattie continuano ad avere una sostanziale morbidità e mortalità ed è pertanto necessario sviluppare terapia alternative. Sono trascorsi circa 20 anni da quando sono cominciati i primi trial clinici di terapia genica per le malattie genetiche. Nonostante ci sia stato un significativo progresso nella sperimentazione preclinica con una ampia varietà di modelli animali e di vettori di terapia genica, la sperimentazione nell’uomo è stata finora abbastanza deludente. Attualmente i principali sforzi sono concentrati nell’elucidare le interazioni ospite-vettore e nella manipolazione di tali interazioni per migliorare l’indice terapeutico dei vettori per la terapia genica. Il futuro degli studi clinici sarà determinato da un’attenta analisi del bilancio tra l’indice terapeutico dei vettori e la storia naturale della malattia. Summary The treatment for inborn errors of metabolism has focused on dietary, pharmacological, enzyme replacement, and cell therapies (liver transplantation). However, significant morbidity and mortality still remain and alternative strategies are needed. It has been about 20 years since human gene therapy trials were initiated for genetic diseases. Although there has been a significant progress in the preclinical arena in a variety of disease models with a variety of gene therapy vectors, sustained effect in humans has still eluded the field. Current efforts are aimed at understanding host-vector interactions and at the manipulation of these interactions to increase the therapeutic index of gene therapy vectors. The balance between the therapeutic index and the disease natural history will determine the future of clinical studies and their outcomes. Introduzione Per la maggior parte delle malattie metaboliche ereditarie, gli attuali approcci terapeutici si basano su interventi dietetici, su somministrazione di vitamine, cofattori di reazioni enzimatiche e farmaci che Figura 1. Numero di trial clinici di terapia genica e rispettive indicazioni. 110 trial clinici, pari all’8,2% del totale, sono diretti al trattamento delle malattie monogeniche. I dati sono riportati dal sito web The Journal of Gene Medicine Clinical Trial che fornisce informazioni aggiornate su trial di terapia genica passati e in corso in tutto il mondo (sito web: http://www.wiley. co.uk/wileychi/genmed/clinical/; data di accesso: 4 Maggio, 2008). attivano vie metaboliche alternative o che aumentano l’eliminazione di prodotti intermedi tossici, e sulla terapia enzimatica sostitutiva. Purtroppo la maggior parte di questi interventi è spesso insufficiente, soprattutto in occasione di malattie intermittenti o quando vi è attivazione di uno stato catabolico. In anni recenti il trapianto epatico ha modificato in maniera significativa la prognosi di alcune di queste malattie ma la mortalità peritrapianto, la morbidità a lungo termine e le complicazioni legate alla terapia immunosoppressiva rimangono dei problemi importanti nel considerare questa opzione terapeutica. Il trapianto di cellule epatiche offre alcuni vantaggi rispetto al trapianto, tuttavia questa strategia non è ancora molto efficace e non esclude il bisogno della immunosoppressione. La terapia genica ha l’enorme potenziale di poter curare in maniera definitiva molte di queste malattie. Sebbene fosse stata sviluppata per il trattamento delle malattie genetiche, la terapia genica ha progressivamente trovato applicazioni soprattutto nel campo delle malattie oncologiche, infettive e cardiovascolari (Fig. 1). L’ampia varietà di applicazioni cliniche dimostra come la terapia genica si stia imponendo come una nuova realtà della medicina con una caratteristica unica rispetto agli altri farmaci: la possibilità di applicazioni in molteplici discipline. Malattie neurologiche, respiratorie, cardiache, infettive possono infatti essere influenzate dalla nostra capacità di trasferire geni terapeutici alle cellule. Terapia genica: principi generali La terapia genica utilizza una classe di farmaci biologici nuova e complessa. Questi farmaci sono composti, nella maggioranza dei casi, da molteplici proteine precisamente assemblate e dal DNA come principio attivo. Nonostante la complessità farmacologica, 241 N. Brunetti-Pierri Figura 2. Trasduzione della cellula bersaglio. La particella virale contenente il gene terapeutico (o reporter) si lega alla cellula mediante un meccanismo di riconoscimento recettoriale. Il capside virale viene disassemblato (uncoating) nel citoplasma e il genoma del vettore raggiunge il nucleo nel quale può persistere in uno stato episomiale o integrarsi nel genoma della cellula ospite. In entrambi i casi il gene terapeutico (o reporter) ha la capacità di esprimere il suo prodotto proteico. l’obiettivo è semplice: aggiungere uno specifico gene alle cellule di un tessuto bersaglio. Questo processo è definito “trasduzione” (Fig. 2). La terapia genica ha applicazioni nelle malattie genetiche in cui il gene terapeutico può sostituirsi al gene endogeno incapace di esercitare la sua normale funzione. Nella maggioranza dei casi la terapia genica è praticata utilizzando virus geneticamente modificati, denominati “vettori”, in cui le proprietà litiche sono eliminate mentre è preservata la capacità di trasferire geni. Tipicamente, l’efficacia e la sicurezza dei vettori per la terapia genica viene valutata prima in cellule in coltura e poi nei topi di laboratorio. Al contrario della maggioranza dei farmaci in cui gli studi preclinici fino a questo livello possono essere sufficienti, per i vettori di terapia genica sono indispensabili ulteriori studi in animali di grossa taglia (Fig. 3). Le proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche dei vettori sono infatti notevolmente differenti dal topo all’uomo e le prove tossicologiche nei topi sono molto imprecise nel predire i risultati nell’uomo. I vettori adenovirali rappresentano un classico esempio di questa discrepanza di reazioni. L’uomo infatti può manifestare segni di tossicità alle stesse dosi di vettore (calcolate per kg di peso corporeo) che vengono invece tollerate molto bene dai topi. Quando è possibile i test negli animali di grossa taglia vanno effettuati nel modello animale della malattia che si vuole trattare, in quanto sia l’efficacia che la sicurezza possono essere valutate in maniera concomitante. Se ciò non è possibile, gli esperimenti vengono condotti in grossi animali non affetti e usando un gene reporter il cui prodotto può essere localizzato o misurato nei tessuti o nel sangue. Va precisato però che anche gli animali di grossa taglia non sono assolutamente predittivi della risposta nell’uomo. Un tipico esempio è la risposta mediata dai linfociti T citossici (CTL) contro i vettori adeno-associati (AAV) che nella fase preclinica non fu osservata in nessuna delle 242 Figura 3. Percorsi dalla sperimentazione preclinica all’uomo. L’efficacia e la sicurezza dei vettori per la terapia genica viene valutata in cellule in coltura, poi nei topi di laboratorio e infine negli animali di grossa taglia prima di passare alla sperimentazione nell’uomo. Se possibile andrebbero usati animali di grossa taglia affetti dalla stessa malattia che si vuole trattare nell’uomo. Ciò ad esempio è stato possibile per l’emofilia B perché esiste un modello canino della malattia che ricapitola fedelmente la malattia umana. Tuttavia vi è un ristretto numero di modelli di malattie umane in animali di grossa taglia e animali non affetti iniettati con vettore che esprime un gene reporter vengono usati in alternativa. I primati sono preferiti come animali di grossa taglia perché più fedelmente predicono la risposta nell’uomo. specie (topi, cani, primati) analizzate ma fu poi evidenziata nel trial clinico (Manno et al., 2006). Nell’ambito del trattamento delle malattie genetiche vi è un altro potenziale problema, indipendente dal tipo di vettore usato, costituito dal rischio di risposta immune contro il prodotto del gene terapeutico. Il rischio di risposta immune è più elevato nei pazienti con mutazioni null, in cui il sistema immune non è stato mai stati esposto alla proteina. Alcune strategie di immunomodulazione sono state considerate per superare questo importante problema (Jiang et al., 2002). Strategia della ricerca La terapia genica per le malattie genetiche ha avuto un considerevole sviluppo a livello preclinico negli ultimi anni e in un numero limitato di casi è stata intrapresa la sperimentazione nell’uomo. In questa revisione abbiamo concentrato la nostra attenzione sulla terapia genica diretta alle malattie metaboliche ereditarie trattando non ciascuno dei vari studi, ma piuttosto affrontandone i risultati generali, i principi e i limiti e considerando alcuni esempi specifici. La ricerca bibliografica è stata per queste ragioni “mirata” agli studi giudicati più significativi e con maggiore potenzialità clinica. Tappe principali nello sviluppo della terapia genica Tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80, gli studi con oncoretrovirus aviari e murini hanno dimostrato che i retrovirus hanno la capacità di trasferire determinati geni alle cellule eucariotiche rendendole cancerose. Da questi esperimenti è nata l’idea di usare i virus per trasferire geni a scopo terapeutico. Prima che i virus potessero essere usati per finalità terapeutiche, era però necessario che fossero modificati in modo da renderli incapaci di replicarsi e danneggiare le cellule infettate. Questo obiettivo fu raggiunto eliminando i geni coinvolti nella replicazione virale mediante tecniche di biologia molecolare. In effetti, una delle prime applicazioni di terapia Terapia genica per le malattie metaboliche ereditarie genica è stata effettuata proprio in un modello di malattia metabolica, la sindrome di Lesch-Nyhan, usando retrovirus per trasferire ex vivo il gene HPRT a cellule del midollo osseo (Miller et al., 1984). Questi studi posero le basi per i primi trial clinici di terapia genica, incluso il trial per la deficienza di adenosina deaminasi (Aiuti et al., 2002; Bordignon et al., 1995) e per la immunodeficienza severa combinata (SCID) X-linked (Cavazzana-Calvo et al., 2000). Da quel momento in poi c’è stata una considerevole espansione negli studi di terapia genica con lo sviluppo di nuovi sistemi di vettori per il trasferimento genico e la loro applicazione ad una vasta gamma di modelli animali di malattie genetiche e acquisite. Dopo i retrovirus, i vettori adenovirali hanno avuto una significativa attenzione e furono usati prima in un trial clinico per la fibrosi cistica (Crystal et al., 1994) e poi in uno per il difetto di ornitina transcarbamilasi (OTC) (Raper et al., 2002). Purtroppo il trial per la fibrosi cistica ha dato risultati deludenti e quello per il difetto di OTC fu sospeso in seguito alla morte di uno dei pazienti arruolati. Poco dopo fu la volta degli AAV a dominare la scena della sperimentazione clinica con un primo trial per via intramuscolare e con un secondo per via sistemica per la terapia diretta al fegato. Sfortunatamente entrambi gli studi, eseguiti in pazienti con emofilia B, non hanno mantenuto le aspettative generate. Negli stessi anni però si è ottenuto, in una forma di SCID, un chiaro esempio di successo della terapia genica nell’uomo usando vettori retrovirali per trasdurre ex vivo cellule emopoietiche (Hacein-Bey-Abina et al., 2002). Tuttavia, anche in questo caso la terapia genica non è stata completamente priva di complicazioni con lo sviluppo di leucemia linfoblastica acuta a cellule T in alcuni dei pazienti trattati (Hacein-Bey-Abina et al., 2003). È stato stabilito che questa complicazione è secondaria all’integrazione del vettore retrovirale in prossimità di un proto-oncogene con conseguente aumento dell’espressione e trasformazione maligna (Deichmann et al., 2007; Hacein-Bey-Abina et al., 2003). L’insorgenza di queste severa reazione avversa ha sollevato preoccupazioni, ma tali rischi vanno valutati alla luce della completa risoluzione della immunodeficienza in una forma altrimenti letale di malattia. I vettori per la terapia genica Molteplici sistemi vettoriali sono attualmente disponibili per il trasferimento genico e ciascuno di questi ha un suo caratteristico tropismo e specifici vantaggi e svantaggi (Tab. I). Le caratteristiche fiosiopatologiche di una determinata malattia possono indirizzare nella scelta del vettore più adatto per quella specifica applicazione. La capacità di esprimere il gene terapeutico a lungo termine è una caratteristica che i vettori devono garantire per la terapia delle malattie metaboliche. Alcuni di questi vettori usati nelle malattie metaboliche ereditarie sono discussi in dettaglio nei successivi paragrafi. Retrovirus I vettori retrovirali (RV) trasducono in maniera efficiente cellule in fase attiva di replicazione e le cellule del sistema emopoietico in particolare. Perciò i RV hanno trovato principale applicazione nelle malattie ematologiche mentre hanno un uso limitato per la terapia genica diretta al fegato. I RV possono integrare il loro genoma in maniera efficiente nel genoma della cellula ospite e garantire così l’espressione a lungo termine del gene terapeutico. L’integrazione tuttavia aumenta il rischio di cancerogenesi inserzionale, come evidenziato dal trial per la SCID. Sono in corso studi che hanno come obiettivo la produzione di RV che integrano in siti specifici del genoma riducendo così il rischio di tumorigenesi. Lentivirus I vettori lentivirali (LV) sono derivati dal retrovirus responsabile dell’HIV e al contrario dei RV possono trasferire geni anche a cellule che non sono in fase di divisione attiva. I LV possono trasdurre cellule staminali ematopoietiche e sono promettenti per la terapia di malattie ematologiche. In seguito alla somministrazione per via sistemica, la trasduzione degli epatociti è in genere ridotta perché la maggioranza delle cellule epatiche infettate da LV sono di tipo non parenchimale, soprattutto cellule di Kupffer. I LV hanno un buon tropismo verso le cellule del sistema nervoso centrale (SNC) e stanno Tabella I. Principali vettori per la terapia genica. Vantaggi Svantaggi RV • Assenza di risposta immune • Espressione a lungo termine • Rischio di carcinogenesi • Trasduzione solo di cellule in mitosi LV • Trasduzione in cellule quiescienti • Assenza di risposta immune • Espressione a lungo termine • Integra in geni trascrizionalmente attivi • Rischio di generare HIV competente per replicazione Ad • Trasduzione in cellule quiescienti • Ampia capacità di clonaggio • Alti livelli di trasduzione • Espressione a lungo termine (HDAd) • Tossicità acuta AAV • Trasduzione in cellule quiescienti • Espressione a lungo termine • Capacità di clonaggio limitata • Reazione immune CTL-mediata HSV • Trasduzione in cellule quiescienti • Espressione a lungo termine • Possibili problemi di immunità innata e adattiva pDNA • Trasduzione in cellule quiescienti • Assenza di risposta infiammatoria • Ampia capacità di clonaggio • Espressione a lungo termine • Facilità di produzione • Bassa efficienza di transduzione • Assenza di un metodo clinicamente rilevante per efficiente trasferimento genico Abbreviazioni: RV = vettori retrovirali; LV = vettori lentivirali; Ad = vettori adenovirali; AAV = vettori adeno associati; HSV= vettore derivato dal virus herpes simplex; pDNA = DNA plasmidico nudo; “HDAd = vettore adenovirale helper-dipendente 243 N. Brunetti-Pierri trovando grossa applicazione in malattie neurologiche (Kordower et al., 2000). Finora il problema della carcinogenesi inserzionale non è stato riportato in animali trattati con LV e sembra che la integrazione dei LV non sia casuale ma specifica per geni trascrizionalmente attivi (Mitchell et al., 2004). Adenovirus I vettori adenovirali possono trasdurre un’ampia varietà di cellule quiescienti. I primi vettori adenovirali usati, gli adenovirus di prima generazione (FGAd), sono deleti soltanto per i geni responsabili della replicazione e perciò sono incapaci di replicare e produrre una infezione attiva. Iniettati per via sistemica, hanno un’alta efficienza di trasduzione epatica. Tuttavia poiché il genoma virale contiene alcune sequenze virali codificanti che esprimono a bassi livelli alcune proteine virali, le cellule trasdotte vengono riconosciute ed eliminate dal sistema immune causando una risposta tossica e perdita di espressione del gene terapeutico dopo poche settimane dell’iniezione. Pertanto i FGAd non sono in grado di produrre espressione a lungo termine del gene terapeutico. Questo problema è stato superato con lo sviluppo dei vettori adenovirali helper-dipendenti (HDAd) in cui tutte le sequenze codificanti virali sono state eliminate. Al contrario dei vettori FGAd, gli HDAd consentono espressione a lungo termine del gene terapeutico, non hanno alcuna tossicità cronica e si sono dimostrati capaci di correggere il fenotipo di numerosi modelli animali di malattia (Brunetti-Pierri and Ng, 2008). Purtroppo, come i vettori FGAd, i vettori HDAd, dopo iniezione sistemica ad alte dosi, inducono una risposta tossica acuta dovuta all’attivazione del sistema immune e caratterizzata da alti livelli di citochine infiammatorie. Questa risposta indotta dalle proteine del capside virale è dose-dipendente ma è indipendente dall’espressione dei geni virali (Brunetti-Pierri et al., 2004). Varie strategie sono in corso di studio per minimizzare/abolire questa reazione o per favorire la trasduzione preferenziale degli epatociti (Brunetti-Pierri et al., 2007). AAV Gli AAV sono derivati da parvovirus umani che non sono responsabili di nessun tipo di malattia nell’uomo. Come gli HDAd, i vettori AAV generati in laboratorio sono totalmente privi di geni virali codificanti. Sono stati isolati numerosi sierotipi di AAV e nuovi sierotipi con diverso tropismo vengono continuamente aggiunti alla lista (Gao et al., 2002) fornendo un repertorio di vettori per le più diverse applicazioni. I vettori AAV hanno dimostrato di poter correggere a lungo termine il fenotipo di numerosi modelli animali. Un limite degli AAV è la capacità di impacchettare nel loro capside genoma di grandezza fino a 4-5 Kb. Pertanto gli AAV non possono essere usati per situazioni in cui il gene terapeutico ha dimensioni superiori a tale capaci- tà. Nuovi sierotipi con capacità di impacchettamento maggiore (~ 9 Kb) sembrano poter estendere lo spettro di applicazioni degli AAV (Allocca et al., 2008). La maggioranza dei vettori AAV non si integra nel genoma della cellula ospite ma una certa quota di genomi virali può integrarsi aumentando il rischio di cancerogenesi inserzionale (Donsante et al., 2007). Tuttavia il potenziale ruolo oncogenico degli AAV è ancora dibattuto (Kay, 2007). DNA plasmidico nudo Il DNA plasmidico nudo (pDNA) offre una vasta gamma di vantaggi rispetto ai vettori virali come ad esempio una minore tossicità, la mancanza di una risposta umorale contro il vettore e la facilità di produzione. Il pDNA può indurre espressione a lungo termine del gene terapeutico. Tuttavia, la principale limitazione di questi vettori è la mancanza di una via di somministrazione che sia clinicamente valida. Infatti quando il pDNA è iniettato per via intravenosa la quantità di vettore che raggiunge il fegato è molto bassa perché la maggior parte di esso è degradato in circolo. Per ottenere una significativa efficienza di trasferimento genico al fegato nei topi e nei ratti (10-15% degli epatociti) il pDNA deve essere somministrato mediante una iniezione rapida e in un grosso volume. Sebbene questa metodica nono sia direttamente applicabile all’uomo, sono stati sviluppati alcuni metodi clinicamente rilevanti che usando cateteri intravascolari a palloncino posizionati nella circolazione epatica riescono a favorire il passaggio delle molecole di pDNA negli epatociti (Eastman et al., 2002; Alino et al., 2007; Fabre et al., 2008). Terapia genica delle malattie metaboliche ereditarie Nel considerare una malattia come possibile candidata per la terapia genica vi sono vari elementi che vanno tenuti in considerazione: 1) il difetto molecolare e la fisiopatologia della malattia devono essere ben conosciuti; 2) l’efficacia della terapia deve essere facilmente stabilita mediante un semplice test; 3) la correzione di una piccola percentuale di cellule deve produrre un effetto clinicamente apprezzabile; 4) il gene terapeutico non deve essere sottoposto a fine regolazione e la sua produzione eccessiva o ectopica non deve comportare effetti collaterali; 5) modelli animali di piccola e grossa taglia devono essere disponibili per la sperimentazione preclinica. L’emofilia A e B ed alcune malattie metaboliche soddisfano questi criteri e sono buoni modelli per la terapia genica. Nel valutare un tale approccio sperimentale è però necessario tenere anche conto del rapporto rischi/benefici in relazione alle terapie disponibili. Terapia genica delle malattie congenite del metabolismo epatico Figura 4. Percentuali di trasduzione epatica richieste per la correzione del fenotipo di alcune malattie metaboliche ereditarie (MPS = mucopolisaccaridosi). 244 Il fegato svolge un ruolo cruciale nel metabolismo e numerose malattie metaboliche sono dovute a difetti in enzimi espressi primariamente a livello epatico. Pertanto lo sviluppo della terapia genica diretta al fegato è potenzialmente applicabile a numerosi errori congeniti del metabolismo. La percentuale di trasduzione epatica Terapia genica per le malattie metaboliche ereditarie necessaria per ottenere la correzione della malattia è determinante nel successo della terapia genica. Tale percentuale dipende dall’entità del flusso metabolico attraverso il pathway biochimico coinvolto nella malattia; in generale i difetti del ciclo dell’urea o l’ipercolesterolemia familiare richiedono una più alta percentuale di trasduzione epatica rispetto a malattie come la sindrome di Crigler-Najjar o le malattie lisosomiali (Fig. 4). Una delle prime dimostrazione in vivo di correzione di una malattia metabolica è stata ottenuta nel modello murino di deficienza di OTC utilizzando FGAd (Stratford-Perricaudet et al., 1990). Simili risultati confermati da altri gruppi hanno successivamente condotto ad uno studio di fase I in soggetti adulti con parziale deficienza di OTC, usando un vettore adenovirale infuso nell’arteria epatica. Lo studio è proseguito attraverso 6 coorti di pazienti iniettati con dosi crescenti di vettore ma senza chiara evidenza di trasferimento genico e un certo livello di tossicità (Raper et al., 2002). Sfortunatamente, il secondo soggetto iniettato alla dose più alta ha sviluppato una risposta molto diversa dai precedenti 17 soggetti e caratterizzata da una letale reazione infiammatoria sistemica (Raper et al., 2003). Questa risposta è stata causata da una esagerata risposta dell’immunità innata alle proteine del capside e ha determinato un sostanziale abbandono dei vettori adenovirali per applicazioni cliniche nelle malattie genetiche (i vettori adenovirali continuano ad avere ampia applicazione nella terapia del cancro). Al contrario dei vettori adenovirali di prime generazioni, i vettori HDAd hanno dimostrato un enorme potenziale correggendo a lungo termine numerose malattie metaboliche. Miglioramenti dell’indice terapeutico di questi vettori potrebbero facilitarne l’utilizzazione clinica. Gli AAV, specie quei sierotipi con più spiccato epatotropismo, hanno mostrato buone potenzialità nei modelli murini di malattie metaboliche incluso il deficit di OTC (Moscioni et al., 2006) (Tab. II). Nel trial clinico per la terapia genica del fegato dell’emofilia B tuttavia, dopo poche settimane dell’infusione di AAV esprimente fattore IX (FIX), è stata osservata una risposta CTL-mediata rivolta contro le cellule epatiche trasdotte. Questa reazione ha causato una epatite subclinica e una sostanziale perdita di espressione del FIX (Manno et al., 2006; Mingozzi et al., 2007). Intensi studi sono in corso per cercare di abolire questa risposta immunitaria e permettere l’espressione del gene terapeutico a lungo termine. Terapia genica per le malattie lisosomiali: principi generali La maggioranza delle malattie lisosomiali è dovuta ad una severa riduzione o completa assenza dell’attività enzimatica. Un sottogruppo di malattie lisosomiali è invece causato dalla deficienza di proteine non-enzimatiche come proteine attivatrici o protettrici, proteine della membrana lisosomiale e proteine coinvolte nel traffico degli enzimi lisosomiali (Neufeld and Muenzer, 2001). Le malattie dovute a deficit enzimatico primario sono candidate ottimali per la terapia genica. Le malattie lisosomiali hanno un coinvolgimento multi-sistemico dovuto al fatto che la maggior parte degli enzimi lisosomiali sono espressi in molteplici tessuti. Ciò richiede che il vettore di terapia genica trasduca efficientemente molteplici tipi cellulari e purtroppo al momento non esiste nessun vettore con tale capacità. Tuttavia un vantaggio nelle malattie lisosomiali è dato dalla cross-correction, ossia dalla capacità degli enzimi lisosomiali di penetrare nelle cellule dei vari tessuti mediante il recettore del Mannosio-6-fosfato (M6-P). Pertanto il prodotto proteico del gene terapeutico trasferito ad un ristretto numero di cellule può essere secreto e captato a distanza dai vari tessuti. Difetti delle proteine attivatrici o protettrici sono suscettibili a interventi di terapia genica perché queste proteine vengono captate dai lisosomi con un meccanismo simile agli enzimi lisosomiali (Hahn et al., 1998; Leimig et al., 2002). Purtroppo la terapia genica di malattie lisosomiali il cui difetto risiede in proteine di membrana è più complesso perché queste proteine non vengono captate dal recettore del M6-P. La terapia genica offre, rispetto alla terapia enzimatica sostitutiva, il vantaggio dell’espressione a lungo termine per cui livelli persistenti di enzima possono essere ottenuti dopo un singolo trattamento. Inoltre gli approcci di terapia genica consentono di raggiungere livelli costanti di enzima nei vari tessuti e non variabili, a seconda della distanza dall’infusione, come nel caso della terapia enzimatica sostitutiva. Nonostante la cross-correction consente di ottenere un’ampia diffusione dell’enzima carente nei vari tessuti, la penetrazione nel SNC è complicata dalla presenza della barriera emato-encefalica che limita il passaggio degli enzimi lisosomiali. Tuttavia il raggiungimento di livelli plasmatici suprafisiologici di enzima lisosomiale potrebbe favorire una maggiore penetrazione a livello cerebrale (Cardone et al., 2006). Terapia genica per via sistemica delle malattie lisosomiali Lo scopo della terapia genica per via sistemica è di fornire livelli terapeutici dell’enzima deficiente ai tessuti affetti. Questo scopo può essere raggiunto con strategie terapeutiche ex vivo o in vivo. Terapia genica ex vivo L’obiettivo di questa strategia terapeutica è di modificare geneticamente le cellule del paziente ex vivo e poi reimpiantarle in modo da costituire una fonte continua di enzima per i vari tessuti. Le cellule trasdotte possono anche ripopolare il sistema reticolo-endoteliale e secernere l’enzima direttamente negli organi affetti. Le cellule più comunemente adoperate come bersaglio terapeutico sono le cellule staminali del sistema emopoietico (HSC). Gli studi preclinici, usando HSC trasdotte ex vivo dai RV, hanno generato risultati molto incoraggianti in vari modelli di malattia (Wolfe et al., 1992; Zheng et al., 2004) (Tab. II). Il passaggio alla sperimentazione clinica però è stato deludente. In un trial clinico, usando questo approccio per la malattia di Gaucher, i livelli enzimatici ottenuti sono stati sub-terapeutici (Dunbar et al., 1998), probabilmente a causa dell’assenza di un regime di condizionamento mieloablativo o mieloriduttivo prima del trapianto che può aver limitato l’attecchimento delle cellule geneticamente modificate. Infatti, al