Flessibilità
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Flessibilità
LA SOCIETA' DELL'INFORMAZIONE IN ITALIA Flessibilità e call-center Le telecomunicazioni sono state concepite sino al 1995 (il processo comunitario di demonopolizzazione è partito ufficialmente il primo gennaio 1993) come un 'oggetto unico'. L'azienda monopolista, si occupava di tutto quello che imprese e cittadini utilizzavano per telefonare, mandare fax o trasmettere dati; questo non necessariamente a scapito della qualità del servizio ma sicuramente contro la nascita di un mercato alternativo e fonte di sviluppo. Nella logica monopolista il 'cliente' non esisteva, c'era solo l'utente. Progressivamente, l'applicazione delle norme e l'evoluzione delle nuove tecnologie, hanno aperto spazi, generando una frammentazione del mercato con la nascita di centinaia di operatori tutti orientati ad affermarsi sul mercato. L'impennata di questa 'nuova economia', è stata repentina; una sbronza che ha coinvolto tutte le aziende del settore di cui si sono avvertiti i postumi solo dopo il crollo dei listini tecnologici cominciato nella primavera scorsa. In Italia, il settore della Internet economy ha raggiunto nell'arco di pochi anni un numero di occupati superiore a un milione e trecentomila unità. Si tratta però, nella maggior parte dei casi, di contratti di lavoro atipici o di rapporti di lavoro individuali. Il modo più comune con cui oggi vengono gestiti i rapporti di lavoro (soprattutto nelle dot.com) è la prestazione professionale (collaborazione continuativa): del tipo "ti pago per quello che lavori". Questi contratti individuali di natura parasubordinata, spesso mascherano lavoro subordinato, facendolo passare per lavoro autonomo e sono in assoluto quelli che hanno le minori tutele. Sono giuridicamente assimilati a quelli dei lavoratori autonomi, (quindi privi di qualunque garanzia anche rispetto alle possibilità di rinnovo, conservazione del contratto in caso di infortunio o malattia) e si prestano a non avere una regolamentazione sul piano economico. È evidente che questa tipologia di contratti può consentire di essere assoggettati al ricatto. Le aziende della New Economy sono quelle che più pesantemente fanno ricorso ai contratti atipici (co.co.co., part-time, cfl, interinale, apprendistato, a termine, ecc.). La flessibilizzazione (specialmente in questo settore), comporta però oltre ai rischi anche delle opportunità. Al momento tra i rischi e le opportunità, specialmente per i lavoratori meno professionalizzati, prevalgono i rischi, anche se questo non esclude che le opportunità esistono e che dobbiamo operare affinché possano affermarsi. I rischi sono essenzialmente quelli di una marginalizzazione e atomizzazione dei lavoratori flessibili. La prima marginalizzazione riguarda le opportunità di genere. Emerge da tutte le ricerche che c'è una femminilizzazione nell'uso di queste nuove forme di lavoro (soprattutto nell'uso del Part-Time,che in Italia è la forma più sperimentata di lavoro atipico) in particolar modo nei call-center. La seconda deriva dall'ambito lavorativo, che diventa sempre di più un contesto soggettivo che si frammenta in una moltitudine di personalità che non provano o non riescono a mettere insieme in una rivendicazione comune, le proprie aspettative. Quello dei call-center è un caso emblematico. E' un panorama ampio e variegato, che si muove in un certo vuoto normativo e che include realtà molto diverse: dall'agenzia di telemarketing, ai call center aziendali, a società in outsourcing che gestiscono il servizio per altre aziende. Il fenomeno dei call center, negli ultimi dieci anni, ha assunto proporzioni notevoli, anche dal punto di vista occupazionale. Sono cinque milioni i nuovi posti di lavoro dal 1990 ad oggi creati negli Stati Uniti con questa tipologia e oltre un milione gli addetti in Europa secondo Datamedia. In Italia, dove il fenomeno è partito un po' in ritardo, il numero degli occupati sta aumentando al ritmo del 20-25% all'anno dal 1998, il volume delle chiamate ancora di più, circa del 30-35%. Sempre secondo Datamedia, alla fine del 1999 esistevano 820 call center, 1020 nel 2001 con una previsione di 1350 alla fine di quest'anno. Dati più recenti raccolti dal Clum CMME stimano che nel 2002 erano 1280 i call center attivi, con un incremento del 34% dal duemila, anno in cui le postazioni di lavoro (l'unità di misura occupazionale adottata nel settore) erano 73 mila nel nostro Paese. Basti ricordare che nel 2001 - come riportato recentemente dall'ISIMM (Istituto per lo studio dell'innovazione dei media) - il 26,4% degli italiani adulti, pari a tredici milioni di persone, ha parlato almeno una