IL SANTO DEI PENANGHESI San Grato vescovo

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IL SANTO DEI PENANGHESI San Grato vescovo
ALESSANDRO ALLEMANO - STORIA DI PENANGO (2004)
IL SANTO DEI PENANGHESI
San Grato vescovo
Il santo che occupa il posto principale nella devozione popolare penanghese è il vescovo san Grato,
celebrato ogni anno con solennità il 7 settembre.
«Il Santo protettore è San Grato Vescovo di Aosta» scriveva don Garavelli in risposta ai quesiti
preparatori alla visita pastorale compiuta nel 1873 da monsignor Ferrè. E aggiungeva: «Prima della
costruzione della nuova chiesa, la Parrocchia era sotto il titolo della Purificazione di Maria Vergine,
quantunque già fin d’allora si tenesse per patrono S. Grato, come titolare di una piccola cappellania
ecclesiastica, poi eretta in benefizio parrocchiale».
La sua vita
San Grato visse nel secolo V e fu uno dei primi evangelizzatori dell’odierna Valle d’Aosta. Il primo
vescovo di Aosta, un certo Eustasio, era stato fra i compagni di sant’Eusebio di Vercelli, il grande
apostolo del Cristianesimo in Piemonte. Eustasio inviò il prete Grato, anch’egli probabilmente di
stirpe greca, al Concilio di Milano convocato nel 451 per contribuire alla soluzione del problema
delle due nature di Cristo, l’umana e la divina. Grato appose la propria firma su una lettera inviata a
nome del vescovo aostano al papa Leone Magno a conclusione di quell’assise. Morto Eustasio, sulla
cattedra episcopale gli succedette Grato. In questa veste prese parte alla traslazione del corpo del
martire tebeo sant’Innocenzo, e questa è l’unica notizia certa della sua attività episcopale. Non se ne
conosce neppure la data della morte, mentre è nota quella della sua deposizione, il 7 settembre,
inserita come tradizionale nei libri liturgici e nel martirologio.
«Nel Medioevo, non solo le reliquie di San Grato erano considerate ricche di proprietà miracolose,
ma perfino alla sua lapide funeraria si attribuivano virtù straordinarie, e si diceva, per esempio, che
il suo contatto risanasse la repellente e contagiosa malattia della lebbra».1 Perciò la pietra venne
portata nel locale lebbrosario, dove poteva esprimere al meglio le sue proprietà taumaturgiche;
chiuso il lazzaretto, fu collocata nella chiesa di St.-Cristophe come reliquia a sé, distinta dalle
spoglie del vescovo che erano invece state sistemate in Cattedrale.
Sul conto di san Grato fiorì un’importante leggenda, ormai dimostrata essere del tutto anacronistica,
che va sotto il nome di Magna legenda Sancti Grati ed è attribuita al canonico Jacques des Cours,
vissuto nel secolo XIII.
In questo racconto Grato viene detto contemporaneo di Carlo Magno, che visse invece tre secoli
dopo il vescovo di Aosta; secondo i moderni studiosi, la Legenda, “costruita” a uso del popolo,
ebbe la funzione di ancor più valorizzare la figura del santo agli occhi dei devoti, «poiché la santità
non s’impone alle folle, se non si ammanta di meraviglioso».2
A questa tradizione risale la vicenda del ritrovamento della testa di san Giovanni Battista, reliquia
spesso associata a san Grato nell’iconografia popolare.3 Decapitato per un capriccio della bella
Salomè, la testa del Precursore per ordine del re Erode Antipa fu sepolta in un pozzo separatamente
dal corpo, per timore che miracolosamente potesse ricongiungervisi e Giovanni potesse risuscitare.
Grato ebbe una visione dal Signore, in cui gli veniva indicata la località segreta della sepoltura.
Partito da Aosta in compagnia del compagno Giocondo,4 a Roma ricevette la benedizione del papa e
quindi si imbarcò per la Terrasanta. Durante la traversata si scatenò una gran tempesta, che gettò il
1
P. BARGELLINI, Mille Santi del giorno, Vallecchi, Firenze, 1978, p. 502.
T. GATTO CHANU, Leggende e racconti della Valle d’Aosta, Newton & Compton, Roma, 1997, p. 27.
3
Da parte di alcuni studiosi si è anche avanzata l’ipotesi che l’immagine della testa di san Giovanni tra le mani di Grato
si possa ricondurre alla tradizione celtica delle têtes coupées, le teste mozze: sarebbe un caso di adattamento
all’agiografia cristiana di un antico culto pagano praticato dalle popolazioni locali già molti secoli prima
dell’evangelizzazione.