contrario della terapia genica per la SCID, le cellule che hanno ricevuto il gene per l’enzima lisosomiale non hanno nessun vantaggio selettivo (Soper et al., 2001). I LV possono superare molti di questi problemi perché possono trasdurre le cellule quiescienti con maggiore efficienza (Hofling et al., 2004). Terapia genica in vivo La terapia genica in vivo è stata praticata in numerosi modelli animali di malattie lisosomiali usando diversi tipi di vettori (Tab. II). I RV hanno la capacità di trasdurre solo cellule che sono in fase attiva di divisione e perciò il loro uso è limitato nella terapia diretta al fegato. Se però l’iniezione dei RV è associata all’uso di fattori di crescita degli epatociti (HGF) (Gao et al., 2000) o se viene praticata nel periodo neonatale quando le cellule sono ancora in fase di attiva divisione, l’espressione dell’enzima lisosomiale risulta ad alti livelli e protratta nel tempo (Ponder et al., 2002). I problemi legati all’uso di HGF e i 245 N. Brunetti-Pierri Tabella II. Malattie metaboliche ereditarie in cui è stata sperimentata la terapia genica. Proteina deficiente Vettore Organo bersaglio Specie Malattie congenite del metabolismo epatico Acidemie organiche (MMA) Metilmalonil-CoA mutasi Ad Fegato Topo Difetti del ciclo dell’urea OTC, ASS Ad, AAV Fegato Topo, Mucca, Uomo* Sindrome di Crigler-Najjar UGT1A1 Ad, AAV, RV, LV, pDNA Fegato, Muscolo Ratto Fenilchetonuria Fenilalanina idrossilasi Ad, AAV, pDNA Fegato, Muscolo Topo Glicogenosi di tipo 1 Glucosio-6-fosfatasi Ad, AAV Fegato Topo, Cane Ipercolesterolemia familiare Recettore LDL Ad, AAV, RV Fegato Topo, Uomo* Deficienza di Lipoproteina Lipasi Lipoproteina Lipasi Ad, AAV Fegato, Muscolo Topo, Gatto, Uomo** Porfiria acuta intermittente Porfobilinogeno deaminasi Ad, pDNA Fegato Topo Tirosinemia di tipo 1 Fumarilacetoacetato idrolasi RV, Ad, AAV, pDNA fegato Topo Aspartilglucosaminuria Aspartil-glucosaminidasi Ad Cervello Topo Malattia di Batten infantile Palmitoil tioesterasi AAV Cervello Topo Malattia di Batten tardo-infantile Tripeptidil peptidasi AAV Cervello Topo, Primati, Uomo** Malattia di Fabry α-galattosidasi RV, Ad, AAV, pDNA Fegato, Muscolo, Polmone, Topo Rene, Cuore Galattosialidosi Proteina protettrice/ catep- RV sina A HSC Topo Gangliosidosi GM1 β-galattosidasi Ad, AAV Cervello Topo Leucodistrofia metacromatica Arilsolfatasi A LV, AAV Cervello, HSC Topo Malattia di Gaucher α-glucosidasi RV, LV, Ad, AAV HSC, Fegato Topo, Uomo* Malattia di Krabbe Galattocerebrosidasi LV, Ad, AAV Cervello Topo Mannosidosi α-mannosidasi AAV Cervello Gatto Mucopolisaccaridosi di tipo I α-iduronidasi RV, LV, AAV, pDNA HSC, Fegato, Cervello Topo Malattie Lisosomiali Mucopolisaccaridosi di tipo II Iduronato solfatasi AAV Fegato Topo Mucopolisaccaridosi di tipo IIIB α-N-acetil-glucosaminidasi RV, LV, AAV Cervello, HSC, Fegato Topo Mucopolisaccaridosi di tipo VI Arilsolfatasi B AAV Fegato Ratto, Gatto Mucopolisaccaridosi di tipo VII β-glucuronidasi RV, LV, Ad, AAV, HSV HSC, Fegato, Muscolo, Cervello Topo, Cane Malattia di Niemann-Pick A e B Sfingomielinasi acida RV, AAV HSC, Cervello, Fegato Topo Malattia di Pompe α-glucosidasi Ad, AAV Fegato, Muscolo Topo, Quaglia Malattia di Sandhoff β-esosaminidasi LV, Ad, AAV, pDNA Cervello, Fegato Topo Malattia di Tay-Sachs α-esosaminidasi RV, Ad, HSV Cervello, Fegato Topo Malattia di Wolman Lipasi acida Ad Fegato Topo Abbreviazioni: RV = vettori retrovirali; LV = vettori lentivirali; Ad = vettori adenovirali; AAV = vettori adeno associati; HSV = vettore derivato dal virus herpes simplex; pDNA = DNA plasmidico nudo; MMA = acidemia metilmalonica; ASS = argininsuccinico sintetasi; HSC = cellule staminali ematopoietiche * Trial clinici (Raper et al., 2002; Kozarsky et al., 1996; Dunbar et al., 1998); ** trial clinci attivi o in fase di arruolamento (Crystal et al., 2004; Rip et al., 2005). rischi di trasformazione maligna dovuta a carcinogenesi inserzionale rimangono degli ostacoli significativi per questo tipo di approccio. Sia i vettori HDAd che AAV hanno dato risultati incoraggianti in termini di espressione a lungo termine (Tab. II). Gli AAV sono stati utilizzati anche per trasferire geni codificanti enzimi lisosomiali nel muscolo che viene così utilizzato come fonte dell’enzima. Il principale vantaggio di questo approccio è quello di utilizzare una via di somministrazione, l’iniezione intramuscolare, che è più sicura dell’iniezione intravascolare. Tuttavia, il principale problema di questo approccio è la ridotta efficienza. Per esempio, anche nel caso dell’emofilia, in cui poco più dell’1% dei valori normali di fattore della coagulazione è richiesto per un effetto terapeutico, i risultati nell’uomo sono 246 stati insufficienti (Kay et al., 2000). La ragione di questo insuccesso è probabilmente dovuta al fatto che il numero di fibre muscolari trasdotte con ogni singola iniezione è molto limitato. Sulla base di questi risultati, è prevedibile che questo approccio sia sub-ottimale anche nel caso delle malattie lisosomiali. Terapia per le malattie lisosomiali diretta al sistema nervoso centrale La terapia delle manifestazioni neurologiche nelle malattie lisosomiali è particolarmente complicata. La terapia enzimatica sostitutiva ha poche possibilità di successo perché è improbabile che Terapia genica per le malattie metaboliche ereditarie l’enzima ricombinante possa essere somministrato ripetutamente nel SNC dei pazienti affetti. L’iniezione di vettori di terapia genica al livello cerebrale per via stereotassica è stata praticata per varie malattie neurologiche e sta dando risultati incoraggianti soprattutto nei casi in cui è affetta una discreta area cerebrale come nel morbo di Parkinson (Kaplitt, 2007). Tuttavia è difficile prevedere come il ridotto volume di vettore iniettato, che in genere non si estende che per pochi mm oltre il sito dell’iniezione, possa correggere l’interessamento cerebrale diffuso tipico delle malattie lisosomiali. vanno tenuti in considerazione per spiegare questo ritardo. Il primo è che la terapia genica utilizza una classe di farmaci biologici completamente nuova. Il secondo è che lo sviluppo di una nuova classe di farmaci in genere richiede dai 20 ai 30 anni a partire dai primi test negli animali di laboratorio. Tempi simili sono stati impiegati per lo sviluppo del trapianto di midollo osseo, degli anticorpi monoclonali e della terapia enzimatica sostitutiva. Nonostante le numerose difficoltà rimane il fatto che la terapia genica è diventata un approccio terapeutico innovativo nella medicina e rappresenta un’area di ricerca clinicamente rilevante che necessita ulteriori studi. Conclusioni Ringraziamenti L’avanzamento della terapia genica verso applicazioni cliniche è stato difficile e sebbene ad oggi sia stata studiata per oltre 20 anni, non è ancora riuscita a fornire una reale alternativa terapeutica nei pazienti con malattie metaboliche ereditarie. Tuttavia, almeno due fattori NB-P riceve supporto dal National Institutes of Health (K99 DK077447), da Telethon – Italy (Fellowship GFP04008), dall’American Heart Association (Beginning Grant-in-Aid 0765032Y) e dal Texas Medical Center Digestive Disease Center (Pilot/Feasibility Award). Box di orientamento Terapia genica: principi generali • La terapia genica utilizza una nuova e complessa classe di farmaci biologici con l’obiettivo di trasferire geni alle cellule di un tessuto bersaglio. Le prove precliniche per valutare l’efficacia e la sicurezza dei vettori per la terapia genica sono complesse e spesso imprecise nel predirre i risultati nell’uomo. Tappe principali nello sviluppo della terapia genica • In una prima fase i trial clinici di terapia genica hanno usato prevalentemente i retrovirus che hanno dimostrato un chiaro successo nella SCID. Per la terapia diretta al fegato i vettori adenovirali e AAV hanno mostrato problemi la cui risoluzione e’ attualmente oggetto di intenso studio. I vettori per la terapia genica • Molteplici sistemi di vettori per la terapia genica sono attualmente disponibili, ciascuno di questi ha un suo caratteristico tropismo e i propri specifici vantaggi e svantaggi. Terapia genica delle malattie metaboliche ereditarie • La terapia genica è stata applicata a numerosi modelli preclinici di malattie metaboliche. Una attenta valutazione del rapporto rischi/benefici in relazione alle esistenti terapie disponibili è fondamentale nella scelta della malattia candidata per la sperimentazione clinica. Terapia genica delle malattie congenite del metabolismo epatico • La terapia genica diretta al fegato è potenzialmente applicabile a numerosi errori congeniti del metabolismo. I diversi disordini richiedono diverse percentuali di trasduzione epatica. AAV e HDAd hanno dimostrato eccellenti risultati in ambito preclinico ma vi sono ostacoli che devono essere superati per una loro applicazione clinica. Terapia genica per le malattie lisosomiali: principi generali • Nelle malattie lisosomiali la “cross-correction” consente di ottenere correzione multi-sistemica dopo terapia genica ristretta anche a un solo tessuto. La correzione delle manifestazioni neurologiche rimane però difficile. Terapia genica per via sistemica delle malattie lisosomiali • La terapia genica per via sistemica delle malattie lisosomiali può essere condotta mediante strategie ex vivo o in vivo. Nell’approccio ex vivo le cellule del paziente vengono trasdotte ex vivo e poi reimpiantate. Nell’approccio in vivo il vettore viene iniettato direttamente per via intravascolare o in uno specifico tessuto. Terapia per le malattie lisosomiali diretta al sistema nervoso centrale • La terapia genica delle manifestazioni neurologiche delle malattie lisosomiali è complicata perché non è disponibile una strategia efficace per trasferire il gene terapeutico in maniera diffusa a livello cerebrale. Bibliografia Aiuti A, Slavin S, Aker M, et al. Correction of ADA-SCID by stem cell gene therapy combined with nonmyeloablative conditioning. Science 2002;296:2410-3. Alino SF, Herrero MJ, Noguera I, et al. Pig liver gene therapy by noninvasive interventionist catheterism. Gene Ther 2007;14:334-43. * Questo lavoro descrive un metodo clinicamente rilevante per la somministrazione di pDNA. Allocca M, Doria M, Petrillo M, et al. Serotype-dependent packaging of large genes in adeno-associated viral vectors results in effective gene delivery in mice. J Clin Invest 2008;118:1955-64. 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Fatal systemic inflammatory response syndrome in a ornithine transcarbamylase deficient patient following adenoviral gene transfer. Mol Genet Metab 2003;80:148-58. * In questo articolo è descritto il decorso clinico e le indagini post-mortem del paziente con deficienza di OTC deceduto in seguito all’infusione di un vettore adenovirale. Raper SE, Yudkoff M, Chirmule N, et al. A pilot study of in vivo liver-directed gene transfer with an adenoviral vector in partial ornithine transcarbamylase deficiency. Hum Gene Ther 2002;13:163-75. Rip J, Nierman MC, Sierts JA, et al. Gene therapy for lipoprotein lipase deficiency: working toward clinical application. Hum Gene Ther 2005;16:1276-86. * Questo articolo riporta il design del trial clinico per il deficit di lipoproteina lipasi. Soper BW, Lessard MD, Vogler CA, et al. Nonablative neonatal marrow transplantation attenuates functional and physical defects of beta-glucuronidase deficiency. Blood 2001;97:1498-504. 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Corrispondenza Nicola Brunetti-Pierri, M.D., Assistant Professor, Department of Molecular and Human Genetics, Rm T607, Baylor College of Medicine, Houston, TX, One Baylor Plaza, Houston, TX 77030 • E-mail: [email protected] 248 Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 249-258 FRONTIERE Riprogrammazione nucleare e cellule staminali Luigi Daniele Notarangelo Division of Immunology, Children’s Hospital, Harvard Medical School, Boston, USA Riassunto Nel corso degli ultimi anni, importanti progressi sono stati conseguiti nella riprogrammazione nucleare di cellule somatiche di tessuti adulti al fine di generare cellule staminali pluripotenti. In particolare, sia il trasferimento nucleare che, più recentemente, la generazione di cellule staminali pluripotenti indotte rappresentano due diversi esempi coronati da successo. Parallelamente a questi importanti sviluppi tecnologici, è aumentata la conoscenza sui meccanismi epigenetici di controllo dell’espressione genica e sulle differenze che esistono nel profilo di espressione genica e nell’assetto epigenetico tra cellule staminali pluripotenti e cellule differenziate. È verosimile che dall’insieme di questi avanzamenti scientifici possano presto scaturire nuove frontiere terapeutiche nella cura di malattie degenerative e nella correzione di malattie genetiche dell’uomo. Summary During the last years, significant advances in nuclear reprogramming of adult somatic cells have allowed generation of pluripotent stem cells, as exemplified by nuclear transfer and by generation of induced pluripotent stem cells. Along with these important biotechnology advances, much has been learnt on the epigenetic mechanisms that control gene expression and on the differences in gene expression profile and epigenetic status of pluripotent stem cells on the one hand, and differentiated somatic cells on the other. It is likely that altogether these scientific achievements will open novel therapeutic frontiers in the treatment of human degenerative disorders and genetic diseases. Introduzione Le cellule staminali rappresentano la principale area di ricerca a livello internazionale in campo biomedico. Tale ricchezza di investimenti ha una duplice giustificazione: a) l’invecchiamento progressivo della popolazione determina un incremento costante e significativo del numero di soggetti affetti da patologie degenerative, per curare le quali le cellule staminali costituiscono una importante speranza in virtù della loro capacità di rinnovare e sostituire le cellule ormai degenerate; b) gli sviluppi tumultuosi, ancorché tuttora incerti nei risultati, della terapia genica, permettono di immaginare che un numero crescente di malattie genetiche potrà in futuro essere trattato modificando cellule staminali dei pazienti affetti (Daley et al., 2008). Accanto a queste considerazioni di carattere strettamente biomedico, il dibattito sulla ricerca relativa alle cellule staminali è stato connotato da una forte impronta bioetica che ha portato alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, ad adottare politiche di tipo restrittivo ed altri, come la Gran Bretagna, assai più liberali. Uno degli argomenti più controversi è rappresentato dall’utilizzo delle cellule staminali embrionali o, in alternativa, di cellule somatiche (derivate da soggetti adulti) opportunamente riprogrammate in modo da reindirizzarle verso la staminalità. In questo articolo, verranno illustrate e discusse le due principali strategie che mirano alla riprogrammazione nucleare delle cellule somatiche: il trasferimento nucleare (Hochedlinger et al., 2003; Hochedlinger et al., 2006) e la generazione di cellule staminali pluripotenti indotte (iPS, induced pluripotent stem cells) (Jaenisch et al., 2008; Silva et al., 2008). Classificazione e potenzialità differenziativa delle cellule staminali La caratteristica fondamentale delle cellule staminali è rappresentata dall’auto-rinnovamento (self renewal) che permette di preservare in via indefinita un pool di cellule (staminali) da cui deriveranno per differenziazione elementi cellulari maturi. Proprio il potenziale dif- ferenziativo permette di identificare diversi tipi di cellule staminali (Tab. I). Le cellule staminali totipotenti sono quelle in grado di dare origine a tutti i tessuti dell’organismo, compresa la linea germinale e i tessuti extraembrionari (placenta e sacco vitellino) (Rossant, 2008). In natura, questa capacità differenziativa così ampia è propria esclusivamente dello zigote e delle cellule ai primissimi stadi di divisione blastomerica, ma viene persa nel momento in cui si formano trofoectoderma, trofoblasto, endoderma primitivo ed epiblasto (Fig. 1). Questi ultimi due formano la cosiddetta massa cellulare interna della blastocisti. Nel corso dello sviluppo embrio-fetale, il trofoectoderma dà origine ai tessuti placentari e l’endoderma primitivo contribuisce a formare il sacco vitellino, mentre la formazione di tutti i tessuti fetali è assicurata dall’epiblasto. Proprio dalla massa cellulare interna della blastocisti sono state derivate, prima nel topo e successivamente Figura 1. Costituzione della blastocisti in epoca pre-impianto. La blastocisti è organizzata in uno strato esterno di trofoectoderma, da cui derivano i tessuti placentari e in una massa cellulare interna localizzata ad un polo della blastocisti stessa. Tale massa cellulare interna contiene cellule dell’endoderma primario (che danno origine al sacco vitellino una volta iniziato il processo di gastrulazione) e cellule dell’epiblasto. Quest’ultimo dà successivamente origine a tutti i tessuti fetali. 249 L.D. Notarangelo Tabella I. Definizione delle proprietà differenziative delle cellule staminali. Potenziale differenziativo Definizione Esempio Cellule staminali totipotenti In grado di dare origine a tutte le linee cellulari, compresi i tessuti extraembrionari Zigote, cellule ai primi stadi di divisione blastomerica Cellule staminali pluripotenti In grado di dare origine a tutti i tessuti dell’organismo, ma non a Cellule ES linee extraembrionarie Cellule staminali multipotenti In grado di dare origine a cellule diverse, appartenenti alla stessa Cellula staminale ematopoietica linea differenziativa Cellule staminali unipotenti In grado di dare origine solo a cellule di uno stesso tipo in altre specie compreso l’uomo, le cellule staminali embrionali (ES, embryonic stem cells), che rappresentano un esempio di cellule staminali pluripotenti, in grado cioè di dare origine a tutti i tessuti fetali, ma non a quelli extraembrionali (Murry et al., 2008). Come vedremo in seguito, le cellule ES possono essere coltivate ed espanse in vitro e rappresentano quindi una interessantissima sorgente di cellule staminali. Si definiscono cellule staminali multipotenti quelle che, oltre autorinnovarsi, sono in grado di dare origine a cellule diverse, ma appartenenti tutte alla stessa linea differenziativa (Orkin et al., 2008). Ne sono esempio le cellule staminali ematopoietiche, quelle neuronali, ecc. Si ammette che ogni tessuto abbia di fatto proprie cellule staminali. In qualche caso, tali cellule staminali danno origine esclusivamente a cellule differenziate dello stesso tipo e vengono per tale motivo definite cellule staminali unipotenti: un esempio è rappresentato dagli spermatogoni, da cui originano le cellule della linea germinale (Cinalli et al., 2008). Nel corso dell’ultimo decennio, diversi studi avevano affermato la plasticità, o capacità trans-differenziativa, delle cellule staminali dei tessuti somatici adulti, per cui, ad esempio, il trapianto di cellule staminali ematopoietiche poteva dar luogo alla produzione anche di cellule muscolari o nervose, oltre che di elementi del sangue. Tali presunte evidenze in vivo si affiancavano a studi in vitro che pure suggerivano si potesse, in opportune condizioni di coltura e in assenza di manipolazione genetica, re-indirizzare il potenziale differenziativo delle cellule. In realtà, come illustrato in Tab. II, gli esperimenti di differenziazione in vitro rappresentano il più basso livello di evidenza della capacità differenziativa delle cellule. Inoltre, le evidenze di trans-differenziazione ottenute in vivo erano anch’esse soggette a possibili critiche. Ad esempio, la dimostrazione che dopo trasferimento di cellule staminali ematopoietiche geneticamente marcate fosse possibile dimostrare la presenza del gene marcatore nel tessuto muscolare o in quello nervoso poteva semplicemente identificare il traffico di elementi del sangue che avevano raggiunto tali tessuti (Murry et al., 2004). Alternativamente, tale fenomeno poteva riflettere la fusione tra cellule del sangue (derivate dal donatore) e cellule muscolari o nervose del ricevente, senza per questo implicare una trans-differenziazione delle cellule staminali ematopoietiche del donatore (Alvarez-Dolado et al., 2003). Il metodo più rigoroso per valutare la capacità differenziativa delle cellule staminali è rappresentato dalla complementazione di una blastocisti tetraploide (Tab. II) (Nági et al., 1990). In tale condizione, dopo che la blastocisti viene trasferita nell’utero di una topolina pseudo-gravida (surrogate mother), le cellule tetraploidi non sono in grado di dare origine a elementi cellulari dei tessuti fetali, che verranno esclusivamente generati dalle cellule staminali iniettate, purchè queste ultime abbiano elevata capacità differenziativa. Un 250 Cellule staminali della linea germinale (spermatogoni) altro metodo per valutare la multipotenzialità delle cellule staminali è rappresentato dalla formazione di chimere (Tab. II), dopo iniezione in blastocisti a corredo cromosomico euploide e successivo impianto di questa in topolina pseudo-gravida. La formazione di teratomi dopo iniezione di cellule staminali in un organismo ospite è anch’essa una dimostrazione di elevata capacità differenziativa. I teratocarcinomi hanno rappresentato il primo esempio di cellule pluripotenti identificate in mammiferi adulti (Andrews, 2002) e sono costituiti da una rara popolazione di cellule embrionali indifferenziate (cellule EC) associate a elementi più maturi di diverse linee differenziative. Come detto, i metodi di differenziazione in vitro rappresentano il criterio meno stringente per valutare la potenzialità differenziativa delle cellule staminali: per lo più essi si basano infatti sulla dimostrazione dell’espressione di opportuni marcatori, ma ciò non permette di valutare l’acquisizione di nuove proprietà funzionali, elemento essenziale per definire la multipotenzialità. Caratteristiche molecolari delle cellule indifferenziate pluripotenti Nel corso degli ultimi anni, gli studi di valutazione del profilo di espressione genica da un lato, e l’aumento di conoscenze sui meccanismi epigenetici di controllo dell’espressione dei geni dall’altro, hanno permesso di definire con maggiore precisione le caratteristiche fondamentali delle cellule pluripotenti indifferenziate rispetto a cellule appartenenti a stadi differenziativi più maturi. Si è così scoperto che i geni Oct4 e Nanog, che codificano per fattori trascrizionali, sono essenziali nel regolare l’identità delle cellule staminali pluripotenti. Entrambi questi geni sono espressi nelle cellule ES e nelle cellule della massa cellulare interna della blastocisti (da cui derivano le cellule ES stesse). L’inattivazione di uno qualunque di questi due geni comporta la perdita della pluripotenzialità differenziativa e determina la differenziazione abnorme delle cellule verso elementi del trofoectoderma e dell’endoderma extraembrionario (Nichols et al., 1998; Chambers et al., 2007). Nel corso degli ultimi anni, molto si è appreso sui meccanismi molecolari che consentono di mantenere la pluripotenzialità differenziativa delle cellule ES. Si è scoperto che Oct4 forma eterodimeri con un altro fattore trascrizionale, Sox2 e che quest’ultimo regola in modo positivo i livelli di espressione di Oct4. Nanog, Oct4 e Sox2 si legano ai promotori dei loro stessi geni, favorendone la trascrizione in un circuito autoregolatorio (Boyer et al., 2005). Inoltre, questi stessi fattori trascrizionali occupano sia i promotori di altri geni trascrizionalmente attivi nelle cellule ES che i promotori di geni che, pur non essendo attivi nelle cellule ES, sono tra i primi Riprogrammazione nucleare e cellule staminali Tabella II. Metodi per valutare la capacità differenziativa delle cellule staminali. Metodo Commenti Complementazione di blastocisti tetraploide Le cellule staminali vengono iniettate in una blastocisti a corredo cromosomico 4n. L’eventuale sviluppo di embrione è dovuto esclusivamente alla capacità differenziativa delle cellule staminali iniettate, dal momento che le cellule 4n non sono in grado di dare origine a tessuti somatici. È il test più stringente per valutare il potere differenziativo delle cellule staminali. Formazione di chimera Questo approccio valuta la capacità delle cellule staminali iniettate in una blastocisti, di contribuire alla formazione di diversi tessuti nell’embrione che ne deriva Formazione di teratomi Questo metodo valuta la capacità delle cellule staminali di dare origine alla formazione di teratomi (tumori comprendenti cellule di line differenziative diverse) dopo iniezione in un organismo ospite Differenziazione in vitro Valuta la capacità delle cellule staminali di dare origine a cellule a fenotipo diverso dopo coltura in vitro con opportuni fattori di crescita e di differenziazione. È il test meno stringente per valutare la capacità differenziativa delle cellule. ad essere trascritti quando le cellule ES vengono indirizzate verso la differenziazione (Fig. 2) (Boyer et al., 2005; Loh et al., 2006). Questi due gruppi di geni (quelli trascrizionalmente attivi nelle cellule ES e quelli non attivi ma pronti ad essere trascritti all’inizio del processo di differenziazione cellulare) si differenziano per impor- tanti caratteristiche epigenetiche (Fig. 2). È stato dimostrato che i processi di metilazione e di acetilazione degli istoni regolano in modo molto fine l’accessibilità dei geni a fattori di trascrizione e ad inibitori della trascrizione. In particolare, l’aggiunta di tre gruppi metilici in corrispondenza della lisina in posizione 4 nell’istone Figura 2. Controllo epigenetico dei geni nelle cellule staminali embrionali (ES). Pannello A. Nelle cellule ES, i geni trascrizionalmente attivi presentano un assetto cromatinico caratterizzato dalla presenza di metilazione in posizione 4 (residuo lisinico) dell’istone 3 (K4me3). Questo permette il legame dei fattori trascrizionali Oct4, Sox2 e Nanog, che promuovono la trascrizione dei geni per effetto dell’azione della RNA polimerasi di tipo 2 (Pol2). Panello B. Per converso, nelle stesse cellule ES i geni implicati negli stadi precoci di differenziazione sono caratterizzati da domini funzionali bivalenti. Infatti, in corrispondenza di tali geni la cromatina è caratterizzata sia da un profilo che promuove la trascrizione (K4me3) sia dalla presenza di gruppi metilici in corrispondenza della lisina in posizione 27 (K27me3), con significato soppressorio. Questo determina che il promotore di questi geni sia occupato sia dai fattori trascrizionali Oct4, Sox2 e Nanog (che promuovono la trascrizione) sia da proteine repressore del gruppo Polycomb (Pc) che reprimono l’elongazione della molecola nascente di RNA. La presenza di segnali differenziativi determina la demetilazione in posizione K27 e consente quindi il distacco del complesso repressore Polycomb, attivando cosi’ i processi di trascrizione e la differenziazione cellulare. 