Annotazioni sulla congiuntura

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PERRY ANDERSON*
Annotazioni sulla congiuntura
(novembre-dicembre 2007)
L’attuale periodo storico (che possiamo far iniziare con il cambiamento politico-economico avvenuto in Occidente nei primi
anni Ottanta e, da un’altra prospettiva, con il crollo del blocco
sovietico dieci dopo) è caratterizzato da profondi cambiamenti strutturali nell’economia mondiale e nelle questioni internazionali. Ma quali siano questi cambiamenti e quali ne siano le
conseguenze è ancora tutto da discutere. I tentativi di interpretarli attraverso il prisma degli avvenimenti contemporanei sono
inevitabilmente fallaci. Un orientamento di natura più congiunturale, che si concentri sulla scena politica del nuovo millennio, va incontro a minori rischi. Anche in questa prospettiva, tuttavia, non è facile evitare le semplificazioni e le scorcia* Perry Anderson (1938) è docente di storia presso l’università della
California di Los Angeles (UCLA) e fa parte del comitato di redazione
della «New Left Review»; tra le sue opere principali: Passages from Antiquity to Feudalism, New Left Books, Londra 1974 (Dall’antichità al
feudalesimo, Mondadori, Milano 1978); Lineages of the Absolutist State, Verso, Londra 1974 (Lo stato assoluto, Mondadori, Milano 1980); In
the Tracks of Historical Materialism, Verso, Londra 1985; A Zone of Engagement, Verso, Londra 1992 (Al fuoco dell’impegno, il Saggiatore,
Milano 1995); The Origins of Postmodernity, Verso, Londra 1998; Spectrum: from Right to Left in the World of Ideas, Verso, Londra 2005
(Spectrum: da destra a sinistra nel mondo delle idee, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008).
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toie. E, certo, le annotazioni che seguono non ne sono esenti.
Ma, appunto, trattandosi di annotazioni più che di tesi, è sempre possibile correggerle o scartarle.
I. La casa dell’armonia
Dagli attentati del 2001 in poi, il Medio Oriente ha occupato il
centro della scena politica internazionale: la guerra lampo in Afghanistan, il bombardamento della Cisgiordania, l’occupazione
dell’Iraq, il cordone sanitario attorno all’Iran, la nuova invasione del Libano, l’intervento in Somalia. L’offensiva statunitense
nella regione ha dominato i titoli dei giornali, polarizzando l’opinione pubblica nazionale e internazionale. Un’ampia saggistica si è interrogata sulle implicazioni delle strategie della potenza
americana e su quelle delle tendenze della storia mondiale dalla
fine della guerra fredda. Anche all’interno delle istituzioni statunitensi si è diffusa la preoccupazione che la guerra in Iraq possa
tradursi in una débâcle peggiore di quella del Vietnam. Tuttavia
l’analogia fra i due eventi è da prendere con le pinze. L’umiliante sconfitta militare in Indocina, infatti, non sfociò in un indebolimento politico della posizione degli USA sullo scacchiere internazionale. Anzi, fu accompagnata da un mutamento strutturale
in suo favore, giacché la Cina divenne un alleato di fatto degli
Stati Uniti e l’URSS piombò in una fase di declino terminale. Poco più di una decina d’anni dopo che l’ambasciatore americano
ebbe lasciato Saigon, il presidente degli Stati Uniti atterrò vincitore a Mosca. Oggi in Vietnam le aziende USA sono ben accolte quanto le missioni del Pentagono. Le analogie storiche hanno
appena un interesse suggestivo e spesso sono ingannevoli. Ma
tali capovolgimenti di sorte dovrebbero quanto meno ricordarci
che c’è una grossa differenza tra quanto appare in superficie e
quanto invece avviene nei fondali del mare degli eventi.
