Da Corinto a Sirmione: la Medea di Franca Grisoni

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Da Corinto a Sirmione: la Medea di Franca Grisoni
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Da Corinto a Sirmione:
la Medea di Franca Grisoni
Maria Pia Pattoni*
La più recente creazione della poetessa sirmionese Franca Grisoni, Medea, un monologo drammatico di
grande forza espressiva e suggestione, messo in scena e diretto dall’attrice e drammaturga Patricia Zanco,
ha avuto origine da un accurato lavoro sulle fonti classiche del mito,
puntualmente documentato nella
ricca nota bibliografica conclusiva
(p. 77). Così del resto è avvenuto per
ogni rivisitazione dell’antico degna
di iscriversi nella storia letteraria. È
il caso, in particolare, di due riscritture novecentesche che con il dramma della poetessa sirmionese condividono per vari aspetti la modalità
genetica: la Medea del poeta americano Robinson Jeffers, scritta dietro
richiesta dell’attrice Judith Ander-
son, che dopo la prima rappresentazione a Broadway nel 1946 ha conosciuto una fortunata stagione di rappresentazioni e traduzioni in tutta
Europa1, e Lunga notte di Medea di
Corrado Alvaro, commissionata dall’attrice russa Tatiana Pavlova, anch’ella come la Anderson desiderosa
di recitare nel ruolo dell’eroina colchide, ma in una versione più vicina
all’attualità2. E in tutte le tre riscritture, benché i modelli classici siano
stati assimilati in una creazione interamente originale, qualche traccia
cromosomica inevitabilmente s’intravede in filigrana. Talvolta si tratta
di richiami consapevoli; in altri casi
si dovrà piuttosto pensare a una sorta di poligenesi dei motivi, che la
stessa fabula ha indipendentemente
––––––––––––
*) Si tratta della redazione scritta dell’intervento tenuto martedì 23 ottobre al Foyer del Teatro Sociale di Brescia
in occasione della presentazione del dramma Medea di Franca Grisoni, illustrato dai disegni di Letizia Cariello,
con nota del critico Franco Brevini, pubblicato a cura di Fondazione Etica, per i tipi de L’Obliquo (dalla traduzione italiana che accompagna il testo originale in dialetto sirmionese sono tratte le citazioni qui riportate).
1) Sulla straordinaria fortuna di questo dramma già si soffermava Gino Calmi nella sua nota introduttiva alla traduzione italiana di Gigi Cane, pubblicata in “Il Dramma”, n.s. 87 del 15/06/1949 (p. 6).
2) La genesi del dramma è stata illustrata dallo stesso Alvaro in La Pavlova e Medea, in A. Barbina (a cura di), Cronache e scritti teatrali, Roma, Edizioni Abete, pp. 283–286. Il dramma fu rappresentata la prima volta l’11 luglio
del 1949 al Teatro Nuovo di Milano, diretto e interpretato dalla Pavlova, con scene ed i costumi di Giorgio De
Chirico e musiche di Ildebrando Pizzetti.
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ispirato alla mente di ciascuno scrittore. In ogni caso, come per Alvaro e
Jeffers, anche per questa nuova Medea di Franca Grisoni la lettura critica delle stratificazioni è in grado da
un lato di dare ragione della portata
culturale (e non solo poetica) dell’operazione, dall’altro di inquadrare
questa originale creazione nel filone
ormai ben consolidato della ‘Classical Reception’, in rapida espansione
negli ultimi anni, soprattutto all’estero. Come di norma in questi casi,
alla vivacità creativa di drammaturghi e poeti che sempre più spesso si ispirano all’antico per riuscire a leggere, con maggiore nitidezza, nel
magmatico presente si unisce, inevitabile, l’interesse da parte della critica, che sta parallelamente crescendo
in misura esponenziale in questi ultimi anni in Europa e in America. E
merita di essere ricordato che all’inizio di questa straordinaria fioritura si
colloca per l’appunto il mito di Medea, con la miscellanea curata da Edith Hall e Oliver Taplin, Medea in
Performance 1500–2000 (Oxford
2000), la cui importanza, anche sul
piano più propriamente metodologico, è un dato ben noto a tutti gli studiosi di Fortleben.