251 L.D. Notarangelo 3 (H3K4me3) è importante per il legame dei fattori trascrizionali Nanog, Oct4 e Sox2 e promuove l’attività della RNA polimerasi di tipo II (Pol2), inducendo quindi l’espressione dei geni-bersaglio. Analogo significato hanno anche i processi di acetilazione dell’istone 3 in corrispondenza della lisina 7 e della lisina 9. Al contrario, l’aggiunta di tre residui metilici in posizione 27 dell’istone 3 (H3K27me3) recluta la proteina PRC1, una componente del gruppo di proteine Polycomb (Pc). Tali proteine promuovono processi di condensazione della cromatina e reprimono la trascrizione genica, non permettendo che Pol2 completi l’elongazione della molecola nascente di RNA (Azuara et al., 2006; Guenther et al., 2007). Lo studio dell’assetto epigenetico dei geni nelle cellule ES ha rivelato due diverse situazioni per i geni cui si legano i fattori trascizionali Oct4, Nanog e Sox 2: infatti, i geni che sono trascrizionalmente attivi nelle cellule ES (compresi quindi gli stessi geni Oct4, Nanog e Sox2, ma anche geni che codificano per enzimi che controllano la metilazione e l’acetilazione istonica) solno metilati in posizione K4 nell’istone 3 (Fig. 2, pannello A). Al contrario, i geni che codificano per proteine coinvolte nei primi stadi di differenziazione delle cellule ES si trovano in una situazione particolare, presentando sia modificazioni epigenetiche che promuovono la trascrizione (H3K4me3) sia modificazioni di tipo repressivo (H3K27me3) (Fig. 2, pannello B): sono quindi caratterizzati da domini funzionalmente “bivalenti”. Stimoli differenziativi portano, attraverso meccanismi ancora non ben definiti, alla demetilazione del residuo H3K27, determinando così il distacco del complesso Polycomb e la trascrizione dei geni bersaglio implicati nella differenziazione cellulare (Boyer et al., 2006). Un altro aspetto del controllo epigenetico che differenzia nettamente le cellule ES con assetto cromosomico di tipo femminile rispetto a cellule differenziate dei tessuti adulti di animali di esso femminile è costituito dalla riattivazione del cromosoma X silente (Tada et al., 2001); tale fenomeno si associa ad una completa riprogrammazione del pattern di metilazione della cromatina associata al cromosoma X. Nell’insieme, quindi, le cellule ES sono caratterizzate da una vera e propria “firma epigenetica”. Segnali di controllo dell’automantenimento e della differenziazione delle cellule staminali pluripotenti I segnali che mantengono le cellule ES in uno stato indifferenziato e quelli che al contrario le indirizzano verso la differenziazione sono molteplici e sono stati abbastanza ben definiti nel modello murino; non necessariamente tuttavia questi meccanismi di controllo sono gli stessi in diverse specie animali. È interessante osservare come tra i geni regolati positivamente da Oct4 e Sox2 vi sia il gene Fgf4 (Fibroblast growth factor 4), il cui prodotto attiva la via di segnale dipendente da Erk, che rende le cellule ES sensibili a ulteriori stimoli di differenziazione, quali Notch e FGF. Quindi, oltre a mantenere la pluripotenzialità, Oct4 e Sox2 rendono le cellule ES pronte a rispondere a stimoli differenziativi. Nello stesso tempo, alcune vie di segnale proteggono le cellule ES dalla perdita della pluripotenzialità. Un ruolo fondamentale in questo senso è svolto dalla molecola LIF (Leukemia Inhibitory Factor) che agisce inducendo l’attivazione del fattore trascrizionale STAT3 nelle cellule ES, ma anche dal morfogeno BMP4 (Bone Morphogenetic Protein 4) (Ying et al., 2003). È interessante notare come gli stessi segnali possano impedire la differenziazione verso alcune linee, ma favorirla verso altre: è così per la via di segnale Wnt-β catenin (Hochedlinger et al., 2006; Silva et al., 2008; Jaenisch et al., 2008). Infine, alcune molecole note per le loro proprietà di induzione della differenziazione cellulare, come l’acido retinico, agiscono inducendo il silenziamento del gene Oct4 e rendendo così le cellule sensibili a stimoli differenziativi (Pikarsky et al., 1994). Le differenze dimostrate nella capacità di diverse molecole di mantenere la pluripotenzialità o di indirizzare verso la differenziazione cellulare possono anche dipendere dal tipo di cellula pluripotente. Come si è detto, le cellule ES derivano dalla massa cellulare interna della blastocisti prima che questa si sia impiantata nell’utero. Una volta avvenuto l’impianto, l’epiblasto si espande e assume una struttura epiteliale di tipo colonnare. In questo stadio, le cellule dell’epiblasto murino mantengono importanti capacità differenziative verso molteplici linee cellulari, come dimostrato dal fatto che danno luogo a teratomi se introdotte in topi adulti, ma non sono più in grado di partecipare alla formazione di embrioni se introdotte nella blastocisti e se questa viene impiantata nell’utero di una topolina pseudo-gravida. Le cellule derivate dall’epiblasto in questo stadio vengono definite cellule staminali dell’epiblasto (EpiSC, Epiblast stem cells). FGF e activina (che come abbiamo visto indirizzano le cellule ES verso la differenziazione) sono essenziali per automantenere in coltura le cellule EpiSC (Brons et al., 2007; Tesar et al., 2007). È interessante notare come le cellule ES umane non dipendano da LIF (come invece fanno le cellule ES murine) per l’automantenimento, ma piuttosto proprio da FGF e da activina (Vallier et al., 2005) (Tab. III), lasciando intendere quindi che forse si tratta di cellule ad uno stadio differenziativo diverso rispetto alle cellule ES murine. È possibile che il fatto che FGF e activina siano utilizzate per ottenere e mantenere in coltura cellule ES umane selezioni contro “vere” cellule ES e favorisca invece cellule di tipo EpiSC (Lovell-Badge, 2007); si tratta ovviamente di considerazioni molto importanti non solo sotto il profilo biologico, ma anche per possibili implicazioni terapeutiche (al di là di ovvie considerazioni di carattere bioetico). Tabella III. Confronto delle proprietà di diversi tipi di cellule staminali pluripotenti. Tipo di cellule Origine Capacità differenziativa In vitro Formazione di chimere ES murine EpiSC murine Masserella cellulare interna della blastocisti + + LIF, BMP4 Epiblasto (in stadi precoci dopo l’impianto) + – FGF, activina iPS murine Riprogrammazione nucleare di cellule somatiche mediante trasferimento genico + + LIF ES umane Masserella cellulare interna della blastocisti + non nota FGF, activina 252 Fattori di crescita necessari per mantenere la staminalità (self-renewal) Riprogrammazione nucleare e cellule staminali Strategie di riprogrammazione nucleare: trasferimento nucleare e fusione cellulare Come si è visto, la caratteristica di pluripotenzialità, che rende la ricerca sulle cellule staminali particolarmente interessante per la cura di patologie degenerative e di malattie genetiche, è strettamente legata a modificazioni epigenetiche e a profili di espressione genica che rendono tali cellule pluripotenti sostanzialmente diverse rispetto a cellule somatiche di tessuti adulti. Per tale motivo, qualsiasi tentativo di creazione in vitro di cellule pluripotenti partendo da cellule somatiche differenziate deve necessariamente basarsi su una opportuna riprogrammazione nucleare. In pratica, tre sono le strategie principali che possono essere utilizzate per raggiungere questo obiettivo (Fig. 3): il trasferimento nucleare, la fusione cellulare e la riprogrammazione nucleare con impiego di opportuni vettori retrovirali. Tanto nel trasferimento nucleare quanto nella fusione cellulare è necessario che, accanto alla cellula somatica da “riprogrammare” si disponga di elementi cellulari indifferenziati, rappresentati rispettivamente da oociti enucleati o da cellule ES. Il trasferimento nucleare si basa sul trasferimento del nucleo di una cellula somatica adulta in un oocito enucleato; scopo finale di questo approccio è quello di generare cellule indifferenziate in grado di dar luogo ad embrioni la cui costituzione genica è identica a quella della cellula somatica donatrice (clonazione animale) (Hochedlinger et al., 2003). Come illustrato in Figura 4, una volta che la cellula che deriva dal trasferimento nucleare sia stata iniettata nella blastocisti, quest’ultima può essere introdotta nell’utero di topoline pseudo-gravide (per dare origine ad un animale clonato, come la pecora Dolly) o può essere utilizzata per ottenere in vitro cellule ES, che possono quindi essere indirizzate verso linee differenziative di interesse con opportuni fattori di crescita. Queste due diverse strategie di utilizzo del trasferimento nucleare corrispondono, rispettivamente, alla clonazione riproduttiva e alla clonazione terapeutica (Hochedlinger et al., 2003; Hochedlinger et al., 2006). I successi riportati dopo trasferimento nucleare hanno dimostrato che le differenze di espressione genica tra cellule dei primi stadi differenziativi embrionali e cellule somatiche adulte sono legate a modificazioni epigenetiche reversibili. Tuttavia, il fatto che la generazione di animali clonati avvenga con grande difficoltà (la maggior parte dei cloni muore infatti precocemente dopo l’impianto) e sia caratterizzata da significative anomalie di sviluppo in una quota rilevante degli animali che vengono generati, dimostra che il processo di riprogrammazione nucleare sia caratterizzato da bassa efficienza e sia inficiato da “errori” assai rilevanti sotto il profilo biologico: spesso gli animali clonati hanno dimensioni superiori alla norma e sono comuni patologie a carico di vari organi (polmoni, reni, cuore, fegato, sistema nervoso centrale) Figura 3. Strategie di riprogrammazione nucleare. Le cellule somatiche derivate da tessuti differenziati adulti possono essere riprogrammate utilizzando tre diverse strategie. Il trasferimento del nucleo della cellula somatica in un oocita enucleato innesca processi di modificazione dello stato epigenetico del nucleo donatore, con conseguente riprogrammazione verso un pattern tipico delle cellule ES. Tali cellule possono essere utilizzate per processi di clonazione animale. Alternativamente, processi di fusione cellulare tra cellule somatiche differenziate e cellule ES determinano anch’esse fenomeni di riprogrammazione nucleare, con de-differenziazione dell’ibrido somatico così generato. Infine, le cellule soamtiche possono essere riprogrammate a seguito del trasferimento (con vettori retrovirali) di opportuni fattori trascrizionali (Oct4, Sox2, c-myc e Klf4), generando in tal modo cellule pluripotenti staminali indotte (iPS). 253 L.D. Notarangelo Figura 4. Trasferimento nucleare, clonazione terapeutica e clonazione riproduttiva. A seguito del fenomeno di riprogrammazione nucleare conseguente al trasferimento del nucleo di una cellula somatica differenziata in un oocito enucleato, viene generata una cellula staminale pluripotente che, dopo iniezione in blastocisti, può essere espansa in vitro, generando in tal modo cellule di tipo ES. Queste ultime possono, in opportune condizioni di coltura in vitro, essere indotte a differenziare verso diverse linee, dando così origine a cellule somatiche di tessuti diversi. Tale strategia viene definita “clonazione terapeutica” ed è possibile immagine l’utilizzo per il trattamento di patologie degenerative o per la correzione di malattie geniche. In alternativa, la blastocisti può essere impiantata nell’utero di topoline pseudo-gravide, dando cosi’ origine ad animali clonati, il cui assetto genico è del tutto identico a quello della cellula somatica di partenza. Questa strategia, definita “clonazione riproduttiva”, è stata ad esempio impiegata per produrre la pecora Dolly. che compromettono la vitalità e la durata di sopravvivenza (Tamashiro et al., 2002; Ogonuki et al., 2002). I difetti a carico dei processi di riprogrammazione epigenetica osservati negli animali clonati sono diversi e riguardano soprattutto alterazioni nel corretto stato di metilazione e acetilazione dei geni e difetti di imprinting (Young et al 1998; Humphreys et al 2002). In considerazione del ruolo svolto da geni soggetti ad imprinting nella funzione placentare e nella crescita dei tessuto fetali, proprio i difetti di imprinting possono giustificare le anomalie feto-placentari osservate negli animali clonati. Diversi fattori influenzano il grado di efficienza delle procedure di trasferimento nucleare. In primo luogo, è indispensabile che la cellula donatrice e l’oocita che viene enucleato (e che deve essere arrestato in metafase) siano sincronizzati per quanto attiene al ciclo cellulare. In secondo luogo, appare evidente che lo stadio differenziativo della cellula donatrice gioca un ruolo importante nel dettare l’efficienza del processo di generazione di cellule ES e di animali clonati dopo trasferimento nucleare. In particolare, studi nel topo hanno dimostrato che la clonazione animale avviene con efficienza assai più elevata se si utilizzano come donatrici del nucleo le cellule ES rispetto a cellule dif- 254 ferenziate come fibroblasti o cellule di Sertoli (Tab. IV). Questa diversa efficienza riflette differenze nello stato epigenetico, come dimostrato dal fatto che se si utilizzano fibroblasti ingegnerizzati in modo da ridurre i livelli globali di metilazione cellulare, l’efficienza della clonazione diviene simile a quella che si ottiene utilizzando cellule ES (Blelloch et al., 2006). Il fenomeno per cui le cellule del clone generato tendono a mantenere almeno in parte un pattern di modificazioni epigenetiche che riflette quello delle cellule donatrici viene anche definito “memoria epigenetica” (Ng et al., 2005) ed è alla base, come si è visto, di alcune delle anomalie di sviluppo osservate nei cloni prodotti. Tale memoria epigenetica viene peraltro persa con il passaggio attraverso la linea germinale, così che la progenie di animali clonati non presenta di regola significative anomalie (Tamashiro et al., 2002). In netto contrasto con i problemi osservati nel corso della clonazione animale, la generazione di cellule ES in coltura non sembra risentire dell’utilizzo di cellule somatiche differenziate come donatrici del nucleo (Hochedlinger et al., 2006). Pertanto, la generazione di cellule ES dopo trasferimento nucleare seleziona in qualche modo cellule nelle quali la riprogrammazione epigenetica è avvenuta in modo corretto. Riprogrammazione nucleare e cellule staminali Tabella IV. Efficienza di clonazione dopo trasferimento nucleare. Ruolo dello stadio differenziativo della cellula donatrice (Hochedlinger, 2006 – parzialmente modificata). Cellula donatrice del nucleo Efficienza di generazione di topolini dopo trasferimento della blastocisti in topolina pseudo-gravida (%) Efficienza di generazione di cellule ES in vitro (%) Uovo fertilizzato 60-80 25-68 Cellula ES 11-23 50 Cellula staminale neuronale n.e. 64 Cellula del Sertoli 6 27 Fibroblasto 1 13-33 n.d.: non effettuato La possibilità di generare cellule di tipo ES mediante trasferimento nucleare apre anche importanti prospettive di cura per le malattie genetiche basate non già su strategie convenzionali di trasferimento genico mediante vettori retro- o lenti-virali (che purtroppo comportano il rischio di mutagenesi inserzionale) bensì sull’utilizzo della ricombinazione omologa, che avviene con assai maggiore efficienza in cellule ES rispetto a cellule somatiche differenziate. A dimostrazione di ciò, il gruppo di Jaenisch ha prelevato fibroblasti dalla coda di topi affetti da una forma di immunodeficienza combinata grave (SCID) da difetto del gene rag2. Il nucleo di tali fibroblasti è stato introdotto in oociti murini enucleati. Dopo avere ottenuto cellule ESsimili secondo il principio già esposto, il gruppo di ricercatori ha utilizzato procedure di ricombinazione omologa per correggere il difetto a carico del gene rag2. Le celule ES-simili sono quindi state indotte a differenziare dapprima in corpi embrioidi e successivamente in cellule staminali ematopoietiche mediante l’espressione forzata del fattore trascrizionale HoxB4. Così corrette, tali cellule sono state iniettate in topi rag2-deficienti irradiati, con piena ricostituzione dello sviluppo dei linfociti T e B (Rideout et al 2002). Cellule staminali pluripotenti indotte (iPS) Le strategie di riprogrammazione basate sul trasferimento nucleare hanno offerto la dimostrazione che è possibile riprogrammare il nucleo di cellule staminali adulte differenziate. Tuttavia, l’impiego di tale strategia nell’uomo comporta evidenti problemi di natura bioetica legati al fabbisogno di oociti umani. Benché il tentativo di generare blastocisti clonate mediante trasferimento di nuclei di cellule umane in oociti enucleati di coniglio sia stato coronato da successo (Chen et al., 2003), non è stato possibile generare linee ES stabili da tali blastocisti, probabilmente a causa di incompatibilità nucleomitocondriale (Dey et al., 2000). Un approccio totalmente innovativo per generare linee di cellule staminali pluripotenti è stato realizzato con l’impiego di vettori retrovirali contenenti i geni che codificano per quattro fattori trascrizionali: Oct4, Sox2, c-myc e Klf4. Tali vettori sono stati utilizzati con successo per trasdurre e riprogrammare fibroblasti embrionali murini (MEF) e adulti in cellule ES-simili (Takahashi et al., 2006). Con questo sistema, è possibile selezionare cellule che esprimono Fbx15, un gene bersaglio di Oct4. Queste cellule sono state definite iPS (induced pluripotent stem cells) in considerazione del fatto che sono in grado di formare teratomi. In realtà la sola espressione di Fbx15 non è sufficiente ad assicurare piena pluripotenzialità; ad esempio, queste cellule non sono in grado di formare chimere se iniettate in blastocisti. Tuttavia, le cellule iPS che, oltre ad esprimere Fbx15, esprimono anche i geni endogeni Oct4 e Nanog, condividono con le cellule ES pluripotenti le caratteristiche di configurazione della cromatina e la riattivazione del cromosoma X inattivo se la cellula di partenza aveva assetto cromosomico di tipo femminile (Takahashi et al 2006; Maherali et al 2007, Okita et al 2007; Wernig et al 2007). Tali iPS danno luogo a formazione di chimere dopo impianto nella blastocisti e generano embrioni se introdotte in blastocisti tetraploidi: hanno quindi tutte le caratteristiche delle cellule ES. I meccanismi attraverso cui il trasferimento dei quattro geni esogeni Oct4, Sox2, c-myc e Klf4 determina riprogrammazione nucleare è stato oggetto di intensi studi. Si è osservato che i geni Oct4 e Sox2 attivano la trascrizione di geni-bersaglio implicati nella modificazione della cromatina (metil-transferasi, demetilasi), così come avviene nelle cellule ES. Il rimodellamento della cromatina rappresenta quindi il primo evento nella riprogrammazione nucleare che porta alla generazione di cellule iPS (Fig. 4). Il ruolo del proto-oncogene c-myc e del fattore trascrizionale Klf4 sono meno chiari. Benché essi non siano strettamente indispensabili per generare iPS, in loro assenza il processo avviene con assai bassa efficienza. Per c-myc si ipotizza che esso possa da un lato indurre l’immortalizzazione delle cellule transfettate (così da avvicinarle al fenotipo ad elevata crescita delle cellule ES) (Yamanaka 2007); dall’altro, è possibile che proprio l’induzione di una attività replicativa elevata possa favorire, anche con meccanismi stocastici, fenomeni di riorganizzazione dell’assetto epigenetico della cellula (Dominguez-Sola et al., 2007). Klf4 sembra invece regolare l’espressione di alcuni geni specifici delle cellule ES, come Lefty1, (Nakatake et al., 2006). È importante osservare come retrovirus di tipo Moloney (come quelli utilizzati nella generazione di cellule iPS) sono oggetto di silenziamento in cellule ES, per effetto di fenomeni di attivazione di metiltransferasi che bloccano l’espressione dei geni contenuti nel vettore retrovirale stesso. Pertanto, il mantenimento nel tempo del fenotipo iPS non dipende dai geni transfettati, bensì dall’attivazione dei geni endogeni Oct4, Sox2 e Nanog, secondo i meccanismi discussi in precedenza (Maherali et al., 2007; Okita et al., 2007; Wernig et al., 2007; Meissner et al., 2007; Brambrink et al., 2008) (Fig. 4). Una importante differenza tra la riprogrammazione nucleare ottenuta mediante trasferimento nucleare e quella conseguita con trasferimento genico per generare iPS è che il primo processo è assai rapido, mentre nel secondo caso sono necessarie circa 3-4 settimane. È probabile che ciò abbia a che fare con la relativa inefficienza della riprogrammazione nucleare nel generare cellule iPS. Si ammette infatti che tale processo avvenga attraverso stadi intermedi ed una serie di eventi stocastici; di volta in volta, verrebbero selezionate in coltura le cellule con le proprietà più vicine a quelle di cellule pluripotenti. Certamente, il processo di 255 L.D. Notarangelo Figura 5. Generazione di cellule iPS. L’utilizzo di vettori retrovirali contenenti i geni Oct4, Sox2, Klf4 e c-myc per transfettare cellule somatiche differenziate di tessuti adulti (nell’esempio in figura: fibroblasti) determina la riprogrammazione di tali cellule, attraverso una serie di eventi molecolari. Inizialmente, l’espressione dei geni Oct4, Sox2, c-myc e Klf4 contenuti nei vettori retrovirali innesca la trascrizione di geni implicati nei processi di metilazione, acetilazione e demetilazione della cromatina, determinando così il rimodellamento della cromatina stessa e dell’assetto epigenetico della cellula. Ciò porta, in ultima analisi, all’attivazione della trascrizione di diversi geni, tra cui Fbx15. In questo stadio, le cellule, oltre ad autoreplicarsi se esposte al fattore di crescita LIF, sono già parzialmente riprogrammate, in quanto sono in grado di formare teratomi, ma non sono in grado di supportare la generazione di cloni animali se introdotte in blastocisti. Nel corso di una ulteriore selezione in coltura, pur se l’espressione dei geni Oct4, Sox2, c-myc e Klf4 contenuti nel vettori retrovirali viene silenziata, inizia e si mantiene nel tempo l’espressione dei geni endogeni Oct4, Sox2e Nanog, che permette il completamento della riprogrammazione nucleare a la generazione di celule iPS, con caratteristiche simili alle cellule staminali embrionali. generazione di cellule iPS passa necessariamente anche attraverso l’inibizione di geni di differenziazione mediata da proteine del gruppo Polycomb, nonché attraverso fenomeni di rimodellamento della cromatina. Se l’utilizzo di iPS murine per generare topi è stato coronato da successo, un problema rilevante è rappresentato dall’elevato tasso di tumori riscontrato in questi animali (Okita et al., 2007), dato non del tutto sorprendente considerando che c-myc e Klf4 sono due proto-oncogeni. Guardando a possibili applicazioni all’uomo, non solo bisognerebbe evitare di utilizzare procedure basate sul trasferimento di tali oncogeni, ma più in generale sarebbe opportuno fare a meno di tecniche di manipolazione genetica per la riprogrammazione nucleare di cellule somatiche. Qualche passo importante in questa direzione è già stato compiuto: anzi tutto sono state prodotte cellule iPS umane a partire da fibroblasti (Takahashi et al., 2007; Yu et al., 2007); inoltre, si è dimostrato che c-myc non è strettamente indispensabile per indurre la riprogrammazione sia nel topo (Yu et al., 2007; Nakagawa et al., 2008; Wernig et al., 2008) sia nell’uomo, dal momento che iPS umane sono state ottenute esponendo fibroblasti solo a Oct4, Sox2 e lin28, una proteina che lega RNA (Yu 256 et al., 2007). Ancora una volta, tuttavia, l’analisi comparativa delle proprietà delle iPS murine e di quelle umane ha svelato significative differenze nei fattori di crescita necessari per mantenere l’attività autoreplicativa delle cellule: LIF per le iPS murine, FGF per le iPS umane (Takahashi et al., 2006; Takahashi et al., 2007). È quindi probabile che iPS murine ed umane corrispondano come riprogrammazione nucleare a cellule in stadi differenziativi leggermente diversi; sarà quindi importante proseguire nel tempo gli studi di caratterizzazione di tali cellule. Pur con questi limiti, la straordinaria potenzialità di utilizzo delle cellule iPS nel trattamento di patologie geniche è stata illustrata dalla correzione di un modello umanizzato di anemia a cellule falciformi nel topo (Hanna et al., 2007). In questo modello murino, i geni αglobinici murini sono sostituiti dagli equivalenti geni umani, mentre i geni β-globinici murini sono sostituiti dai geni umani hAγ e hβS; quest’ultimo conferisce quindi al topo il tratto genetico falciforme. I topi omozigoti per hβS sviluppano anemia severa con caratteristiche tipiche dell’anemia a cellule falciformi (compresa una elevata incidenza di infarti splenici). Partendo da fibroblasti ottenuti dalla coda di questi topi, Hanna e collaboratori hanno generato cellule Riprogrammazione nucleare e cellule staminali iPS dopo transfezione con vettori retrovirali contenenti i geni Oct4, Sox2, Klf4 e c-myc. Successivamente, dopo avere rimosso il gene c-myc ectopico, hanno sottoposto le cellule iPS ad elettroporazione con un costrutto contenente il gene umano hβA e hanno selezionato i cloni in cui il gene mutato hβS era stato corretto per ricombinazione omologa dal gene umano normale hβA. Attraverso espressione ectopica del fattore trascrizionale HoxB4, le cellule iPS così corrette sono state indotte a differenziare in progenitori umani ematopoietici. Infine, queste cellule sono state trapiantate in topi riceventi hβS/hβS irradiati, con piena correzione del fenotipo falcemico. Conclusioni Nel giro di pochissimi anni, le ricerche sulle cellule pluripotenti hanno compiuto progressi non facilmente anticipabili. Se le presunte proprietà di plasticità delle cellule staminali dei tessuti adulti sono state largamente poste in discussione, due nuove strategie (il tra- sferimento nucleare e la generazione di cellule iPS) ha portato a sviluppi clamorosi, rendendo ipotizzabile, almeno in via teorica, un futuro impiego clinico di tali strategie per la cura di patologie degenerative e genetiche. È verosimile che ulteriori progressi in questo settore verranno dallo studio dell’espressione di micro-RNA in cellule ES, iPS e in cellule riprogrammate mediante trasferimento nucleare (Wang et al., 2007). Tuttavia, gli importanti avanzamenti di conoscenze in questi settori non devono ovviare alla necessità di proseguire, laddove consentito, gli studi sulle cellule staminali embrionali umane (Hyun et al., 2008), sia in considerazione dei rischi di tumorigenicità che al momento limitano il possibile impiego delle cellule iPS, sia per il fatto che proprio dagli studi delle cellule staminali embrionali potrebbero venire spunti decisivi per il progredire delle ricerche. In fin dei conti, non va dimenticato che l’impulso allo sviluppo di iPS umane è venuto dalla dimostrazione che era possibile riprogrammare cellule somatiche umane mediante fusione con cellule ES (Cowan et al., 2005). Box di orientamento Che cosa si sapeva prima • È noto da tempo che esistono diversi tipi di cellule staminali, accomunati tra loro dalla capacità delle cellule di autoreplicarsi, ma diversificati dal potenziale differenziativo che in alcuni casi consente (sotto l’effetto di particolari fattori di crescita) di indurre la differenziazione verso linee cellulari diverse, mentre in altri casi permette solo di ottenere cellule mature appartenenti alla stessa linea differenziativa o dello stesso tipo • Alcune evidenze in vitro e in vivo avevano lasciato supporre che le cellule staminali di tessuti adulti (es: cellula staminale ematopoietica) possedessero una “plasticità” differenziativa, in grado di convertirle, in condizioni opportune, in cellule appartenenti a linee differenziative diverse (muscolare, neuronale, ecc.), ad indicare quindi un processo di “trans-differenziazione cellulare”. • L’esistenza di cellule ad elevata potenzialità differenziativa è esemplificata dai teratomi, nei quali cellule tumorali indifferenziate coesistono e danno origine a elementi cellulari matruri appartenenti a linee differenziative diverse. • Infine, era noto che cellule staminali embrionali, cellule staminali di tessuti adulti e e cellule somatiche differenziate si diversificano tra loro per importanti differenze nel profilo di espressione genica e per una diverso stato di imprinting genico e di inattivazione del cromosoma X Che cosa sappiamo adesso • Sono stati ben definiti i meccanismi molecolari che a livello epigenetico condizionano l’espressione genica, con particolare riferimento a modificazioni della mutilazione ed acetilazione istonica. Tali fenomeni giocano un ruolo essenziale nel determinare le differenze tra cellule staminali pluripotenti e cellule differenziate. • La capacità trans-differenziativa delle cellule staminali è stata posta fortemente in discussione da una analisi critica dei dati precedentemente ottenuti • Sono state sviluppate tecniche di riprogrammazione nucleare basate sul trasferimento nucleare, la fusione cellulare e sulla transfezione di cellule somatiche con vettori retrovirali contenenti i geni che codificano per alcuni fattori trascrizionali di primaria importanza per mantenere l’attività autoreplicativa e la pluripotenzialità differenziativa delle cellule staminali. Con questo ultimo approccio, è possibile generare cellule iPS. • È possibile mantenere in coltura cellule ES e celule iPS sia di origine murina che umane. E per la pratica clinica … • Lo sviluppo di tecniche di riprogrammazione nucleare ha aperto nuove frontiere verso la possibile generazione in vitro di cellule staminali pluripotenti, che potrebbero entrare presto nella pratica clinica per il trattamento di malattie degenerative e per la correzione di patologie genetiche • Questi recenti sviluppi consentono anche di guardare con maggiore ottimismo al possibile superamento di conflitti bioetica che hanno diviso l’opinione pubblica, relativamente all’impiego delle cellule staminali embrionali. • Al di là delle possibili applicazioni delle cellule iPS e delle tecniche di trasferimento nucleare, l’aumento di conoscenze sui meccanismi di controllo epigenetico dell’espressione genica permette di ipotizzare lo sviluppo di nuovi farmaci basati sulla regolazione di tali meccanismi al fine di regolare in senso permissivo o repressivo l’espressione genica. Approcci di questo genere appaiono particolarmente interessanti in campo oncologico, lasciando intravedere la possibilità di modificare il profilo differenziativo delle cellule tumorali. Bibliografia Alvarez-Dolado M, Pardal R, Garcia-Verdugo JM, et al. Fusion of bone-marrowderived cells with Purkinje neurone, cardiomyocytes and hepatocytes. Nature 2003;425:968-73. Andrews PW. From teratocarcinomas to embryonic stem cells. Phil Trans R Soc Lond. B 2002;357:405-17. Azuara V, Perry P, Sauer S, et al. Chromatin signature of pluripotent stem cells. Nat Cell Biol 2006;8:532-8. Questo articolo dimostra come le cellule staminali pluripotenti condividano a livello epigenetico meccanismi generali di controllo dell’espressione genica, basati sulla mutilazione e acetilazione istonica, che le differenziano dalle cellule differenziate dei tessuti adulti. Blelloch R, Wang Z, Meissner A, et al. 