Esercizi in laboratorio prima lezione: prendete le
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Esercizi in laboratorio prima lezione: prendete le
Esercizi in laboratorio prima lezione: prendete le mosse da un vostro compagno/a di corso e montateci su una storia. Mezz’ora di tempo. Era la parte più seccante di tutta la serata. Scrivere, scrivere, scrivere… Gli sembrava certe volte di ritornare indietro , incastrato nei banchi del liceo dove non poteva fuggire dallo sguardo del professor Paccini, che aveva capito tutto fin dalla prima volta che aveva messo piede in quella classe. “Non riuscirai mai a fare qualcosa di decente con la penna tra le mani” gli aveva detto – o meglio gli avrebbe voluto dire perché certe cose non è possibile farle pubbliche, ma glielo aveva fatto capire con quello sguardo da rapace , l’unghia del mignolo esageratamente pronunciata come un artiglio che fende l’aria, il plettro di un chitarrista pronto al suono. Il ragazzo aveva somatizzato oltre misura, portandosi dietro quella sensazione per gran parte della vita; e nonostante avesse partecipato a svariati corsi di scrittura creativa non era mai riuscito a togliersi di dosso quell’alone di sfiducia nei propri mezzi che il suo vecchio professore era riuscito ad infondergli in ogni piaga della sua anima. Poi aveva reagito bene, alla fine, facendo di necessità virtù; e se non poteva sconfiggere un nemico più grande di sé aveva deciso di attaccarlo di lato, cambiando le armi. E se scrivere era una debacle, un piegare il capo al nemico irridente la lettura era diventata il suo credo, la sua espressione migliore, quello che lo rendeva sicuro e vincente sia che leggesse Madame Bovary o l’uomo dal fiore in bocca. Il foglio si librava nell’aria inseguito dalla mano rimasta libera, una farfalla che svolazzava leggera cullata dal vento emanato dal picaresco lettore. Ah se adesso ci fosse stato davanti a lui il signor Paccini, lo sbeffeggiatore di tanti anni fa, l’avrebbe fatto ricredere sulle sue capacità, su come era riuscito a fare di necessità virtù. Si sarebbe fatto piccolo piccolo mentre lui si alzava in volo; gli avrebbe piantato gli artigli della fantasia in quella testa spelacchiata e gli avrebbe tranciato di netto quell’unghia che non aveva mai sopportato, che sapeva così tanto di una persona sporca, sporca nell’anima. Stefano Valacchi 12 / 01 / 2015 REGISTRO Era seduta in salotto nella vecchia poltrona di cuoi con le gambe distese sul puf indiano, la sigaretta in bocca e il suo quaderno in mano. La stanza puzzava di fumo e dalla camera di Leo venivano le parole smozzicate di un rap. Anna fissò con aria stranita il quaderno, sospirò, strizzò gli occhi e cominciò a scrivere. Lo psicoterapeuta era stato chiaro: doveva analizzare con metodo le sue giornate, registrare tutto: eventi, sentimenti, emozioni... era necessario non trascurare nulla: Il metodo era essenziale...un passo alla volta. “Il mare si affronta un'onda alla volta” Aveva scritto queste parole nella prima pagina del quaderno ed erano ormai una ventina di giorni che s'imponeva il compito: scrivere un preciso resoconto emotivo della sua giornata, così da arrivare preparata alla seduta di psicoterapia del venerdì. Anche quella sera Anna si mise al lavoro e scrisse: ”L'autobus delle 6 e 30 ha avuto un guasto. L'autista ci ha fatto scendere. Sono arrivata al lavoro con mezz'ora di ritardo. Risciacquata della caporeparto. Rabbia. Frustrazione. Alle 11 mi sono accorta che mi erano arrivate le mestruazioni. Dolore. All'una ha telefonato Luca per dirmi che l'assegno di mantenimento per Leo non può darmelo per qualche mese perché non ce la fa con le rate della macchina. Alle 17 ho beccato Leo a farsi le canne in camera sua con un amico. Litigata furibonda.Impotenza. Alle 22 scrivo il diario......porca miseria....ho finito anche le sigarette!!!! BEATRICE PUTTI 12 GENNAIO 2015 IL NOTAIO Le mani lunghe, affusolate tormentavano la penna. Raffinata come lui la sua penna. Grigia e nera la penna come grigia la sua camicia e nero il pullover. Si vedeva che proveniva da una famiglia di alta estrazione sociale. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Una pelle così rosea e priva di rughe nonostante non fosse più giovanissimo non poteva appartenere a chiunque. Con la testa piegata, mettendo in mostra i radi capelli, ascoltava la vecchia signora. Notaio. Come suo padre, come suo nonno e come il suo bisnonno. Certe cose sono ereditarie, come l'alopecia... Le sue lunghe mani cominciarono a scrivere. Scriveva, mentre con il il mignolo e il pollice girava e rigirava la fede sull'anulare. Quell'anello sembrava dargli un gran fastidio. La vecchia signora gli aveva esposto le sue volontà e ora lui le trasformava in atto notarile. La penna tormentata e la fede rigirata all'infinito sull'anulare dicevano la sua difficoltà a scrivere quello che la donna voleva. E forse non solo quello. Ma così fece. E mentre lei lo guardava silenziosa, lui scrisse. Quando ebbe finito, la signora lo ringraziò con le lacrime agli occhi, lo salutò, poi passò dalla segretaria e pagò il salatissimo conto. Ed uscì. Poco dopo anche il notaio andò dalla segretaria e la pregò di spedire immediatamente una busta. L'impiegata obbedì. Qualche mese più tardi la segretaria del notaio guardando il telegiornale all'ora di cena, vide un volto che le sembrò di riconoscere. Lo spiker diceva che una vecchia e famosa ereditiera era morta suicida perché non tollerava l'idea di spengersi morendo di tumore, ed aveva preferito accorciare le sue sofferenze gettandosi dall'ultimo piano della famosa clinica nella quale era stata ricoverata. Ma la cosa più incredibile era che la donna aveva lasciato un testamento nel quale aveva diseredato i suoi nipoti ( la vecchia era zitella e senza figli ) ed aveva lasciato tutto il suo patrimonio ad un certo Luigi Strada, detto Gino, ed alla sua fondazione Emergency). Nel testamento, redatto da un famoso notaio, ( e al notiziario intervistavano anche il notaio ) c'era scritto che la vecchia, che in vita sua non aveva mai avuto scrupoli, aveva conosciuto quell'uomo, quel benefattore, quell'eroe laico, durante un viaggio all'estero, a che da allora la sua vita era cambiata. Il notaio raffinato e pallido concludeva dicendo che la sua cliente aveva cercato in questo modo di dare un estremo contributo alla società, perché essendo ormai vecchia non poteva fare altro, e aveva chiesto che, con i suoi soldi, venisse costruito un ospedale in Sierra Leone. L'inquadratura televisiva faceva vedere il notaio con la camicia grigia e il pullover nero, che, mentre con una mano teneva la penna grigia e nera, con l'altra girava e rigirava la fede sul dito. Quell'anello sembrava dargli proprio noia...... Maria Paola Ruffoli COME A SCUOLA “Sono abituato a controllare ogni più piccolo movimento, ogni minima emozione. In ogni momento penso al momento che verrà, così un passo dietro l’altro arriverò alla mia méta, una pagina dietro l’altra fino a capire il mio futuro. Le righe vergate su questa carta rimarranno a descrivere la storia di …”. Questo sono riuscita a leggere sbirciando sopra la mano del mio vicino, nonostante tentasse di nascondere il suo racconto sono riuscita a leggere tutto. Come una volta a scuola, là a Testaccio. Ah Fa’, ma che te credi, che nun so’ bona a scrive un raccontino tutto mio? È che stasera nun so’ ‘n vena e allora cerco un po’ d’ispirazione. Ma er tuo temino nun m’aggrada, nun m’aggrada propio. E mò, che fai? Strappi la pagina, appallottoli er fojo? Fijo mio come sei permaloso! E allora, mò che t’ho letto, te lo vojo propio di’, te te devi da convince’ che nun poi controlla’ tutto, che la vita nun aspetta de disvelarte er futuro piano piano, nun te lassa er tempo de stilla’ la quinta carta. La vita è un corpo a corpo, una botta ar petto che te schiatta e manco te n’accorgi. Vedi, mò m’è venuta a trova’ la musa e se tu fossi stato bono, ora che so’ partita con le parole, ora io sì, io t’avrei permesso de copia’. Stavo propio pe’ scrive’ de te. Stefano Vallini gennaio 2015 UN ANELLO DI FUMO Sul posacenere gira lento un anello di fumo. Gilda con la prima boccata ha bruciato un quarto di sigaretta, l’ha poi appoggiata e si è ormai consumata da sola, la cenere ancora attaccata al filtro. Tiene la penna rossa nella mano destra mentre con la sinistra gira e rigira ciocche dei lunghi capelli neri e ondulati. Intanto gli occhi, sempre aperti e giocosi, corrono svelti sul foglio protocollo, sono bui nella luce limpida del sabato mattina, severi negli occhiali a punta. Gilda sfiora la montatura a pois bianchi e neri e per un attimo strizza un mezzo sorriso sulla sua bocca lunga. “Gli occhiali disegnati da Renato Zero” pensa “presi in quella boutique romana, rossa e viola …”. Gli occhi tornano al foglio e il suo tentativo di sfuggire a quel pensiero, che pesante vola sulla sua testa, sparisce. Sta leggendo l’ultima colonna del foglio. Non ha ancora scritto niente. La penna rossa è sempre immobile nella sua mano destra. Mentre la sinistra adesso tormenta i capelli, li tira, li avvolge, li strattona, si sfrega la testa. Sul tavolo, di fronte a lei, giace una pila di fogli protocollo segnati con numeri, punti esclamativi, frasi e domande. Finita l’ultima riga del tema Gilda si alza. Lascia cadere le scarpe, i tacchi battono a terra. Stringe i capelli sulla testa con un fermaglio. Apre la finestra. Prende la borsa. Rovista. Trova il cellulare. Cerca un numero, preme il verde ma poi stacca. Si accende un’altra sigaretta quando il vento fa volare la cenere della precedente. Non può pensare che Teresa, sempre silenziosa, Teresa sempre struccata, sempre un po’ sola, forse impaurita a volte, le abbia voluto scrivere quello, nel tema. Non sa che fare, chi chiamare, con chi parlare, se denunciare. Intanto il fumo impregna la stanza. Lucia Cosci BINARIO MORTO All’interno della stazione, sul lato destro del grande atrio foderato di freddi marmi giallastri, c’è la biglietteria, resa ancora più algida da un’impenetrabile muraglia di vetro che rende di fatto impossibile ogni comunicazione tra utenti e personale di servizio, i cui esigui rappresentanti si affannano quotidianamente in grottesche movenze mimiche accompagnate da sonorità che