volta con uno di loro. Nel conto ci sono naturalmente anche i call center di banche, società municipalizzate e quant'altro, ma i telefoni, in particolare quelli mobili, fanno certamente la parte del leone. E' per questo che i gestori di telefonini dedicano a questo settore una quantità sempre maggiore di risorse: Vodafone Omnitel ha 5 mila addetti ai call center sparsi in sette città, su poco più di novemila dipendenti, Tim ne ha quattromila e settecento su quasi diecimila, Wind dichiara oltre duemiladuecento addetti se consideriamo solo le risorse internet, e milleduecento in outsourcing full time equivalent, su 8700 dipendenti totali, altri 800 circa ne aveva Blu e ora si aggiunge H3G, che prima ancora di lanciare la sua offerta per il servizio UMTS ha messo in piedi due call center a Roma e Milano e progetta un'apertura per Cagliari nel 2003 che a regime dovrebbero portare gli addetti ai call center a 500 su 1400 totali. A tutti questi vanno aggiunte diverse migliaia di lavoratori di aziende che offrono servizi di call center in outsourcing e l'esercito che sfugge a qualsiasi definizione specifica dei CO.CO.CO. Esemplare è il caso della società Atesia del Gruppo Telecom, (si stima sia la seconda società in outsourcing in Europa), che fino a poco tempo fa faceva pagare agli operatori 9500 lire al giorno per l'uso della consolle di lavoro. Lo sviluppo e le potenzialità di questo settore sono trainate soprattutto dall'evoluzione del ruolo del call center nel rapporto con il cliente e nelle strategie aziendali. Da centro preposto alle chiamate telefoniche per l'assistenza pre o post vendita (il vecchio ufficio reclami), si è passati al contact center, nodo importante del sistema di comunicazione e vendita che utilizza altri canali di contatto: oltre al telefono, il fax, l'e-mail, l'UMTS. Fino ad arrivare al nuovo approccio del CRM (Customer relationship management), che gestisce tutti i processo e le attività che l'azienda mette in campo per acquisire e fidelizzare il maggior numero di clienti, personalizzando il più possibile le relazioni con ciascuno. L'azione di customer care può essere gestita all'interno (e si parla in questo caso di "in house") o affidata a società specializzate esterne (outsourcing), una soluzione che sta crescendo a livello mondiale e anche in Italia. Nel duemila le posizioni in outsourcing in Italia erano 6200, ma secondo un'analisi di A.T.kearney per Datamonitor diventeranno 9400 a finel 2003 e 11100 nel 2005. Gli operatori dei call center sono in questo momento una categoria chiave per il futuro delle telecomunicazioni. Risulta utile l'identikit di questi nuovi lavoratori tracciato da uno studio del bench-marking 2001 del Customer Management forum. Il 93% degli operatori ha un'età compresa fino a ventinove anni, ma l'età media cresce di pari passo con il miglioramento del ruolo professionale, visto che il 94% dei supervisori ha più di ventisei anni e, di questi, il 47% oltre i trenta. Passando poi al titolo di studio, si scopre che il 62% dei call center impiega meno del 40% di operatori laureati ed è elevata la percentuale di aziende che utilizzano i diplomati anche come manager. L'incidenza dei laureati cresce tra gli operatori dei call center strategici, mentre nelle "fabbriche di servizi", dove la gestione delle risorse umane è meno evoluta, la presenza di laureati tra gli operatori arriva solo in alcune rare situazione a punte del 40%. Nei call center delle grandi aziende esaminate, l'assunzione a tempo indeterminato è la tipologia di lavoro più diffusa, di cui il 76% a full time e il 24% part time. Il turno over risulta molto elevato anche nei call center strategici, dove in tema di competenze si punta di più sulle conoscenze specifiche dell'azienda e dei prodotti, sui servizi e sul mercato di riferimento e che quindi dovrebbero servirsi soprattutto di personale stabile. Risulta più alto nei call center grandi (pari al 15%) mentre in quelli con meno di 50 postazioni in movimento è inferiore al 5% nel 47% delle strutture. Le retribuzioni del settore non sono generose: il 92% degli operatori prende meno di ventunomila euro all'anno. Va un po' meglio per i supervisori: il 47% percepiscono tra i ventunomila e i trentaduemila euro. Le retribuzioni dei manager sono decisamente migliori, il 38% di loro porta a casa più quarantatremila euro, con una parte variabile pari a circa il 10%. La situazione dei lavoratori dei call center non si può certo definire rosea: ancora molti sono in attesa di contratto e parecchi di essi va a ingrossare le fila dei cosiddetti “lavoratori atipici”. In tutta Europa gli operatori di call center hanno una caratteristica in comune: tendono a cambiare