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Questo articolo di revisione discute le principali strategie di riprogrammazione nucleare, basate su trasferimento nucleare, fusione cellulare e induzione di iPS. Humphreys D, Eggan K, Akutsu H, et al. Abnormal gene expression in cloned mice derived from embryonic stem cell and cumulus cell nuclei. Proc Natl Acad Sci USA 2002;99:12889-94. Hyun I, Hochedlinger K, Jaenisch R, et al. New advances in iPS cell research do not obviate the need for human embryonic stem cells. Cell Stem Cell 2007;1:367-8. Jaenisch R, Young R. Stem cells, the molecular circuitry of pluripotency and nuclear reprogramming. Cell 2008;132:567-82. Questo recente e assai completo articolo di revisione illustra i meccanismi molecolari coinvolti a livello genico ed epigenetico per mantenere la staminalità cellulare e discute le strategie di riprogrammazione nucleare (come la generazione di cellule iPS) che proprio sull’utilizzo di tali meccanismi si fondano. Loh YH, Wu Q, Chew JL, et al. The Oct4 and Nanog transcription network regulates pluripotency in mouse embryonic stem cells. Nat Genet 2006;38:431-40. Lovell-Badge R. Many ways to pluripotency. Nat Biotechnol 2007,25:1114-6. Maherali N, Sridaharan R, Xie W, et al. Global epigenetic remodeling in directly reprogrammed fibroblasts. Cell Stem Cell 2007;1:55-70. Meissner A, Wernig M, Jaenisch R. Direct reprogramming of genetically unmodified fibroblasts into pluripotent stem cells. Nat Biotechnol 2007;25:1177-81. Murray CE, Keller G. Differentiation of embryonic stem cells to clinically relevant populations: Lessons from embryonic development. Cell 2008;132:661-80. Murry CE, Soonpaa MH, Reinecke H, et al. Haematopoietic stem cells do not transdifferentiate into cardiac myocytes in myocardial infarcts. Nature 2004;428:664-8. Nági A, Gócza E, Diaz EM, et al. Embryonic stem cells alone are able to support fetal development in the mouse. Development 1990;110:815-21. Nakagawa M, Koyanagi M, Tanabe K, et al. 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Yu J, Vodyanik MA, Smuga-Otto K, et al. Induced pluripotent stem cell lines derived from human somatic cells. Science 2007;318:1917-20. Corrispondenza prof. Luigi D. Notarangelo, Division of Immunology, Children’s Hospital Boston, Harvard Medical School, Karp Family Building, 9th floor, room 9210, 1 Blackfan Circe, Boston, MA 02115, USA • E-mail: [email protected] 258 Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 259-265 FOCUS SU: Il trattamento dell’emicrania nel bambino Giuliano Galli Gibertini*, Laurence Morin*, Laurence Teisseyre**, Chantal Wood**, Luigi Titomanlio* *** * Emergenze Pediatriche, ** Centro per la Terapia del Dolore e *** Dipartimento di Neurologia Pediatrica, Ospedale Universitario Robert Debré, Parigi, Francia Riassunto L’emicrania è una patologia comune in età pediatrica. Come nell’adulto, spesso non c’è la fase prodromica (aura). L’aura è molto rara al di sotto degli 8 anni di età. La cefalea è cronica, severa, e spesso associata a sintomi vegetativi. Nel bambino il dolore è di solito bilaterale. La valutazione iniziale del bambino con cefalea si basa sulla diagnosi clinica differenziale dalle altre cause di cefalea secondaria. Nell’articolo si riportano le evidenze scientifiche attualmente disponibili sul trattamento dell’emicrania in pediatria. Il trattamento consiste nell’evidenziare i fattori predisponenti, nella presa in carico del dolore e nell’eventuale profilassi. Il trattamento di bambini con attacchi leggeri e non frequenti si basa sul riposo e la riduzione dello stress. Il paracetamolo ed i FANS sono efficaci se presi in una fase precoce della sintomatologia. I farmaci specifici contro l’attacco acuto di emicrania sono i triptani. L’obiettivo primario del trattamento di fondo è quello di ridurre la frequenza e la severità degli episodi dolorosi. Farmaci di comune impiego sono il topiramato e la flunarizina. Summary Migraine is a common disorder among the young. As in adults, most children have migraine without aura. Headaches are chronic, typically severe, and often associated with autonomic dysfunction. In children, the headaches are often bilateral, and aura is infrequent prior to age 8 years. Initial evaluation focuses on excluding other conditions. Our article reviews current evidence about migraine treatment in children. Treatment consists of identifying triggering factors, providing pain relief, and considering prophylaxis. The treatment of children with mild, infrequent attacks consists primarily of rest, trigger avoidance, and stress reduction. Acetaminophen and nonsteroidal anti-inflammatory drugs (NSAIDs) are effective if taken at a high but appropriate dosage during the aura or early headache phase. Specific drugs for acute attacks include triptans. The primary goals of prophylactic drugs are to prevent migraine attacks and to reduce the frequency and severity of attacks. Possible medications include topiramate and flunarizine. Introduzione L’emicrania è una patologia comune, che si manifesta con notevole frequenza nel bambino e nell’adolescente (Dalsgaard-Nielsen, 1970; Lipton et al., 1994; Mortimer et al., 1992; Sillanpaa, 1976), Rientra nella categoria delle cefalee primarie, la cui diagnosi in età pediatrica si basa principalmente su criteri clinici, come proposto dalla International Headache Society (IHS) nel 1988 (Olesen, 1988). Nel 2004 è stata pubblicata dalla stessa IHS una classificazione modificata delle cefalee (International Classification of Headache Disorders; Olesen, 2004) che definisce dei criteri pediatrici per le cefalee primarie (emicranie incluse) (Tabb. I e II). L’articolo considera le evidenze attualmente disponibili sul trattamento in acuto ed il trattamento preventivo nel bambino con emicrania. La linea guida pubblicata nel 2004 dell’American Academy of Neurology (AAN) (Lewis et al., 2004) forniva già delle utili indicazione terapeutiche, che sono qui riviste alla luce di studi randomizzati e controllati più recenti. Gli studi attuali sul trattamento dell’attacco acuto di emicrania si concentrano particolarmente sui triptani, molecole agoniste del recettore della serotonina a livello cerebrale, che provocano quindi una vasocostrizione. Si tratta di farmaci che potenzialmente inibiscono la progressione degli eventi che portano clinicamente all’episodio doloroso. In effetti, l’emicrania viene attualmente considerata la risultante di una complessa interazione tra vasocostrizione precoce e successiva vasodilatazione cerebrale in risposta al rilascio di neurotrasmettitori e peptidi vasoattivi. Il rilascio di queste sostanze risulta da un’attivazione neuronale che causa una onda di depolarizzazione cellulare, la quale procede dalle regioni occipitali verso le regioni frontali (la cosiddetta spreading depression), (Rogawski, 2008). Mentre i triptani agiscono in una fase piuttosto precoce, per il trattamento preventivo gli studi clinici si focalizzano sui farmaci bloccanti i canali del calcio, come la flunarizina, che inibiscono il rilascio di peptidi vasoattivi e ridurrebbe quindi l’infiammazione cerebrovascolare secondaria che provoca il dolore (Olesen, 1990) e gli antiepilettici, che inibirebbero la spreading depression (Calabresi et al., 2007). Una volta posta la diagnosi di emicrania pediatrica, che come nell’adulto può manifestarsi con o senza prodromi vegetativi (la cosiddetta aura), va quindi messo in atto un programma terapeutico completo per trattare gli attacchi e/o prevenirli. Le opzioni terapeutiche comprendono l’utilizzo di: 1) un trattamento acuto episodico; 2) l’uso di farmaci preventivi degli attacchi frequenti o particolarmente invalidanti; 3) la prescrizione eventuale di interventi comportamentali, di supporto al trattamento farmacologico (Silberstein, 2000). 259 G. Galli Gibertini et al. Tabella I. Criteri dell’IHS per l’emicrania pediatrica senza aura. A) Almeno 5 attacchi di cefalea che rispondono ai criteri B–D B) Cefalee che durano da 1 a 72 ore C) Cefalea con almeno due delle 4 caratteristiche seguenti: 1) localizzazione bilaterale o unilaterale (frontale/temporale) 2) dolore pulsatile 3) intensità da moderata a severa 4) Aggravazione dall’attività fisica quotidiana D) Almeno 1 dei seguenti sintomi accompagna la cefalea 1) nausea o vomito 2) fotofobia e fonofobia Tabella II. Criteri dell’IHS per l’emicrania pediatrica con aura. A) B) Almeno 2 attacchi di cefalea che rispondono al criterio B Cefalea con almeno 3 delle caratteristiche seguenti: 1) uno o più sintomi dell’aura completamente reversibili 2) i sintomi dell’aura si sviluppano progressivamente su più di 4 minuti 3) la durata di ogni sintomo non supera i 60 minuti 4) la cefalea segue l’aura dopo un intervallo massimo di almeno 60 minuti Il trattamento acuto I principi generali per il trattamento acuto delle emicranie pediatriche includono principalmente: 1) trattamento rapido dell’attacco; 2) ottenimento del recupero funzionale; 3) riduzione del ricorso all’automedicazione; 4) ottimizzazione del rapporto costo/beneficio; 5) riduzione degli effetti collaterali. I dati esistenti si concentrano principalmente sulle emicranie pediatriche senza aura (Tab. III), Tra i farmaci impiegati, si considerano gli studi sugli anti-infiammatori, per le loro proprietà antidolorifiche, e quelli sui triptani, per il loro meccanismo di azione specifico contro l’emicrania. Le terapie più efficaci sono quelle che possono essere somministrate rapidamente all’inizio dell’attacco e che agiscono velocemente, È infatti utile ricordare che nel bambino rispetto all’adulto gli attacchi tendono a durare meno, potendo risolversi spontaneamente in poche ore, Ciò potrebbe spiegare almeno in parte la buona efficacia del placebo, osservata in diversi studi. Farmaci anti-infiammatori non steroidei e paracetamolo L’ibuprofene è stato il farmaco anti-infiammatorio non steroideo studiato con più rigore, spesso in confronto con il paracetamolo. 260 Due studi in doppio cieco con placebo hanno dimostrato che l’ibuprofene (7,5-10 mg/kg) è sicuro ed efficace nelle emicranie del bambino, Il primo studio (n = 88) ha confrontato l’ibuprofene (10 mg/kg) al paracetamolo (15 mg/kg) e ad un placebo (Hamalainen et al., 1997), Alla prima e seconda ora dalla somministrazione del farmaco, l’ibuprofene e il paracetamolo si sono dimostrati entrambi più efficaci del placebo nel determinare una diminuzione del dolore (> 2 punti di riduzione su una scala di 5 punti), Alla seconda ora il sollievo del dolore emicranico era del 56% per l’ibuprofene, 53% per il paracetamolo e del 36% per il placebo, La differenza di efficacia fra l’ibuprofene e il paracetamolo non era statisticamente significativa, Il paracetamolo era comunque efficace più rapidamente dell’ibuprofene, Il secondo studio (Lewis et al., 2002) forniva risultati simili, ma dimostrava anche una maggiore efficacia del trattamento farmacologico nei ragazzi rispetto alle ragazze: queste ultime rispondevano in modo simile al farmaco o al placebo, Non si osservavano in questo studio delle significative differenze tra l’ibuprofene e il paracetamolo nella frequenza di effetti collaterali. Il paracetamolo e l’ibuprofene agiscono principalmente come analgesici, Sia l’ibuprofene che il paracetamolo si sono dimostrati sicuri ed efficaci, anche se il paracetamolo sembra agire più rapidamente e potrebbe forse essere utilizzato come prima scelta, Se consideriamo i diversi studi, la probabilità di avere un vantaggio (cioè combattere efficacemente l’attacco di emicrania) con l’assunzione di uno di questi due farmaci (versus placebo) è di circa il 50%, Difatti, come già osservato, il placebo ha comunque un discreto effetto, Questo ci porta ad una considerazione più generale sul dolore in pediatria e al suo trattamento, Capita frequentemente nella pratica clinica di chiedersi quanto realmente il dolore riferito dal bambino sia reale o quanto sia invece una espressione del bisogno di affetto e attenzione da parte dei genitori, Ad una analisi approfondita delle cause scatenanti gli attacchi di emicrania in ambito ambulatoriale o ospedaliero, riscontriamo spesso dei fattori di stress emotivo, e ciò particolarmente negli adolescenti, È importante ricordare, soprattutto in questi casi, l’utilità di terapie non farmacologiche, che includono un miglioramento dello stile di vita (igiene del sonno, esercizio fisico), gestione dello stress, biofeedback (Damen et al., 2005), L’obiettivo di tali trattamenti è soprattutto quello di individuare i fattori che possono giocare un ruolo nell’apparizione delle crisi dolorose, ed evitare la cronicizzazione della patologia attraverso una migliore gestione del dolore e dello stress (MgGrath et al., 2000), L’efficacia di questi approcci è stata riportata in diversi studi (Holden et al., 1999), Tra le tecniche che possono essere proposte alla famiglia ci sono l’approccio cognitivo comportamentale e la terapia fisica, Il primo cerca di modificare il rapporto che il bambino ha con la percezione del proprio dolore, Oltre a necessitare di un follow-up da parte di uno psicoterapeuta, si insegnano al paziente l’ipnosi-analgesia ed alcune tecniche di distrazione e di immaginazione visiva (Wood e Bioy, 2008), L’approccio non farmacologico alle emicranie attraverso la terapia fisica consiste nell’esercizio fisico, nell’agopuntura, nella terapia termica e nella neurostimolazione transcutanea, anche se a tutt’oggi i benefici nei bambini non sono scientificamente dimostrati e si ricavano da studi sull’adulto (Witt et al., 2008), Nella nostra esperienza, otteniamo una gestione del dolore soddisfacente e un miglioramento della qualità della vita riferita dal bambino con l’impiego dei due approcci in associazione, vale a dire con un esercizio fisico regolare e delle tecniche di ipnosi-analgesia, che hanno lo scopo ultimo di innalzare la soglia del dolore, Più raramente si possono osservare dei bambini che simulano una cefalea, per ottenere gli stessi vantaggi affettivi (difficilmente si riscontrano i criteri necessari alla diagnosi di emicrania), In ogni caso, Il trattamento dell’emicrania nel bambino Tabella III. Riassunto delle evidenze per il trattamento degli attacchi acuti di emicrania. Farmaco Classe dello studio Numero pazienti Efficacia del farmaco (%) Efficacia del placebo (%) p Ibuprofene 10 mg/kg 7,5 mg/kg I I 88 84 68 76 37 53 0,05* 0,006 Paracetamolo 15 mg/kg I 88 54 37 0,05* I I I 14 510 83 85,7 66 64 42,8 53 39 0,03 0,05 0,003 Sumatriptan Nasale 20 mg 5, 10, 20 mg 10, 20 mg Orale 50, 100 mg Sottocute 3, 6 mg 0,06 mg/kg I 23 30 22 NS IV IV 17 50 64 78 — — — — Rizatriptan Orale 5 mg 5-10 mg I I 296 96 66 74 56 36 NS 0,001 IV 38 85 — — I 171 58,1 43,3 0,05* Zolmitriptan Orale 2,5, 5 mg Nasale 5 mg * Valori esatti di p non indicati, NS: non significativo come già detto, l’influenza di fattori emotivi sulla percezione del dolore a livello cerebrale spiega in parte l’effetto del placebo, che è stato già ampiamente descritto in letteratura. In casi selezionati si potrebbe giustificarne pertanto l’impiego, sia in ambulatorio che in pronto soccorso, soprattutto allo scopo di evitare delle scalate terapeutiche che non sono prive di effetti collaterali, In caso di insuccesso, e solo in questi casi selezionati, si potrà passare ad un trattamento farmacologico vero e proprio. Per quanto riguarda il trattamento specifico dell’emicrania, i triptani sono le molecole attualmente più impiegate ed efficaci, anche se gli studi nel bambino sono scarsi. matriptan per via sottocutanea (MacDonald, 1994; Linder, 1996), Nel primo studio, in bambini di età compresa fra 6 e 16 anni (n = 17) si è utilizzata una dose di 6 mg per i bambini di peso > 30 kg e di 3 mg per bambini di peso < 30 kg, Le iniezioni si rivelavano efficaci nel 64% dei casi con effetti collaterali quali senso di oppressione a livello del torace e del collo e parestesie di durata di circa 15 minuti in 15 pazienti su 17, Un secondo studio su 50 pazienti di età compresa fra 6 e 18 anni, con dosi di 0,06 mg/kg, ha riscontrato una efficacia nel 78% dei bambini con il 26% dei pazienti che hanno risposto nei 30 minuti, un altro 46% nei 60 minuti, e un 6% supplementare entro le 2 ore, Il tasso di recidiva dell’emicrania era del 6%, Anche in questo studio, la maggioranza dei bambini (80%) presentava effetti collaterali quali parestesie a livello del collo, testa e torace, L’impiego di sumatriptan in compresse nei bambini non ha fornito prove di superiorità rispetto al placebo (Hamalainen et al., 1997). Sumatriptan Rizatriptan Il sumatripan, disponibile nella forma di spray nasale, iniezione sottocute e compresse, è stato sottoposto a diversi studi in doppio cieco contro placebo, Tre studi controllati e randomizzati di classe I hanno dimostrato l’efficacia e la sicurezza del sumatripan spray nasale nell’adolescente con emicrania (Ueberall, 1999; Winner et al., 2000; Ahonen et al., 2004), In totale, sono stati studiati più di 600 bambini ed adolescenti, e l’efficacia del sumatriptan per via intranasale contro placebo è stata statisticamente significativa in tutti e tre gli studi, L’effetto collaterale del sumatriptan nasale più frequentemente riportato è stata una sensazione gustativa sgradevole (Ahonen et al., 2004), Due studi clinici aperti (classe IV) hanno analizzato l’efficacia del su- Gli studi sul rizatriptan nel bambino sono limitati, Uno studio di classe I (n = 296) non ritrovava differenze da un punto di vista dell’analgesia nelle prime due ore versus il placebo (rizatripan 66%, placebo 56%; p = 0,79) (Winner et al., 2002), Il rizatriptan si mostrava invece efficace in uno studio più recente nei bambini di età superiore ai 6 anni (Ahonen et al., 2006), Il rizatriptan è in genere ben tollerato, con effetti collaterali non gravi: astenia, vertigini, secchezza delle mucosa orale. Agonisti del recettore della 5-idrossitriptamina (5-HT) – Triptani Zolmitriptan Uno studio multicentrico di classe IV sullo zolmitriptan per via orale, condotto su adolescenti di 12-17 anni (n = 38) che avevano presentato in totale 276 attacchi di emicrania, mostrava una buona tol- 261 G. Galli Gibertini et al. leranza al trattamento ed una efficacia del 66% (Linder e Dowson, 2000), Più recentemente, la forma intranasale veniva valutata in uno studio contro placebo in 298 adolescenti americani (Lewis et al., 2007), con una buona efficacia e rapidità di azione. Alla base dell’impiego di farmaci “mirati” quali i triptani, resta la diagnosi di emicrania, che è clinica, Se si leggono attentamente i criteri diagnostici riportati nella tabella 1, per una diagnosi di emicrania pediatrica si richiedono almeno 5 attacchi, Che fare quindi nel bambino al terzo, quarto episodio? La scelta di tentare o meno uno dei triptani in caso di episodi molto dolorosi e per i quali i farmaci anti-dolorifici si sono dimostrati inefficaci, resta al medico, Ma nel caso di precedenti episodi di durata molto lunga ed invalidanti, un tentativo è probabilmente giustificato, Tra i triptani, il sumatripan è l’agonista del recettore 5-HT che ha dato sinora delle solide prove di efficacia, con un profilo più efficace nella sua forma di spray nasale, che è tra l’altro di comoda somministrazione, La somministrazione nasale ha il vantaggio di poter essere usata anche nei casi di emicrania associati a nausea o vomito, È però importante che il sumatriptan nasale sia somministrato all’apparire dei primi sintomi, ed è quindi indispensabile avere il flacone pre-dosato sempre a portata di mano. Raccomandazioni Le indicazioni recenti della letteratura consigliano di gestire l’emicrania in prima battuta con un trattamento analgesico, quale il paracetamolo (livello di evidenza B) o l’ibuprofene (livello di evidenza A), anche per via endovenosa se necessario – tipicamente se si è al pronto soccorso ed è presente vomito. L’uso dei triptani, quali il sumatriptan nasale (> 12 anni, livello di evidenza A) è riservato ai casi particolari su menzionati, ed una volta ottenuta la diagnosi definitiva, Ci sembra molto utile ricordare che molte patologie possono mimare degli attacchi di emicrania (cefalee secondarie) e talvolta la diagnosi resta difficile (ad esempio con l’epilessia occipitale benigna, in quanto possono riscontrarsi anche in casi di emicrania delle alterazioni all’elettroencefalogramma), Il riferimento ad un neuropediatra in caso di dubbio diagnostico è sempre indicato, soprattutto prima di iniziare un trattamento specifico. Il trattamento preventivo I principi generali per quanto riguarda gli obiettivi del trattamento preventivo delle emicranie sono: 1) ridurre la frequenza, la severità e la durata degli attacchi; 2) migliorare la risposta al trattamento dell’attacco acuto; 3) migliorare la qualità di vita del paziente. Per raggiungere questi obiettivi, ci sembra indispensabile arrivare precocemente ad una presa in carico globale del paziente, che implichi soprattutto l’interazione con in genitori, È infatti cruciale definire con loro gli obiettivi terapeutici a medio e lungo termine, specificando anche la possibilità di un insuccesso, La partecipazione dei genitori (e del bambino o adolescente) è fondamentale per avere dei dati oggettivi sugli attacchi di emicrania, In pratica, compilare un diario che riporti il giorno della crisi con tutte le caratteristiche (localizzazione, intensità, durata, sintomi associati …) e con la risposta eventuale al trattamento acuto permette di meglio definire la necessità di un trattamento preventivo, o anche di modificarlo, L’indicazione ad un trattamento preventivo si basa su una frequenza 262 di attacchi superiore a due per settimana o di attacchi più rari ma particolarmente invalidanti e senza efficacia dei trattamenti episodici, I farmaci a disposizione per il trattamento preventivo non sono molto numerosi, e spesso non sono studiati sufficientemente nel bambino, Inoltre, molti di questi studi sono datati, e per altri ci si basa su esperienze piuttosto che su dati scientifici. Agenti anti-ipertensivi Beta-bloccanti Il propanololo, beta-bloccante non selettivo, è stato studiato in tre studi clinici di classe II con risultati discordanti, Uno studio in doppio cieco in bambini di età compresa fra i 7 e i 16 anni (n = 28), utilizzando dosi comprese tra 60 e 120 mg al giorno, ha ritrovato una remissione completa in 20 bambini su 28 (71%) e una riduzione parziale nella frequenza delle crisi in 3 pazienti (10%), Nel gruppo placebo 3 bambini su 28 hanno riportato una remissione completa e 1 su 28 un miglioramento parziale (Ludvigsson, 1974), Un secondo studio (n = 39; Forsythe et al., 1984) non è riuscito a dimostrare l’efficacia preventiva del propanololo a dosi comprese tra 80 e 120 mg al giorno, Un terzo studio ha messo a confronto il propanololo (ad una dose di 3 mg/kg/die) e l’autoipnosi (Olness et al.; 1987), Non sono stati riscontrati benefici significativi con il propanololo, ma piuttosto importanti miglioramenti grazie all’autoipnosi. Clonidina Si tratta di un farmaco agonista alfa adrenergico, che è stato valutato principalmente in due studi, Il primo studio (classe II) prevedeva due fasi, La prima fase pilota (n = 50) era disegnata come uno studio aperto: 40% dei bambini riportavano un notevole miglioramento negli attacchi acuti di emicrania rispetto ai controlli, La seconda fase di follow-up in doppio cieco su 43 bambini non dimostrava differenze significative contro il placebo (Sills et al., 1982), Gli effetti collaterali quali sedazione ed enuresi, attesi nel gruppo trattato con clonidina, erano invece erano più frequenti nel gruppo placebo, Un secondo studio ha messo a confronto la clonidina contro placebo in gruppi paralleli (classe II) per 2 mesi (n = 57) (Sillanpaa, 1987), Non è risultata esserci alcuna differenza significativa fra i due gruppi: 9 pazienti su 28 nel gruppo clonidina riportavano scomparsa delle emicranie contro 9 pazienti su 26 nel gruppo placebo. Antidepressivi Gli antidepressivi sono diventati un caposaldo della profilassi delle emicranie in molti paesi europei, nonostante esistano un numero limitato di dati a sostegno di questa indicazione, Attualmente si considerano utili nei casi con associata comorbidità di tipo depressivo o di disturbi del sonno (Shurks et al., 2008). Amitriptilina In uno studio aperto di classe IV su 192 bambini con cefalee frequenti (almeno tre episodi al mese), 70% presentavano dei criteri diagnostici compatibili con una emicrania e venivano trattati con amitriptilina (1 mg/kg/die) (Hershey et al., 2000), Oltre l’80% dei pazienti presentava una riduzione statisticamente significativa della frequenza e della severità delle emicranie, ma nessun cambiamento per quanto riguardava la durata degli episodi, Gli effetti collaterali del trattamento erano descritti come minimi dagli autori, ma non specificati, Uno studio retrospettivo di classe IV sull’uso degli agenti preventivi nel bambino e nell’adolescente (n = 73) mostrava che l’amitriptilina produceva un Il trattamento dell’emicrania nel bambino tasso di risposte positive dell’89%, Tale tasso veniva definito come una progressiva diminuzione della severità e della durata della cefalea, ed era valutato insieme alla tollerabilità del farmaco, La frequenza delle cefalee veniva ridotta da una media di 11 episodi al mese a 4,1, L’effetto collaterale più frequentemente riportato era una moderata