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Sette o otto anni sono un periodo troppo breve perché si possa affondare lo sguardo in profondità. Ma, volendo ugualmente fare un tentativo, quali sono i principali sviluppi? Il fenomeno di gran lunga più importante è sotto tutti gli aspetti l’ascesa
della Cina a nuova «officina» del mondo. In gioco non c’è soltanto la rapida espansione di una straordinaria economia nazionale, ma anche una modifica strutturale del mercato globale,
con un impatto molto più simile a quello dell’Inghilterra vittoriana che non agli scenari più provinciali dell’America dell’Età
dorata (l’ultimo quarto del XIX secolo) e forse di tutto il dopoguerra. La vertiginosa crescita cinese ha avuto tre conseguenze:
sul piano interno, in un contesto contraddistinto da diseguaglianze sociali drammaticamente in aumento, ha formato un ceto medio agiato, difensore dello status quo, e nello stesso tempo ha propagato anche oltre i confini di tale ceto la convinzione che l’imprenditoria privata offra vantaggi incalcolabili; sul
piano internazionale, ha spinto il Partito comunista cinese verso un rapporto molto stretto con gli Stati Uniti, suffragato da
un’interdipendenza economica maggiore di quella esistente
con il Giappone; sul piano globale, infine, ha contribuito negli
ultimi quattro anni a sostenere – o promuovere – tassi di crescita che non si vedevano dagli anni Sessanta.
2
Che cosa dire del Giappone, che rimane la seconda più grande
economia capitalista? Dopo un decennio di deflazione e stagnazione, il Paese del Sol Levante ha riacquistato un certo
slancio – in gran parte, sull’onda della domanda cinese –, facendo registrare per la maggior parte dell’ultimo periodo un
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tasso di crescita superiore a quello europeo. Il partito dominante ha cercato di rimodellarsi come forza più coerentemente
neoconservatrice. Alla politica interna ispirata a principi più
apertamente di destra ha corrisposto una decisa svolta verso
una politica estera più aggressiva, in sintonia con quella di
Washington (sfociata nell’invio di un contingente militare in
Iraq, nelle pressioni sulla Corea del Nord, nelle proposte di
abolizione delle clausole costituzionali di pace). Rallentata
dalla perdita di consenso elettorale, questa linea non è stata
contrastata da una coerente alternativa da parte dell’opposizione, che in larga parte deriva dalla stessa matrice del partito
di governo.
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Il principale sviluppo europeo, che sovrasta tutti gli altri processi, è stato l’allargamento dell’Unione europea a est. L’area
del Patto di Varsavia è ormai quasi del tutto integrata alla UE:
uno straordinario risultato del capitalismo europeo. La privatizzazione delle ex economie comuniste è stata guidata da
Bruxelles, esercitando una stretta sorveglianza sui governi locali affinché allineassero i rispettivi Paesi agli standard dell’Europa occidentale. D’altra parte, lungi dal rinforzare politicamente la UE, l’espansione l’ha semmai indebolita, come dimostrano le divisioni interne registrate con la guerra in Iraq, sia tra i
nuovi che tra i vecchi membri dell’Unione. Oggi, la UE è una
vasta area di libero mercato, nella quale i governi danno voce a
uno spettro politico un po’ più ampio che negli USA o in Giappone, ma senza che vi sia un’esplicita volontà comune o una
coerente direzione interna. I tre principali Stati del continente
hanno virato poco alla volta in una direzione più neoliberale –
l’agenda per il 2010 di Schröder in Germania, le riforme di Raf304
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farin prima e quelle di Sarkozy poi in Francia, i pacchetti di
proposte di Prodi in Italia –, senza peraltro uguagliare il New
Labour britannico.
