Fiat-Chrysler, il deus in machina

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Fiat-Chrysler, il deus in machina
Fiat-Chrysler, il deus in machina
Fiat-Chrysler, il deus in machina
Guglielmo Ragozzino
Il piano di salvataggio dell'auto americana è legato a un nuovo accordo con il sindacato. Tocca
alla casa torinese cercarlo, altrimenti salta il megaprestito
Obama, il presidente degli Stati uniti Barack Hussein Obama, è uno che parla chiaro. Dice quella
che gli sembra la verità, senza nascondere nulla, senza fare discorsi diversi, uno per il grande
pubblico e uno per gli esperti e la gente che conta dei circoli accreditati. E’ il primo, da molto
tempo. Sull’auto, in particolare su Chrysler e Fiat, dopo avere toccato il tasto della Gm, parla
così: “La situazione alla Chrysler è ancora più impegnativa. Nonostante una profonda riluttanza,
dopo un attento esame, un’intelligente ricognizione dei fatti ci ha fatto decidere che a Chrysler
occorra un partner, per rimanere vitale. Recentemente Chrysler si è guardata intorno e ha trovato
quel che potrebbe essere un potenziale partner – la compagnia automobilistica internazionale
Fiat, dove l’attuale management ha realizzato un impressionante inversione di tendenza. Fiat è
pronta a trasferire la sua tecnologia di avanguardia a Chrysler e, dopo avere lavorato a stretto
contatto con la mia squadra, si è impegnata a produrre – fabbricando nuove automobili e nuovi
motori, efficienti dal punto di vista dei consumi, proprio qui negli Stati uniti. Noi abbiamo anche
fissato un accordo tale da garantire che Chrysler ripaghi i contribuenti per ogni nuovo
investimento fatto prima che Fiat sia autorizzata ad assumere una maggioranza della proprietà
azionaria in Chrysler.
Inoltre, tale patto richiederebbe un investimento addizionale di dollari dei contribuenti, e vi sono
numerosi ostacoli da superare perché funzioni. Mi sono impegnato a fare tutto il possibile per
vedere se un patto possa funzionare in un modo compatibile con gli interessi dei contribuenti
americani. Ed è per questo che daremo 30 giorni a Chrysler e Fiat per superare tali ostacoli e
pervenire a un accordo finale – e noi provvederemo Chrysler di un capitale adeguato per
continuare a operare nel corso del periodo. Se esse sono capaci di raggiungere un solido patto
che protegga i contribuenti americani, noi prenderemo in considerazione un prestito di 6 miliardi
di dollari per contribuire alla riuscita del loro piano. Ma se esse e l’insieme degli stakeholder non
sono in grado di raggiungere un tale accordo, e in assenza di qualsivoglia altro vitale
collegamento, non avremo più la possibilità di giustificare l’investimento di altri dollari
provenienti dalle tasse per mantenere Chrysler in affari”.
Sono queste le frasi che il presidente Barack Obama ha proferito sull’auto e che riguardano
Chrysler
)
e il patto con Fiat. Le abbiamo trascritte (per leggere tutto il testo originale clicca qui
perché, comunque finisca la faccenda, sono un modello di discorso di un capo che vuole trattare
e fare politica ma più di tutto vuole il rispetto del suo popolo. Fiat è per Obama la casa
automobilistica che può collaborare alla soluzione dei problemi Chrysler. Un socio esterno è
indispensabile, una vera e propria leva che può sollevare la terza casa americana, ma deve
essere dotata, per funzionare, di una forza sufficiente e di determinazione ad agire. Avrà la Fiat
queste caratteristiche? Difficile dirlo, ma Obama le dà un aiuto, descrivendola in modo
lusinghiero. La Fiat del famigerato
Fix It Again Tony scompare e lascia il campo a una Fiat il cui management “ha realizzato
un’impressionante inversione di tendenza”; una Fiat che è portatrice di “tecnologia di
avanguardia”.