possono dirsi internazionali solo perché universalmente incomprensibili. Oggi, come molte altre volte, ai rari pendolari diretti ai paesi limitrofi o ai pochi turisti che ancora ignorano l’esistenza delle ben più rapide corse dei bus, si presenta la solita scena surreale: appiccicato al di qua del vetro della biglietteria un cartello con una scritta ben visibile “CHIUSO” e al di là del vetro, come protetto da una camera asettica, un impiegato che scrive al computer e che dà chiari segni di non voler interloquire con il resto dell’umanità. Eppure sono le 7 di sera e a quest’ora le stazioni, anche quelle più piccole, anche quelle che non hanno la fortuna di trovarsi sulle principali linee di comunicazione, di norma sono aperte. E per di più è Mercoledì, un normale e banale giorno feriale. Come tartarughe marine che tornando alla spiaggia non trovano le uova dei loro piccoli così gli aspiranti passeggeri si aggirano smarriti nel grande atrio di quel brutto edificio, per fortuna una delle poche testimonianze rimaste in zona della tronfia architettura fascista. “Chiuso? Cloose? Fermé? Geschlossen? Cerrado?” Tutti chiedono conferma e conforto sperando in cuor loro che la chiusura sia solo temporanea e la riapertura imminente. Lo chiedono all’uomo di là del vetro il quale sembra però far parte non di una normale biglietteria di una piccola stazione di provincia, ma di un universo parallelo lontano mille km da qui o forse di un immaginario luogo dell’iperspazio stellare. Impassibile, sta scrivendo un mail al computer il cui schermo lo ammanta in tralice di una luce fredda e bluastra che rende la sua figura ancora più diafana e spettrale. “Spett.le Direzione Regionale delle Ferrovie dello Stato. Faccio umilmente e doverosamente presente che anche oggi la linea ferroviaria Siena-Chiusi è bloccata. Oggi non si tratta di uno dei soliti guasti tecnici ma di un cinghiale di pura razza maremmana che ha inopinatamente deciso di attraversare il binario a 2,5 km dalla stazione di Rapolano terme esattamente alle ore 17,45, cogliendo in pieno il convoglio delle 17,30 che viaggiava con solo 15 minuti di ritardo. E’ davvero incredibile che un animale, che pur dovrebbe tenere alla vita, non si accorga di un treno che passa, così come è incredibile che la Direzione Regionale delle Ferrovie dello Stato, per la quale ho l’onore di lavorare da 24 anni, non si accorga che oramai i giorni in cui la coincidenza tra l’orario affisso ai muri e quello effettivo dei convogli è una pura rarità. Oramai la nostra attività principale non è più quella di fare i biglietti, né quella di dare informazioni (anche perché le lingue parlate dai viaggiatori sono diventate troppe e i corsi di aggiornamento sono stati sospesi da tempo per i consueti tagli di bilancio) ma è quella di placare le ire dei sempre più potenziali utenti della linea Siena-Chiusi e ritorno… non sempre garantito. Vi prego fate qualcosa prima che un giorno prendano d’assalto la biglietteria dove alberga l’ultimo avamposto degli unici esseri viventi contro i quali i viaggiatori possono in qualche modo sfogare la propria rabbia verso la Direzione Regionale delle Ferrovie dello Stato. Distinti saluti XY“ Terminata la sua quotidiana lettera di protesta, che variava ogni volta qualcosa in merito alla sintassi ma non ai contenuti, il bigliettaio, con piglio da eroe della Grande Guerra che esce per una sortita dalla sua trincea, esce dal suo asettico gabbiotto di vetro e affronta l’esercito nemico armato solo del suo coraggio e della sua professionale pazienza. Subito uno sciame di passeggeri mancati, chi implorante, chi perplesso, chi disperato, chi in italiano, chi in tedesco, chi in cinese, gli si fa intorno come un nugolo di mosche intorno a una carogna in un pomeriggio d’estate. “Non è colpa mia! Non è colpa mia! E’ stato un cinghiale!” “Vergognatevi – fa un uomo bassotto con due valige enormi appena dimesso dall’ospedale con ancora attaccata la maschera e a tracolla la bombola dell’ossigeno – la scorsa settimana era un fulmine e due mesi prima, quando venni per un controllo, era un guasto alla centralina elettronica!” “Ma cosa possiamo farci noi?! – si difende il bigliettaio – mica possiamo sterminare tutti i cinghiali della Valdorcia e della Valdichiana! E anche se fosse possibile sai le proteste di animalisti e associazioni e cacciatori…”. “E con chi dovremmo protestare?! – fa un abituale pendolare Siena-Arbia che ancora non si rassegna al fatto che quel breve viaggio lo compirebbe più velocemente a piedi – se telefoniamo al numero verde ci risponde sempre una voce registrata! Chi c’è sopra di voi? Chi dirige questa baracca?”. Poco più lontano, tra le ombre e le nebbie di un Novembre inoltrato, c’è un uomo sdraiato sul binario 2 e piange “Così non si può andare avanti… è la terza volta in un mese che tento il suicidio!”. Il bigliettaio decise che la misura ormai era colma. Si licenziò e si inventò un nuovo lavoro, un’attrazione da circo che attirò ben presto l’attenzione del pubblico e della stampa internazionale. Con puntuale precisione si faceva legare ogni sera alle 17,45 sul binario 2, cioè all’ora esatta in cui sarebbe dovuto passare il diretto Siena-Chiusi, e il treno, ovviamente sempre in ritardo, non passava e lui usciva tra gli applausi come un domatore del circo che ogni sera con sprezzo del pericolo infila la testa tra le fauci di un leone confidando nella bontà dell’animale. E anche quella sera, collegato in mondovisione, stava per ripetere il suo spericolato numero “Il suicida mancato”, quella trasmissione gli avrebbe ora consegnato un successo planetario. Si fece legare come al solito sulle fredde longarine del binario due e con un sorriso salutò le telecamere che lo collegavano con più di 300 milioni di telespettatori in ansia. Silenzio… nessun rumore… solo la solita nebbia novembrina… e anche quella sera il treno delle 17,45 non passò! Passo però quello delle 16, 45 che viaggiava con un’ora esatta di ritardo. Francesco Burroni AL PARCO Ti ricordo, seduta sulla panchina, il figlio che giocava poco lontano e tu che, a dispetto del freddo, delle tue mani arrossate, scrivevi. Per alcuni mesi, nelle giornate fulgide dell'autunno e in quelle opache dell'inverno, eri là, sotto il platano, perché, io supponevo, dovevi svolgere il tuo ruolo materno, richiamare, aggiustare, offrire un bacio. Ma tu, io pensavo, eri altrove. Eri in quel raccoglitore dalla foderina fiorita, e in quei gesti nervosi della penna. Lettere, immaginavo, io che avevo preso l'abitudine di ammirarti in silenzio, dalla panchina di fronte, inosservato. Avrebbe potuto continuare tutto così meravigliosamente, tu avvolta dalla sciarpa protettiva e colorata (il piccolo abituato a se stesso) e io che potevo posare il mio sguardo su di te. Ma la stagione, pericolosamente, si intiepidiva, e insulsi frequentatori cominciavano a sciamare fra di noi, mi impedivano la tua vista. Distrazioni, troppe distrazioni. Scrivevi meno di frequente. Cominciai a soffrire al posto della persona a cui non scrivevi più così tanto, anzi, cominciai a provare l'acuta sensazione che tu non mi scrivessi più. Ti dicevo con lo sguardo, del tutto ignorato: - Ti prego, fammi sapere! Sentivo il pericolo dell'imminente estate, della fine. Così quel giorno arrivai prestissimo al parco, mi avvicinai, con passo diretto e senza inciampi, alla tua panchina ancora deserta, e vi deposi una lettera per te. Lucia Burzi 12 Gennaio 2015 Esercizio a casa: osservate una persona che non conoscete, nei dettagli (come si muove, come si veste, come parla...) e immaginatele intorno una storia. Poi scrivetela. Regole: - l'azione principale si deve svolgere al passato - il personaggio deve essere il protagonista - ok sia la prima che la terza persona. Prima di uscire a cercare, o meglio, a farvi incontrare dal vostro personaggio riascoltate L'uomo dal fiore in bocca, purtroppo non è recitato da me e Francesco ma cercate di farvene una ragione. Il pezzo che ci interessa è dal minuto 3.00 https://www.youtube.com/watch?v=_GpOkgWG8k0 LA VITA STORTA. Lo incontrava in giro nel quartiere, quando faceva la spesa o tornava a casa in autobus. Lo riconosceva da lontano per quell'andatura incredibile che metteva ansia a chi lo guardava: sembrava un miracolo che su quelle gambe storte e rigide riuscisse ad avanzare ancora di un passo lungo il marciapiede. Aveva sempre qualcosa in mano, una busta con un po' di spesa, un giornale piegato, un libro e sembrava che quell'ingombro gli fosse utile per bilanciare il movimento scoordinato delle gambe , lo aiutasse a mantenere l'equilibrio mentre si spostava. Lei riusciva a distogliere lo sguardo da quelle povere membra solo quando gli arrivava vicino, allora era attratta dai suoi occhi profondi e lontani, notava le rughe leggere sulla fronte, la bocca sottile che qualche volta si apriva per un secco saluto. D'inverno l'uomo portava quasi sempre un vecchio loden beige Era un bel cappotto e anche se gli pendeva addosso come una vecchia camicia su uno spaventapasseri, gli stava bene: il colore s'intonava alla carnagione scura e ai folti capelli neri che portava lunghi e scomposti e l'aria vissuta che aveva gli si addiceva e contribuiva ad accrescerne il fascino un po' decadente. Lei si scoprì ad osservarlo ogni volta con più attenzione finché gli sembrò di intuire una nota stonata, una dissonanza e si trovò a pensare quanto male si accordasse in quell'uomo misterioso la parte di sotto con quella di sopra, il tremolio delle sue gambe deformi con lo sguardo fermo dei suoi occhi magnetici. Allora, sempre più incuriosita, provò ad immaginare quale fosse la sua storia, da dove erano partiti quei primi passi tremolanti, che cosa avevano visto quegli occhi scuri. Il gioco andò avanti per un po' di tempo, fino ad un pomeriggio quando, in una sala d'attesa di un medico, ascoltando per caso una conversazione fra due anziane signore, lei lo riconobbe nelle loro parole. Non si meravigliò quando capi che la narrazione che lei gli aveva costruito addosso si avvicinava moltissimo a quella vera. Figlio di stimato professionista, tetraparesi spastica dalla nascita, cervello di prima categoria, madre troppo protettiva..... fuga da casa. Aveva sbagliato solo la laurea...aveva pensato ad