La nuova Medea di Franca Grisoni
contempera in sé, in diversa dosatura, i tre volti che di questo personaggio mitico l’antichità ci ha consegnato. Uno è quello della donna inna-
morata, immortalato dalle Argonautiche di Apollonio Rodio: la principessa di Colchide che per amore del
bello straniero venuto da lontano ha
abbandonato la sua terra “senza voltarsi” (p. 13). Schegge delle Argonautiche sono presenti nella rievocazione degli antefatti, soprattutto nel
prologo. È il caso, in particolare, oltre al giuramento di Giasone (p.
13)4, anche della rievocazione del
dio Eros “comperato con un regalo per
ferirla d’amore”, Eros “che ha giocato
con il suo cuore senza aspettare la palla d’oro che si è guadagnato col patto
combinato” (p. 10): una chiara allusione alla scena di Argonautiche III
135 ss., in cui Afrodite – assecondando la richiesta della dea Era che
protegge Giasone – chiede al figlioletto Eros di colpire con la sua freccia il cuore di Medea, promettendogli come ricompensa una palla d’oro.
Le fonti classiche riemergono anche,
a p. 61, nella rievocazione eziologica
della metamorfosi in massi dei pezzi
del corpo di Absirto, gettati in mare
da Medea per ritardare l’inseguimento dei Colchi: le isole Absirtidi, al
largo della Croazia.
L’altro volto di Medea che i testi antichi ci hanno consegnato è quello
della maga, esperta in venefici. Seneca nella sua Medea dedicava una
lunga scena alla preparazione della
pozione destinata ad avvelenare abito e diadema inviati da Medea come
––––––––––––
3) Le parole di Giasone (“Mia cara / se tu verrai in quei luoghi, nella mia terra / avrai onore e rispetto dagli uomini / e dalle donne […]. Dividerai con me il letto nuziale / legittimo; e niente mai potrà separare / il nostro amore, prima che ci avvolga la morte segnata”) richiamano da vicino quelle dell’archetipo (Apoll. Rhod. III 1120 ss.).
4) Le parole di Giasone ("Mia cara / se tu verrai in quei luoghi, nella mia terra / avrai onore e rispetto dagli uomini
/ e dalle donne […]. Dividerai con me il letto nuziale / legittimo; e niente mai potrà separare / il nostro amore,
prima che ci avvolga la morte segnata") richiamano da vicino quelle dell'archetipo (Apoll. Rhod. III 1120 ss.).
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dono nuziale alla giovane sposa di
Giasone. Franca Grisoni ci ha per
fortuna risparmiato il calderone della fattucchiera di senecana memoria,
ma molto più di quanto non si osservi in Euripide ha dato spazio nel suo
dramma alla dimensione magica. Un
esempio è nella suggestiva rievocazione dell’antefatto in Colchide, la
lotta con il drago custode del vello
d’oro: una lotta in cui Medea non
uccide il suo avversario, come di
norma fanno gli eroi maschili del mito uccisori di mostri (Eracle, Perseo,
Bellerofonte, Teseo, Cadmo, ecc.),
bensì lo rende inoffensivo “come donna / capace domare il male […] un
grosso geco pauroso / nascosto nella sua
tana / tra rami bruciati / incrostati di
sangue / il mostro l’ho lasciato...” (p.
15). Si tratta di un ulteriore punto di
contatto con la narrazione di Apollonio Rodio, in cui Medea addormentava il drago con i suoi filtri magici, consentendo così a Giasone di
rubare il vello. Per contro, l’omonima eroina euripidea, femminista ante litteram, uccide senz’altro il drago,
usurpando il ruolo maschile:
κτείνασ(α) essa proclama di fronte
Giasone al v. 432, a rimprovero della
sua scarsa operatività di eroe.