4
Giocondo successe a Grato nella carica di vescovo di Aosta ed è tradizionalmente associato a lui nella devozione
popolare. La sua tomba si trova nella Cattedrale del capoluogo valdostano, accanto a quella del maestro.
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terrore tra i marinai, ma Grato, levate le braccia al cielo, fece ritornare la calma all’istante. Giunto a
Macheronte, presso le rovine del castello di Erode, un angelo lo guidò, prendendolo per mano e
conducendolo al pozzo nel quale ormai da secoli si trovava il capo del Battista. Subito la reliquia
salì in superficie e si posò nelle palme protese di Grato.
La fama del santo e la diffusione del suo culto nell’Italia nordoccidentale è legata alla sua
protezione su tutti i frutti della terra. «Egli fu il taumaturgo pietoso cui ricorrere in ogni circostanza:
quando l’incendio si propagava al fienile, la grandine minacciava il raccolto, la pioggia e il disgelo
facevano straripare laghi e torrenti, la siccità bruciava le zolle, la “peste” colpiva gli animali della
stalla, e talpe, cavallette, bruchi devastavano i campi».1 Ciò spiega bene come il suo culto si sia
adattato all’ambiente rurale monferrino, dove sono innumerevoli le chiese, le cappelle, le semplici
edicole dedicate al santo.2
Il culto a Penango
Il culto di san Grato in paese è certamente plurisecolare. Dai catasti secenteschi di Moncalvo risulta
che nel 1632 era già fiorente una «Compagnia di San Grà del cantone di Penanco»; la presenza del
toponimo San Grato lascia d’altra parte ragionevolmente supporre che in quel luogo fin dai tempi
antichi fosse eretta una cappella, poi ampliata fino a divenire chiesa per tutto il paese, demolita alla
fine del secolo XVII per costruirne un’altra in posizione più favorevole.
È del 1728 una delibera del Consiglio comunale con cui il vescovo san Grato (erroneamente detto
«glorioso martire») è dichiarato «protettore particolare» della comunità penanghese; a lui – si
spiega nel testo – «per antica devotione si è sempre avuta (…) una distinta e singolare veneratione».
Nel 1742 il segretario comunale, notaio Antonio Battista Avedano, donò alla chiesa del paese una
reliquia del santo: il Comune subito stanziò 36 lire da dare in acconto «nel fare incassare in
argento» il prezioso regalo. Il lavoro fu fatto dall’orefice Antonio Varocchi di Casale, che per il
reliquiario richiese ancora altre 32 lire.3
La devozione a san Grato era diffusa anche nelle frazioni di Penango. A Santa Maria nella chiesa
del paese si trova tuttora un altare laterale dedicato appunto a san Grato e san Giuseppe. Lo adorna
una tela che i priori Oddone e Lanfranco commissionarono al pittore callianese Giovanni Luigi
Capello e che fu compiuta nella primavera del 1778. Il dipinto rappresenta il santo in abiti
pontificali che guarda al cielo, dove compare san Giuseppe.4 Ai piedi del vescovo, un pozzo e un
putto (angelo?) con il cartiglio «Sanctus Gratus in procellis auxilium», San Grato aiuto nelle
tempeste, nelle difficoltà.
Un caso di «sconcerto»
Nel 1750 le cerimonie in onore del patrono furono occasione a Penango di un pubblico scandalo,
uno scontro tra il potere civile rappresentato dall’amministrazione comunale e il potere spirituale,
che aveva il suo rappresentante locale nel rettore don Domenico Sala.
Il fatto è raccontato nella raccolta dei convocati comunali di quegli anni.
È noto che il giorno della festa di San Grato a Penango «si suole fare publica processione con la
maggior pompa che sia possibile per dare maggiore gloria a detto Santo Protettore, con intervento
1
T. GATTO CHANU, op. cit., p. 27.
A puro titolo di esempio, secondo l’Annuario 1974 nella diocesi di Casale esistono (o esistevano) chiese dedicate a
san Grato oltre che a Penango, anche ad Altavilla, Cantavenna, Gabiano, Ilengo, Lussello (Villadeati), Monteu da Po,
Moransengo, Rinco, Sala, S. Anna di Montiglio, S. Antonio della Serra, Terruggia, Tuffo (Cocconato), Vallestura,
Villadeati.
3
La reliquia era tuttavia priva di autentica: fu autenticata, insieme a numerose altre, dal vescovo monsignor Nazari di
Calabiana durante la visita pastorale del 1858.