un'artista, un letterato, un musicista....invece era arrivato ad un passo a laurearsi in fisica quantistica. Forse si era stancato di cercare un'equazione che gli raddrizzasse la vita. Beatrice Putti Gennaio 2015 LA PRINCIPESSA Una cuffietta sulla testa, come prescrive la legge, che andava a vantaggio della sua alopecia; un volto magro come il resto del corpo in cui gli occhi celesti, quasi trasparenti, luccicavano dando l’idea della sua indole di bionda, confermata dalla sua pelle chiara, bianca e dalle sue mani candide; mani dalle dita lunghe che prendevano formaggi, olive, pane, con delicatezza e maestria, utilizzando le pinze alimentari come strumenti per produrre musica, sfilando con indice e pollice la carta per avvolgere gli alimenti, dal pacco alla sua sinistra, in una torsione da ballerina, in un gesto simile alla figura di una danzatrice di tango eppure algida, per niente sensuale, fredda e dolce come una principessa del nord. Guardava appena i suoi interlocutori aldilà del banco, così come un artista sul palcoscenico, concentrata nelle sue movenze lavorative: nel soppesare il formaggio; digitare poi con l’indice da pianista la piccola tastiera sulla bilancia, concentrata sui suoi numeri; e poi con velocità impercettibile, ma ben controllata, girare l’involucro di 90°, prenderne un lembo e piegarlo a metà sul formaggio, trattenerlo con le dita della sinistra ben stese e permettere alla destra di piegare sopra, l’altra metà, far scivolare le dita da sotto la carta e afferrare i lati esterni per piegarli a loro volta; e infilare velocemente l’involucro dentro un altro sacchetto per la gioia dei designer di packaging e la morte del pianeta; dirigersi con decisione in un passepied alla cassa e comporre di nuovo il motivo musicale del totale e finalmente alzare la testa verso il cliente per il primo contatto. Questa volta sono due occhioni neri in un corpo di bassina mediterranea a fissare la sua attenzione, sintonia di una stessa nota sofferente eppur ritmicamente viva, per cui lo scambio delle pietanze, seppur sterilizzato dai guanti di lattice, diventa l’occasione di un contatto, che forse anche l’altra avrà percepito? Impetuosamente vorrebbe sapere tutto di lei e anche dirle tutto; le parole di attenzione che lei ha verso l’amica le rimbalzano in primo piano, permettendole di spiarne il carattere e l’animo. <<Prendi qualcosa anche te?>> <<no,no ho già mangiato, ti faccio comp->> <<Sono sicura che quei biscotti ti piacciono>> Cambio veloce di sguardo, occhi puntati su di lei come due luci teatrali: << Mi dai anche un po’ di quei biscotti che il dolce fa sempre bene>> Nella mancanza assoluta di gesti affettivi della sua vita queste piccole attenzioni sono come emozioni che ridanno speranza, la vede mentre l’ aspetta all’uscita dal lavoro, lì in piazzetta con quel cappello che la rende simpatica e nasconde gli anni che ha, parecchi più di lei, esprimendo una natura leggera che con la sua austerità, diciamolo tristezza, si accompagnerebbe bene. Lei vorrebbe solo affetto, amore mai conosciuto nei termini maschili ma solo attraverso le carezze, i gesti dolci, le condivisioni infantili della sua amica Angelica allontanata con forza come se il suo affetto fosse lebbra ripugnante: a solo 12 anni. <<Quanto hai detto, 4 euro?>> <<No 8, 8 euro e quaranta>> <<Ecco ce li ho precisi, se ti fa piacere>> <<Grazie, sì, buona serata>> <<Buona serata anche a te e buon lavoro… Dai Caterina …gentili in questo posto, vero?>> Allora forse tornerà, e lei avrà il coraggio di dirle che l’ha tanto aspettata continuando a spostare la sua fantasia dal bancone all’uscita, a sbirciare nella piazzetta fuori dalla vetrina se un’Angelica l’aspettasse. Elisabetta Casagli LE TERME Niente di meglio delle terme per abbassare la pressione. Prima o poi il sangue sarà spinto tanto forte nel mio corpo da farmi esplodere. Colpa dell'età o dei tanti casini della mia vita. Meglio se di tutti e due insieme. Per completare l'opera ci metto anche un notevole numero di caffè.....tanto per azzerare l'effetto delle pasticche che prendo... Non è che mi voglia proprio male....è che....i casini non riesco a risolverli, con l'età è una battaglia persa, e il caffè...quello mi piace, e sono rimaste così poche le cose di cui godo... Ma cerco di tamponare con il Losartan e con le terme. E allora così male non mi voglio... Appena entrata nell'acqua lattiginosa la notai subito. Era in coppia, e le coppie, alle terme, hanno sempre attratto la mia attenzione. Mi sono sempre domandata, visto che io ci vado da sola, cosa potesse succedere al riparo di quella opalina massa liquida. Ma il volto di quella sconosciuta aveva qualcosa di familiare. Mi sentii subito attratta da lei e cercai di posizionarmi il più vicino possibile. Me lo aveva detto il mio psicoterapeuta:" è scientificamente provato che siamo attratti dalle persone i cui tratti, i cui modi, ci risultano familiari e perciò conosciuti". La nostra psiche ne è rassicurata, anche se questo non sempre è bene per noi, (- per inciso- da qui nascono molti dei sopracitati casini della mia vita). Rovistai nella memoria ( anche quella un pò fallace per l'età), ma non riuscii a trovarci niente. Era una donna di mezza età, comune sotto tanti aspetti, ma mi sembrò attraente in modo fuori dal comune. Mi limitai a guardare il suo volto, visto che il resto spariva sotto la coltre biancastra dell'acqua. Niente di speciale: capelli scuri e mossi, pelle fine e rugosa, qualche macchia scura regalo dell'età ( anche per lei implacabile ). Ma questo non sembrava causarle disagio. Sorrideva. Le rughe che si formavano intorno agli occhi non solo non la imbruttivano, ma sembravano ali di farfalla che le arricchivano lo sguardo. Quelle ai lati della bocca impreziosivano il sorriso. LA BOCCA. Ecco cosa mi era rimasto familiare: la bocca. Grande, bellissima, come un lungo taglio orizzontale che lasciava scoperte due file interminabili di denti. In un millesimo di secondo mi ricordai: CAMERON DIAZ. Quella donna era Cameron Diaz da vecchia. Più bella che da giovane, perché alla bellezza si aggiungeva il fascino, che non aveva bisogno di trucchi e di ritocchi per essere eterno. Il fascino è l'unico regalo che l'età può fare. Ma solo alle persone intelligenti. E lei doveva esserlo. Il suo compagno l'abbracciava da dietro e le parlava all'orecchio. Non c'era niente di osceno in quell'abbraccio, neanche di minimamente spinto. Solo tenerezza, rispetto e ammirazione. Forse l'amava, ma di certo la ammirava. L'ho invidiata, perché non è da tutte le donne suscitare tali sentimenti in un uomo e per di più mostrati così palesemente in pubblico. Tanto più se l'uomo, come in quel caso, è molto più giovane di lei. Qualche parola giungeva al mio orecchio"....tuo matito avrebbe voluto l'amante e te....ma tu...." Lei rispondeva e io non capivo, ma la sua bocca continuava a sorridere anche mentre parlava. Il suo sorriso era uno stato naturale, non un atteggiamento momentaneo. Poi lei uscì dall'acqua e io guardai il suo corpo. Il bikini a pois metteva in mostra un fisico asciutto con un punto vita ancora ben segnato. Da dietro si sarebbe potuto dire che aveva trent'anni, invece dei sessanta che io le attribuivo. Ma certamente non aveva avuto figli. Perché i figli, la prima cosa che ti tolgono, anche se te ne danno infinite altre, è proprio il punto vita. Pensai che quella donna dovesse avere un lavoro importante. E la vidi. La vidi in tribunale, con toga. La vidi entrare nell'aula mentre tutti si alzavano e la chiamavano Vostro Onore. UN GIUDICE. Quella donna poteva essere solo un giudice. Se mi fosse capitato qualche guaio avrei voluto essere giudicata da lei. Perché nella sua vita sicuramente aveva giudicato molte volte, ma mai senza appello. Le riconoscevo istintivamente una comprensione e un'autorità quasi materne, a lei, che non doveva mai essere stata madre. Forse per quel sorriso, per quelle belle rughe, per quella serietà nell'aspetto e nei modi così inusuale oggi nelle donne non più giovanissime. Quella sobrietà che dimostrava nell'avere tante belle cose ( compreso il compagno ), senza però ostentarle. In una parola: tanta dignità. Ma siccome lei era uscita dall'acqua, anche io uscii. Sentivo che la mia pressione si era abbassata e io mi ero finalmente rilassata. Maria Paola Ruffoli FRANK Lo trovavo tutte le mattine al bar, in piedi davanti al bancone, che beveva tutto d'un fiato un caffè ristretto: "mi raccomando, moolto ristretto." Diceva sempre, con un accento marcatamente inglese. Poi rotolava via dal bar, andatura un po' claudicante, brandendo una grossa borsa di pelle. Somigliava come una goccia d'acqua a Peter Falk, e forse per questo mi ispirava un'enorme simpatia. Tutte le mattine cercavo un pretesto per parlarci, ma sembrava che non avesse tempo per le chiacchere, tutto preso nei suoi pensieri. A volte, mentre aspettava il caffè, scuoteva il capo, o fissava un punto nello spazio, come se si sforzasse di ricordare una cosa molto importante. Pare che facesse il medico veterinario comunale. Un giorno dovevo consegnare una raccomandata alla fattoria di Pina e, mentre prendevo il caffè di rito con la padrona, vidi arrivare una panda 4X4, bianca, vecchia. "E' Frank, è Frank. Ragazzi è arrivato Frank. Presto, andate a prendere tutti i fogli". Pina con un salto scese dalla sedia e andò incontro alla macchina. Scese lui, il Peter Falk della colazione, stropicciato come si presentava al bar. Strinse la mano a Pina, due chiacchere di rito. Si tolse con fatica la giacca e si mise uno spolverino un tempo bianco. Fece un fagotto della giacca e la buttò dentro alla macchina. Era la mia occasione per conoscerlo, quindi mi avviai anche io, zitta zitta, dentro alla stalla. C'erano una decina di mucche, metà a destra e metà a sinistra, sembrava che lo conoscessero perché non appena entrò dentro iniziarono tutte a muggire: Buongiorno ragazze, come state? - Chiese Frank. Le passò in rassegna una ad una, guardando bene gli occhi, misurando loro la temperatura, guardò sotto agli zoccoli per vedere quanto venivano portate fuori. Prese un campione del latte da portare a analizzare, lesse tutte le carte che gli furono portate. -Come sta Jack?