sedazione (Lewis et al., 2004). Bloccanti dei canali del calcio Flunarizina È un farmaco che si è dimostrato efficace in uno studio clinico di classe I su 63 pazienti, ed alla dose di 5 mg al giorno, L’effetto collaterale più frequente era l’incremento ponderale, riscontrato nel 22,2% dei casi (Sorge et al., 1988), Altri studi successivi hanno dimostrato una efficacia simile (Victor e Ryan, 2003). Anticonvulsivanti Considerando le visioni attuali sulla fisiopatologia delle emicranie, si può prevedere che l’interesse degli studiosi e delle case farmaceutiche si rivolgerà sempre più verso gli anticonvulsivanti, come è successo per il topiramato o anche per il sodio valproato (Shaygannejad et al., 2006), la lamotrigina (Gupta et al., 2007) e su altre molecole agenti a livello neuronale. Topiramato Uno studio retrospettivo (classe IV) attesta l’efficacia del topiramato nelle cefalee frequenti del bambino (più di 15 episodi al mese) (Hershey et al., 2002), Tale studio ha incluso 75 pazienti, di cui 41 si sono presentati ad una seconda visita di follow-up, Venivano usate dosi giornaliere di circa 1,5 mg/kg/die, ottenendo una riduzione della frequenza delle cefalee da 16,5 a 11,6 cefalee/mese (p < 0,001), Notevoli miglioramenti venivano ottenuti anche per quanto riguardava la severità e la durata media della cefalee, Fra gli effetti collaterali più significativamente associati a tale trattamento vi erano i deficit cognitivi (12,5%), la perdita di peso (5,6%) ed i sintomi sensitivi (2,8%), Recenti studi multicentrici, in particolare uno americano su un campione molto numeroso (Diener et al., 2007), hanno fornito ulteriore prova dell’efficacia del topiramato (Winner et al., 2006; Limmroth et al., 2007; Lakshmi et al., 2007), Lo studio di Dienner et al. ha anche fornito una possibile risposta alla durata della terapia preventiva, che si conclude essere di 6 mesi, con una eventuale opzione di prolungarla ancora 6 mesi in caso di ripresa importante degli episodi. Raccomandazioni Le indicazioni recenti della letteratura sono in favore della flunarizina e del topiramato (livello di evidenza B), Quel che ci preme sottolineare sul trattamento preventivo dell’emicrania nella pratica clinica è l’attenzione alla sorveglianza della terapia, Assicurarsi che il trattamento sia preso regolarmente, e che non ci siano effetti collaterali di rilievo, è il primo passo per decidere o meno di modificarlo, Altro problema è quello dell’abuso di analgesici o anti-emicranici, Purtroppo non si è ancora giunti ad un consenso sul trattamento di queste dipendenze ed anche molecole che sembravano promettenti, come il prednisolone, si sono rivelate inefficaci (Bøe et al., 2007), È quindi importante rivolgersi ad un centro per il trattamento delle emicranie nei casi a gestione più complessa, particolarmente nelle emicranie farmaco-resistenti, per affinare la diagnosi eziologica ed escludere delle cause rare di emicranie secondarie (ad esempio quelle associate a malformazioni cardiache tipo ostium secundum (Fernandez-Maryolales et al., 2007). Conclusioni Gli studi più recenti si concentrano soprattutto sul trattamento acuto, e in particolar modo sull’efficacia di diversi triptani contro placebo, Più rari sono gli studi comparativi versus ibuporofene, come ad esempio quello di Evers et al. (2006), che forniscono nello specifico risultati comparabili tra l’anti-infiammatorio e lo zolmitriptan orale, Purtroppo sono ancora pochi gli studi comparativi tra i diversi triptani, forse anche per gli interessi delle aziende farmaceutiche, che hanno interesse a mostrare la superiorità rispetto ad un placebo, data la prevalenza elevata della patologia. I principi generali della gestione del bambino e all’adolescente con emicrania riflettono la necessità di un corretto trattamento, sia per l’attacco acuto che per l’eventuale prevenzione delle recidive. Gli obiettivi clinici da perseguire sono volti miglioramento della qualità di vita dei bambini con emicrania, e possono essere riassunti nei seguenti punti: • diminuzione della frequenza, severità e durata degli attacchi; • riduzione dell’impiego inappropriato ed intempestivo di più farmaci allo stesso tempo nei casi acuti; • educazione del paziente a gestire la patologia, sia formandolo al controllo dell’attacco di emicrania (terapia del dolore), che sorvegliando un possibile calo della fiducia rispetto alla farmacoterapia, se quest’ultima si avvera mal tollerata o inefficace; • diminuzione della sofferenza psicologica, che si riscontra soprattutto nelle emicranie di lunga durata o molto frequenti, con la prescrizione di terapie comportamentali. 263 G. Galli Gibertini et al. Box di orientamento Cosa sapevamo prima • Le cefalee e le emicranie sono difficilmente diagnosticabili nel bambino in età scolare • Il trattamento della cefalea nel bambino si basa sul paracetamolo Cosa sappiamo adesso • L’emicrania é una patologia frequente anche nel bambino • La fisiopatologia dell’attacco di emicrania é ben conosciuta • I farmaci attualmente in uso per l’attacco acuto sono gli anti-infiammatori ed i triptani • I farmaci impiegati per la prevenzione degli episodi dolorosi sono la flunarizina ed il topiramato Cosa ci attendiamo nel futuro • Le conoscenze attuali sulla fisiopatologia dell’emicrania permetteranno di sviluppare altri farmaci mirati • Gli studi clinici sui nuovi triptani avanzano rapidamente nell’adulto e queste molecole saranno a breve disponibili per l’età pediatrica • L’attenzione portata anche sulla qualità di vita del bambino con cefalea consentirà una migliore presa in carico globale per tutti i pazienti. 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Luigi Titomanlio, Service d’Accueil des Urgences Pédiatriques, Hôpital Robert Debré, 48 Bld Sérurier, 75019 Paris (F) • Tel. +33 01.40.03.40.05 • Fax +33 01.40.03.47.74 • E-mail: [email protected] 265 Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 266-283 LINEE GUIDA Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Alessandra Marchesi, Giacomo Pongiglione*, Alessandro Rimini*, Riccardo Longhi**, Alberto Villani U.O.C. Pediatria Generale, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma, Società Italiana di Pediatria (SIP, SIPPS); * Dipartimento Cardiovascolare, Cardiologia e Cardiologia Invasiva, Istituto Giannina Gaslini IRCCS, Genova (SICP); **U.O. Pediatria, Ospedale S. Anna, Como (SIP) Con la partecipazione di Armando Calzolari, U.O.C. Medicina Cardiorespiratoria e dello Sport, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (GSBS) Carmela Caputo, U.O. Pediatria Empoli ASL 11 (FI) (SIP) Rolando Cimaz, Servizio Reumatologia Pediatrica, Azienda Ospedaliera Universitaria Meyer, Firenze (SIP, Gruppo di Studio di Reumatologia Pediatrica) Elisabetta Cortis, U.O.C. Reumatologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SIP, Gruppo di Studio di Reumatologia Pediatrica) Michaela V. Gonfiantini, U.O.C. Pediatria Generale, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SIP) Annalisa Grandin, U.O.C. Pediatria Generale, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SIP) Patrizia D’Argenio, U.O.C. Immunoinfettivologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SIP) Andrea De Zorzi, U.O.C. Cardiologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SICP) Rosa Maria Dellepiane, U.O.C. Pediatria 2, Fondazione Policlinico IRCCS, Milano (SIP, SIAIP) Maya El Hachem, U.O.C. Dermatologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma (SIDERP) Fernanda Falcini, Azienda Ospedaliera Universitaria Meyer, Firenze (SIP, Gruppo di Studio di Reumatologia Pediatrica) Alberto Fischer, U.O. Pediatria, Acireale CT (SIP) Luisa Galli, U.O. Malattie Infettive, Clinica Pediatrica I, Università di Firenze (SITIP) Raffaella Giacchino, U.O. Malattie Infettive, Istituto Giannina Gaslini IRCCS, Genova (SITIP) Emanuela Laicini, U.O.C. Emergenza Urgenza Pediatrica, Fondazione Policlinico IRCCS, Milano (SIP, SIAIP) Maria Francesca Manusia, s.s.d. Cardiologia Pediatrica, A.O.U. Parma (SIP; Gruppo di Studio in Cardiologia Pediatrica) Maria Cristina Pietrogrande, Clinica Pediatrica II, Università di Milano, Fondazione Policlinico IRCCS (SIP, SIAIP) Ruggiero Piazolla, Pediatra Famiglia, Barletta (BA) (FIMP) Patrizia Salice, U.O. Cardiologia, Sezione Pediatrica, Fondazione Policlinico Mangiagalli Regina Elena IRCCS, Milano (GSBS) Alberto Tozzi, U.O. Epidemiologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SIAIP) Francesco Zulian, Unità Reumatologia Pediatrica, Università di Padova (SIP, Gruppo di Studio di Reumatologia Pediatrica) Con la consulenza della Commissione Tecnica Linee Guida della SIP: Coordinatore: Riccardo Longhi Componenti: M. Osti, A. Palma, S. Santucci, R. Sassi, A. Villani, R. Zanini 266 Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Scopo Scopo di queste Linee Guida (LG) è definire: blicazione in letteratura di dati che rendano le sue raccomandazioni o il loro grading obsoleti. • le evidenze sulla possibile eziopatogenesi della malattia di Kawasaki; Metodologia • le evidenze sull’accuratezza di segni e sintomi clinici, diagnostica di laboratorio e per immagini; Per sviluppare queste Linee Guida, la SIP ha collaborato con la Società Italiana di Cardiologia Pediatrica (SICP), la Società Italiana di Infettivologia Pediatrica (SITIP), il Gruppo di Studio di Reumatologia Pediatrica, la Società Italiana di Allergologia e Immunologia Pediatrica (SIAIP), la Società Italiana di Dermatologia Pediatrica (SIDERP), la Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS), il Gruppo di Studio Bambino Sportivo (GSBS), la Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP), il Gruppo di Studio di Pediatria Ospedaliera (GSPO). Questa commissione ha incluso esperti di pediatria generale, cardiologia, infettivologia, reumatologia, immuno-allergologia, dermatologia, epidemiologia, ai quali è stato chiesto di eseguire una sistematica analisi della letteratura esistente, per definire le attuali conoscenze circa: • le evidenze di efficacia della terapia della fase acuta con immunoglobuline endovena ed aspirina; • le evidenze di efficacia delle altre terapie in fase acuta; • le evidenze di efficacia della terapia in fase cronica e delle complicanze; • le evidenze di efficacia del follow-up a breve termine • le evidenze di efficacia del follow-up a lungo termine. Utilizzatori Queste LG sono rivolte ai pediatri che lavorano sul territorio o in strutture ospedaliere, ai medici di medicina generale e agli infermieri che si occupano di bambini affetti da malattia di Kawasaki. Note per gli utilizzatori Le decisioni cliniche sul singolo paziente, per essere razionali ed adeguate alle effettive necessità del caso, richiedono sicuramente l’applicazione di raccomandazioni condivise dalla massima parte degli esperti e fondate sulle migliori prove scientifiche, ma non possono prescindere dall’esperienza clinica e da tutte le circostanze di contesto. La Società Italiana di Pediatria (SIP), insieme a tutte le Società Scientifiche che hanno collaborato alla stesura di queste linee guida e hanno accettato di divulgarle, è lieta di mettere a disposizione del pediatra un documento di indirizzo per affrontare in modo razionale e corretto il problema della malattia di Kawasaki del bambino per il quale sono mancate, fino ad oggi, in Italia, direttive diagnostico-terapeutiche condivise. Finanziamenti La redazione delle LG è risultata indipendente da fonti di supporto economico. Tutti coloro che hanno partecipato all’elaborazione delle linee guida hanno dichiarato di non trovarsi in una posizione di conflitto d’interesse. Promulgazione, disseminazione Il testo è stato presentato e discusso nel dettaglio durante il 63° Congresso Nazionale della S.I.P. a Pisa nel settembre 2007 e nel successivo 64° Congresso a Genova il 15 ottobre 2008. È stato successivamente modificato e approvato da tutti gli autori nella sua versione definitiva il 15 ottobre 2008. L’impatto di questo testo nella pratica pediatrica sarà analizzato con studi ad hoc volti a confrontare l’approccio diagnostico-terapeutico alla malattia di Kawasaki, prima e dopo la sua lettura. Aggiornamento È prevista una revisione delle LG fra tre anni o prima, in caso di pub- • le evidenze sulla possibile eziopatogenesi della malattia di Kawasaki; • le evidenze sull’accuratezza di segni e sintomi clinici, diagnostica di laboratorio e per immagini; • le evidenze di efficacia della terapia della fase acuta con immunoglobuline endovena ed aspirina; • le evidenze di efficacia delle altre terapie in fase acuta; • le evidenze di efficacia della terapia in fase cronica e delle complicanze; • le evidenze di efficacia del follow-up a breve termine • le evidenze di efficacia del follow-up a lungo termine. Come documento di base sono state utilizzate le LG americane Diagnosis, treatment, and long-term management in Kawasaki disease: a statement for health professionals from the committee on rheumatic fever, endocarditis and Kawasaki disease, council on cardiovascular disease in the young redatte dall’American Heart Association, nel 2004 1. Inoltre è stata eseguita una ricerca bibliografica degli ultimi dieci anni, utilizzando i data base Medline e Cochrane, e i motori di ricerca Sumsearch, e-medicine, adc-bmjjournals. Sono state utilizzate le seguenti parole-chiave: “bambino”, “malattia di Kawasaki”, “dilatazioni coronariche”, “aneurismi coronarici”, “ecocardiografia”, “TC multistrato”, “angiografia”, “immunoglobuline endovena”, “aspirina”, “corticosteroidi” “pentossifilline”, “farmaci biologici”, “follow-up” e limitando l’analisi alle pubblicazioni relative a studi condotti sull’uomo e redatti in lingua italiana ed inglese. L’eterogeneità delle ricerche disponibili, così come la loro scarsa numerosità, non ha permesso l’esecuzione di una formale metanalisi per i diversi punti. Le raccomandazioni contenute in queste LG sono basate sulle migliori evidenze disponibili. Le raccomandazioni più forti si basano sulla disponibilità di dati di alta qualità scientifica o, in mancanza di questi, sul forte consenso degli esperti. Le raccomandazioni più deboli derivano da dati di minore qualità scientifica. I livelli delle prove (evidenze) disponibili e la forza delle raccomandazioni sono stati classificati secondo il Piano Nazionale Linee Guida, come riportato di seguito. 267 Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Livelli di prova Prove di tipo I Prove ottenute da più studi clinici controllati randomizzati e/o da revisioni sistematiche di studi randomizzati. II Prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno adeguato. III Prove ottenute da studi di coorte non randomizzati con controlli concorrenti o storici o loro metanalisi. IV Prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso-controllo o loro metanalisi. V Prove ottenute da studi di casistica (“serie di casi”) senza gruppo di controllo. VI Prove basate sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di esperti come indicato in linee guida consensus conference. Forza delle raccomandazioni A L’esecuzione di quella particolare procedura o test diagnostico è fortemente raccomandata. Indica una particolare raccomandazione sostenuta da prove scientifiche di buona qualità, anche se non necessariamente di tipo I o II. B Si nutrono dei dubbi sul fatto che quella particolare procedura o intervento debba sempre essere raccomandata, ma si ritiene che la sua esecuzione debba essere attentamente considerata. C Esiste una sostanziale incertezza a favore o contro la raccomandazione di eseguire la procedura o l’intervento. D L’esecuzione della procedura non è raccomandata. E Si sconsiglia fortemente l’esecuzione della procedura. Introduzione La malattia di Kawasaki (MK), descritta per la prima volta in Giappone nel 1967 da Tomisaku Kawasaki 2, è una vasculite acuta sistemica che colpisce i vasi di medio calibro di tutti i distretti dell’organismo. La complicanza più temibile è rappresentata dagli aneurismi coronarici, la cui incidenza viene significativamente ridotta quando i pazienti sono trattati con immunoglobuline entro il decimo giorno dall’esordio della febbre 3 4. A livello mondiale, le incidenze annuali riportate variano tra 3,4 e 100/100.000 5. La popolazione considerata in queste LG pertanto è costituita da pazienti di età pediatrica, compresi i lattanti. La diagnosi di malattia di Kawasaki è clinica, basata su criteri clinici diagnostici, con il contributo di esami ematochimici e strumentali, pertanto, spesso, è una diagnosi difficile. Le maggiori difficoltà diagnostiche sono rappresentate dal fatto che alcuni bambini sviluppano complicanze coronariche senza soddisfare i criteri diagnostici e che manifestazioni cliniche diverse da quelle caratteristiche possono essere il primo sintomo. La diagnosi precoce è però essenziale perché la prognosi della malattia è legata alla precocità del trattamento. 268 L’obiettivo di queste LG è fornire raccomandazioni il più possibile basate sulle evidenze scientifiche per identificare i corretti percorsi diagnostici e terapeutici, per ottimizzare i risultati prognostici. L’utilizzazione di percorsi omogenei semplifica la gestione diagnostico-terapeutica e costituisce uno strumento utile per il personale sanitario che può così disporre di elementi oggettivi per verificare il proprio modus operandi. Queste LG sono rivolte ai pediatri che lavorano sul territorio o in strutture ospedaliere, ai medici di medicina generale e agli infermieri che si occupano di bambini affetti da malattia di Kawasaki. Definizione di malattia di Kawasaki Forma classica La MK è una vasculite acuta sistemica che colpisce i vasi di medio calibro di tutti i distretti dell’organismo, autolimitante, ad eziologia sconosciuta, probabilmente multifattoriale, che colpisce prevalentemente lattanti e bambini nella prima infanzia. È caratterizzata da febbre da più di 5 giorni associata a ≥ 4 dei seguenti segni o criteri clinici: iperemia congiuntivale bilaterale, eritema delle labbra e della mucosa orale, anomalie delle estremità, rash e linfoadenopatia cervicale. La diagnosi di MK si basa sulla presenza dei suddetti criteri clinici 1 4. Non esistono caratteristiche cliniche patognomoniche o un test diagnostico specifico. La complicanza più temibile è rappresentata dagli aneurismi coronarici, la cui incidenza viene ridotta dal 15-25% a meno del 5, quando i pazienti sono trattati con immunoglobuline entro il decimo giorno dall’esordio della febbre 3 4. In letteratura è segnalato un numero crescente di bambini che presenta rilievo ecocardiografico di alterazioni delle coronarie (dilatazione, aneurismi) senza soddisfare pienamente i criteri diagnostici classici, pertanto sono stati coniati i termini di MK incompleta e MK atipica. Forma incompleta Il termine incompleta si riferisce ai pazienti che, in associazione alla tipica febbre, non presentano il numero sufficiente di criteri diagnostici, pur presentando alterazioni coronariche. Tale forma di MK è più frequente nei bambini al di sotto dei 12 mesi, pertanto dovrebbe essere sospettata in ogni lattante di età < 6 mesi con febbre da più di 7 giorni ed infiammazione sistemica documentata, senza una causa spiegabile. Forma atipica Il termine atipica si riferisce ai pazienti che presentano all’esordio, oltre alla febbre caratteristica, sintomi diversi dalle manifestazioni tipiche, che in genere non si rilevano nella MK (es., un coinvolgimento renale, polmonite a lenta risoluzione, pancreatite acuta, paralisi del faciale, ecc.), in associazione alle alterazioni coronariche. Codice identificativo Recentemente è stata formulata la proposta di utilizzare un codice identificativo nella malattia di Kawasaki, che dia indicazioni relative alla forma, al coinvolgimento cardio-vascolare, al livello di rischio (Tab. I). In particolare, si è proposto di indicare il tipo di forma con C/I/A (ove C classica, I incompleta, A atipica), il coinvolgimento cardio-vascolare (come 0/1/2/M/V ove 0 assente, 1 presenza di dilatazione coronarica, 2 presenza di aneurisma coronario, M miocardite, V coinvolgimento vascolare), identificando eventualmente anche la Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Tabella I. Codice identificativo. Forma Coinvolgimento cardiovascolare C classica Tabella II. Incidenza annuale di MK in bambini di età inferiore a 5 anni su 100.000. I incompleta Giapponesi 112 A atipica Americani di origine asiatica o delle isole del Pacifico 325 0 assente Americani africani 169 1 presenza di dilatazione coronarica Americani ispanici 111 2 presenza di aneurisma coronario Americani caucasici 91 M miocardite V coinvolgimento vascolare Coronaria interessata D destra S sinistra DA discendente anteriore Cx circonflessa Livello di rischio 1-5 secondo la stratificazione dei livelli di rischio coronaria interessata (D destra, S sinistra, DA discendente anteriore, Cx circonflessa). Infine, l’identificazione del livello di rischio verrebbe eseguita secondo la stratificazione dei livelli di rischio da 1 a 5 (vedi capitolo sul follow-up). Quindi, ad esempio, C 0 R1 identificherà un paziente con forma classica, senza interessamento coronario, che appartiene alla stratificazione dei gruppi di rischio 1. Epidemiologia I dati epidemiologici disponibili sono americani e giapponesi, mancano in letteratura dati italiani e europei. Tali studi evidenziano una maggiore incidenza della MK nei maschi (rapporto maschi: femmine pari a 1.5-1.7: 1) 1. La distribuzione per età e sesso mostra un picco tra i 9 e gli 11 mesi, il 50% dei bambini ha età inferiore ai 2 anni e il 76% inferiore a 5 anni 1. Anche i bambini più grandi possono esserne colpiti e, a causa di un ritardo nella diagnosi, sono a maggior rischio di complicanze cardiovascolari. La MK ha una maggiore prevalenza nei bambini di origine asiatica. In Tabella II è rappresentata l’incidenza annuale di MK in bambini di età inferiore a 5 anni su 100.000 in Giappone e nelle differenti etnie presenti in America 5. La letteratura mondiale riporta incidenze annuali che variano tra 3,4 e 100/100.000 5. Per quanto riguarda le forme atipiche ed incomplete, l’incidenza è stimata intorno al 40% nei bambini ≤ 12 mesi contro il 10-12% nei bambini di età > 12 mesi. Il rischio di ricorrenza e l’incidenza familiare di MK sono ben documentate solo nella letteratura giapponese, in rapporto alla maggiore prevalenza della malattia in quella popolazione; tali percentuali potrebbero essere minori in altre etnie. In Giappone la proporzione di casi con anamnesi familiare positiva per MK è pari all’1%; il rischio di malattia per un fratello, entro un anno dalla comparsa del primo caso in famiglia, è dieci volte superiore rispetto a quello della popolazione generale, pari cioè al 2,1%, mentre per i gemelli è addirittura del 13% 5. Il 50% dei casi familiari si verifica, di solito, entro 10 giorni dal caso indice. Per quanto riguarda le possibili complicanze, l’incidenza degli aneurismi coronarici è circa il 15-25% nei pazienti non trattati e < 5% nei pazienti trattati con immunoglobuline entro il decimo giorno dall’esordio della febbre 3 4. In particolare, però, nei bambini di età < 12 mesi, si stima che l’incidenza di anomalie coronariche sia intorno al 40-50% (contro 15-25% dei soggetti di età superiore a 12 mesi), proprio perché la diagnosi spesso risulta più difficile e pertanto il trattamento può venire ritardato. I decessi dipendono dalle sequele cardiologiche, sia a breve termine, con un picco di mortalità tra 15 e 45 giorni dopo l’esordio della febbre, sia a lungo termine, anche in età adulta. Il tasso di mortalità negli affetti da MK in Giappone era più dell’1% fino al 1974, diminuito allo 0,1-0,2 % dal 1974 al 1993, ulteriormente ridotto tra il 1993 e il 2002 a 0,02-0,09% 1. È stata osservata una certa stagionalità, con picco di incidenza nel tardo inverno ed inizio primavera, anche se di fatto tale associazione nei diversi paesi non è così stretta. Eziopatogenesi L’eziopatogenesi della MK rimane ancora sconosciuta; sono state suggerite diverse ipotesi (infettive, immunologiche e genetiche) che probabilmente si integrano tra loro a delineare il quadro di una malattia multifattoriale. L’identificazione di tali meccanismi sarebbe essenziale per elaborare strategie preventive, primarie e secondarie, e terapeutiche (Fig. 1). Presentazione e decorso clinico Segni e sintomi I segni e i sintomi diagnostici per MK, definiti anche “criteri clinici diagnostici”, sono rappresentati da: • febbre da più di 5 giorni; • iperemia congiuntivale bilaterale; • alterazioni delle labbra e della cavità orale; • esantema polimorfo; • alterazioni delle estremità; • linfadenopatia cervicale 1 4. La febbre, nella MK, è tipicamente elevata e remittente, scarsamente responsiva alla terapia antipiretica. In assenza di una terapia adeguata, persiste in media 11 giorni, ma può continuare per 3-4 settimane, raramente anche più a lungo. Di solito si risolve dopo due giorni di trattamento. Si è tentato di rivalutare il criterio “febbre”, considerando pazienti con 4 giorni o meno per anticipare il tratta- 269 Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Identificazione agenti infettivi Evitare esposizioni contagiose Eziologia agenti infettivi superantigeni Suscettibilità genetica per infezioni per alterazioni immunologiche Vaccinazioni / Ig iperimmuni Identificare ospiti suscettibili Superattivazione immunitaria aumento CD4OL, citochine ASA IVIG Anti-CD4OL Inibitori i-NOS Danno endoteliale Vasculite Aneurismi coronarici Figura 1. Interazione tra meccanismi eziopatogenetici, prevenzione e terapia. mento con immunoglobuline (IVIG), senza però aumentare in modo significativo il numero delle diagnosi 6. La iperemia congiuntivale bilaterale è bulbare, risparmia il limbus, cioè la zona avascolare intorno all’iride, generalmente non è dolorosa. Appare poco tempo dopo la comparsa della febbre. Con la lampada a fessura è possibile rilevare una lieve iridociclite acuta o uveite anteriore, a risoluzione rapida e raramente associata a fotofobia o dolore oculare. Le alterazioni delle labbra e della mucosa orale comprendono eritema, secchezza, fissurazioni, desquamazione e sanguinamento delle labbra, lingua a fragola, con eritema diffuso della mucosa orofaringea, in assenza di vescicole, di ulcerazioni del cavo orale e di essudato. Un rash eritematoso del tronco e delle estremità, comunemente maculo-papuloso, oppure orticarioide, o scarlattiniforme, o tipo eritema multiforme o, raramente, finemente micropustoloso, appare generalmente entro 5 giorni dalla comparsa della febbre. Le alterazioni delle estremità comprendono, in fase acuta di malattia, eritema palmo-plantare e/o edema duro, a volte doloroso, delle mani e dei piedi. Entro 2-3 settimane dall’esordio della febbre si verifica una desquamazione delle dita, che solitamente inizia in regione periungueale e che può estendersi alla regione palmo-plantare. Uno-due mesi dopo la comparsa della febbre, possono comparire le linee di Beau, solchi trasversali profondi a livello delle unghie. In fase acuta, inoltre, si può osservare un eritema perineale che evolve precocemente in desquamazione. La Consensus Conference EULAR/PRES ha recentemente proposto di modificare il criterio di “anomalie delle estremità” in “anomalie delle estremità o dell’area perineale” 7. 