4
L’immagine del padre putativo di Cristo fu inserita nel quadro per adempiere la volontà di Giuseppe Ottazzo,
finanziatore della ricostruzione della chiesa di Santa Maria, che aveva espresso la volontà che nella cappella del cantone
fosse effigiato il santo di cui portava il nome.
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del signor Ordinario e del corpo communitativo,1 accompagnando con torchie accese la reliquia del
Santo, che il signor Parroco suole portare in processione». Ora, il 6 settembre appena trascorso i
sindaci Carlo Francesco Corzino e Antonio Francesco Biletta avevano fatto, come di consueto, la
provvista di cera lavorata e delle 13 torce (una per il podestà e le altre per i sindaci e il Consiglio).
La cera era stata portata a casa del parroco, che la sera del giorno 6 dopo l’Ave Maria aveva fatto
dare con la campana maggiore il segno della processione, che si sarebbe dovuta fare dopo il canto
della Messa grande.
Trovatesi tutte le autorità in chiesa il giorno dopo, il rettore don Sala, dopo aver «fatto
artifitiosamente cantare al signor don Ottavio Rivalle» la Messa grande, aveva affermato che non
avrebbe fatto la processione, «con evidentissimo scandalo del numeroso popolo già radunato», se
non fosse stato appositamente pagato.
«Non potendo tollerare uno sgarbo con tanto disprezzo fatto a questo publico, nè dovendosi
introdurre novità ed abuso nel pagare quanto si pretende dal Parocho», il Consiglio ricorse al
vescovo «per obligare il Parocho al proseguimento della detta procesione gratis».
Pochi giorni dopo il segretario comunicava di essersi portato a Casale per conferire con il vescovo
Ignazio Della Chiesa circa la questione della processione. Si era trovato un compromesso, che non
avrebbe deluso la devozione dei penanghesi: il 13 settembre, giorno di domenica, sarebbe stato
esposta la reliquia e poi portata in processione, sotto pena della sospensione a divinis per il rettore,
che comunque, restando fermo nelle sue pretese, aveva richiesto un contraddittorio, fissato per il 5
ottobre.
La questione si protrasse per un anno, tanto che avvicinandosi il San Grato del 1751, c’era il timore
che la situazione si dovesse ripetere. Il Consiglio comunale decise a maggioranza (tutti d’accordo,
tranne Carlo Francesco Corzino) di sospendere la festa «massime per evitare altro sgarbo che
potrebbe fare detto signor Curato», finchè non sarà definita la causa che ancora giaceva aperta in
Curia.
Quel don Sala doveva comunque essere piuttosto un piantagrane, se nella seduta consigliare del 30
luglio 1751 veniva lamentata la sua richiesta che la cera stabilita per le sepolture fosse pagata a
parte, oltre alla tariffa stabilita.2 Aveva infatti obbligato Domenico Allemano, in occasione della
sepoltura della moglie Margherita Boccadoro, a sborsare due filippi e a provvedere di tasca propria
anche la cera, e così aveva fatto nei confronti degli eredi di Tommaso Rivalle. Come se ciò non
bastasse, il sacerdote, che era originario di Pozzengo in Valcerrina, pretendeva pure un’«elemosina»
di due lire (invece dei 20 soldi stabiliti) e 10 lire per fare la processione di San Grato.
Non sappiamo di preciso come la controversia si sia conclusa, ma è probabile che il vescovo abbia
rimosso quel rettore così venale: a sostituirlo arrivò don Paolo Gado e la processione solenne di san
Grato si potè continuare a fare, senza pericolo di altri scandali.
La statua del santo e una bella festa
«Nell’intento di maggiormente onorare il loro Patrono San Grato, e così ottenere colla intercessione
del glorioso Santo la liberazione dalla calamità della grandine da cui è sovente colpita l’infelice
borgata», i penanghesi decisero nel 1871 di comperare una statua del patrono, da portare in solenne
processione per le vie del paese insieme alla reliquia.
In maggio era già stata rivolta una supplica al vescovo per ottenere che la festa di inizio settembre
fosse dichiarata solennità di precetto. Monsignor Ferrè aveva lodato «la pietà colla quale e il M.R.
Parroco di Penango e tutta la sua popolazione hanno deliberato di celebrare la festa di S. Grato», ma
si era dichiarato incompetente a rendere festa di precetto il 7 settembre. D’altra parte, dati i tempi di
contrasto con il potere civile, non conveniva, secondo il presule, ricorrere alla Santa Sede per un
1
L’Ordinario era il podestà, notaio Antonio Battista Avedano, rappresentante in paese del feudatario Mossi; per «corpo
communitativo» si intendeva invece il Consiglio comunale, allora composto di due consoli e dieci consiglieri.