- Chiese a Pina. Jack era il pony della fattoria, un giorno cadde su un vetro e aveva una brutta ferita in una gamba. Pina glielo portò a far vedere: il pony aveva una zampa fasciata e zoppicava. -Mmmm, Caro mio, fa sempre male, vero?- Gli dette una forte pacca sul collo- Devi avere pazienza, e imparare a mettere i piedi in posti giusti. Portatemi tutto, per favore. Vediamo un po' come sta la faccenda. Gli portarono un secchio con dentro l'amuchina, betadine rosso, cotone e una fascia. Frank carezzò il petto dell'animale, poi si mise in ginocchio mentre continuava a carezzarlo, scese fino alla fasciatura, e piano piano, come se lo stesse sempre accarezzando, svolse la fascia. La gamba era gonfia e si vedeva un'enorme crosta, molto spessa. Lentamente prese l'amuchina e la versò sul cotone finché non ne fu pieno e gocciolante. A quel punto iniziò a sfregare sulla crosta, con l'intenzione di portarla via. -Perché gli toglie la crosta? - non riuscii a trattenermi. Frank, alzò per un attimo la testa per veder chi gli aveva fatto al domanda, fino a quel momento non mi aveva notato. Poi la riabbassò e continuò la sua operazione. -Vedi, il sangue coagula troppo velocemente, la ferita si chiude, ma l'infezione lavora sotto e dentro. Per questo si deve togliere la crosta e pulire la ferita. Hai capito? - Mi chiese guardandomi ancora. Io riuscì solo a fare sì con la testa. Quando il cotone era sporco, ne prendeva di pulito, lo impregnava con l'amuchina, e continuava. Alla fine era rimasta solo carne viva, a tratti biancastra, a tratti rosso fuoco. - Vedi qua? questo bianco? E' l'osso. Il ragazzo non è stato molto attento. Dette un'altra pacca al pony che stava immobile. Io mi sentivo al settimo cielo, stava parlando proprio a me. Magari la prossima mattina al bar mi avrebbe salutato. -Adesso bisogna far spurgare la ferita. Iniziò a fare una leggere pressione a circa 10 cm sotto la ferita, e poi iniziò a spingere con il pollice in alto. Come quando si strizza il dentifricio ormai finito. Ripeté l'operazione molte volte, da basso verso la ferita, da sopra la ferita fino in basso. Asciugava il siero che ne usciva con del cotone imbevuto sempre di amuchina. Poi prese il betadine e lo strizzò sulla ferita. Lo strizzò anche sul un po' di cotone e tamponò il taglio. Alla fine prese un enorme pezzo di cotone e lo intinse di betadine, lo appoggiò su tutta la gamba, tenendolo con una sola mano. Con l'altra mano iniziò a avvolgere la fascia pulita: faceva rotolare la fascia sulla zampa, ogni giro cadeva a metà di quello precedente. Alla fine si alzò, lentamente, appoggiandosi al pony. Continuava ad accarezzare l'animale. -Grazie dell'assistenza- Mi disse. Poi si girò verso Pina: -Ancora non bene. Ripetere tutti i giorni. Andò via, salutando con ampi gesti della mano. Maria Teresa Malatesta Fisico asciutto, occhi azzurri, pelle chiara appena increspata da poche rughe, capelli radi e grigi; ti guardava dritto negli occhi con poche parole ma cortesi ed essenziali. Lavorava tutto il giorno in una piccola stanza che prendeva luce dalla porta, che si affacciava su una piccola piazzetta a forma triangolare riparando scarpe, passando si sentiva il ticchettio del martello con il sottofondo di una piccola radio spesso disturbata. Era riservato, difficilmente si poteva vedere un campanello di persone a confabulare piacevolmente nella sua bottega anche se situata in un borgo, dove le persone si conoscono e spesso si fermano per strada a scambiarsi cortesi formalità. Si sa che proveniva dalla Sicilia che aveva lasciato anni fa insieme alla giovane moglie e a tre figli. La Sicilia, terra difficile e complessa, terra di mafia e di omertà, culla di cultura e di bellezza, non era il luogo dove voleva fare crescere i propri figli. Con il cuore cupo per il forte dolore di lasciare la sua amata Sicilia, i suoi affetti ma con la fiducia di aprire per se e propria famiglia una vita più dignitosa e con più opportunità. Erano partiti una mattina di primavera con il mare leggermente increspato riscaldato da un pallido sole che faceva capolino da bianche nubi all’orizzonte; i figli erano eccitati dal viaggio in nave che l’aspettavano, non riuscivano a stare fermi e parlottavano tra se, mentre i genitori si mostravano cupi ,consapevoli della tormentata decisione presa. L’imperativo morale era affrontare con dignità e compostezza le inevitabili difficoltà dell’immigrazione. Nel suo piccolo paese, in riva al mare, dove arrivava l’acre odore del mare in tempesta, riscaldato dal tepore dei raggi del sole anche in inverno, non c’era spazio per costruire il futuro di una persona onesta, doveva assicurare ai suoi cari una vita migliore, senza dover accettare difficili compromessi. La malavita imponeva le sue regole e le sue omertà, per avere in cambio un vivere quotidiano meno precario. Non c’era spazio per la ribellione, troppo solo e debole, l’unica strada percorribile era la via di fuga in terre lontane. Valeria Rocchi OLGA Olga è nata nel 1945; suo padre un anno prima era ritornato a casa, scampato alla guerra sul fronte greco, e lei fu considerata il più naturale regalo di una nuova stagione. Suo padre, come a tanti succedeva, si arrangiava con il lavoro; ma la guerra lo aveva reso scaltro e aveva affinato la sua capacità di comprendere situazioni e persone. Il commercio gli era entrato nel sangue e non importava quali fossero le merci, se gomme di auto dismesse, o sacchi di farina o vestiti, comunque ne sapeva ricavare dei buoni profitti. Olga nei primi anni stentava a crescere, e si ammalava facilmente nella casa umida di città. Così fu mandata in campagna dagli zii per respirare l'aria buona e riprendere l'appetito, come si faceva allora. Trascorse la prima infanzia in mezzo al rumore caloroso di una famiglia contadina, senza troppo controllo, che i grandi avevano troppe faccende da sbrigare. Oggi, se ci ripensa, di quegli anni ricorda, più di tutto, la libertà totale, quasi estatica, di camminare e correre a piedi nudi. Quando Olga divenne una ragazzina, la famiglia teneva stabilmente due negozi: uno di ricambi di automobili e un altro di merceria. Era intuibile quale dei due sarebbe spettato in futuro ad Olga e quale a suo fratello. Frequentava la merceria con la curiosità operosa dei bambini e con la convinzione che quel mondo colorato di nastri, bottoni, stringhe, cerniere, fosse l'unico possibile e desiderabile; che quel palcoscenico della vendita, con tutta quella alacrità dei commessi, quelle gentilezze elargite alle clienti e le quinte dove erano stipate e ordinate tutte le merci, con quegli odori di legno e polvere, non aspettasse che lei. E così andò. Olga, finito l'istituto professionale, iniziò ad imparare il mestiere e nel giro di qualche anno seppe dirigere il negozio praticamente da sola. Aveva imparato presto che ogni settore doveva essere conosciuto, perciò curava personalmente gli ordini, avrebbe saputo dire con un'occhiata cosa mancava in magazzino e sapeva indirizzare e convincere le clienti. Ogni tanto stava alla cassa. I commessi non avrebbero potuto dire di essere sempre controllati, ma sapevano che niente sarebbe sfuggito ed erano spinti, insensibilmente, ad agire nel modo più opportuno. Piccola di statura, i fianchi troppo stretti forse, ma una bocca ben disegnata con un'espressione di sfida che poteva piacere, e quegli occhi scuri e mobili. Si disse di un primo fidanzato, meridionale. La sua voce era diventata più leggera, si assentava più spesso dal negozio, rientrava senza mostrare apprensione. Poi probabilmente i litigi. Olga non era tipo da confidenze, ma ci furono periodi in cui alla mattina arrivava con gli occhi gonfi di una notte insonne. Poi conobbe Aldo, si dice tramite una parente. Lui si è rivelato negli anni la persona giusta. Aveva il suo lavoro sicuro di impiegato statale, e ogni tanto andava a negozio, ma sapeva stare al suo posto, sembrava sempre di passaggio, anche se si tratteneva per ore. Anche se aiutava, aveva la capacità di far apparire che il suo contributo non era fondamentale. Se si è preso qualche distrazione, non è mai emersa veramente, e sì che a negozio ne sono passate di belle ragazze. D'altronde anche Olga ha ceduto a qualche storiella balneare, quando, da sola, trascorreva il mese al mare con i figli piccoli. Ma più per avere argomenti di conversazione con le amiche che altro, quasi come un adeguamento al cambiamento di status. Un po' come costruire la villetta nel quartiere più borghese, accanto alla palazzina liberty dell'avvocato di solida e nota famiglia. Ora molte cose sono cambiate. I figli hanno scelto di non continuare l'attività, lei li ha aiutati ad andare a lavorare fuori. Il negozio è stato venduto. Comunque anche oggi, a quasi settant'anni, è ordinatamente occupata in molte faccende. Per esempio il venerdì mattina va regolarmente dalla parrucchiera. Infatti ora sta seduta di fronte allo specchio, con i capelli irrigiditi dalla tintura che le disegna una galetta marrone sulla fronte. La sua voce, rauca e disinvolta, fa da contrappunto a quella tenue e accondiscendente della parrucchiera. Sorprendentemente, ad un certo punto, trova accenti più spontanei e note più acute, che riescono a sovrastare il rumore del phon. -Sì, povera donna, mia zia, sai quella che stava laggiù lontano, fuori porta, ora è in casa di riposo, finalmente l'ho trovata una adatta a lei. Olga enumera tutte le operazioni necessarie alla sua cura, meticolosamente, con tenerezza. Dice di stare attenta a tutti gli accorgimenti per farla star meglio, le sue rughe si animano in un'espressione commossa. La parrucchiera dà gli ultimi buffetti: -Ecco, a posto! Allora Olga erge un po' la testa e osserva l'acconciatura che sembra scolpita, comprime i ricci che gli sembrano appena scomposti alla base del collo. E' sufficientemente soddisfatta. Si avvia alla cassa. Paga con i contanti, non si è mai convertita al pagamento con le carte. Mette la moneta su bancone e striscia gli spiccioli per contarli uno a uno, perché un centesimo più un centesimo ne fanno due, e un altro tre, e così via. Lucia Burzi 25 Gennaio 2015 IL SOCIALONE Tutte le mattine Licia, attraversando a piedi la città, per andare a lavoro, incontrava sempre gli stessi uomini, donne e ragazzi che facevano il percorso opposto al suo, per