lavoro rapidamente, tranne coloro che operano in contact center impegnati in funzioni sociali, dove probabilmente prevalgono motivazioni maggiori. In questo mondo di rilevante turn-over , alcune società preferiscono gestire internamente il call-center, ma parecchi, anche nel settore telefonico, si affidano all’autsourcing in cui solo una minima parte dei lavoratori ha un regolare contratto di lavoro dipendente, moltissimi, invece, sono in regime di co.co.co. In questo mondo nuovo e privo di diritti, dovremmo poter affermare una griglia di regole che dovrebbero essere universali, a partire dalla retribuzione, sino al diritto alla malattia, alle prestazioni riguardanti la pensione, il diritto alle ferie, il diritto alla salute, tutte cose che i lavoratori dipendenti danno già per scontato. L’universo dei call-center in outsourcing è una realtà che dà lavoro a circa duecentomila persone. Nel settore c’è un forte turn-over perché coloro che vanno a lavorare in un call center sono quasi sempre persone che utilizzano questo lavoro come un passaggio, soprattutto gli studenti. Una distinzione ulteriore va fatta tra call-center grandi e piccoli. Mentre le realtà principali offrono spesso contratti di collaborazione che garantiscono al lavoratore alcuni diritti essenziali, le situazioni più drammatiche si trovano soprattutto nei call-center più piccoli. Ancora oggi ci sono situazioni dove il pagamento è a cottimo, un tanto a telefonata. Alcune aziende hanno cominciato a capire che questa situazione di vacatio legis finiva per andare contro i loro stessi interessi e hanno cominciato a valutare delle formule di regolamentazione del lavoro. Sono nati così alcuni accordi sperimentali : oltre che non Atesia, con Answer, Unicob, mibi, Telcos, e Assirm. Quest’ultimo si potrebbe definire il primo accordo nazionale sui call-center essendo Assirm l’associazione che riunisce le principali aziende del settore delle ricerche di mercato. Questi accordi hanno stabilito alcuni diritti di base: durata minima di tre mesi del contratto di collaborazione, il pagamento viene fissato a sessanta giorni (alcune società davano il primo stipendio dopo nove mesi), nel caso di malattia o maternità il contratto viene sospeso e non rescisso (in alcuni accordi si parla anche di forme di indennità), i turni sono di quattro ore e la retribuzione è di circa sei euro lorde l’ora. Inoltre, almeno nel contratto Assirm, si fissa una maggiorazione del 20% durante i turni notturni e del 15% durante i festivi. L’importanza della contrattazione fino ad oggi realizzata sui collaboratori coordinati e continuativi è evidente anche come strumento di sperimentazione e verifica ma sicuramente non sufficiente a dare dei diritti minimi a questi lavoratori. Nuove possibilità, tutte da verificare, potrebbero arrivare dallo schema del decreto legislativo di attuazione della legge 30/2003. L’obiettivo dovrebbe essere quello di mettere in discussione forme di flessibilità improprie, che hanno pesantemente distorto la concorrenza tra imprese a scapito delle tutele di chi lavora. Certo non tutte le collaborazioni coordinate e continuative potranno sparire,. In primo luogo, nel settore pubblico non si applica la riforma Biagi. Sono inoltre escluse dalla nuova disciplina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi. Per tutti gli altri casi si chiede che si tratti di lavoro autonomo genuino. Nella maggior parte dei casi , soprattutto nei call-center, questi collaboratori sono solo lavoratori dipendenti mascherati da lavoratori autonomi in maniera fraudolenta. Questa operazione dovrebbe eliminare forme sleali di concorrenza e ripristinare la certezza del diritto nei rapporti di lavoro. Posto che sarà sempre possibile ricorrere ai co.co.co. in caso di progetti, programmi di lavoro o fasi di esso gestiti autonomamente dal collaboratore, le alternative sono numerose, tante quante le forme di flessibilità regolata che contempla il nostro ordinamento: dal nuovo lavoro a termine ai contratti di inserimento, al lavoro intermittente al nuovo lavoro a tempo parziale. Il passaggio da rapporti a minore o nessuna contribuzione (lavoro nero, co.co.co. ) ad altri a più alta aliquota dovrebbe costituire un beneficio per l’intero sistema paese. Gli operatori dei call-center atipici, soprattutto nell’outsourcing, rispetto ai telelavoratori e ai collaboratori più in generale, sono concentrati tutti in uno stesso luogo di lavoro. Nell’età industriale questo è stato sicuramente uno dei fattori che ha incoraggiato la nascita dei sindacati. In questo caso potrebbe essere l’occasione per raggiungere un tipo di lavoratore altrimenti oggi disperso e quindi più difficile da tutelare.