2
In occasione dell’istituzione della Parrocchia (1710), si era stabilito che al parroco andassero due filippi per le
sepolture degli adulti e uno per quelle dei bambini. Metà di queste somme andava convertita in cera per
l’accompagnamento e la Messa cantata.
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decreto ad hoc. Ciò non toglie che i penanghesi potessero celebrare il santo vescovo con tutta la
solennità che avessero voluto conferire alle cerimonie religiose.
Don Garavelli non dovette restare molto soddisfatto, ma accettò la decisione.
Per la statua ciascuno dei particolari si tassò della somma di cui poteva disporre e si prese contatto
con un artigiano d’eccezione, l’ebanista moncalvese Gabriele Capello.1 Costui, ormai ritiratosi
dall’attività, doveva avere una nutrita schiera di conoscenti in grado di provvedere la statua per
Penango. Suggerì alla fine il nome di Antonio Grandi, scultore torinese con bottega in contrada
Santa Teresa, che predispose il lavoro.
Si pensava di poter avere l’effigie pronta per la festa del patrono in quello stesso 1871, ma il
Capello, incaricato da don Garavelli di giudicare l’opera, non parve troppo soddisfatto. Scriveva al
Parroco il 1° settembre: «Appena ricevuta la ven[era]ta lettera di V.S. Reverendissima, mi recai dal
Sig. Grandis per vedere la statua di S. Grato, che a dirgliela in verità, dopo dieci giorni d’assenza da
Torino, dove non ritornai che ieri sera, speravo di trovarla molto più avanzata di quello che la trovai
con mia sorpresa.
Il Grandis mi disse, che la termina in tempo per essere spedita in Penango, ma che, come scrisse a
V.S. Reverendissima, non la incassa né la spedisce se non accettata, dopo averla esaminata, da
persona da V.S. Reverendissima spedita a tal uopo; perché, riprese, ebbe in altre circostanze dei
dispiaceri che intende evitare.
Siccome lo vidi molto fermo in quest’idea, mi faccio premura d’avvertirla, onde spedisca una
persona di sua confidenza risoluta, e con un mandato illimitato, onde possa ultimare l’affare in
tempo per esporre all’adorazione de’ suoi parrocchiani la statua, che se dal lato artistico lascia non
poco a desiderare, se si considera dal lato della somma per la quale si è incaricato di farla non
puotrà pretendere di più».
In effetti la statua era costata ben 224 lire, a fronte delle sole 184 raccolte tra i parrocchiani. A ciò si
dovettero aggiungere le spese di trasferta2 di Luigi Cerruti che, a nome della Reggenza parrocchiale,
si era recato a commissionare la statua e poi a visionare e ritirare il lavoro; poi si era dovuta
comperare una cassa per il trasporto dalla bottega del Grandi alla stazione di Porta Nuova e di qui
ad Asti e poi alla stazione di Tonco.3
Per il 7 settembre la statua era pronta, ma alla fine la contabilità dovette registrare un deficit di lire
74,15, che, annotava don Garavelli, «venne pagato coi redditi della Chiesa parrocchiale perché
l’esito infelice della vendemmia non permise una seconda colletta».
Esposta in chiesa, al mattino del giorno 7 il simulacro fu benedetto dal parroco «fra il giubilo
universale del popolo, fra lo sparo dei maschietti4 ed il suono festoso della campane».
Don Leone Vacca, economo spirituale di Cereseto, celebrò la Messa grande, «cantata dal coro
diretto dal cantore Caviglia Costantino, in canto figurato coll’accompagnamento dell’organo». Don
Garavelli invitò poi a pranzo gli altri sette sacerdoti che avevano presenziato alla funzione e «alle
due pomeridiane al suono festivo delle campane i buoni Penanghesi e moltissimi forestieri già
accorrevano a frotte alla chiesa sicché alle ore tre era già stipata di gente». Si cantarono i Vespri,
poi dall’alto del pulpito seguì il panegirico, tessuto da don Giuseppe Sereno, prevosto di Calliano e
vicario foraneo. Prese quindi avvio la solennissima processione: veniva prima di tutto la croce
dorata accompagnata da due fanali, poi le fanciulle e le donne, quindi le Figlie di Maria e le
Umiliate, tutte con la loro divisa e precedute dai rispettivi stendardi. A seguire, i ragazzi e gli
uomini, i confratelli del Santissimo Sacramento e del Rosario, preceduti dalla croce velata, poi la
1
Nato nel 1806 nel rione del Rinchiuso, Capello, detto per antonomasia “il Moncalvo”, fu apprezzatissimo ebanista
intarsiatore alla corte di re Carlo Alberto e poi di Vittorio Emanuele II. Le sue opere si trovano a Palazzo Reale di
Torino e in quasi tutte le residenze sabaude del Piemonte. Morì a Torino nel 1877, lasciando in beneficenza una
cospicua eredità. Moncalvo gli ha dedicato dapprima la scuola tecnica, poi la scuola di avviamento professionale, quindi
la scuola media.