effetto del solito orario e della quotidianità del tragitto questi incontri avvenivano sempre negli stessi punti della città. Queste persone erano diventate parte del suo mondo tanto che sapeva di essere in anticipo o in ritardo se non le incrociava al solito posto e, da donna ben educata, aveva preso l’abitudine a sorridere, ricambiata, a questi volti sconosciuti ma noti. Ogni regola ha le sue eccezioni ed anche Licia aveva trovato la sua e, da donna solare e curiosa qual era, non si arrendeva all’idea di quel tipo che, anzi, sembrava stizzito da questa sua “avance”, non conoscendone il nome, per il suo modo di essere scostante, in fondo un sorriso non costa niente, l’aveva chiamato “il Socialone”. Trovato, un soprannome voleva dargli un’età, ma fu un’impresa non da poco: giorno dopo giorno, mese dopo mese lo osservò accuratamente. Il viso era giovanile, aveva una profonda ruga d’espressione fra le sopracciglia ma il reticolo intorno agli occhi era appena accennato. Gli occhi avevano una triste insoddisfazione di fondo, ma, si presentavano ogni giorno con un colore diverso che spaziava fra le tonalità dal grigio all’azzurro, avevano un taglio allungato ed erano distanti fra loro, tanto da avere uno sguardo magnetico, un bel naso etrusco con molte efelidi, una mascella decisa, senza essere squadrata e importante, estate e inverno sempre ben sbarbato. Camminava per la strada con passo veloce, le spalle dritte e un incedere austero da sembrare, a distanza, più alto del suo metro e ottanta che, passandogli accanto, Licia aveva deciso che fosse. Per queste caratteristiche poteva essere, di primo acchito, un trentenne/trentacinquenne, anche se, non la convinceva dell’età il portamento, cambiava il giudizio di chiunque, e quindi anche di Licia, appena qualcuno avesse modo di vedere capelli o si soffermasse sul suo abbigliamento. Portava sempre il cappello, il suo preferito, lo metteva da metà settembre a tutto aprile, era una coppola scozzese colore dominante azzurro con quadri neri e grigi e un sottile filo verde, d’estate cercava di coprire la pronunciata calvizie con lunghi sottili capelli rosso Tiziano atteggiati a riporto. Licia pensava che un ragazzo sotto gli “anta” avrebbe optato per una rasatura a zero anche con una pelle chiara come la sua, che sapeva, per esperienza, difficile da trattare soprattutto per le scottature. “il Socialone” vestiva vintage, si dice oggi, con slanci demodé, in altre parole a Licia, pratica single quasi cinquantenne al passo con i tempi, a ogni “novità” che sfoggiava le sembrava di tornare bambina perché ricordava patrimonio della sua infanzia il loden blu con il piegone e i bottoni di cuoio che alternava in inverno al cappotto di Casentino verde con alamari di osso e pelliccia di volpe al collo, le sciarpe, sempre dentro il cappotto, incrociate sul davanti. In primavera sfoggiava completi in principe di Galles e pied de poule con trench beige e camicie bianche a righine, celestine e cravatte in tinta a piccoli disegni, le scarpe legate nere. Mai un giaccone, un giacchetto un dolce vita. D’estate si concedeva dei blu jeans con l’orribile piega fatta con il ferro e le maglie Lacoste anch’esse appena tolte dal cassetto ben piegate. In mano portava, qualsiasi fosse la stagione, unica concessione ai moderni must, una cartella nera Piquadro. Per questi indizi Licia pensò che potesse avere circa la sua età. Fantasticava su quest’uomo scostante, ieri, pessimista, pensando che fosse un contabile di pubblica amministrazione, divorziato e tornato a vivere in città con sua madre così da assicurarsi una “lavanderia” e un “ristorante” a buon mercato rinunciando a vivere e sbagliare sulla sua pelle. Da sempre, per sua madre erano gli altri o le circostanze che facevano fare o prendere al “suo caro ragazzo” le cose e le decisioni sbagliate. Su questo non ammetteva discussioni, e a chiunque la contraddicesse snocciolava con enfasi le sue verità: nessuno era generoso, intelligente e disponibile verso il prossimo come suo figlio e l’intera umanità, senza che lei lo proteggesse, se ne era e sarebbe approfittata. Oggi pensandolo un uomo che non riesce ad accettarsi nonostante sia all’apice della sua carriera professionale circondato da belle cose e successi ma che per la rigidità della sua famiglia dedita solo al dovere e la mancanza d’amore che l’ha circondato fin dalla sua infanzia non si sa amare e non è mai riuscito ad amare stando così alla finestra a veder passare le passioni delle vite altrui senza mai provarne delle proprie. Con la speranza che qualcosa a un certo punto faccia scattare nei suoi “file danneggiati” la voglia di provare e che “non è mai troppo tardi”. Quando lo incontrerà domani Licia, lo saluterà con un sorriso. Alex8 Piazza SS. Annunziata angolo via dei Servi Dipinte in queste rive Son dell'umana gente Le magnifiche sorti e progressive. (Giacomo Leopardi – La Ginestra) Pietro quella mattina si era alzato presto, molto prima del solito. Doveva incontrare quel tizio della Chil Post, il nome l’aveva subito dimenticato, che il giorno prima gli aveva scritto “ore 8 via batisti angolo piazza annunsiata”. Da più di un’ora era lì, in piedi davanti al piccolo bar di Via Battisti, con la fronte corrucciata, per la solita apatica ostilità verso il mondo e i pugni ficcati dentro le tasche, per l’aria fredda di quel giugno incongruente. Alle nove il telefono fischiettò “oggi no posso sara x 1 altra volta”. “Non ci sarà un’altra volta e cancella il mio numero. Stronzo!” aveva inviato, raschiando il fondo della già esausta prepagata. Trenta euro al giorno per distribuire dei volantini pubblicitari del cazzo, “prendere o lasciare” gli aveva detto quel figlio di puttana del Mattei, ecco come si chiamava quel bastardo che l’aveva lasciato lì come un coglione. Pietro aveva accettato, anche se sapeva che si trattava di un lavoro schifoso, pagato a nero come tutti i suoi precedenti, ma qualche soldo per non pesare più sulla pensione di sua nonna l’avrebbe tirato su e invece niente. Fanculo. Sempre con i pugni in tasca e mantenendo l’orizzonte dello sguardo all’altezza della punta delle scarpe, attraversò la piazza e andò a sedersi sull’ampio gradone di Palazzo Grifoni, in un angolo intiepidito da un sole bolso. “Cazzo, così mi sporco i pantaloni.” Quella mattina si era messo quelli di lino chiari e la polo migliore. Fanculo anche i pantaloni, si disse, e poi la sua vecchia sarebbe stata contenta di poterli passare in candeggina, per lei era una dimostrazione di affetto. Appoggiò la schiena alle pietre del palazzo e si mise ad osservare i rari passanti: qualche impiegato, studenti fiacchi come zombie e gli onnipresenti turisti giapponesi o cinesi, chissà. Quel fluire gli ricordò l’acqua che lo incantava con il suo scorrere, quando, da bambino, andava in riva al fiume, con in mano una canna da niente, e si perdeva dietro i temporanei mulinelli che la corrente formava e poi disperdeva. Alla fine, tutto quel via vai lo rilassò e i suoi occhi chiari si fecero sempre più piccoli fino a chiudersi. Lì riaprì per un dolore alla testa e uno spasimo all’osso sacro, ma ciò che lo fece uscire definitivamente dal sogno fu il puzzo di sudore e aglio del vecchietto che si era materializzato lì accanto. “Buongiorno, desideri un caffè?” A Pietro il “vaffanculo” si fermò a un millimetro dalle labbra, ma si trattenne e sorrise. Il vecchietto non stava scherzando, si alzò e gli indicò il bar di fronte. Pietro lo seguì senza proferire parola. Evidentemente il barista conosceva bene il suo mestiere, perché servì a Pietro un caffè normalmente schifoso, mentre, senza attendere indicazione alcuna, colmò di sambuca l’altra tazzina. Il vecchio pagò e si scolò la sua sambuca corretta al caffè tutta d’un fiato e così il suo alito, oltre che di aglio, odorò anche di anice. Pietro ci mise un po’ più di tempo a mandare giù il suo. Grazie, un buon caffè mi ci voleva proprio, Io sono Virgilio, Piacere io mi chiamo Pietro, Di dove sei, Di qua vicino e lei, Io abito qui, non mi sono mai mosso e ora sono in pensione, Beato lei, Perché beato lei, Perché non lavora, Anche te mi sembra che non fai niente, Ha ragione, non faccio proprio niente. Ad un certo punto della banale conversazione, il vecchio si bloccò e rimasero in silenzio a guardarsi negli occhi e proprio quando il ragazzo stava per capitolare e abbassare lo sguardo, l’altro gli disse: “Mi sembri messo proprio male, vieni ti presento qualche amico.” Gli appoggiò una mano sulla spalla e Pietro si stupì di quel contatto, ma non si ritrasse, nonostante l’odore. “Questo è Joaquin, sia la chitarra che il piede fasciato gli servono per lavorare.” disse Virgilio presentando un ragazzo sulla quarantina. Pietro ebbe la sensazione di trovarsi di fronte ad uno specchio deformante: vide, vent’anni nel futuro e venti centimetri più in basso, i suoi stessi capelli neri, i baffi sottili, le basette lunghe e folte a squadrare ancora di più una faccia angolosa, irregolare e seccata dal sole. “Ola” disse Joaquin, “io faccio serenate e canción de culla.” E così dicendo si avvicinò sorridente e zoppicante ad una mamma che cercava di convincere la bambina nel carrozzino a interrompere il suo pianto isterico. Fu la ninnananna più brutta mai cantata, ma la bambina, distratta da una tragedia più grande della sua, interruppe il suo pianto asciutto e accettò il gelato che la mamma le aveva comprato. Virgilio prese sotto braccio Pietro e al ragazzo quella vicinanza portò di nuovo l’odore del vecchio, ma non ne ebbe più il disgusto provato prima. Si avviarono in direzione del Duomo, che in lontananza mostrava la sua cupola tra i tetti dei palazzi, ma dopo pochi passi si fermarono davanti a un gruppo che sembrava partorito dal vecchio Ospedale degli Innocenti. Virgilio disse “E loro sono la famiglia Pierantozzi.” Il grado di parentela fu subito evidente perché la donna più anziana, riproduceva la statura quasi nana e la stessa ampia circonferenza della più giovane e questa era a sua volta strabica come l’uomo. La ragazza sembrava intorno ai venti, indossava una tuta nera di acrilico lucido di due taglie troppo piccola e al collo portava un doppio filo di perle, sicuramente di plastica, ma Pietro, appena notò quel dettaglio, decise