Obama esprime la volontà di risolvere i problemi dell’Illinois, lo stato che ha rappresentato a
Washington come senatore, del Michigan e di altri stati industriali. Tutti insieme, li considera il suo
collegio elettorale. Qui si costruiscono le Jeep e le altre automobili Chrysler con altissimi livelli di
produttività, al top negli Usa, 30 ore di lavoro per autoveicolo. Chrysler non deve morire, perché i
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suoi operai passati, presenti e futuri ne hanno ancora bisogno. Ma c’è l’altro riferimento
costituito dai contribuenti. Nel breve testo di Obama i contribuenti sono nominati almeno quattro
volte. Il presidente insiste, vuole convincerli, assicura di voler agire in loro favore. Anche loro
sono l’America; quella pulita, che paga le tasse, che non specula sui mutui delle case degli altri.
Per questo essi non devono portare da soli il peso degli errori e delle colpe dei banchieri e dei
faccendieri. Così promette che riavranno i soldi che sono stati costretti ad anticipare per il bene
comune, per salvare l’auto americana. E il presidente ripete che l’American Way of Life passa
anche dal salvataggio delle tre grandi; senza di loro l’America non sarebbe più la stessa. E
ripete che “se esse (Fiat e Chrysler) sono capaci di raggiungere un solido patto che protegga i
contribuenti americani, noi prenderemo in considerazione un prestito di 6 miliardi di dollari per
contribuire alla riuscita del loro piano”.
Obama parla un linguaggio semplificato al massimo e propone le azioni che chiunque al suo
posto, con un po’ di esperienza, cercherebbe di fare, sia pure in misura ridotta, all’interno della
sua comunità di riferimento, tra i suoi amici, di cui si fida e che vuole si fidino di lui.
E’ chiaro l’interesse generale per l’auto, l’auto americana vera, simbolo del paese e della sua
voglia di muoversi, alla ricerca di libertà e spazio. Ma in cosa consiste il piano di salvataggio
dell’auto americana? E davvero Fiat può essere il
deus ex machina? O forse bisognerebbe dire il
deus in machina, in questo caso? Il compito è spiegato nella frase che segue. “Ma se esse e gli
stakeholder non sono in grado di raggiungere un tale accordo….” Allora tutto cade. Fiat ha
dunque il compito precipuo di convincere gli
stakeholder, i portatori di interessi, cioè in questo caso il sindacato americano dell’auto, ad
accettare un patto, peggiore di ogni altro patto che il sindacato abbia mai firmato. Sergio
Marchionne è l’uomo speciale capace di convincere, forse ricattare, in ogni caso trattare in modo
convincente con gli stakeholder. Poi, certo, porterà anche i suoi motori e monterà le sue auto,
leggere e poco inquinanti, a confronto delle pesanti automobili americane, consentendo un
risparmio di miliardi quanto al modello e un progetto produttivo semplificato ed efficiente, anche
se piuttosto maturo.
Obama non può non sapere che Fiat non ha tecnologia avanzata per l’ibrido o l’elettrico; quindi
è inutile chiedergliela o aspettarsi che la offra. Occorre un’auto normale da fare in metà tempo,
convincendo i sindacati americani che conviene puntare su un mezzo risultato positivo con Fiat,
piuttosto che spingere per un fallimento completo che darebbe forse vantaggi ai lavoratori in
pensione, ma sacrificherebbe in modo difficilmente recuperabile il lavoro di fabbrica dei loro figli.
Dopo aver sentite, o immaginate, le parole di Obama, gli azionisti Fiat si sono messi in agitazione
e il titolo ha guadagnato in due giorni il 40%. Essi forse pensano di avere in tasca e gratis la
famosa casa americana. Pensano al Michigan come al paese di Bengodi, pieno di giochi e
divertimenti, con gli zecchini che pendono dall’albero. Pensano di ricevere subito come dote 6
miliardi, sia pure in dollari, pari a 3,6 miliardi di euro e pensano a Obama, buona fata dai capelli
turchini, un po’ minchiona che glieli darà. Pensano anche di dare una buona meritata mancia a
Marchionne; e di tenersi il resto.
Sì
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