270 La linfoadenopatia laterocervicale è la meno comune delle principali caratteristiche cliniche. Generalmente è unilaterale, con uno o più linfonodi di diametro > 1,5 cm, spesso fissi, di consistenza parenchimatosa, senza segni di colliquazione e ricoperti da cute integra. Altre manifestazioni cliniche Nella MK possono essere presenti anche altre manifestazioni cliniche, che sono elencate in Tabella III. Decorso clinico Dal punto di vista clinico si distinguono fase acuta, subacuta e di convalescenza, come descritto in Tabella IV e Figura 2. Fisiopatologia Il processo fisiopatologico che determina le alterazioni cardiovascolari della MK può essere suddiviso in quattro stadi: • stadio 1: comprende i primi 10 giorni di malattia, è caratterizzato da vasculite e perivasculite acuta dei microvasi e delle piccole arterie, tra cui i vasa vasorum delle coronarie. In questo periodo possono comparire pericardite acuta, miocardite interstiziale, endocardite ed infiammazione del tessuto di conduzione; • stadio 2: compreso dall’undicesimo al venticinquesimo giorno, è caratterizzato da peri- e pan-vasculite dei vasi di medio calibro ed in particolare delle coronarie, con interessamento elettivo dell’intima. Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Tabella III. Altre manifestazioni cliniche (in corsivo le più frequenti). Cardiache: coronarite, pericardite, miocardite, endocardite, insufficienza mitralica, insufficienza aortica e tricuspidalica (in fase acuta), dilatazione bulbo aortico (in fase più tardiva), insufficienza cardiaca, shock cardiogeno, aritmie, alterazioni coronariche (in fase subacuta) Vascolari: fenomeno di Raynaud, gangrena periferica Articolari: artralgia, artrite Sistema Nervoso: irritabilità, meningite asettica, ipoacusia neurosensoriale, paresi facciale periferica unilaterale transitoria Gastrointestinali: diarrea, vomito, dolori addominali, addome acuto, interessamento epatico, idrope acuta della colecisti Urinari: piuria sterile, uretriti, tumefazione testicolare Cutanei: eritema e tumefazione nel pregresso sito di inoculo del vaccino BCG, linee di Beau Respiratori: tosse, rinorrea, noduli ed infiltrati polmonari Tabella IV. Fasi cliniche della MK. Fase acuta (durata 1-2 settimane): • presenza della febbre e degli altri segni acuti della malattia Fase subacuta (durata fino alla 4ª settimana): • ha inizio dopo la risoluzione della febbre e degli altri segni acuti • possono persistere irritabilità, anoressia e congiuntivite • si associa a desquamazione, trombocitosi, sviluppo di aneurismi coronarici • è la fase a più alto rischio di morte improvvisa Fase di convalescenza (durata dalla 5ª alla 8ª settimana): • inizia alla scomparsa di tutti i segni clinici di malattia • fino alla normalizzazione degli indici infiammatori febbre alterazioni ungueali desquamazione rash anomalie estremità congiuntivite mucosite linfoadenopatia coronaropatia trombocitosi alterazione VES e PCR 1 sett. 2 sett. Acuta 3 sett. 4 sett. Subacuta 5 sett. 6 sett. 7 sett. Convalescenza 8 sett. 9 sett. Figura 2. Decorso clinico a breve termine della MK. 271 Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane In questa fase, la rottura della limitante interna può favorire la comparsa di dilatazioni e aneurismi coronarici, soprattutto alle biforcazioni ed ai segmenti coronarici prossimali, con successiva possibile stenosi..Tipici di questa fase sono anche l’edema e la fibrosi perivascolare dei piccoli vasi e le lesioni infiammatorie del setto interatriale e interventricolare; • stadio 3: dal ventiseiesimo al trentesimo giorno, è caratterizzato dalla possibile formazione di trombi granulomatosi con ispessimento dell’intima delle piccole arterie, anche in assenza di aneurismi preesistenti. Scompaiono l’angioite dei vasi e l’eventuale cardite; • stadio 4: ad inizio dal secondo mese di malattia, è caratterizzato da proliferazione fibroblastica dell’intima, che riempie la zona periferica del sacco aneurismatico, rispettando il lume del vaso, con successiva cicatrizzazione e calcificazione delle coronarie. Diagnosi differenziale Anche nella diagnosi della forma tipica, proprio perché la diagnosi è clinica, si raccomanda l’esclusione di altre malattie infettive in atto. In particolare deve essere esclusa l’infezione acuta da adenovirus (mediante ricerca della DNA nel sangue con PCR) o altre infezioni batteriche da streptococco o stafilococco. Sul piano pratico, se le indagini tese ad evidenziare un’eziologia virale possono essere utili, ma non escludono la necessità della somministrazione di immunoglobuline endovena, la possibilità di una contemporanea infezione batterica in atto deve comportare l’effettuazione di una terapia antibiotica. In Tabella V sono elencate le più comuni patologie che entrano in diagnosi differenziale con la MK. Gestione clinica sfare i criteri diagnostici, la malattia ha un’espressione clinica polimorfa e che manifestazioni cliniche diverse da quelle caratteristiche possono essere il primo sintomo. La diagnosi precoce è però essenziale, perché la prognosi della malattia è legata alla precocità del trattamento. Pertanto, nel sospetto di MK, è fondamentale ricercare nell’anamnesi l’eventuale presenza di segni o sintomi compatibili con la diagnosi e consigliare il ricovero ospedaliero per eseguire gli accertamenti diagnostici necessari. Raccomandazione 1 La diagnosi di MK classica viene posta nei seguenti casi: • febbre ≥ 5 giorni associata a ≥ 4 criteri diagnostici, anche senza attendere l’esecuzione dell’ecocardiografia; • febbre ≥ 5 giorni e < 4 criteri diagnostici con anomalie ecocardiografiche delle arterie coronarie; • febbre al quarto giorno con ≥ 4 criteri diagnostici ed anomalie ecocardiografiche. (livello di prova VI; forza della raccomandazione A) Raccomandazione 2 La diagnosi di MK incompleta viene posta in caso di: • febbre ≥ 5 giorni associata a 2 o 3 criteri clinici diagnostici con anomalie ecocardiografiche delle arterie coronarie; • lattanti < 6 mesi con febbre > 7 giorni e segni di infiammazione sistemica con anomalie ecocardiografiche delle arterie coronarie. (livello di prova VI; forza della raccomandazione A) Raccomandazione 3 Diagnosi clinica (in base ai criteri diagnostici) La diagnosi di MK atipica deve essere posta in caso di: La diagnosi di MK si basa sulla presenza di criteri clinici diagnostici 1 4 in quanto non esistono caratteristiche cliniche patognomoniche o un test diagnostico specifico. Spesso si tratta di una diagnosi difficile per vari motivi: i criteri clinici possono comparire in tempi diversi e talvolta essere così fugaci da non essere rilevati, i segni clinici sono comuni a molte altre malattie, i dati di laboratorio sono aspecifici ed infine la diagnosi è ancora più complicata quando il quadro clinico è incompleto o atipico. Le maggiori difficoltà diagnostiche sono rappresentate dal fatto che alcuni bambini sviluppano complicanze coronariche senza soddi- • febbre ≥ 5 giorni associata ad altre manifestazioni cliniche con anomalie ecocardiografiche delle arterie coronarie. (livello di prova VI; forza della raccomandazione A) L’American Academy of Pediatrics ha ideato un algoritmo diagnostico-terapeutico per supportare la decisione di trattamento in bambini con criteri diagnostici non sufficienti, basato su dati di laboratorio e rilievi ecocardiografici. Tale algoritmo, in assenza di un gold standard per la diagnosi, rappresenta un forza di raccomandazione B (Fig. 3) 5. Tabella V. Diagnosi differenziale. Patologie infettive Patologie non infettive Virali (rosolia, adenovirus, enterovirus, CMV, EBV, HSV, Parvovirus B19, HHV 6) Reazioni da ipersensibilità a farmaci Scarlattina Sindrome di Stevens-Johnson Sindrome da shock tossico Artrite idiopatica giovanile Staphylococcal scalded skin syndrome, linfadenite laterocervicale batterica Panarterite nodosa Bartonellosi Sarcoidosi Rickettiosi Acrodinia da intossicazione da mercurio Tularemia Leptospirosi 272 Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Febbre ≥ 5 gg Presenza di 2 o 3 criteri clinici VES e PCR PCR < 3,0 mg/dl e VES < 40 mm/h: seguire quotidianamente: persiste per 2 gg → rivalutare caratteristiche paziente se febbre si risolve con desquamazione cutanea si risolve senza desquamazione cutanea → → neg: no tp ECOCARDIO nessun follow-up pos: tp con ASA a 3-5 mg/kg/die PCR ≥ 3,0 mg/dl e VES ≥ 40 mm/h: ≥ 3 criteri lab. suppl. * → MK (anche prima di ecocardio) ed ECOCARDIO Positiva → MK < 3 criteri lab. suppl. * → ECOCARDIO Negativa * Criteri di laboratorio supplementari: albumina ≤ 3 g/dl anemia con Hb < 2 DS per età ↑ ALT PLT dopo 7 gg ≥ 450.000/mmc GB ≥ 15.000/mmc urine: GB ≥ 10/campo apiressia: no MK febbre persistente: 2a ecocardio e considerare IVIG se non possibile altra sicura diagnosi (Livello di prova V - forza della raccomandazione B) Figura 3. Algoritmo diagnostico-terapeutico per MK atipica ed incompleta (modificato da American Academy of Pediatrics 1). Raccomandazione 4 Figura 3. Algoritmo diagnostico-terapeutico per MK atipica ed incompleta (modificato da American Academy of Pediatrics) 1. (livello di prova V; forza della raccomandazione B) Indagini strumentali Esami di laboratorio Raccomandazione 5 I dati di laboratorio non sono specifici e possono solo supportare la diagnosi in pazienti con caratteristiche cliniche di MK o favorirne l’esclusione (Tab. VI). La Ecocardiografia Bidimensionale e Color Doppler è la modalità di imaging ideale per la valutazione cardiaca perché non invasiva, ripetibile e con alta sensibilità e specificità per i tratti prossimali delle arterie coronarie; è l’esame fondamentale per la diagnosi delle complicanze maggiori per le arterie coronarie nella MK, in particolare nelle fasi iniziali della malattia. (livello di prova V; forza della raccomandazione B) (livello di prova V; forza della raccomandazione A) Ecocardiografia Raccomandazione 6 273 Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Tabella VI. I principali dati di laboratorio. EMOCROMO ↑, soprattutto PMN ↓ raramente ↓ con MCV normale ↑, tipic. II e III settimana, normalizzazione in 4-8 settimane; se ↓ indica CID GB GR PLT Indici flogosi VES PCR ↑↑, normalizzazione più lenta ↑, normalizzazione più rapida Funz. Epatica transaminasi, γGT, bilirubina albumina colesterolo, HDL e apolipoproteina AI ↑ ↑ se ↓ indica malattia più grave e prolungata ↓ Altro urine liquor GB > 10/campo meningite asettica (cellule mononucleate, normale glicorrachia e proteinorrachia) purulento ma sterile GB 125.000-300.000/mmc, normale glucosio liquido sinoviale I criteri adottati per il riconoscimento delle lesioni coronariche nella MK si fondano tuttora su quelli definiti dal Ministero della Salute del Giappone, che definiscono le anomalie delle arterie coronarie (Japan Kawasaki Disease Committee by Japanese Ministery of Health) 52. Raccomandazione 7 Si definiscono anomale le coronarie con le seguenti caratteristiche: 1) diametro interno del lume coronarico > 3 mm per bambini < 5 anni o > 4 mm per bambini ≥ 5 anni; 2) diametro di un vaso coronarico ≥ 1,5 volte il diametro di un segmento adiacente; 3) evidenti irregolarità del lume coronarico. (livello di prova V; forza della raccomandazione C) Tali criteri sono considerati eccessivamente generici; in particolare è stata riportata un’aumentata incidenza di dilatazioni coronariche in diverse fasi della malattia, in casi che non soddisfacevano i criteri del Ministero della Salute del Giappone e ritenuti pertanto normali, confrontandoli con un gruppo omogeneo e comparabile per età e superficie corporea 8. Quindi, per i tratti prossimali dell’arteria coronaria destra e discendente anteriore e per il tronco comune, si raccomanda di considerare i valori normali delle arterie coronarie rispetto alla superficie corporea e misurarne lo scostamento dalla media in unità Z (S.D.), utilizzando appositi normogrammi (Fig. 4) od equazioni 1. Tale misurazione non va effettuata vicino agli osti coronarici né a livello delle biforcazioni dei vasi coronarici. Raccomandazione 8 Per i tratti prossimali dell’arteria coronaria destra e discendente anteriore e per il tronco comune, il diametro interno coronario all’ecocardio sarà: • normale se z-score < 2,5 • dilatato se z-score ≥ 2,5 ma ≤ 4 • ectasico o aneurismatico se z-score > 4. (livello di prova III; forza della raccomandazione B) 274 Figura 4. Normogrammi per indicizzare i diametri coronarici per la superficie corporea ove LAD è left anterior descending coronary artery, cioè coronaria discendente anteriore sinistra, RCA è right coronary artery, cioè coronaria destra e LMCA è left main coronary artery, cioè coronaria principale sinistra 8. Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Spiccata luminosità perivasale o assenza della fisiologica progressiva riduzione del calibro del vaso coronario hanno un valore aneddotico orientativo, ma non sono quantizzabili in termini di significato. Rilievi di alterazioni della funzione ventricolare sinistra, presenza di insufficienza mitralica di grado lieve o di versamento pericardico, assai frequenti nelle fasi acute della MK, non sono da considerare sufficienti per la diagnosi, in quanto rilevabili anche in altri quadri infiammatori simili. La sensibilità e la specificità della ecocardiografia non è ancora chiara per anomalie maggiori come le stenosi e, in misura meno, evidente per la trombosi. Queste lesioni si rilevano in fasi generalmente più tardive e non raramente in pazienti di età maggiore, per i quali la visualizzazione delle coronarie diventa progressivamente più difficoltosa. L’esecuzione dell’esame è di pertinenza di esaminatori esperti e non di rado si rende necessaria una sedazione, considerando la spiccata irritabilità e lo stato sofferente dei pazienti tipico della fase acuta. Raccomandazione 9 L’ecocardiogramma deve essere ripetuto in tutti i pazienti con diagnosi di MK dopo 2, 4 e 8 settimane dall’inizio della malattia nei casi non complicati, perché le alterazioni coronariche possono anche manifestarsi nelle settimane successive alla diagnosi. (livello di prova VI; forza della raccomandazione B) Raccomandazione 10 Nei pazienti persistentemente febbrili non-responders, con anomalie coronariche, alterazione della funzione ventricolare sinistra, insufficienza mitralica o versamento pericardio, possono essere necessari controlli più frequenti. (livello di prova VI; forza della raccomandazione A) Altri esami strumentali Gli aneurismi possono coinvolgere anche altri distretti (arterie succlavie, brachiali, ascellari, iliache, renali, mesenteriche o intercostali), pertanto è considerata obbligatoria l’esplorazione anche di tutti questi distretti con appropriate ecografie. L’indicazione al cateterismo cardiaco è basata sul confronto tra i vantaggi che derivano da una migliore definizione anatomica delle anomalie coronariche ed i rischi connessi alla procedura invasiva. Attualmente il cateterismo cardiaco con angiografia trova indicazioni precise nel follow-up di pazienti con livello di rischio IV e V (vedi capitolo sul follow-up) 1. Raccomandazione 11 Nei pazienti con livello di rischio IV, il cateterismo cardiaco con angiografia coronarica selettiva dovrebbe essere eseguito: • a 6-12 mesi dopo la fine della patologia acuta, o prima se indicato dalla clinica; • se gli studi non invasivi suggeriscono ischemia miocardia; • se l’anatomia o la misura dell’aneurisma non possono essere chiaramente definite all’ecocardiografia; • in presenza di dolori toracici atipici senza segni di ischemia alle indagini non invasive; • se l’abilità a eseguire test da sforzo è limitata dall’età. (livello di prova IV; forza della raccomandazione B) Raccomandazione 12 Nei pazienti con livello di rischio V, il cateterismo cardiaco con angiografia coronarica selettiva è raccomandato: • per stabilire le possibilità terapeutiche di by-pass o di intervento mediante cateterismo; • per verificare l’estensione della perfusione collaterale; • se gli esami non invasivi suggeriscono comparsa o peggioramento di ischemia miocardica; • per valutare l’efficacia del trattamento, in pazienti sottoposti a rivascolarizzazione. (livello di prova IV; forza della raccomandazione B) Nell’adulto, alla Tomografia Computerizzata multistrato sono riconosciute alta sensibilità ed elevata specificità nel follow-up della coronaropatia su base aterosclerotica. L’applicazione di tale tecnica, già in atto sperimentalmente, per la valutazione della anatomia dell’intero albero coronarico, porterà nuovo ausilio per le sue caratteristiche di minore rischio teorico, di ridotta invasività e di conseguente ripetibilità dell’esame. La necessità tecnica di una ridotta frequenza cardiaca per l’esecuzione di un esame corretto limita per ora l’applicazione della procedura ad una popolazione con età maggiore di quella pediatrica, per la quale il trattamento beta-bloccante potrebbe essere di supporto. Anche tecniche tradizionalmente in uso come l’ecocardiografia sono in continuo sviluppo e sistemi innovativi di analisi incruenta (Tissue Doppler Imaging, Backscatter) sono in corso di sperimentazione o in uso presso centri di terzo livello con elevata specializzazione, mutuando i risultati ottenuti dalla cardiologia dell’adulto in tema di cardiopatia coronarica. Indicazione all’ospedalizzazione Si pone indicazione all’ospedalizzazione dei pazienti affetti da MK nei seguenti casi: • in tutti i pazienti all’esordio nella fase acuta di malattia (per la somministrazione di IVIG ed altre terapie antinfiammatorie, per l’esecuzione dell’ecocardiogramma, per l’educazione dei familiari); • nei pazienti con complicanze quali la trombosi coronaria, per l’appropriata terapia, in quanto la trombosi può causare ischemia miocardica o infarto 9. Trattamento Fase acuta Trattamento iniziale Immunoglobuline endovena Le IVIG hanno un effetto antinfiammatorio, in quanto modulano la produzione delle citochine, neutralizzano superantigeni batterici o altri agenti eziologici, aumentano l’attività dei T-suppressors, inibiscono la sintesi anticorpale e forniscono anticorpi anti-idiotipo 1. La dose raccomandata è 2 g/kg in unica somministrazione; tale schema terapeutico si è dimostrato essere più efficace rispetto agli altri che prevedevano la somministrazione di 400 mg/kg/die per 5 giorni nel ridurre di 5 volte l’incidenza di aneurismi coronarici e la durata della febbre 1 10. La terapia va iniziata nei primi 10 giorni e preferibilmente entro i 275 Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane primi 7, ancora prima quando sono presenti 3-4 criteri oltre la febbre o c’è già danno coronarico. Un trattamento eseguito prima del quinto giorno di malattia non sembra prevenire le sequele cardiologiche. Inoltre un trattamento troppo precoce potrebbe rendere necessaria un’ulteriore somministrazione di IVIG 11 12 ed inoltre si rischia di trattare per MK chi ha un’altra malattia febbrile che mima la MK. La somministrazione va eseguita in 12 ore, in assenza di insufficienza cardiaca, ed in 16-24 ore in caso contrario 9. Raccomandazione 16 Raccomandazione 13 Dopo la sospensione dell’aspirina ad alto dosaggio, si inizia la somministrazione a basse dosi (3-5 mg/kg/die). Nei pazienti senza alterazioni coronariche questa verrà eseguita per 6-8 settimane dall’esordio 1. La somministrazione di IVIG deve essere effettuata al dosaggio di 2 g/kg in unica somministrazione, entro il decimo giorno di malattia. Tale somministrazione va effettuata in 12 ore in assenza di insufficienza cardiaca, in 16-24 ore in caso contrario. (livello di prova I; forza della raccomandazione A) Secondo alcuni autori, in pazienti con compromissione cardiaca, le IVIG possono anche essere suddivise in due somministrazioni giornaliere di 1 g/kg in 6 ore 13-15. Raccomandazione 14 Nel caso in cui comunque la diagnosi venisse posta dopo il decimo giorno, al fine di limitare comunque le lesioni coronariche, le IVIG devono essere somministrate in pazienti: • con febbre persistente; • sfebbrati ma con aneurismi e persistenza di elevati livelli di VES e PCR 1 16. (livello di prova V; forza della raccomandazione B) Interazioni con vaccini Dopo la somministrazione di IVIG è necessario porre attenzione all’esecuzione delle vaccinazioni con virus vivi attenuati. Raccomandazione 15 Le vaccinazioni per morbillo, rosolia, parotite e varicella devono essere posticipate di 11 mesi dopo la somministrazione di IVIG 17. Un bambino ad elevato rischio di esposizione al morbillo dovrebbe però essere vaccinato e, nel caso non abbia presentato una adeguata risposta immunitaria, rivaccinato 11 mesi dopo le IVIG 1. (livello di prova VI; forza della raccomandazione B) Aspirina (acido acetil-salicilico – ASA) L’ASA è utilizzata nella fase acuta a dosi elevate per la sua attività antinfiammatoria e nella fase di convalescenza a basse dosi come antiaggregante. Alcuni studi recenti non dimostrano però che il suo utilizzo riduca lo sviluppo di anomalie coronariche 18-20. Al momento non ci sono studi randomizzati controllati sull’uso dell’ASA nella MK 18, ma secondo le linee guida della American Heart Association, in fase acuta, l’ASA deve essere somministrata alla dose di 80-100 mg/kg/die in quattro somministrazioni 1. Tale dosaggio viene preferito a quello di 30-50 mg/kg/die riportato dalla letteratura giapponese 19, in considerazione del maggiore effetto antinfiammatorio. Alcuni studi recenti non dimostrano però che il suo utilizzo riduca lo sviluppo di anomalie coronariche 20-22. 276 Nella fase acuta della malattia, l’ASA deve essere somministrata alla dose di 80-100 mg/kg/die in quattro somministrazioni. La durata di tale trattamento è variabile: in molti centri viene eseguita fino a quando il bambino è apiretico da 48-72 ore, fino ad un massimo di 14 giorni, periodo in cui inizia la piastrinosi. (livello di prova III; forza della raccomandazione A) Raccomandazione 17 (livello di prova III; forza della raccomandazione A) Raccomandazione 18 Nei bambini che sviluppano coronaropatie, l’aspirina a 3-5 mg/ kg/die viene proseguita per tempo indefinito 1. (livello di prova V; forza della raccomandazione B) Interazioni con farmaci La sindrome di Reye rappresenta un rischio nei bambini con varicella o influenza che assumono aspirina ad alte dosi, mentre non è chiaro se la terapia a bassi dosaggi incrementi questo rischio 17. Raccomandazione 19 Si consiglia di vaccinare contro l’influenza i bambini che assumono aspirina a lungo termine 22. (livello di prova VI; forza della raccomandazione B) Per quanto riguarda la varicella, nei bambini che assumono salicilati, bisogna bilanciare il rischio conosciuto di sviluppare sindrome di Reye in corso della malattia esantematica ed il rischio teorico di sviluppare tale sindrome dopo la vaccinazione con il virus vivo attenuato. Per tale ragione le case farmaceutiche nei foglietti illustrativi raccomandano di non utilizzare salicilati per 6 settimane dopo il vaccino. Si suggerisce pertanto di sostituire l’aspirina con un altro farmaco antipiastrinico durante queste 6 settimane (es. clopidogrel). Steroidi Gli steroidi sono generalmente il trattamento di scelta nelle vasculiti, ma nella MK il loro utilizzo è discusso, poiché inibiscono il meccanismo di ricostruzione dal processo infiammatorio, accelerano lo stato di ipercoagulabilità e pur permettendo significativa riduzione della durata della febbre, minor tempo di ospedalizzazione e rapida discesa di VES e PCR, non modificano la prognosi cardiaca. Raccomandazione 20 Attualmente è possibile formulare una raccomandazione per l’utilizzo degli steroidi nella fase acuta di MK solo in casi selezionati. (livello di prova I; forza della raccomandazione C) Pentossifilline Le pentossifilline sono composti metil-xantinici che inibiscono la trascrizione del m-RNA per il Tumor Necrosis Factor-α (TNF-α). È stato valutato il loro utilizzo in aggiunta alla terapia standard. In uno studio di 79 pazienti trattati con IVIG a basse dosi e aspirina, i 22 che avevano ricevuto anche pentossifilline ad alte dosi dimostravano una minore incidenza di aneurismi e buona tolleranza della terapia 23. Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Raccomandazione 21 Attualmente, in attesa di ulteriori conferme non è ancora possibile formulare una raccomandazione per l’utilizzo delle pentossifilline. Terapia dei pazienti che non rispondono al trattamento iniziale Per mancata risposta alla terapia iniziale con IVIG si intende febbre persistente o ripresa febbrile (> 38°C ascellare o rettale) dopo 36 ore dalla fine della somministrazione delle IVIG 1; secondo altri autori 24 25, si intende invece persistenza della febbre superiore a 37,5°C (ascellare) e mancata riduzione della PCR almeno del 50% entro 48 ore. Tale evenienza si verifica in più del 10% dei pazienti con MK 26 27. Allo stato attuale, non è possibile identificare con chiarezza le caratteristiche che possano distinguere tali pazienti: secondo Ham e Silverman, questi sembrano avere maggiori anomalie all’ecocardiografia iniziale, ma non significative differenze ad un anno 28. Secondo altri autori, invece, i pazienti non-responders hanno iposodiemia (< 133 mmol/l), aumento della AST (> 100 UI/l), neutrofili 80%, giorni di malattia al momento del trattamento iniziale ≤ 4, PCR ≥ 10 mg/dl, età ≤ 12 mesi, conta piastrinica ≤ 30.000 /mm3 29. Tale non-responsività alla terapia si pensa possa riflettere la gravità della sottostante infiammazione e pertanto spiega la maggiore incidenza di anomalie coronariche. IVIG Molti esperti raccomandano una seconda dose di IVIG sempre al fine di ridurre le lesioni coronariche 30. Tale trattamento, secondo alcuni autori, dovrebbe essere anticipato e considerato già al termine delle 24 ore successive alla prima infusione di IVIG 31. Raccomandazione 22 In caso di persistenza di febbre, a partire dalle 48 ore dopo il termine della prima infusione, si raccomanda una seconda infusione di IVIG 2 g/kg in unica somministrazione. (livello di prova IV e VI; forza della raccomandazione B) Steroidi In attesa di studi multicentrici controllati, l’American Academy of Pediatrics raccomanda che l’utilizzo di steroidi sia limitato ai bambini in cui più di 2 infusioni di IVIG siano state inefficaci nel diminuire la febbre e l’infiammazione acuta 1. Raccomandazione 23 Nei bambini in cui più di 2 infusioni di IVIG siano state inefficaci nel diminuire la febbre e l’infiammazione acuta, si raccomanda la somministrazione di steroidi. Il regime steroideo più utilizzato è rappresentato da metilprednisolone 30 mg/kg e.v. in 2-3 ore, una volta al giorno, per 1-3 giorni. (livello di prova IV; forza della raccomandazione B) Tale trattamento appare efficace nel diminuire la febbre. Altre terapie Sono state riportate numerose terapie aggiuntive per i casi refrattari alla terapia standard: plasmaferesi, Unilastatin (inibitore dell’elastasi dei neutrofili di origine umana purificato da urine umane), Abciximab (inibitore del recettore piastrinico glicoproteico IIb/IIIa) 32, agenti citotossici (ciclofosfamide) 27. La loro efficacia non è però confermata da dati controllati, pertanto al momento non è possibile formulare una raccomandazione. Esistono solo alcuni lavori condotti con l’infliximab, la cui scarsa numerosità richiede ulteriori conferme con altri studi per formulare raccomandazioni più forti. Raccomandazione 24 In caso di paziente non responder, può essere utilizzato infliximab, anticorpo monoclonale umanizzato contro il TNF-α, 5 mg/ kg e.v. in unica somministrazione 33 34. (livello di prova II; forza della raccomandazione C) Fase cronica Il trattamento della patologia coronarica dipende dalla gravità e dall’estensione dell’interessamento coronarico. Le raccomandazioni sono basate sulle attuali conoscenze della fisiopatologia, su studi retrospettivi pediatrici e sull’estrapolazione dall’esperienza nell’adulto. L’attivazione piastrinica è fondamentale in tutte le fasi della malattia, pertanto gli schemi terapeutici prevedono sempre l’utilizzo di ASA a basse dosi anche in associazione ad altri anticoagulanti/antiaggreganti. Raccomandazione 25 Il trattamento in fase cronica prevede: pazienti asintomatici con patologia lieve-moderata o stabile ASA pazienti con dilatazione coronarica più estesa e grave ASA + dipiridamolo o clopidogrel pazienti con aneurisma rapidamente evolutivo ASA + eparina pazienti con aneurismi giganti ASA + warfarin o eparina a basso peso molecolare (livello di prova IV; forza della raccomandazione B) I dosaggi consigliati sono i seguenti: • ASA per os: 3-5 mg/kg/die; • dipiridamolo per os: 2-6 mg/kg/die in 3 dosi; • clopidogrel per os: 1 mg/kg/die fino a dose massima 75 mg/die; • warfarin per os: 0,1 mg/kg/die, compreso tra 0,05 e 0,34 mg/kg/ die, per raggiungere INR desiderato, tra 2,0-2,5; • eparina a basso peso molecolare s.c.: bambini < 12 mesi 3 mg/ kg/die in 2 somministrazioni; bambini ed adolescenti 2 mg/kg/ die in 2 somministrazioni 35. L’eparina a basso peso molecolare, inoltre, è da prendere in considerazione nei lattanti in cui i prelievi per l’INR non sono agevoli, o può essere usata durante la reintroduzione del warfarin in caso di sospensione per interventi chirurgici; richiede però due iniezioni sottocutanee giornaliere. I livelli terapeutici sono valutati dosando il fattore Xa, che deve essere compreso tra 0,5 e 1,0 U/ml. Trattamento delle complicanze: la trombosi coronarica In assenza di studi randomizzati controllati nel bambino, il trattamento della trombosi coronarica è derivato da quello degli adulti con coronaropatia acuta. 