che dovevano essere vere. ”Ciao” disse Pietro rivolto a tutti e tre, ma in particolare alle perle. E lei subito “Oggi è il mio compleanno” “Auguri” “Grazie” “Te lo hanno fatto il regalo?” “Per cosa?” Poi, alzandosi leggera sulla punta dei piedi e tirandolo a sé per il colletto della polo, gli stampò un veloce bacio sulle labbra, asciutto e caldo, dolcissimo. Salutarono la famiglia Pierantozzi e tornarono indietro verso la piazza: “Ah, eccovi qui. Questi sono Beppe e Italo.” I nuovi salutarono con un cenno e un sorriso e continuarono a parlare tra loro. Virgilio spiegò: “Beppe studia architettura da sempre e Italo non ha nè lavoro né casa e dorme dove capita.” Tra i due era in corso una sfida a base di ricette, i sughi e le zuppe bollivano e schizzavano i loro eccessi sugli spettatori, mentre tutt’intorno si spandeva la consolante morbidezza di creme e cioccolate. Le stoccate dei duellanti si fecero più profonde e i sapori evocati riaccesero ricordi di altri tempi e di altri luoghi, soprattutto Italo sembrò accusare il colpo quando i cibi tornarono verso la sua infanzia, si fece silenzioso e si ritirò nel suo angolo. Così la cannella e l’origano evaporarono via e di nuovo tornarono gli effluvi di sudore e calzini stantii. A Pietro i sapori e gli odori evocati dai due dovevano aver confuso l’olfatto, perché quando Virgilio si avvicinò percepì distintamente un profumo di petali di rose. Sarà stato perché, a parte il caffè di poco prima, non metteva nello stomaco niente dalla sera precedente, sarà stato per il freddo che aveva patito, ma Pietro ebbe la precisa sensazione di un vuoto dentro e fuori di sé e Via dei Servi iniziò a ruotare tutt’a torno. Virgilio era lì accanto e lo sostenne facendolo sedere di nuovo sulla panca di pietra serena, e piano gli disse: “Stai tranquillo Pietro, questo stordimento che adesso ti confonde è normale, toccare da vicino la vita degli altri fa questo effetto. Vedi questo fiume di impiegati, avvocati, commercianti che come acqua scorre e non lascia segno, loro sono solo comparse irrilevanti per la storia. Ma poi ci sono gli altri, i disperati che portano sul palcoscenico l’amore, la compassione, la pietà, quelli che fanno le guerre e disegnano la geografia, quelli che portano la conoscenza, la pazienza e la pazzia. Li puoi riconoscere facilmente, hanno piedi carichi di chilometri, sporchi, scalzi o con leggere infradito di plastica, unghie sfatte, divelte o pitturate di blu, come il tossico che usciva dal bagno mentre prendevamo il caffè. Hanno stinchi segnati, braccia trafitte, ginocchia sbucciate per le troppe preghiere fuori dalle chiese sbarrate. Il più normale parla da solo e regala le poche briciole del suo pasto ai piccioni. Alcuni di loro, gli amici che hai conosciuto prima, sono la mia famiglia, abitano la mia stessa casa, occupano il posto dei figli che non ho mai avuto e come i figli ogni tanto qualcuno di loro sparisce, finisce in galera o trova uno straccio di lavoro in qualche buco nel mondo, al loro posto altri arrivano portando nuove storie.” Si fermò un momento e poi aggiunse: “Ti vedo stanco Pietro, se vuoi, stasera puoi restare con noi.” Pietro rimase in silenzio per qualche minuto, poi prese il telefono: “Ciao Nonna, stasera non torno. Resto da amici.” “No, no, è tutto a posto. Sai, forse ho trovato un lavoro. Sei contenta?” “Anch’io ti voglio bene Nonna. Tranquilla, ti chiamo presto.” Chiuse la telefonata, aveva la bocca secca e gli occhi lucidi, forse qualche linea di febbre. Stefano Vallini, gennaio 2015 BALLANDO CON ERMIONE (forse un inedito dannunziano) Il poeta, con il consueto spirito romantico che lo animava sul far della sera, si era messo al suo tavolo al tramonto intenzionato a scrivere il suo quotidiano racconto che come al solito sarebbe terminato con la fine della luce solare, il sorgere della luna e l’inizio della notte. Per la sua storia aveva in mente tre dolcissime fanciulle che aveva visto e ascoltato la sera prima in una taverna del porto di Pescara mentre declamavano poesie. Come ninfe uscite da una pioggia nel pineto le tre grazie si muovevano con movenze leggiadre e sicure declamando poesie di amore e di eros mentre gli spettatori ammassati tra sedie e sgabelli e già inebriati di vino di birra ascoltavano rapiti e deliziati quei versi che, vuoi per la bellezza del testo vuoi per le sonorità sensuali che uscivano da quelle bocche quasi fatate, li eccitavano non poco. Aveva già pensato all’inizio… Ermione, uscita dal pineto con i suoi vestimenti leggeri intrisi di pioggia che sottolineavano armoniosamente le sue forme e le sue nudità incontrava altre tre fanciulle anch’esse vestite solo quasi di pioggia ma sorridenti come ninfe silvane perfettamente a loro agio in quell’ambiente silvano di larici e mirti. Avevano formato un cerchio e ora danzavano e declamavano e cantavano mentre il vate pescarese le osservava rapito e deliziato pronto a scrivere per loro il secondo atto del suo famoso poema.... quand’ ecco spuntare tra le righe del foglio già vergate, o forse dalla sua mente, o forse da una siepe di ginepro, un tale alto e robusto dallo sguardo lascivo armato non di un arco per cacciare i cervi ma di un nuovo ingegnoso e mirabolante strumento: il dagherrotipo. Mentre le fanciulle danzavano liete e spensierate e il vate prendeva appunti per la nuova ode ecco che il nuovo arrivato si offrì di ritrarre la scena con il suo mirabile aggeggio. Non parlava né dava segni di voler interrompere la scena idilliaca anzi si fingeva in disparte come a dar l’impressione di essere un’ entità invisibile, un dio dei boschi che gli umani (così almeno pensava lui) non potevano vedere. Ma invisibile ahimè non era e per quanto mostrasse nei movimenti furtivi una consumata nonchalance la sua figura di cacciatore di immagini invadeva continuamente la scena, ora ponendosi tra il vate e le fanciulle, ora entrando direttamente all’interno del vortice coreutico rovinando più di una figura ed obbligando le danzatrici a repentini e inopportuni cambi di passo, ora quasi incollando il suo infernale aggeggio sul volto di esse quasi a voler fare loro da non gradito specchio. Il vate era decisamente turbato e infastidito e con brevi cenni del capo faceva capire all’intruso di spostarsi un po’ più qua o un po’ più in là per non interrompere il flusso poetico che stava sgorgando a fiotti e endecasillabi e settenari e quinari dalle sue viscere… ma tutto era inutile. Come un diabolico dio Pan dalle zampette di capra il cacciatore (di frodo) di immagini ora sentiva che era lui il protagonista della scena, quasi a voler significare che l’arte non è tanto l’azione diretta degli artisti ma la riproduzione che un altro artista farà di quell’opera. Era così da sempre: un concerto o una commedia o una mostra non avevano mai valore di per sé ma era sempre la recensione del critico che l’ avrebbe poi trasformata in un capolavoro o distrutta come una schifezza e le sue sgraziate movenze erano ora lì a ribadire che era inutile per il vate (o per altri astanti se ce ne fossero stati) la visione diretta di quella quadruplice bellezza perché tanto avrebbe contato soltanto la riproduzione dagherrotipica di quella solo apparente realtà. Il vate per un po’ continuò a fare cenni col capo e con la mano, invano tentò di spostarsi tra larici e faggi per godere di una visione migliore… niente… l’inopportuno folletto continuava a rovinare la scena sentendosi non la quinta ma la primadonna. Così il vate, dopo aver scritto la prima parte della sua celebre Pioggia nel pineto che iniziava con l’imperativo “Taci!”, cominciò a buttar giù la bozza della seconda parte di quell’idillio che iniziava così: “Spòstati!” Francesco Burroni 1 Febbraio 2015 L’UOMO CHE ASCOLTAVA LE VOCI Successe tutto all’interno della galleria di Porta a Siena, una mattina di Febbraio, esattamente il 14, un San Valentino dei più freddi mai apparsi su questa terra. L’uomo entrò velocemente, per ingannare il tempo che mancava alla partenza del treno per Firenze. Mentre si riscaldava pensò all’ultima volta che aveva preso quel treno, la sorpresa di trovare il riscaldamento rotto, l’impossibilità di assopirsi al freddo e la figura della persona seduta davanti a lui che appariva e scompariva ogni volta che respirava. “Signore, si accomodi su questa seggiola reclinabile. Sono sicuro che un oggetto simile non l’ha mai provato e scommetto tutti i soldi che ho nel portafoglio che se la prova la porta a casa, come è vero che mi chiamo Matteo Badiloni.” Il venditore teneva stretto tra le mani un libro. Il papillon rosso a pois bianchi su una camicia inamidata color latte lo facevano sembrare una via di mezzo tra un cameriere e un clown, mentre i pantaloni di un velluto color caffè appena staccavano dagli stivaletti marroni, lucidi come uno specchio. Alto, il naso leggermente camuso e asimmetrico rispetto alla linea ideale che taglia in due il volto, maschera usuale di chi da giovane ha tirato di boxe. Le orecchie leggermente staccate, che piacciono tanto ai bambini quando devono prendere in giro un loro compagno, si legavano bene agli occhi piccoli e a delle labbra così definite che un chirurgo plastico difficilmente avrebbe potuto riprodurle. Il volto risultava alla fin fine piacevole, elemento non secondario quando ti trovi davanti una persona che cerca di venderti cose di cui non hai bisogno. Si spostò di alcuni passi, giusto per raggiungere il tavolo dove squillava il cellulare. Fu allora che si accorse che si muoveva a scatti, come se andasse a batteria e la pila di alimentazione fosse quasi scarica, oppure rigide protesi gli bloccassero le gambe, impedendogli di stendere bene gli arti. “Non posso comprare questa seggiola” gli disse l’uomo “sono in viaggio, mi sarebbe di ingombro. Ma se mi concede alcuni minuti del suo tempo, magari possiamo fare due chiacchiere davanti ad un caffè. Si sedettero ai tavolini del caffè di Porta a Siena. “Lei non ama il suo lavoro! Mi dica che sbaglio e le giuro che quando ripasso la poltrona gliela compro così com’è, anche senza provarla. Il venditore lo guardò, alzando gli occhi dalla tazza. Bevve un altro sorso di orzo prima di rispondere. “Buon osservatore, acuto direi; e guardi che sono piuttosto avaro nel fare i complimenti alle