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Un biglietto di andata e ritorno per Torino costava in quei tempi 8 lire e 40 centesimi.
3
La ferrovia Asti-Casale funzionava da un anno, ma Penango non aveva che una semplice fermata per i passeggeri:
tutte le operazioni merci dovevano fare capo a Tonco o a Moncalvo.
4
Da intendersi: mortaretti.
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banda musicale e i sacerdoti «preceduti da croce con asta e ceroferai». Dietro il clero veniva la
famosa statua «su tavolazzo dorato e circondata di fiori ed arazzi di vari colori, portata da quattro
giovani e circondata da tutta la gioventù maschile del paese, ognuno con una torcia accesa.1
«La processione uscì dalla chiesa alle ore quattro e mezzo e non rientrò che alle ore sei. Discese per
lo stradale alla via antica che tende alla casa nuova di Giovanni Battista Cerruti, di là pel tronco di
stradale passò dietro la cascina del beneficio parrocchiale, dove per la via antica accanto al rustico
degli eredi del fu Luigi Manacorda ascese sino al così detto Casino, e di là per la via del Ronco,
passando davanti al cimitero fece ritorno alla chiesa». Qui si terminò il Te Deum iniziato per strada
e venne impartita la solenne benedizione eucaristica, «fra lo sparo dei maschietti, coi quali s’era di
tanto in tanto pur rallegrata la processione».2
Una sola nota stonata in tutta la bella cerimonia, che don Garavelli non mancò di annotare: tre dei
proprietari di Penango non contribuirono alla sottoscrizione della statua, e tra essi il pur facoltoso
avvocato Giuseppe Cotti Caccia, che da poco aveva riacquistato la tenuta di Barone.
Comunque, tutto sommato e considerato che «la festa cominciò e finì senza che avvenisse il benché
menomo disordine», il rettore poté a buona ragione dirsi soddisfatto della felice riuscita di quel
«giorno di gioia la più pura, la più consolante», convinto che «il popolo ne rimase sì fortemente
impressionato che mai più gli fuggirà di memoria il giorno sette settembre 1871».
Una processione quasi miracolosa
Ecco il racconto di un’altra bella festa di San Grato, celebrata nel 1873. Ce l’ha lasciata il solito don
Garavelli scarabocchiata sul frontespizio di un registro parrocchiale.
«L’anno 1873 si fece la festa e processione di S. Grato coll’intervento del Vescovo di Casale
Monsignor Pietro Maria Ferrè. Mentre facevasi la processione levaronsi sopra Penango densi
nuvoloni, tuoni e folgori, che pareva dovesse se non sobbissare tutto il paese, distruggerne tutto il
raccolto. Se non che d’un tratto le nubi, in parte cenerognole, s’allontanarono per scaricare la loro
grandine su altre terre, e allo spaventevole fragore del tuono successe il più bel sereno che mai siasi
visto. Il Vescovo dichiarò che il Signore aveva fatto a Penango una grazia per intercessione del
patrono San Grato».
Resta però da vedere quanto siano rimasti contenti i contadini sui cui raccolti si scatenò la grandine
che l’intervento del santo aveva allontanato da Penango…
1
Nei giorni precedenti si era costituita una società di circa 40 giovani per l’organizzazione della festa: ne erano stati
nominati capi Michele Zanello e Francesco Brignoglio.
2
Per l’occasione, don Emiliano Manacorda, allora impiegato presso la Curia romana, aveva “strappato” a papa Pio IX
una particolare concessione «che rese più santa, divota e fruttuosa la festa»: l’indulgenza plenaria perpetua «a quelli che
confessati e comunicati pregheranno per la prosperità della S. Romana Chiesa e visiteranno una sola volta la chiesa
parrocchiale di Penango dal quattro settembre a tutto il dieci dello stesso mese di ogni anno». A quanto pare,
l’indulgenza diede buoni frutti, se don Garavelli registrò circa 300 Comunioni nella settimana.