277 Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Raccomandazione 26 La scelta del trattamento da utilizzare dovrebbe essere basata sulla terapia in cui si ha maggiore esperienza e che sia disponibile nel minor tempo possibile. (livello di prova V; forza della raccomandazione C) Streptochinasi, urochinasi e attivatore del plasminogeno tissutale (tPA) sono stati somministrati a pazienti descritti in vari case-reports con risultati variabili. Tutti i regimi trombolitici includono, comunque, aspirina ed eparina o eparina a basso peso molecolare. In un piccolo numero di pazienti pediatrici, è stato anche utilizzato il ristabilimento meccanico del flusso coronarico mediante angioplastica coronarica o impianto di stent. Nuove prospettive di trattamento comprendono l’inibizione del recettore piastrinico glicoproteico IIb/IIIa (Abciximab) che, se somministrato con aspirina ed eparina sia in associazione sia in assenza di concomitante utilizzo di trombolitici, sembra promettere un miglioramento della prognosi negli adulti con sindrome coronarica acuta. Una dose ridotta di trombolitico associata ad Abciximab per esempio, ristabilisce il flusso anterogrado efficacemente quanto la terapia trombolitica a dosaggio pieno, ma è associato a minori tassi di riocclusione e reinfarto 32. Riportiamo di seguito un possibile schema terapeutico: • r-tPA 0,1-0,5 mg/kg/h per 6 ore oppure urokinasi 4400 U/Kg in 10 min. poi 4400 U/Kg per 6-12 ore (monitorare aPTT, PT, fibrinogeno); associati a: • abciximab 0,25 mg/kg bolo in 30 min poi 0.125 μg/kg/min per 12 ore; • aspirina 3-5 mg/kg/die; • eparina 15 U/Kg/ h (monitorare aPTT) oppure LMWH 125 U/Kg/ dose per 2 volte al giorno (monitorare fattore Xa: 0.5-1 U/ml dopo 6 ore dalla somministrazione). Decorso a lungo termine Il decorso clinico dei bambini con MK è molto variabile, in relazione alle eventuali sequele cardiologiche che possono manifestarsi anche in età adulta. In Tabella VII, sono indicati i principali fattori di rischio per lo sviluppo di aneurismi delle coronarie. Fino a poco tempo fa si riteneva che i bambini senza lesioni coronariche all’ecocardiografia a qualsiasi stadio della malattia e in particolare nel primo mese, non presentassero clinicamente coinvolgiTabella VII. Principali fattori di rischio per lo sviluppo di aneurismi delle coronarie. Febbre persistente nonostante terapia con IVIG Sesso maschile Età < 1 anno PCR elevata Neutrofili elevati in assoluto ed in % Hb bassa Piastrinopenia iniziale Sodiemia < 135 mEq/l 278 mento cardiaco e, dopo follow-up clinico di 10-20 anni, sembravano avere un rischio di eventi cardiaci simile a quello della popolazione generale 1. Recenti ricerche suggeriscono però che in questi pazienti sono riscontrabili alcune anomalie subcliniche tra cui diffusa disfunzione endoteliale, maggiore rigidità delle arterie, minore riserva di flusso miocardico e maggiori resistenze coronariche totali 36. Inoltre la MK produce una alterazione del metabolismo lipidico che persiste dopo la risoluzione della patologia; i pazienti con MK sembrano avere un maggior rischio cardiovascolare con pressione arteriosa più elevata rispetto ai controlli 37. Per incrementare le attuali conoscenze sulla funzione miocardica, sulle insufficienze valvolari e sullo stato coronarico a lungo termine in questi pazienti è, però, ancora necessario un periodo di osservazione più prolungato. Le lesioni coronariche della MK possono modificarsi nel tempo. Il 50-70% degli aneurismi coronarici va incontro a risoluzione, dimostrata angiograficamente, 1-2 anni dopo l’esordio, con maggiore probabilità nei seguenti casi: • aneurismi piccoli 38; • aneurismi della coronaria destra; • età all’esordio < 1 anno; • struttura fusiforme dell’aneurisma; • localizzazione in un segmento coronarico distale 38. La regressione spontanea, solitamente, avviene per proliferazione miointimale, più raramente per organizzazione e ricanalizzazione di un trombo. Il trattamento per la prevenzione delle trombosi è controverso perché, a livello degli aneurismi regrediti, persistono anomalie strutturali e funzionali delle coronarie. Negli aneurismi giganti e in quelli della coronaria sinistra, in grado anch’essi di recuperare un calibro normale, qualora non vadano incontro a risoluzione delle anomalie, persiste una morfologia aneurismatica oppure si sviluppano stenosi, occlusione o tortuosità. Mentre la dimensione dell’aneurisma tende a diminuire con il tempo, le lesioni stenotiche, secondarie a marcata proliferazione miointimale, sono spesso progressive; la prevalenza di stenosi tende ad aumentare quasi linearmente nel tempo. La maggior progressione verso la stenosi si ha in pazienti con aneurismi di grandi dimensioni; la peggior prognosi si ha in bambini con aneurismi giganti (diametro massimo ≥ 8 mm) 40. La principale causa di morte nella MK è l’infarto miocardico acuto (IMA) causato da una occlusione trombotica in una arteria stenotica e/o aneurismatica 1. Il rischio è maggiore nel primo anno, poi si modifica nel tempo in rapporto all’evoluzione della morfologia coronarica: lo sviluppo di trombosi o stenosi associata ad un aneurisma aumenta il rischio di ischemia del miocardio 1. Entro i primi mesi dopo la MK, può verificarsi anche rottura aneurismatica, ma si tratta di un’eventualità eccezionale 1. Recenti studi istologici ipotizzano che anche la microvasculite, in assenza di lesioni aneurismatiche e/o stenotiche, possa determinare infarto, aritmia e morte improvvisa 41 42. Follow-up Follow-up a breve termine I pazienti con MK, sin dall’esordio della malattia, devono essere sottoposti adattento monitoraggio clinico, degli esami ematochimici e strumentali. Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Raccomandazione 27 Poiché la fase acuta di malattia è caratterizzata da cospicuo aumento degli indici infiammatori e piastrinosi, è importante effettuare controlli ripetuti, sino alla normalizzazione di tali esami. La valutazione cardiologica con ECG ed ecocardiogramma va eseguita al momento della diagnosi, per evidenziare le complicanze precoci, e ripetuta più volte, secondo indicazione clinica, a 2, 4 e 8 settimane di distanza dall’esordio della malattia. (livello di prova VI; forza della raccomandazione B) La valutazione cardiologica eseguita al secondo mese permette di suddividere i pazienti, a seconda della compromissione cardiovascolare, in classi di rischio coronarico con relativo follow-up. Follow-up a lungo termine Nei pazienti con MK il follow-up deve proseguire nel tempo, soprattutto in quelli che hanno presentato complicanze cardiovascolari, senza dimenticare che non è ancora possibile escludere complicanze a distanza anche nei pazienti che non hanno presentato anomalie coronariche. In circa il 50% delle lesioni aneurismatiche, si assiste a regressione, che può essere dovuta a proliferazione miointimale, ma anche a organizzazione e ricanalizzazione di un trombo. Negli aneurismi regrediti è stata infatti dimostrata disfunzione endoteliale. Per tutti questi motivi è di estrema importanza un attento follow-up a lungo termine nei pazienti con complicanze in atto, in quelli con regressione degli aneurismi, ma anche in quelli senza complicanze, con tempi e modalità diverse. La stratificazione in classi, in rapporto al rischio relativo di ischemia miocardiaca stabilito dall’American Heart Association 1, è un utile ausilio per la gestione standardizzata dei pazienti, per quanto riguarda la cadenza dei controlli, i test diagnostici necessari per un corretto followup, le indicazioni terapeutiche e quelle per un corretto stile di vita. È da segnalare che la classe di rischio di un singolo paziente con compromissione coronarica può variare nel corso del tempo, in relazione ad alterazioni morfologiche della parete coronarica: il verificarsi di trombosi o di stenosi associate ad aneurisma coronarico, infatti, aumenta il rischio di ischemia miocardica. Il follow-up ottimale dei pazienti con aneurismi coronarici regrediti rimane invece ancora controverso in quanto è noto che, pur con la normalizzazione del diametro del vaso, persistono alterazioni morfologiche e funzionali. Infatti la normalità del quadro coronarico ecografico non necessariamente coincide con la normalità della funzione endoteliale; per tale motivo è giustificata la scelta di molti centri di proseguire controlli seriati, anche se più diluiti nel tempo per tracciare la storia naturale della malattia anche in merito ad un possibile rischio aterosclerotico. Le singole classi di rischio secondo l’ American Heart Association sono riportate nella Tabella VIII. Raccomandazione 28 Per ogni classe di rischio sono consigliati terapia e follow-up diversificati come indicato di seguito e in Tabella IX. (livello di prova VI; forza della raccomandazione B) Classe I Nessuna alterazione coronarica nelle varie fasi di malattia • Trattamento con ASA per le prime 6-8 settimane (fino a documentata normalizzazione del valore delle piastrine). • Controlli cardiologici (visita, ECG ed ecocardiogramma) a 6*-12 mesi dall’esordio della malattia e successivamente ogni 3-5 anni non essendo ancora determinato il futuro rischio di malattia ischemica. • Consigliabile esecuzione di ECG sotto sforzo prima dei 12 anni, soprattutto in previsione di attività sportiva più impegnativa Non necessari esami diagnostici invasivi. * In caso di primo esame eseguito da cardiologo non esperto. Classe II Ectasie transitorie delle coronarie che scompaiono entro 6-8 settimane • Trattamento con ASA per almeno 6-8 settimane, fino a normalizzazione del valore delle piastrine e scomparsa delle lesioni coronariche, anche minime (ecorifrangenza o tortuosità/rigidità delle pareti vasali), possibilmente documentata da due controlli successivi. • Controlli cardiologici (visita, ECG ed ecocardiogramma) a 6*-12 mesi dall’esordio della malattia, successivamente annualmente nei primi 3 anni, poi ogni 3-5 anni. • Consigliabile esecuzione di ECG sotto sforzo prima dei 12 anni, soprattutto in previsione di attività sportiva più impegnativa. L’ecografia sottosforzo (farmacologico o fisico a seconda dell’età del paziente) potrebbe fornire ulteriori informazioni. • Non necessari esami diagnostici invasivi. * In caso di primo esame eseguito da cardiologo non esperto. Classe III Aneurisma singolo di piccolo-medio calibro (> 3 mm < 6 mm o tra + 3 e + 7 DS) in una o più arterie • Trattamento con ASA almeno fino alla regressione dell’aneurisma (possibilmente documentata da due controlli successivi negativi). • Controlli cardiologici (visita, ECG ed ecocardiogramma) a 6*-12 mesi dall’esordio della malattia e successivamente annuali. • Prova da sforzo. In casi selezionati valutazione della perfusione miocardica ogni 2 anni al di sopra dei 10 anni. • Coronarografia se evidenziata ischemia miocardica. Classe IV Uno o più aneurismi ≥ 6 mm, compresi aneurismi giganti multipli e complessi senza ostruzione • Trattamento con antiaggreganti piastrinici, a lungo termine: Tabella VIII. Classi di rischio cardiovascolare. Classe I Nessuna alterazione coronarica nelle varie fasi di malattia Classe II Ectasie transitorie delle coronarie che scompaiono entro 6-8 settimane Classe III Aneurisma singolo di piccolo-medio calibro (> 3 mm < 6 mm o tra + 3 e + 7 DS) in una o più arterie Classe IV Uno o più aneurismi ≥ 6 mm, compresi aneurismi giganti multipli e complessi senza ostruzione Classe V Ostruzioni coronariche alla angiografia 279 Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane Tabella IX. Terapia a lungo termine, follow-up in base al livello di rischio ed attività fisica 1. Classe di rischio Terapia Visita cardiologica + ECG + Altri esami strumentali ecocardiogramma Attività fisica I ASA per le prime 6-8 settimane 6*-12 mesi dall’esordio, poi ogni 3-5 anni Stress ECG all’età di 10-11 anni Nessuna restrizione dopo 6-8 settimane II ASA per almeno 6-8 settimane 6*-12 mesi dall’esordio, successivamente ogni anno per i primi 3 anni, poi ogni 3-5 anni Stress ECG + event. StressEcho all’età di 10-11 anni Nessuna restrizione dopo 6-8 settimane III ASA almeno fino a documentata 6*-12 mesi dall’esordio e poi regressione dell’aneurisma annualmente per tutta la vita Stress test con valutazione della perfusione miocardica ogni 2 anni al di sopra dei 10 anni Coronarografia se evidenziata ischemia miocardica Nessuna restrizione (salvo attività agonistica) fino ai 10 anni, poi in base a stress test. In casi selezionati valutazione della perfusione miocardica. Sconsigliati sport o giochi di collisione e contatto se terapia antiaggregante IV Antiaggreganti piastrinici (ASA + event. associazone con clopidogrel). Negli aneurismi giganti terapia anticoagulante (warfarin o eparina a basso peso molecolare) ogni 6 mesi Stress test con valutazione della perfusione miocardica annuale. Coronarografia nei primi 6-12 mesi, prima e successivamente su indicazione clinica o dei test non invasivi Attività fisica guidata dall’annuale stress-test, con valutazione della perfusione miocardica. Evitare sport o giochi di contatto fisico o collisione per pericolo di emorragia V Antiaggreganti piastrinici (ASA ogni 6 mesi + eventuale associazione con clopidogrel) Negli aneurismi giganti terapia anticoagulante (warfarin o eparina a basso peso molecolare); eventuale uso di β-bloccanti per ridurre consumo di ossigeno Stress test con valutazione della perfusione miocardica annuale. Coronarografia per guidare le scelte terapeutiche Attività fisica guidata dall’annuale stress-test, con valutazione della perfusione miocardica. Evitare sport o giochi di contatto fisico o collisione per pericolo di emorragia. Evitare vita sedentaria In caso di primo esame eseguito da cardiologo non esperto. * ASA + eventuale associazione con clopidogrel negli aneurismi multipli e complessi. Terapia anticoagulante con warfarin, o in alternativa con eparina a basso peso molecolare nei lattanti ed in prima infanzia, negli aneurismi giganti. • Controlli cardiologici (visita, ECG ed ecocardiogramma) a 6-12 mesi dall’esordio della malattia e successivamente ogni 6 mesi. Prova da sforzo con valutazione della perfusione miocardica annuale. • Coronarografia nei primi 6-12 mesi e successivamente su indicazione clinica o dei test non invasivi. • Counselling finalizzato al rischio per la gravidanza nelle pazienti di sesso femminile in terapia con anticoagulanti. Classe V Ostruzioni coronariche alla angiografia • Trattamento con antiaggreganti piastrinici (ASA + eventuale associazione con clopidogrel) a lungo termine, con o senza terapia anticoagulante negli aneurismi giganti con warfarin o in alternativa eparina a basso peso molecolare nei lattanti ed in prima infanzia. Eventuale terapia con beta-bloccanti per ridurre il consumo di ossigeno. • Controlli cardiologici ogni 6 mesi con ECG ed ecocardio + eventuale Holter. 280 • Prova da sforzo, con valutazione della perfusione miocardica annuale. • Coronarografia per indirizzare le opzioni terapeutiche e in caso di insorgenza o peggioramento di ischemia miocardica. • Counselling finalizzato al rischio per la gravidanza nelle pazienti di sesso femminile in terapia con anticoagulanti. L’ischemia miocardia nei bambini con MK è generalmente silente: la SPECT (single photon emission computer tomography) è da considerarsi/raccomandata per lo screening di ischemia miocardica che potrebbe essere presente in bambini asintomatici ed in assenza di anomalie angiografiche 43. È possibile considerare, mutuando l’esperienza dall’adulto, anche l’Ultrafast CT scan (64 strati) per la valutazione morfologica delle arterie coronarie 44, in particolare in pazienti adolescenti e nell’interim tra eventuali valutazioni invasive con coronarografia 44. Raccomandazioni per la prevenzione del rischio cardiovascolare I bambini con MK, con o senza aneurismi coronarici, sembrano essere a maggior rischio di sviluppare aterosclerosi in relazione alla persistenza di anomalie subcliniche come una maggiore rigidità dei vasi o una disfunzione endoteliale. Un maggior rischio cardiovascolare nei bambini con MK è cor- Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane relato anche ad un alterato profilo lipidico (in particolare con ridotti valori di HDL), a più alti valori di pressione arteriosa ed a sovrappeso 45 46. In considerazione del maggior rischio aterosclerotico è importante incoraggiare l’attività fisica (in relazione al quadro coronarico) come da raccomandazioni della 36° Conferenza di Bethesda 47 48. Parallelamente ai controlli cardiologici sarà quindi necessario valutare il body mass index (BMI) (valori normali per età e sesso, disponibili sul sito www.cdc.go/growthcharts), il profilo lipidico (con trigliceridi, colesterolo LDL ed HDL), glicemia a digiuno ed impostare eventuale terapia con statine nei bambini di età > 10 anni, che non rispondono alle restrizioni dietetiche ed all’esercizio fisico dopo 6 mesi. È inoltre importante evitare altri noti fattori di rischio cardiovascolare come il fumo, sia attivo che passivo, e sconsigliare una vita sedentaria, incoraggiando un’attività sportiva adeguata alla situazione cardiologica di base. Tabella X. Classificazione degli Sport dell’American Academy of Pediatrics. Contatto collisione Boxe Hockey su prato Hockey su ghiaccio Football americano Motocross Arti marziali Rodeo Calcio Lotta Contatto limitato e impatto Baseball Basket Ciclismo Attività subacquea Atletica-salti (salto in alto e salto con l’asta) Ginnastica Equitazione Pattinaggio su ghiaccio ed a rotelle Aerobica Canottaggio Scherma Atletica-lanci (disco, giavellotto, peso) Corsa Nuoto Tennis Corsa campestre Sollevamento pesi Senza contatto faticosi Sci (fondo, discesa, sci d’acqua) Softball Squash, pallamano Pallavolo Senza contatto moderatamente faticosi Volano Curling Tennis tavolo Senza contatto non faticosi Tiro con l’arco Golf Tiro a segno Raccomandazione 29 Il monitoraggio dei fattori di rischio cardiovascolare in pazienti con MK prevede: • controllo pressione arteriosa; • valutazione BMI; • valutazione profilo lipidico (colesterolo totale, LDL, HDL, trigliceridi); • determinazione glicemia a digiuno. (livello di prova VI; forza della raccomandazione B) Idoneità sportiva I riferimenti sono i medici dello sport (specializzati in medicina dello sport), che lavorano per il Servizio Sanitario Regionale o in strutture private autorizzate o in studi professionali inseriti in un apposito elenco regionale. Le certificazioni per l’attività sportiva non agonistica vanno redatte dal pediatra di fiducia e/o dal medico di famiglia con la richiesta scritta del dirigente scolastico o della società sportiva. Nei pazienti con MK la valutazione dell’idoneità all’attività sportiva è complicata da alcuni fattori: • non vi sono limitazioni funzionali soggettive (i pazienti non si sentono malati); • il rischio cardiovascolare, presunto dal pregresso danno coronarico, generalmente è difficile da evidenziare. Anche in portatori di aneurismi giganti, i test da sforzo con valutazione della perfusione coronarica possono risultare normali; • essendo una malattia di recente definizione, esistono pochi dati in letteratura che ci permettono di definire il rischio legato all’attività sportiva; • è difficile determinare quando le dimensioni di un aneurisma possono condizionare la concessione di una idoneità alla attività fisica; aneurismi giganti o plurimi impongono ovviamente più prudenza che non situazioni cardiologiche meno impegnate. Pertanto il giudizio deve essere fornito da centri con provata esperienza. La scelta del tipo di attività fisica non è obbligata; le restrizioni, più che alla patologia, sono legate all’eventuale terapia in corso (anticoagulanti, antiaggreganti). Il ruolo del pediatra non è solo quello di decidere o meno la concessione di idoneità non agonistica, sentito il parere del cardiologo pediatra, ma anche e soprattutto di dare indicazione sul tipo di attività. La valutazione attenta della classe di rischio del paziente e dell’attività sportiva che vuole svolgere sono presupposti indispensabili per una decisione corretta, che non limiti le aspirazioni del bambino, ma che allo stesso tempo non lo esponga a rischi potenzialmente anche fatali. Utile la consultazione della tabella redatta dall’American Academy of Pediatrics (Tab. X) 49 che riporta la classificazione degli sport in sport da contatto e collisione, da contatto limitato e non da contatto ulteriormente classificati come molto faticosi, moderatamente e poco faticosi. In tutti i pazienti in trattamento antiaggregante, indipendentemente dall’età, sono sconsigliabili gli sport e giochi con stretto contatto fisico e collisione; ai bambini che assumono farmaci anticoagulanti, vanno sconsigliati anche gli sport da contatto limitato. Nel caso specifico della MK, al fine di formulare un eventuale giu- 281 Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane dizio di idoneità all’attività sportiva, è corretto agire nel seguente modo: • anamnesi familiare e personale con particolare riferimento alla patologia in oggetto; • visita clinica, con misurazione della pressione arteriosa; • ECG a riposo su 12 derivazioni; • ecocardiogramma mono- e bidimensionale Color Doppler; • prova da sforzo al tappeto rotante per determinare: - grado di tolleranza allo sforzo; - comportamento di ritmo e frequenza cardiaca; - comportamento della pressione arteriosa; - eventuale presenza di ischemia miocardica; • in caso di presenza o sospetto di fenomeni aritmici, elettrocardiogramma dinamico continuo delle 24 ore (Holter); • altri esami supplementari a giudizio del medico. Se gli esami eseguiti sono risultati nella norma, si può concedere l’idoneità alla attività fisica, solitamente per un anno, la quale idoneità può essere agonistica aggiungendo un esame spirografico per la determinazione di flussi e volumi polmonari ed un esame urine. Raccomandazione 30 Attività fisica consigliata: • Classe I e II: dopo le prime 6-8 settimane nessuna restrizione dell’attività fisica (non agonistica) se gli esami clinici e strumentali risultano nella norma. • Classe III: dopo le prime 6-8 settimane nessuna restrizione dell’attività fisica (non agonistica) al di sotto dei 10-11 anni, successivamente guidata dal test da sforzo, ogni volta che viene richiesto il rinnovo del certificato di idoneità. In casi selezionati valutazione della perfusione miocardica. • Classe IV: attività fisica guidata dall’annuale test da sforzo, con valutazione della perfusione miocardica. Sono consentiti sport agonistici a basso impegno cardio-vascolare. Sono vietati sport di contatto fisico o collisione per pericolo di emorragia. Va effettuata la coronarografia, se evidenziata ischemia miocardica. • Classe V: attività fisica guidata da valutazione cardiologia semestrale, con test da sforzo con valutazione della perfusione miocardica almeno annuale. Vietati gli sport di contatto fisico o collisione per pericolo di emorragia. Vietata l’attività agonistica, ma bisogna evitare uno stile di vita sedentario, pertanto va consigliato un allenamento allo sforzo fisico secondo i protocolli postinfartuali o ischemici dell’adulto e va tenuto in considerazione il rischio aritmico 1 50 51. (livello di prova VI; forza della raccomandazione A) Bibliografia Newburger JW, Takahashi M, Gerber MA, et al. 