persone. Bevve un altro sorso prima di riprendere il discorso. “In effetti ricevo dall’azienda per cui lavoro uno stipendio base, a cui aggiungo gli incentivi per le vendite. Anni fa, con i figli da sistemare, avrei sicuramente convinto Satana a comprare una seggiola modello Paradiso e gliela avrei portata all’inferno, stia pur certo; ma adesso che mia moglie è morta e che i miei ragazzi si sono fatti una posizione molte cose sono cambiate. Dodici ore al giorno a presidiare un’esposizione di materassi, sedie e poltrone sono lunghe da passare; e leggo, leggo tutte le storie che non ho potuto leggere prima, aspettando i clienti. Se riesco a vendere qualcosa tanto meglio, altrimenti sono contento lo stesso. “E lei caro signore; che mestiere fa?” L’uomo rimase un attimo in silenzio prima di rispondere. “Sono un dottore, un logopedista per essere precisi. Non osservo le persone, ascolto le loro voci.” “Ah bene, interessante davvero. Un lavoro davvero particolare.” “E cosa sta leggendo adesso?” chiese il medico, sempre più incuriosito da quell’uomo. “Sto rileggendo cent’anni di solitudine, credo che sia la quarta volta… e ognuna è come se fosse la prima.” “Le faccio un’ultima domanda, poi ho il treno che mi parte. Ma non si sente mai solo?” “E come potrei, caro signore. Adesso ho qui vicino Gabriel Marquez che mi culla nel suo realismo magico. Ma è venuto a trovarmi anche King, con i suoi incubi, e Thomas Mann mentre andava al sanatorio di Davos, e persino Capote prima di partire per il Kansas. Ma signore… a proposito; non mi ha ancora detto il suo nome.” “Massimiliano Maraldeschi. Ora però devo proprio andare, ma spero di rivederla in futuro per riprendere questa piacevole conversazione. Il dottore si allontanò in direzione della stazione. Appena salì sul treno tirò fuori dalla borsa il manoscritto del suo primo romanzo, che a giorni sarebbe uscito per Mondadori, mentre l’editore già gli stava chiedendo di scrivere il secondo. Mentre era seduto sul treno ripensò all’incontro in galleria. L’uomo che vendeva sedie e materassi, che leggeva libri tutto il giorno, la sua passione segreta di scrivere, la capacità di codificare le persone dal timbro della voce. “Ecco, ci sono” pensò “ ce n’è abbastanza per un nuovo romanzo. Il titolo potrebbe essere “L’uomo che ascoltava le voci,” anche se vagamente gli ricordava il titolo di un film di successo. Si adagiò con la testa al seggiolino; e nel tepore della vettura una figura di donna seduta davanti a lui iniziò a sfumare, come il finale di una storia ancora tutta da scrivere. Stefano Valacchi Febbraio 2015 IL TORNACONTO Ci pensò per tutta la notte, senza riuscire a chiudere occhio. Prima di andare a letto aveva ingurgitato di tutto: due caffè, un bicchiere di whisky e perfino un goccio di “Strega”, che non beveva da anni ed aveva trovato rovistando nel fondo del mobile bar. Probabilmente, si trattava di un residuato delle feste anni ’80, quando ancora era un liquore di moda. Con la bocca impastata da quei sapori forti e con lo stomaco che urlava vendetta, si rotolò nelle lenzuola, martorizzando il cuscino, al quale si sforzava di attribuire la causa della sua insonnia. Verso le sei, mentre la luce iniziava a filtrare dalle persiane socchiuse, realizzò che ne aveva avuto abbastanza e che era l’ora di andare incontro a quel giorno decisivo. Immobile, sulla tazza del cesso, fissava un punto indefinito nel vuoto davanti a sé, mentre le spirali azzurognole del fumo tracciavano segni ipnotici, dentro i quali confondere i pensieri che attraversavano la mente. Era a un bivio: prendere o lasciare. Prendere equivaleva a perdersi, a rinunciare a quella sua ostentata dignità, compagna di vita per la quale ogni scelta conduceva sempre a una riconferma di sé, ad un incondizionato attaccamento alla coerenza. Lasciare era più semplice, niente e nessuno costringevano ad accettare. Sorvolare leggermente, glissare e lasciarsi dietro una mancata occasione, un possibile rimpianto, erano le sue specialità. Rifuggiva da sempre, con orrore, ogni forma di compromesso, ogni corruzione del corpo o dell’anima, grandi o piccole che fossero, più per la paura delle ignote conseguenze che avrebbero potuto avere nella sua mente che per la convinzione che ciò fosse giusto a prescindere. Al di là della sua apparente e solare linearità, si nascondeva, nell’oscurità del cono d’ombra di un “essere nero” accovacciato dietro la siepe della quiete, un desiderio di trasgressione. Questa volta, però, lasciare significava rinunciare a quello che poteva essere afferrato senza nessuna fatica. Finalmente avrebbe potuto ottenere quello che voleva senza dolore, invece di ingoiare rabbia, lacrime e grumi di, talvolta inutile, sacrificio, con i quali aveva dovuto lottare ogni giorno per strappare qualche metro di vantaggio alla vita. Margine che poi, come una infinita guerra di trincea, aveva più volte dovuto restituire, spesso con disastrose perdite e tristi ritirate. Con questo demone vicino, che aveva ormai invaso ogni anfratto dell’anima e che l’accompagnava, si preparò con cura quasi maniacale, al contrario di quello che faceva ogni giorno, a quell’appuntamento con la parte più ignota di sè, senza ancora sapere quale sarebbe stata la decisione. Appena fuori casa, si fermò istintivamente nel primo bar che incontrò. La familiarità con la banconiera che già sapeva i suoi gusti, quei visi più volte rivisti o semiconosciuti, il naturale tepore del microclima che contraddistingue ogni negozio e che nelle caffetterie fa quasi aria di casa, o almeno calore, nel quale si stemperano tensioni al ritmo tintinnante di bicchieri, piatti e tazzine, giocarono un effetto tranquillizzante. In fondo quel suo anonimato, seppure speciale e individuale, era uguale a quello di tutti gli altri. Ci si può mimetizzare nella massa anche se su noi staziona una nuvola nera. In fondo chi è che non ce l’ha ? Avanti, su, ognuno di noi ce l’ha, qualcuno più piccola, qualcuno più grande, ma tutti ce l’abbiamo e quindi non ci facciamo più caso o, meglio ancora, ce ne disinteressiamo, cosi che, non guardandola, non corriamo il rischio che qualcuno veda la nostra. Forte di questa nuova convinzione che instillava sicurezza, si incamminò verso il suo destino accessoriato di nuvola nera al retrogusto di caffè. Ancora una sigaretta, prima dell’incontro, tre minuti o poco più per crearsi un alibi fatto di gesti ripetuti e normali. Inspirazione, espirazione con piccolo sbuffo e ritorno circolare del cilindro cartaceo e combusto alla bocca, intermezzato da impercettibile scuotimento di cenere. Tutto doveva apparire dannatamente normale, anche l’attesa dell’incontro. La normalità dell’inconsueto che ormai le insondabili leggi dell’uomo hanno reso solubile nel quotidiano, tanto da confonderlo, tanto da confonderci. La sinistra figura si avvicinò con passo felpato e, silentemente, allungò la mano. Le mani si strinsero in segno di saluto, come vuole l’antica tradizione, a dimostrare l’assenza di intenzioni bellicose e come atto di trasparenza e concordia. La busta conteneva quello che era stato richiesto e passò lesta nell’altra mano. Nella sua , invece, l’involucro cartaceo si appallottolò, rimase quasi appiccicato, e poi, d’improvviso, sgusciò, rischiando di cadere. Infine, la mano tremula, trovò finalmente la tasca depositando nel suo fondo quel morbido malloppo. Camminò a lungo, fino quasi a perdere le sue stesse tracce, in uno stato semiconfusionale, con l’incertezza di chi sta per scivolare in un dirupo e la determinazione di chi vuole salvarsi a tutti i costi. Alla fine, quando ebbe la percezione di essere al riparo, di aver raggiunto l’impunità, fece riemergere la busta dagli abissi del vestito e contò velocemente le banconote, la fortuna che era piovuta in quel giorno di sole. Poi, concedendosi un piccola voluttà, le ricontò una a una, lentamente, strusciando l’indice e il pollice sulla carta filigranata, provando un sottile e libidinoso piacere. Ritornò sui suoi passi e si fermò davanti alla banca. Aveva appuntamento con un direttore canaglia e con dei numeri rossi da sistemare. Entrò nella porta a bussola, proprio mentre io stavo uscendo. Mentre entrambi sostavamo nello spazio fra le due porte, i nostri sguardi si incrociarono. Ugo Micheli Gennaio 2015 PRESTO Sedeva li al tavolino del bar. L'avevano accompagnata e ordinato per lei, un cappuccino con la schiuma e un cornetto vuoto, con la raccomandazione di non muoversi, presto sarebbero tornati a prenderla. Il tempo di una colazione. Vedeva e ascoltava il suo accompagnatore con lo sguardo fisso su di lui, poi a terra, poi di nuovo su di lui ed un piccolo cenno del capo. Si era lasciata portare senza replicare con il passo incerto di una donna che aveva vissuto più di tre quarti di secolo. Lasciò cadere il corpo sulla sedie insieme a quello che aveva addosso. Un giaccone leggero trapuntato rosso, fuori moda, la gonna di flanella a quadri, la sciarpa beige e capelli mossi un po' arruffati sale e pepe, più sale che pepe ormai, ma si poteva facilmente tornare indietro nel tempo e vederli neri brillanti dai riccioli ribelli. Non aveva borsa ma la tasca destra era più gonfia e spuntava l'angolo di un fazzoletto e le dita di lana dei guanti. Mentre aspettava scrutava il tavolo bianco tondo, le sedie intorno tutte di un colore diverso, le pareti tinteggiate di arancione melange, e i quadri attaccati raffiguranti schizzi di colore. Ogni tanto sgranava gli occhi e scuoteva il capo. Il suo sguardo si illuminò quando finalmente il cameriere posò sul tavolino l'ordinazione. Con la mano tremolante si avvicinò la tazza odorò il liquido nocciola ricoperto dalle bolle bianche del latte prima di assaporarlo, poi toccò piano piano il fagottino marrone ricoperto di zucchero a velo. Socchiuse gli occhi mentre lo mordeva e un lungo sospiro accompagnò la lenta masticazione .Le pupille si muovevano veloci sotto le palpebre come quando si rovista in un cassetto per cercare qualcosa di prezioso. I pensieri erano fotogrammi in sequenza di un film che la vedevano protagonista e raccontava la sua vita. Quegli odori e sapori erano le uniche cose familiari in quel luogo. Evocavano momenti vissuti, di quando era lei a crearli , quando sin dalla mattina si occupava