L’altro volto di Medea che la tradizione antica ci ha trasmesso è quello
della straniera e delle sue difficoltà a
integrarsi nei falsi e ipocriti meccanismi che regolano il mondo occidentalizzato: un tema che, già introdotto da Euripide in questo mito, ha avuto nel Novecento grande fortuna,
a partire dal drammaturgo austriaco
Franz Grillparzer con la sua trilogia Il
vello d’oro (L’ospite – Gli Argonauti –
Medea, 1818–1820), e un secolo dopo con i drammi cosiddetti coloniali,
che hanno fatto di Medea di volta in
volta una principessa indocinese
(come in Asie di Henri–René Lenormand, 1931) o malese (come in The
Wingless Victory di Maxwell Anderson, 1936) oppure la figlia di un capo tribù africano (come in African
Medea di Jim Magnuson, 1968),
mentre Giasone ha assunto le vesti
del colonizzatore europeo di turno
che seduce la giovane principessa indigena, salvo poi abbandonarla per
una moglie occidentale.
La Medea della Grisoni, pur senza identificarsi con nessuna delle altre
Medee moderne, ha qualcosa in comune con l’eroina di Grillparzer per
il tema romantico della contrapposizione fra il potere corrompente da un
lato – di cui il vello d’oro è simbolo –
e, dall’altro, la Colchide, con la sua
positiva natura selvaggia di mondo
aurorale, in cui Medea viveva in sintonia con la natura, in una sorta di
primigenia età dell’oro: “e ferro e oro
e rame / donava la terra / e pietre preziose / da sfoggiare insieme / nei giorni
comandati. / Belli noi agli altari / e il
vello di luce ci indorava la valle / e le
mie mani pulite / che guarivano e i canti / e venti e piante e bestie / si tenevano intonati. / Santa natura / selve lontane / le mie compagne / come un dio
l’eroe / lo avevano salutato” (p. 59). Il
senso di questo eden perduto, anteriore alla rottura dell’armonioso rapporto fra uomo–Dio–natura è espresso in poetiche immagini: “Confine tra bene e male quand’è che è sal97
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tato? Ci stavo dentro nel cielo sceso da
basso / tra fiori ed erbe che potevano
sanare / liberi noi nel mondo come un
altare / e pietra e cielo ed eroi / e morti
e vivi nominati assieme” (p. 57). Tutto
questo è stato definitivamente violato: e le parole conclusive di Medea
“il vello d’oro non ha più niente di santo” (p. 73) esprimono la desacralizzazione del vello, degradato a mero
simbolo di potere: un potere basato
sulla violenza della guerra e sulla
menzogna. Ma io ritrovo qui anche
un po’ del mondo arcaico colchico
rappresentato da Pasolini nel lungo
prologo del suo film: un mondo rurale dedito ai culti della terra, ai suoi
riti agrari, che vengono violati dall’arrivo di Giasone e dei suoi, introdotti come uno squadrone di conquistatori che saccheggiano villaggi
e distruggono templi, depredandone
le ricchezze: nel “mondo contrario da
lui rovesciato” – dice Medea a p. 51 –
“spade si faranno da vanghe e badili per
seguirti ad uccidere”. E la terra “nel
proprio catrame non darà più pane”.
Ed Euripide? Qualche suggestione
dell’archetipo sembra emergere qua
e là, come sottotraccia, soprattutto
in riferimento al tema dell’infanticidio. Dei suoi figli, l’eroina sirmionese mette in rilievo due dettagli molto espressivi: lo sguardo degli occhi e
il profumo della pelle (p. 23). Sullo
sguardo dei suoi bambini e sulla dolcezza del loro respiro si soffermava
l’eroina euripidea nel cosiddetto
‘grande monologo’, lacerata tra la
volontà di portare a termine la vendetta contro Giasone e l’amore di
madre: “Il cuore mi vien meno quando
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vedo lo sguardo lucente dei miei
bambini (ὄμμα φαιδρόν Eur. Med.