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Abbreviazioni ALT: alanino aminotransferasi ASA: acido acetilsalicilico AST: aspartato aminotransferasi BMI: body mass index CID: coagulazione intravasale disseminata CMV: citomegalovirus DS: deviazione standard EBV: Ebstein Barr virus ECG: elettrocardiogramma GB: globuli bianchi GR: globuli rossi Hb: emoglobina HSV: Herpes simplex virus INR: indice di ratio normalizzato IVIG: immunoglobuline endovena LG: linee giuda MCV: volume globulare medio MK: malattia di Kawasaki p: percentile PLT: piastrine PMN: polimorfonucleati TNF: tumor necrosis factor Corrispondenza dott.ssa Alessandra Marchesi, U.O.C. Pediatria Generale, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, piazza S. Onofrio 4, 00165 Roma • E-mail: [email protected] 283 Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 284-291 LINEE GUIDA Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica Linee Guida della Società Italiana di Pediatria Coordinatori Maurizio de Martino (Firenze), Nicola Principi (Milano) Gruppo di lavoro multidisciplinare Paolo Becherucci, Pediatra di Famiglia, Rappresentante FIMP (Firenze) Francesca Bonsignori, Medico (Firenze) Elena Chiappini, Pediatra (Firenze) Andrea de Maria, Infettivologo (Genova) Maurizio de Martino, Pediatra (Firenze), Coordinatore di Sottocommissione Susanna Esposito, Pediatra (Milano) Giacomo Faldella, Pediatra Neonatologo (Bologna) Filippo Festini, Docente di Metodologia della Ricerca, Infermiere (Firenze) Luisa Galli, Pediatra (Firenze) Riccardo Longhi, Pediatra, Referente per le Linee Guida SIP (Como) Bice Lucchesi, Farmacista (Massa) Gian Luigi Marseglia, Pediatra (Pavia) Lorenzo Minoli, Infettivologo (Pavia) Alessandro Mugelli, Farmacologo (Firenze) Nicola Principi, Pediatra (Milano), Coordinatore di Sottocommissione Paola Pecco, Pediatra (Torino) Simona Squaglia, Infermiera (Roma) Paolo Tambaro, Pediatra (Caserta) Pier-Angelo Tovo, Pediatra (Torino), Coordinatore di Sottocommissione Pasquale Tulimiero, Rappresentante dell’Associazione dei Genitori “Noi per Voi” (Firenze) Giorgio Zavarise, Pediatra (Verona) Società Scientifiche, Federazioni ed Associazioni rappresentate Società Italiana di Pediatria, Società Italiana di Medicina ed Urgenza Pediatrica, Società Italiana di Malattie Infettive Pediatriche, Società Italiana di Neonatologia, Federazione Italiana Medici Pediatri, Società Italiana di Farmacologia, Società Italiana di Scienze Infermieristiche, Associazione dei Genitori “Noi per Voi”. Le spese della riunione del panel sono state sostenute grazie ad un grant di ACRAF S.p.A., Angelini e Reckitt Benckiser Healthcare (Italia) S.p.A. 284 Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica Premessa La febbre è una condizione determinata da elevazione della temperatura centrale che generalmente, ma non esclusivamente, è parte di una risposta difensiva di organismi multicellulari nei confronti di microrganismi o di strutture inanimate che sono riconosciute dall’ospite come patogene o comunque estranee. L’innalzamento della temperatura corporea si determina attraverso un meccanismo fisiopatologico mediato da citochine, molecole della fase acuta, fattori endocrini ed immunologici 1. Diversamente, per ipertermia si intende una temperatura rettale uguale o superiore a 41,6°C, legata non all’azione di pirogeni endogeni, ma ad altri meccanismi che agiscono al di fuori del centro ipotalamico. Ad esempio, l’ipertermia si può verificare in occasione di un aumento primitivo della produzione endogena di calore, come in caso di ipertiroidismo o colpo di calore, oppure in condizioni di alterata capacità di disperdere calore quali la disautonomia familiare o la displasia ectodermica anidrotica. te nella genesi di molte delle modificazioni metaboliche, endocrinologiche ed immunologiche che si verificano in corso di febbre, come la vasodilatazione, l’incremento della proteolisi e della glicogenolisi epatica e muscolare, l’aumento del consumo basale di ossigeno, la proliferazione di fibroblasti, l’attivazione degli osteoclasti, la produzione dei fattori attivanti le piastrine, la sintesi delle proteine di fase acuta, l’attivazione della mielopoiesi, la sintesi di ACTH e cortisolo, insulina e catecolamine, la mobilizzazione ed attivazione di alcune funzioni dei neutrofili, l’attivazione dei linfociti T, con incrementata sintesi di IL-2, la proliferazione dei linfociti B. La febbre rappresenta un fattore di difesa adattativo dell’ospite in risposta agli agenti infettivi che si manifesta, ad esempio, attraverso l’attivazione della risposta immunitaria specifica e la mobilitazione di nutrienti e interferendo direttamente con la replicazione dei patogeni. In alcuni casi, tuttavia, gli eventi a catena che seguono la produzione di citochine pro-infiammatorie possono associarsi ad una serie di segni e sintomi includenti malessere generale, ipoglicemia chetotica, incremento della frequenza cardiaca, crisi convulsive 3. Fisiopatologia della febbre L’elevazione centrale della temperatura corporea si verifica in seguito all’aumentata concentrazione di prostaglandine E2 (PGE2) in specifiche aree cerebrali 1. Le PGE2, in particolare, agiscono legandosi a 4 specifici recettori cellulari (EP1-EP4) presenti nei nuclei preottici dell’ipotalamo anteriore, fisiologicamente deputati al controllo della termoregolazione. In seguito a tale interazione recettoriale consegue un’elevazione del punto di equilibrio del termostato ipotalamico 1. A questo nuovo set point si adeguano, quindi, sia la produzione che la perdita di calore. Nella patogenesi della febbre svolgono un ruolo cruciale specifiche citochine, definite pirogeni endogeni (inteleuchina [IL] 1-beta [IL-1 β], interleuchina 6 [IL-6] ed il fattore di necrosi tumorale-alfa [tumor necrosis factor-α o TNF-α]). La maggior parte dei pirogeni esogeni, invece, (ad esempio i componenti della membrana cellulare di alcuni microrganismi) evocano la risposta febbrile attraverso la stimolazione della produzione di pirogeni endogeni. Ad esempio, le endotossine (lipopolisaccaridi della parete cellulare dei batteri Gram negativi) agiscono inducendo la produzione di IL-1 β che rappresenta il segnale per il rilascio di PGE2 nella regione ipotalamica preottica. Dati recenti suggeriscono complessi meccanismi fisiopatologici alla base della febbre indotta da microorganismi Gram-negativi. La risposta febbrile ai patogeni endogeni inizia con il loro arrivo nel fegato per via ematica dove sono fagocitati dalle cellule del Kupffer. I microrganismi attivano, per contatto, la cascata del complemento, con liberazione di C5a che induce la produzione di PGE2 da parte delle cellule del Kupffer. Le citochine pirogene vengono invece prodotte più tardivamente e non sarebbero da considerare il primo segnale per la genesi della febbre, pur rimanendo il meccanismo causale di tutte le manifestazioni di malessere e di sensazione di malattia che si associano alla febbre. Al segnale che conduce alla stimolazione dei neuroni termoregolatori situati nel nucleo preottico dell’ipotalamo, consegue il rialzo del punto di equilibrio del termostato ipotalamico. Tale segnale si sviluppa sia per via ematica, attraverso la diffusione di PGE2, sia per via nervosa, attraverso l’attivazione vagale da parte dello stesso mediatore, proiettando il segnale al midollo allungato e raggiungendo il nucleo pre-ottico tramite la via ventrale noradrenergica. Successivamente, la noradrenalina secreta stimola gli adrenocettori α1 dei neuroni termoregolatori, determinando un rapido incremento della temperatura centrale 2. Le citochine pirogene (come TNF-α e IL-1) sono a loro volta implica- Background e necessità della presente Linea Guida La febbre è uno dei più frequenti motivi di richiesta di visita pediatrica 4. Malgrado siano stati eseguiti tentativi per semplificare ed unificare l’approccio al bambino febbrile, la valutazione e la gestione del segno/sintomo febbre rimane controversa 5-7 e numerosi dati in letteratura sottolineano disomogeneità di comportamento, anche rilevanti, da parte dei medici 8 9. A ciò possono contribuire la disponibilità di nuovi dispositivi di misurazione della temperatura corporea e la disomogeneità dei sistemi sanitari nei vari paesi (con peculiarità organizzative che fanno sì che alcune linee guida già sviluppate in altri contesti non siano trasferibili nella realtà italiana) 4. La segnalazione recente da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Agenzia Italiana del Farmaco. Registrazione e Farmacovigilanza. Paracetamolo – Segnalazione esposizione a sovradosaggio – 16 febbraio 2007. sito web:www.agenziafarmaco.it) di numerosi episodi di esposizione in sovradosaggio a farmaci antipiretici avvenuti nel nostro paese, particolarmente in bambini sotto i 5 anni di età 10 induce, inoltre, a porre l’attenzione sulla necessità di un’adeguata informazione sulle indicazioni all’uso di tali farmaci sia per gli operatori sanitari che per i genitori. Questi dati sono in accordo con segnalazioni in letteratura di una fever-phobia comunemente segnalata tra i genitori che non possiedono adeguate informazioni sulla gestione del bambino febbrile 11 e che conduce frequentemente i genitori a richiedere immotivate seconde e terze visite pediatriche 12. D’altra parte, una non corretta gestione del bambino febbrile, rimandando un possibile intervento diagnostico e terapeutico (di tipo generale e non, ovviamente, diretto contro la febbre in sé), lo espone a rischi sostanziali di sviluppare una patologia grave 4. Scopo e destinatari Lo scopo di questa Linea Guida è selezionare, alla luce delle migliori prove scientifiche disponibili, gli interventi efficaci e sicuri a disposizione per la gestione della febbre in pediatria. Con l’intento di massimizzarne l’utilità pratica, la presente Linea Guida affronta alcune domande chiave sulla gestione della febbre in pediatria che sono state ritenute da parte degli estensori in grado di focalizzare gli aspetti più pressanti e controversi sull’argomento. In questo documento, non sono state affrontate tematiche inerenti all’indagine eziologia della patologia di base né alla antibiotico-terapia, che do- 285 Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica vranno essere oggetto di successive linee guida specificatamente mirate su questi argomenti. I destinatari della Linea Guida sono i medici pediatri di base ed ospedalieri, i medici di medicina generale, i farmacisti, gli infermieri, gli operatori della sanità pubblica ed i cittadini. Queste raccomandazioni possono essere utili in particolare nel trattamento a domicilio ed in ospedale del bambino febbrile, al fine di misurare correttamente la temperatura corporea, promuovere un uso razionale dei farmaci antipiretici, istruire correttamente i genitori sul comportamento più idoneo nel bambino in base sia all’età che alla presenza o meno di patologie croniche pre-esistenti. Queste Linee Guida affrontano principalmente la gestione del segno/ sintomo febbre che insorge acutamente nel bambino e che, nella maggior parte dei casi, è di origine infettiva. Non vengono incluse la gestione della febbre periodica e/o su base genetica, la febbricola persistente e la febbre persistente, che possono essere legate ad una ampia gamma di patologie di base. Definizione di febbre La febbre è definita come un incremento della temperatura corporea centrale al di sopra dei limiti di normalità. Tali limiti possono presentare variabilità individuali e si modificano secondo un ritmo circadiano. Inoltre, la misurazione della temperatura centrale (idealmente la temperatura del sangue nell’area ipotalamica) non è routinariamente misurabile. Ai fini della seguente Linea Guida è stato pertanto stabilito di utilizzare la definizione pratica fornita dalla Organizzazione Mondiale della Sanità che individua come temperatura centrale normale quella compresa fra 36,5 e 37,5°C. Metodi Il documento è stato elaborato in accordo con la metodologia adottata dal Piano Nazionale Linee Guida (PNLG). La ricerca bibliografica è stata svolta consultando i database di Cochrane Library e Medline tramite PubMed, dal 1985 al 2007. Box 1 - Definizione dei livelli di prova e della forza delle raccomandazioni LIVELLI DI PROVA I = Prove ottenute da più studi clinici controllati randomizzati e/o da revisioni sistematiche di studi randomizzati. II = Prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno adeguato. III = Prove ottenute da studi di coorte con controlli concorrenti o storici o loro metanalisi. IV = Prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso-controllo o loro metanalisi. V = Prove ottenute da studi di casistica (serie di casi) senza gruppo di controllo. VI = Prove basate sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di esperti come indicato in linee guida o in consensus conference, o basata su opinioni dei membri del gruppo di lavoro responsabile di questa Linea Guida. 286 Box 1 - Definizione dei livelli di prova e della forza delle raccomandazioni (segue) FORZA DELLE RACCOMANDAZIONI A = L’esecuzione di quella particolare procedura o test diagnostico è fortemente raccomandata (indica una particolare raccomandazione sostenuta da prove scientifiche di buona qualità, anche se non necessariamente di tipo I o II). B = Si nutrono dei dubbi sul fatto che quella particolare procedura/intervento debba sempre essere raccomandata/o, ma si ritiene che la sua esecuzione debba essere attentamente considerata. C = Esiste una sostanziale incertezza a favore o contro la raccomandazione di eseguire la procedura o l’intervento. D = L’esecuzione della procedura non è raccomandata. E = Si sconsiglia fortemente l’esecuzione della procedura. Sintesi delle raccomandazioni Quesito n. 1. Come deve essere misurata la temperatura corporea in età pediatrica (sito e dispositivo di misurazione)? Raccomandazione 1 Nonostante la temperatura rettale sia, da molti, ancora oggi considerata il gold standard per la misurazione della temperatura corporea, la via di misurazione rettale della temperatura corporea non dovrebbe essere impiegata di routine nei bambini con meno di 5 anni, a causa della sua invasività e del disagio che comporta (livello di prova III; forza della raccomandazione D). La misurazione rettale della temperatura può essere presa in considerazione per i bambini critici o privi di coscienza, se misurata da operatori esperti. In ogni caso, non deve essere rilevata in bambini immunocompromessi o con sanguinamento rettale. Si devono adottare tutte le misure necessarie per prevenire possibili danni causati da movimenti improvvisi del bambino. In particolare, la misurazione non deve essere fatta col bambino in posizione supina. Raccomandazione 2 La misurazione orale della temperatura corporea è da evitare nei bambini (livello di prova III; forza della raccomandazione D). Raccomandazione 3 In considerazione della cessazione della loro produzione, l’uso di questi termometri deve essere progressivamente abbandonato. Comunque, l’uso dei termometri a mercurio è sconsigliato nei bambini per il rischio di rottura e di contatto col metallo (livello di prova III; forza della raccomandazione E). Non sono disponibili, al momento, evidenze sull’accuratezza clinica in ambito pediatrico di termometri con metalli liquidi sostitutivi del mercurio e non esistono evidenze sufficienti a supporto dell’uso di termometri a ciuccio. Esistono evidenze di livello non elevato a supporto dell’uso di termometri a infrarossi cutanei. Termometri monouso chimici a viraggio di colore sono sconsigliabili perché scarsamente affidabili. Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica a) Misurazione in ambito ambulatoriale/ospedaliero, da parte di personale sanitario Quesito n. 3. È appropriato l’uso di mezzi fisici per ridurre la temperatura corporea? Raccomandazione 4 Per i bambini fino a 4 settimane, si raccomanda la misurazione ascellare con termometro elettronico (livello di prova III; forza della raccomandazione B). Raccomandazione 8 L’impiego di mezzi fisici per la terapia della febbre è sconsigliato (livello di prova I; forza della raccomandazione E). Raccomandazione 5 Per i bambini oltre le 4 settimane, si raccomanda la misurazione ascellare con termometro elettronico o quella timpanica con termometro a infrarossi (livello di prova II; forza della raccomandazione B). b) Misurazione a domicilio, da parte dei genitori o dei tutori La misurazione con termometro timpanico ad infrarossi è maggiormente soggetta ad errori operatore-correlati e dovrebbe essere evitata a domicilio. Raccomandazione 6 A domicilio, per la misurazione da parte dei genitori o dei tutori, per tutti i bambini viene raccomandata la misurazione con termometro elettronico in sede ascellare (livello di prova II; forza della raccomandazione B). Raccomandazione 9 L’impiego di mezzi fisici rimane invece consigliato in caso di ipertermia (livello di prova I; forza della raccomandazione A). Quesito n. 4. Il grado di febbre è correlato con la gravità della patologia? Raccomandazione 10 Non è raccomandato considerare l’entità della febbre come fattore isolato per valutare il rischio di infezione batterica grave (livello di prova III; forza della raccomandazione E). Raccomandazione 11 La febbre di grado elevato può essere, tuttavia, considerata predittiva di infezione batterica grave in particolari circostanze (come età inferiore ai 3 mesi o concomitante presenza di leucocitosi o incremento degli indici di flogosi) (livello di prova III; forza della raccomandazione C). Quesito n. 2. Come considerare la febbre misurata dai genitori/tutori? Quesito n. 5. È indicato l’uso di antipiretici nel bambino febbrile? I bambini che si presentano all’osservazione per febbre e sono apiretici al momento della visita, ma hanno, in base alle dichiarazioni dei familiari, un’anamnesi positiva per febbre, devono essere comunque considerati febbrili. I valori di temperatura corporea riferiti dai familiari dei bambini con febbre non debbono essere considerati come assolutamente certi, specie se i familiari hanno età avanzata, appartengono a classi sociali economicamente depresse o hanno modesto livello culturale. Raccomandazione 7 È consigliabile che, per avere una valutazione corretta dell’entità del rialzo termico, la temperatura corporea sia misurata direttamente da un operatore sanitario (livello di prova VI; forza della raccomandazione B). Raccomandazione 12 I farmaci antipiretici devono essere impiegati nel bambino febbrile solo quando alla febbre si associ un quadro di malessere generale (livello di prova I; forza della raccomandazione B). Quesito n. 6. Quali antipiretici devono essere impiegati e con quali modalità di somministrazione? Raccomandazione 13 Paracetamolo e ibuprofene sono gli unici antipiretici raccomandati in età pediatrica (livello di prova I; forza della raccomandazione A). Tabella I. Principali tipi di termometro e relativi costi. Tipologia di termometro Metodica di misurazione Costo al pubblico Termometro a mercurio Ascellare Orale Rettale Range 2-5 Euro Termometro elettronico Ascellare Orale Rettale Range 4-8 Euro Termometro a cristalli liquidi Strisce plastificate da mettere a contatto con la fronte Range 1-2 Euro Termometri a raggi infrarossi Auricolari A contatto epidermico con la fronte A distanza con puntatore Range 30-50 Euro Range 25-60 Euro Range 40-90 Euro 287 Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica Tabella II. Vantaggi e svantaggi dei principali tipi di termometro. Tipo di termometro Vantaggi Svantaggi Note A mercurio Facile lettura. Basso costo. È fragile, la colonnina di mercurio può frantumarsi. Non può essere ritarato. Quello classico (non prismatico) necessita di diversi minuti prima di una lettura stabilizzata del valore della temperatura. Il mercurio è tossico. Nel 2010 sarà ritirato dal commercio in base alla normativa europea per motivi di tossicità del mercurio. Elettronico Elevata affidabilità e basso costo. Sufficiente breve tempo di permanenza nella sede di rilevazione (1-2 minuti). Dotati di allarme acustico alla fine della rilevazione. La pila può esaurirsi. Non può essere controllata la taratura facilmente. Da preferire i modelli con asta flessibile per ragioni di sicurezza. Il tipo incorporato nel ciuccio non è affidabile. A striscia reattiva Semplice impiego. Infrangibile. Non tossico. Scarsa accuratezza e riproducibilità. Risulta più affidabile il giudizio della madre con il semplice tocco della mano. A raggi infrarossi Estrema brevità della rilevazione (pochi secondi). Limitatamente a quelli non di contatto con la pelle, non è necessario disinfettare il termometro o destinarne uno a ciascun paziente. Assenza di standardizzazione fra i diversi modelli Possibilità di taratura non precisa Difficoltà di posizionamento per alcuni tipi (auricolare) Criticità della distanza di rilevamento in quelli a distanza. La misurazione auricolare può dare risultati precisi e riproducibili in mani esperte, ad esempio in ambiente ospedaliero; tuttavia è poco affidabile se utilizzata dai genitori. Raccomandazione 14 L’acido acetilsalicilico non è indicato in età pediatrica per il rischio di sindrome di Reye (livello di prova III; forza della raccomandazione E). Raccomandazione 19 L’impiego di alti dosaggi di paracetamolo per via rettale (> 20 mg/kg/dose o 90 mg/kg/die) deve essere sconsigliato per l’incrementato rischio di tossicità (livello di prova I; forza della raccomandazione E). Raccomandazione 15 I cortisonici non devono essere impiegati come antipiretici, per l’elevato rapporto costi/benefici (livello di prova III; forza della raccomandazione E). Raccomandazione 16 L’uso combinato o alternato di ibuprofene e paracetamolo non è raccomandato sulla base delle scarse evidenze disponibili riguardo la sicurezza e l’efficacia rispetto alla terapia con un singolo farmaco (livello di prova VI; forza della raccomandazione D). Quesito n. 7. Le vie di somministrazione orale e rettale sono equivalenti? Raccomandazione 17 Sebbene le formulazioni orale e rettale di paracetamolo, a dosaggi standard, abbiano efficacia antipiretica e sicurezza sovrapponibili, la somministrazione di paracetamolo per via orale è preferibile, in quanto l’assorbimento è più costante ed è possibile maggiore precisione nel dosaggio in base al peso corporeo (livello di prova I; forza della raccomandazione A). Raccomandazione 18 La via rettale è da valutare solo in presenza di vomito o di altre condizioni che impediscano l’impiego di farmaci per via orale (livello di prova I; forza della raccomandazione A). 288 Quesito n. 8. Gli antipiretici sono farmaci sicuri e ben tollerati nel bambino? Raccomandazione 20 Paracetamolo e ibuprofene sono antipiretici generalmente sicuri ed efficaci che devono utilizzati a dosaggi standard: • paracetamolo: 10-15 mg/kg/dose (massimo 1 g/dose) per 4 o 6 somministrazioni/die (ogni 4-6 ore); dosaggio terapeutico massimo 60 mg/kg/die nel bambino fino a 3 mesi, 80 mg/kg/die nel bambino di età superiore a 3 mesi (massimo 3 g/die) (per via orale); dosaggio tossico > 150 mg/kg in un’unica somministrazione; • ibuprofene: 5-10 mg/kg/dose (massimo 800 mg/dose) per 3 o 4 somministrazioni (ogni 6-8 ore); dosaggio terapeutico massimo: 30 mg/kg/die (massimo 1,2 g/die); dosaggio tossico >100 mg/kg/die. (livello di prova: I; forza della raccomandazione A). Raccomandazione 21 L’ibuprofene non è raccomandato in bambini con varicella o in stato di disidratazione (livello di prova V; forza della raccomandazione D). Raccomandazione 22 Fino a quando non saranno disponibili ulteriori dati, l’impiego di ibuprofene è sconsigliato nei bambini con sindrome di Kawa- Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica saki ed in terapia con acido acetil-salicilico, in quanto, in questi casi, è stato segnalato un rischio di ridotta efficacia dell’attività anti-aggregante dell’acido acetil-salicilico (livello di prova V; forza della raccomandazione D). Box 2 - Consigli da fornire ai genitori/tutori ai fini di ridurre il rischio di intossicazione da farmaci antipiretici Ai genitori o tutori del bambino devono essere fornite in modo dettagliato, per scritto, anche in occasione di visite pediatriche di controllo, tutte le seguenti informazioni: • indicazioni corrette e dettagliate sul tipo di formulazione da impiegare incluse dose corretta, frequenza e durata della terapia; • insegnare a calcolare la quantità per Kg di peso e per dose, in modo che i genitori possano applicare il calcolo anche in occasioni successive; • indicare la dose massima che il bambino può assumere in un giorno; • spiegare i rischi legati al sovradosaggio del farmaco; • spiegare l’utilizzo corretto del dosatore, facendo ripetere al genitore/tutore l’operazione, assicurandosi che abbia capito (eventualmente marcare il dosatore in corrispondenza della dose da somministrare); • spiegare l’importanza di non impiegare nel bambino formulazioni da adulti (ad esempio, compresse da dividere); • spiegare le differenze nella gestione di gocce e sciroppo pediatrico; • spiegare che non è vero che “più è meglio”: cioè che dosi maggiori di antipiretico non si associano a maggior efficacia; • scoraggiare l’impiego contemporaneo di ibuprofene e paracetamolo, per l’aumentato rischio di intossicazione; • scoraggiare l’uso della formulazione per via rettale senza prescrizione medica, per la difficoltà a raggiungere dosaggi precisi in base al peso corporeo; • spiegare che il farmaco deve essere sempre somministrato sotto la supervisione di un adulto; • spiegare i possibili segni e sintomi di intossicazione dal farmaco (anoressia, nausea, vomito, malessere, oliguria, dolore addominale, alterazioni dello stato di coscienza, ipotermia) e, nel caso si verifichino, condurre immediatamente il bambino presso un Pronto Soccorso. Box 3 - Nomogramma di RumackMatthew per l’identificazione dei pazienti che hanno assunto dosi tossiche di paracetamolo da sottoporre a trattamento con acetilcisteina In caso di overdose in singola dose, i pazienti a rischio di danno epatico e che richiedono un trattamento con N-acetilcisteina possono essere identificati da un singolo dosaggio della concentrazione plasmatica di paracetamolo, dopo 4 ore dall’ingestione. Se l’ora dell’ingestione non è nota, praticare due dosaggi a 4 ore uno dall’altro, al fine di calcolare l’emivita del farmaco. La concentrazione ottenuta deve essere riportata sul grafico di trattamento con una linea di riferimento (tossicità epatica probabile) che raggiunge i 200 mg/L a 4 ore. Alcuni autori consigliano il trattamento già per valori superiori alla linea che raggiunge i 150 mg/L a 4 ore (tossicità epatica possibile). I pazienti a rischio per danno epatico grave, come i soggetti malnutriti o in trattamento con carbamazepina, fenobarbital, primidone, fenitoina, o rifampicina devono essere trattati se le concentrazioni plasmatiche di paracetamolo sono superiori alla linea che raggiunge i 150 mg/L a 4 ore. Per alcuni autori, è sufficiente che siano raggiunti valori superiori alla linea che raggiunge 100 mg/L a 4 ore, perché in questi soggetti debba essere iniziato il trattamento (tratto da Agenzia Italiana del Farmaco, disponibile al sito web http//www. agenziafarmaco.it, modificato). Quesito n. 9. Quali precauzioni devono essere prese per prevenire effetti tossici degli antipiretici? Raccomandazione 23 La dose degli antipiretici deve essere calcolata in base al peso del bambino e non all’età (livello di prova I; forza della raccomandazione A). Raccomandazione 24 La dose deve essere somministrata utilizzando specifici dosatori acclusi alla confezione (ad esempio contagocce, siringa gra- duata per uso orale, tappo dosatore), evitando l’uso di cucchiaini da caffè/the o da tavola (livello di prova V; forza della raccomandazione A). 289 Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica Box 4 - Management del bambino con overdose da paracetamolo in pediatria Raccomandazione 25 È indispensabile prestare attenzione a possibili fattori concomitanti* che possano incrementare il rischio di tossicità per i due farmaci (livello di prova V; forza della raccomandazione A). * Fattori concomitanti possono incrementare il rischio di tossicità da farmaci antipiretici: per paracetamolo, contemporaneo trattamento con carbamazepina, isoniazide, fenobarbitale ed altri barbiturici, primidone, rifampicina, 290 diabete, obesità, malnutrizione, storia familiare di reazione epatotossica, condizioni di digiuno prolungato; per ibuprofene, disidratazione, varicella in atto, contemporaneo trattamento con ACE inibitori, ciclosporina, metotrexate, litio, baclofene, diuretici, chinolonici, dicumarolici). Raccomandazione 26 Nel caso di sospetta intossicazione, il bambino deve essere im- Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica mediatamente riferito ad un centro anti-veleni o ad un pronto soccorso, in quanto l’intervento precoce è associato a miglior prognosi (livello di prova I; forza della raccomandazione A). Quesito n. 10. Si possono usare gli antipiretici nel bambino con malattia cronica? Raccomandazione 27 Nel bambino asmatico e nei bambini con fibrosi cistica, ibuprofene e paracetamolo non sono controindicati. Ibuprofene è controindicato nei casi di asma nota da farmaci antinfiammatori non steroidei (livello di prova I; forza della raccomandazione A). sempre ricoverato per l’elevato rischio di patologia grave (livello di prova I; forza della raccomandazione A). Raccomandazione 30 Il paracetamolo è l’unico antipiretico che può essere eventualmente impiegato fin dalla nascita. Nel neonato, si raccomanda di adeguare il dosaggio e la frequenza di somministrazione all’età gestazionale (livello di prova III; forza della raccomandazione A). Quesito n. 12. Vanno utilizzati gli antipiretici per prevenire eventi avversi associati con le vaccinazioni? Raccomandazione 28 Nel bambino con altre malattie croniche (malnutrizione, cardiopatia cronica, epatopatia cronica, diabete), non vi sono evidenze sufficienti per valutare l’utilizzo di paracetamolo e ibuprofene, in quanto la maggioranza dei trials esclude questi soggetti dagli studi. È raccomandata cautela in casi di grave insufficienza epatica o renale o in soggetti con malnutrizione severa (livello di prova III; forza della raccomandazione C). Raccomandazione 31 L’impiego preventivo di paracetamolo o ibuprofene in bambini sottoposti a vaccinazione, al fine di ridurre l’incidenza di febbre o reazioni locali, non è consigliato (livello di prova II; forza della raccomandazione E). Quesito n. 11. Quale è il comportamento da tenere nel bambino di età inferiore a 28 giorni? Raccomandazione 32 Dal momento che l’impiego preventivo di paracetamolo o ibuprofene in bambini febbrili non previene le convulsioni febbrili, essi non devono essere utilizzati per questa finalità (livello di prova I; forza della raccomandazione E). Raccomandazione 29 Il bambino febbrile, con età inferiore a 28 giorni, deve essere Bibliografia 1 2 3 4 5 6 7 Aronoff D, Neilson EG. Antipyretics: mechanisms of action and clinical use in fever suppression. Am J Med 2001;111:304-15. Blatteis CM. Endotoxic fever: new concepts of its regulation suggest new approaches to its management. Pharmacol Ther 2006;111:194-223. MacKowiak PA, Plaisacne KI. Benefits and risks of antipyretic therapy. Ann NY Acad Sci 1998;856:214-23. Baraff LJ. Clinical policy for children younger than three years presenting to the emergency department with fever. Ann Emerg Med 2003;42:546-9. Ishimine P. 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