della casa e della sua famiglia, pensando che un giorno sarebbero stati loro a prendersi cura di lei. Pensava ai suoi quadri che ritraevano paesaggi campestri, fiori, pavoni, e foto di famiglia che spiccavano sulle pareti candide, al suo tavolo di legno con le sedie impagliate, tutte marroni, alle giornate che passavano veloci tra una commissione una faccenda e gli schiamazzi dei suoi ragazzi. Oggi pensava ai suoi nipotini, alla scatola magica che gli aveva regalato a Natale contenente fogli e cere colorate. I figli le avevano detto che i bambini erano impazziti dalla gioia e non vedevano l'ora di disegnare con lei, presto li avrebbero portati a farle visita. Sorrideva e scrutava dentro i suoi pensieri in ascolto delle sue emozioni, aveva fatto felici i suoi nipoti e presto avrebbe passato un po' di tempo con loro. Poi appoggiò le braccia sulle gambe e con la mano destra sfiorò le due fedi che portava in quella sinistra e smise di sorridere. Eravamo in primavera, ancora non aveva fatto il ben che minimo scarabocchio con la sua famiglia. Rialzò la testa e guardò fuori e la luce che filtrava, sorrise di nuovo, pensò che in estate sarebbero venuti disegni più belli perché i colori in quella stagione sono più brillanti e la natura regala una moltitudine di fiori, e la vegetazione è più rigogliosa. Magari poi li avrebbe potuti appendere nella sua nuova casa. I suoi figli per non farla stancare le avevano trovato un'abitazione più piccola una stanza e un bagno. Non aveva potuto portare con sé la sua mobilia, solo due valige e una scatola di cartone, ma era tutto ben organizzato. Le pareti erano bianche il letto con il telecomando così poteva regolarlo come voleva, il comodino con un pianale sotto vuoto e poi ancora sotto un vano con lo sportellino e aveva le ruote orientabile secondo le sue esigenze. Era di plastica come il piccolo armadio avio con il numero, e il pavimento di linoleum grigio più durevole e si può pulire meglio e perfino disinfettare. Si sa ad una certa età la mano non è più ferma come un tempo e in caso non si facesse in tempo ad andare in bagno, anche questo si sa può succedere. Non era stato necessario portare neanche la cucina, e si perché i suoi figli avevano pensato proprio a tutto, non solo aveva chi provvedeva alle pulizie ma anche al cibo, tutti i giorni glielo consegnavano a casa, già fatto, comodo pensò, così non doveva preoccuparsi di fare la spesa e cosa preparare per colazione, pranzo, e cena. Non solo aveva un' equipe medica ventiquattrore su ventiquattro, bastava suonare un campanello, ad una certa età anche questa è una bella comodità, piuttosto che recarsi dal medico e sottostare ad interminabili ed estenuanti file. Inoltre non era sola divideva il tutto con una sua coetanea per avere sempre compagnia ed ottimizzare le economie, oggi giorno sono così care le bollette. E poi ora usava così, come quei giovani che per andare a vivere da soli condividono l'appartamento con gli amici. Andava talmente di moda che ci avevano fatto anche un film, “L'Appartamento spagnolo” almeno le pareva di ricordare. Certo lì regnava il caos, gente che entrava, che usciva, alcuni allegri, alcuni in preda a crisi di nervi. Nel suo di appartamento la vita era ben scandita e l'animo più equilibrato come si conviene all'età. Fu destata dal suo accompagnatore, era tornato a prenderla, la invitò a sbrigarsi e l'aiutò a salire sul pulmino bianco che si era fermato fuori dal bar con il motore acceso. Si sedette accanto alla sua coinquilina che era addormentata con la testa appoggiata al finestrino e le braccia incrociate appoggiate sulle gambe sotto il plaid marrone con le bordature panna. Adagiò il capo al poggiatesta e guardava dritto nel vuoto e sorrise pensando a quando sarebbero venuti a prenderla i suoi figli, per non scomodarla l'avevano invitata a pranzo nella casa di campagna, e si pregustava il momento in cui sarebbero stati tutti insieme lei nella poltrona, quella grande e comoda a disegnare con i nipoti, accompagnati dalla colonna sonora della sua vita, le risate i gridolini dei bambini, suonata con gli strumenti degli abbracci degli sguardi d'amore e delle carezze. Il pulmino si mosse e partì mentre si portava la mano sinistra sulla testa,e aggrottava la fronte , aveva un unico incolmabile dubbio, generato da una certezza. Presto è uno spazio di tempo molto dilatato per figli giovani presi da progetti proiettati nel futuro , per lei una manciata di minuti dove gli impegni sono solo vaghi ricordi del passato che si muovono nel presente e dove i giorni sono tutti uguali sbalzati in un fugace futuro. Elena Negro-gennaio 2015 NORD SUD OVEST EST Quella mattina l’aria aveva qualcosa di diverso e il cielo scintillava in un’alba maculata di nubi rosa e viola. “Gino, oggi riordini il magazzino. Non mettere il naso fuori finché l’ultima scatola di biscotti è a posto”, il ricordo delle parole della moglie lo scurirono per un attimo. Ma riprese svelto il suo sorriso e andò a lavoro, come sempre in bici, come sempre fischiettando. Canticchiò anche le parole di una canzone. L’aveva ascoltata mentre si stava radendo “Nord Sud Ovest Est e forse quel che cerco neanche c'è …” Era alle superiori, quando le radio la passavano. “Che tempi …” si disse Gino. A ripensarci sentiva ancora il tepore che lo scaldava quando entrava in classe, il misto tra la candeggina della custode e i caffè del bar, il fumo di sigaretta nei bagni, le risate quando la prof di italiano – praticamente ogni giorno - si assopiva in cattedra. Mentre sorrideva a quei ricordi, la signora Paoletti gli gridò “Gino, le fragole, quelle nostrane, sono arrivate? Senti il pane ieri era tutta mollica …”. Lui gli dette una scampanellata di risposta e proseguì. Alzò la saracinesca del negozio, il bicipite ancora tirava, “merito delle casse di acqua” pensò Gino, strizzando l’occhio al furgone che avrebbe dovuto svuotare. - Vorrei sapere perché ti ostini a scaricarle a mano - brontolò in quell’istante Fiorella - Non hai più vent’anni. Se prendi un colpo di frusta, qui, a me, chi mi aiuta?”. Ogni mattina alle 8:05 arrivava il treno regionale e la bottega si accalcava di ragazzini che uscivano dalla vicina stazione. Era tutto uno scalpitare di scarpe da ginnastica, jeans attillati, zaini colorati. Per parlare urlavano, si tenevano per mano, si spintonavano. - Gi’ a me dammi quella ai carciofi, l’angolo. - Ma che hai stamani, sembri diverso. - Grande Gi’, nemmeno mio padre s’è accorto. Parrucchiere, ieri. Sto male? - Un gran figo – gli sussurrò lui. - Stasera esco con una. - Divertiti. L’hai scelta giusta? Il ragazzo rise. - Mi raccomando, trattala bene. - Ginooo - strillò Fiorella dalla cucina - muoviti in cassa e vai in magazzino. RICORDATELO. La sua corporatura media, il viso sbarbato, i capelli brizzolati, appena stempiati sulla fronte tonda, lo confondevano con la moltitudine di uomini, così detti di mezza età. Solo la schiena era un po’ arcuata, per via delle ore passate in cassa. Anche gli occhi erano insignificanti per colore e forma, piccoli e vicini. Una cosa li contraddistingueva: quegli occhi, nel fondo, ridevano sempre. Gino era per via di Luigino, come lo chiamava la mamma poiché era piccolo di statura. A sedici anni, in dieci mesi, fece diciotto centimetri in altezza. Lui era certo che quell’exploit sia stato dovuto alla scoperta della rivista “Le Ore”. Il suo corpo aveva voluto crescere, lesto, per poter assaggiare prima possibile le bellezze femminili. Assaggiò per prima la Pina, erano in quarta. Accadde ad una festa, di quelle dove ancora si ballavano i lenti. Lui era così sbronzo che non ha mai ricordato nulla. E la Pina era una trottola, di quelle che vista e presa, perché domani sarà già a farsi assaggiare tra le braccia di un altro. Era bionda la Pina, aveva tanti capelli, tanti bei denti. Ma soprattutto indossava sempre un paio di parigine, estate e inverno. Tese per un soffio sulle cosce, le cadevano giù mollemente. La Pina non aveva gambe bellissime ma lunghe sì, con il ginocchio magro e indentro, il polpaccio rotondo e pieno. Quelle parigine le davano un aria femminile, trasandata, sicura e poi nessuna, a parte lei, le indossava. Pina il giorno dopo la festa lo prese da parte nel corridoio della scuola, tirandolo per il cappuccio della felpa. Gli aprì un gran sorriso, gli strinse la mano e disse: - Gino, fin’ ora sei stato il meglio, in tutti i sensi. Fu più di un bacio o di una dichiarazione per lui. - Se lo crederai ancora domani, tra un mese, o vent’ anni, torna da me – gli aveva risposto lui, un po’ per burla, un po’ sul serio. Lei sorrise e sparì lasciandosi dietro una scia di shampoo alla frutta. Due mesi dopo Fiorella portò Gino con sé per la festa dell’ultimo dell’anno. Il suo ragazzo si era ammalato e lei di certo non poteva mancare. Era l’anima della scuola, rappresentante d’istituto, due belle tette e un gran culo. Dopo il diploma aveva già pronta la valigia per l’accademia del cinema di Roma. Ma sette mesi dopo lei e Gino erano in una chiesa del centro, con il prete e i testimoni. La sua pancia premeva nel vestito di tulle. La valigia la dovette disfare per entrare nel negozio di alimentari del padre. Quando, qualche tempo dopo, le parigine divennero di moda, Gino aveva ripensato spesso alla Pina. Ma mai più rivista. Anche quella mattina tutti i ragazzi erano stati serviti. Gino stava lasciando la cassa per andare in magazzino, quando sentì aprire la porta e un inconfondibile odore di frutta. “Rolando” pensò, era il suo produttore biologico. - Gino si può sapere quanto c’hai – gridò Fiorella dalla cucina, un quarto d’ora dopo. Si affacciò ma il negozio era vuoto, a parte la signora Paoletti che aspettava di essere servita. Andò a cercarlo prima in bagno, poi al bar; lo avrebbe sistemato, al bancone mentre si beveva il caffè, beato. Ma non lo trovò. Nemmeno per pranzo. Eppure il cellulare, il borsello, la giacca, tutto era al suo posto. I soldi in cassa. Avvisò prima la polizia. Poi un programma televisivo. Ma niente. Di Gino era rimasta solo la veste verde da lavoro, appallottolata in un angolo del binario numero tre. La signora Paoletti diceva di averlo visto parlare con una donna che aveva indosso delle buffe calze a righe gialle e nere. Lucia Cosci