1043), [...] o cara mano, amata bocca,
e figura e bel volto dei miei bambini…
O dolce contatto, tenera pelle, soavissimo respiro dei miei figli, andate, andate, non sono più capace di volgere lo
sguardo verso di voi, ma vengo vinta
dall’angoscia!” (v. 1071 ss.). La sensualità della Medea di Euripide rivive, addirittura intensificata, nelle
parole di Franca Grisoni: “Sono carne
nostra, hanno un buon odore / li annuso da cagna e monta il mio calore di
madre che li curo, i miei piccoli due”.
Dall’archetipo sembra anche provenire l’avvertimento di Medea a Giasone che nella vecchiaia la mancanza dei figli lo tormenterà ben più di
ora: “Aspetta, aspetta. Sentirai da vecchio!” (p. 53). È un richiamo alla
crudele ammonizione dell’eroina euripidea a Giasone nell’esodo: “Non
piangi ancora veramente: aspetta quando sarai vecchio!” (Eur. Med. 1396).
Anche Pasolini, del resto, aveva
conservato questo stesso spunto nel
finale del suo film.
Tra le passioni che animano questa
moderna Medea, c’è – molto viva –
l’indignazione per essere stata ingannata: un tradimento che mai avrebbe creduto (“Ma non finisce la meraviglia per ciò che lui ha potuto. Il non
possibile davvero è accaduto, e a me –
da dentro – tocca almeno dirlo”, p. 27).
Il pensiero del lettore scivola inevitabilmente a Euripide, che per espandere l’indignazione di Medea
non esitava a ricorrere alla funzione
amplificante del Coro: nel primo stasimo le donne corinzie ricorrevano
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addirittura a un adúnaton per esprimere l’incredibile sovvertimento di
valori operato dal tradimento di Giasone (“A ritroso si muovono le correnti dei fiumi, giustizia e ogni altra cosa a
rovescio si volge: fraudolente sono le
decisioni degli uomini – δόλιαι βουλαί
– e i giuramenti fatti non sono più saldi”, Eur Med. 410 ss.).
In comune con Euripide c’è infine
l’interesse per l’attualità. In più punti del dramma il tragediografo ateniese, attento scrutatore dei mutamenti
della sua società, stabiliva uno stretto legame con l’Atene contemporanea, in particolare sui temi dell’emarginazione dello straniero, a cui abbiamo poco sopra accennato, oppure
delle morti premature dei figli, un
motivo adombrato dal Coro nell’intervento anapestico ai vv. 1108 ss. (la
Medea fu rappresentata nella primavera del 431 a.C., poco prima dell’inizio della Guerra del Peloponneso, e
le donne corinzie sembrano qui dare
voce all’angoscia di tanti genitori per
la sorte dei figli nelle guerre).
Ebbene, anche in Franca Grisoni il
mito si fa chiave interpretativa dell’attualità, secondo una chiave di
lettura simbolica che caratterizza
l’approccio della cultura contemporanea al mito. E così, le morti innocenti dei bambini di Medea diventano il simbolo di tante morti innocenti del nostro secolo: “In loro piangono
i bimbi morti sul lavoro e quelli strappati al vivo da donne sventrate in guerre sorelle, sempre le stesse le vostre
guerre che abbiamo ereditato. Piangono
i figli di donne ingravidate da soldati–cani...” (p. 65). E poco oltre:
“Guarda, vengono a galla i corpi dei disperati partiti dalle loro terre per paradisi inventati… guardali: le facce gonfie
/ le bocche aperte / che non potranno
più chiudere” (p. 67).
Tra i punti di maggiore suggestione è
la rievocazione del pianto corale dei
figli di Medea, che secondo una tradizione popolare locale sarebbero
stati trasformati in scogli al largo di
Santa Maria di Leuca, nel Leccese,
mentre ad essi rispondono, da terra,
“le madri di figli perduti” (pag. 65). È
un recupero efficace, all’interno della forma monologica assunta da questo dramma, di una delle funzioni canoniche dell’antico coro greco: quella di slargare l’ambito della vicenda
drammatizzata in scena, trasformandola in paradigma dell’attualità.
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