"La canzone di Giasone e Medea", regia Elena Bucci

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"La canzone di Giasone e Medea", regia Elena Bucci
Domenica, 17 Aprile, 2016
SIPARIO
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"La canzone di Giasone e Medea", regia Elena Bucci
www.Sipario.it, 16 aprile 2016
Sullo sfondo si disegnano cinque figure, sono ombre che arrivano da lontano, che parlano di un mito, il mito di Giasone e Medea,
ma non solo. L'inizio de Il canto di Giasone e Medea è anche un omaggio di straziante bellezza al teatro di Leo De Berardinis che
Elena Bucci e Marco Sgrosso hanno dentro e che fanno emergere con tutto l'affetto nei confronti del loro maestro. E' questo un
affetto che arriva a chi condivise quella stagione e ne apprezzò gli spettacoli. Ma è tutto Il canto di Giasone e Medea a richiamare il
teatro di Leo e soprattutto la consapevolezza che il grande teatro, il teatro dei fondamentali cavalca i secoli e gli stili perché sa
raccontare l'eterno e l'universale. Ed è quanto accade nel racconto del mito della regina della Colchide in cui le maschere e i
movimenti 'rubati' alle danze balinesi parlano della ricerca di una tensione e di un'astrazione che attraversa l'intero allestimento,
fatto di luce e di corpi che si muovono, di parole che prendono voce dietro le maschere e il cui suono e tono vengono in soccorso –
spesso – della mimica facciale.
Ma a cosa si assiste partecipando a Il canto di Giasone e Medea? Si assiste al racconto: dell'amore di Medea per Giasone,
dell'essere straniera della regina della Colchide, della sete di potere che può di più dell'amore, della discendenza e di una madre
che ammazza i suoi figli. Elena Bucci costruisce una intensa partitura drammaturgica intrecciando i testi di Euripide, Seneca,
Apollonio Rodio per arrivare a Franz Grillparzer e Jean Anouilh. Ne esce un raccontare che delinea con precisione e sciolta
narrazione le vicende del mito e al tempo stesso appare di una sconcertante modernità, annulla le coordinate della favola per farsi
riflessione sull'amore di un uomo e una donna, sulla gelosia, sull'abbandono, sulla vendetta e su ciò che fa fare l'amore tradito,
umiliato, offeso. Ciò che si dicono Giasone e Medea sul loro amore, sui figli, sulla – diremmo oggi – realizzazione maschile opposta
all'amore totalizzante della donna appare a tratti di sconcertante attualità. Si ha l'impressione che a parlare non siano la figlia del
sole e l'eroe greco, ma una coppia dei giorni nostri.
Fa venire le lacrime agli occhi il proposito di Medea di uccidere i suoi figli: la determinazione si accompagna al dolore di madre ed è
uno strazio di poesia e di verità. Nel Canto di Giasone e Medea si fonde la riflessione sul mito, la condanna di Medea a essere
straniera sempre, la regina barbara. Si avverte il conflitto fra le ragioni del cuore e quelle del profitto/convenienza/prestigio che
allontaneranno Giasone da Medea e faranno scaturire la tragedia. Elena Bucci e Marco Sgrosso costruiscono un racconto di cui
non si perde una sola parola, il cui respiro è poetico, partecipato e finemente costruito in quei movimenti antinaturalistici, in quello
spazio delineato dal disegno luci di Loredana Oddone, nella tessitura sonora orchestrata da Raffaele Bassetti. A fare da commento
e interlocutore di Giasone e Medea c'è il coro di bianco vestito composto da Daniela Alfonso, Nicoletta Fabbri e Filippo Pagotto, un
coro di anime che preparano il rito funebre, figure fantasmatiche, clown ma anche Pulcinella di un teatrino delle maschere che sa di
antico e che affonda le radici nella comune koiné mediterranea. Il canto di Giasone e Medea è potente, sa conquistare la platea.
Nella replica a cui si è assistito la platea di studenti liceali si è fatta portare via... non una lucina di cellulare, non un bisbiglio tutti
rapiti dal mito di Giasone e Medea che Bucci e Sgrosso consegnano agli spettatori con forte e poetico fare teatrale. Da vedere
assolutamente.
Nicola Arrigoni