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La Russia si è stabilizzata grazie a un regime neoautoritario, finanziato dal boom delle materie prime. Meno dipendente dall’Ovest di quanto fosse il governo di Eltsin, il sistema di Putin
può contare su un più ampio margine di manovra diplomatica e
ha meno bisogno di ostentare un’adesione di facciata alle pratiche democratiche. La stampa occidentale gli è meno favorevole
e si è dimostrato un socio ingombrante per gli USA e la UE. Ma,
fino ad ora, nel tentativo di ripristinare l’influenza russa sui Paesi confinanti, il nuovo regime è stato ben attento a non scontrarsi con il volere degli Stati Uniti nelle più significative questioni
internazionali; per giunta, offre una base di sviluppo al capitalismo di gran lunga superiore a quella che poteva assicurare Eltsin. E ciò non solo perché ha cancellato qualsiasi forma residuale di serio dissenso politico, ma anche perché la ripresa
economica gli ha consentito di ottenere un altissimo consenso
sociale. Da qualche tempo a questa parte, infatti, Putin, fra i leader dei maggiori Stati al mondo, è il più popolare all’interno del
proprio Paese. Se si considera il crollo demografico della Russia
e la perdurante miseria di gran parte della popolazione, bisogna
riconoscere che si tratta di un successo che ha dell’incredibile.
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L’economia indiana è cresciuta costantemente, anche se a un
tasso molto inferiore rispetto a quello della Cina. La combina305
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zione di sacche di povertà molto più ampie e di scelte elettorali di orientamento popolare ha impedito finora una precipitosa
svolta neoliberistica. Il ceto medio indiano, tuttavia, ha interiorizzato la cultura occidentale del consumismo e del successo
anche più avidamente della controparte cinese, ed è tale ceto
che condiziona gli orientamenti fondamentali delle politiche
del Partito del Popolo (il Bharatiya Janata Party) e del Partito
del Congresso. Le sue aspirazioni, ancora ostacolate sul piano
interno dal peso dei blocchi elettorali del sottoproletariato,
hanno trovato espressione nell’abbandono della tradizionale
politica estera neutralistica a favore di un crescente riavvicinamento agli Stati Uniti di carattere ideologico, militare e diplomatico. In parlamento, l’opposizione può rallentare questo
orientamento, non deviarlo.
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In Brasile, dove per la prima volta è stato eletto presidente l’esponente di un partito operaio, il governo ha tratto vantaggio
come in Russia dal boom mondiale delle materie prime per
consolidare la propria base popolare, creando più posti di lavoro e varando una serie di misure a sostegno dei redditi più
bassi. Ma in altri settori ha seguito la linea neoliberistica del
precedente governo, limitandosi a piccole modifiche per adeguarsi alle imposizioni del Fondo Monetario Internazionale. I
tradizionali livelli di corruzione non sono diminuiti ma neppure hanno influito sui risultati elettorali. In politica estera, la più
significativa iniziativa del governo è stata quella di appoggiare
l’intervento franco-americano ad Haiti, nella speranza di ottenere in cambio un posto permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, insieme a Giappone, Germania e India. In realtà,
una speranza andata delusa. A livello regionale, il Brasile ha
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premuto più per una modifica in suo favore delle regole del
WTO che per ampliare l’integrazione commerciale dell’America Latina.
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Qual è la situazione degli Stati Uniti? L’amministrazione repubblicana, eletta nel 2000, ha fatto passare una ripetuta serie di tagli alle tasse che ha finito per accentuare ulteriormente la ridistribuzione regressiva della ricchezza e del reddito in atto nel Paese
dai tempi di Reagan. Le leggi sulla bancarotta sono state modificate a favore dei creditori e sono stati indeboliti i sistemi di regolamentazione, mentre la Corte Suprema è diventata più conservatrice. In altri ambiti, nonostante il retorico richiamo ai diritti
individuali, le decisioni prese in politica interna – in materia di
previdenza, salute, istruzione, attività bancaria e difesa dell’ambiente – si sono dimostrate irrilevanti. Pochi progressi hanno fatto registrare la crescita economica e la creazione di nuovi posti di
lavoro. E nessun cambiamento strutturale, paragonabile all’abolizione nel 1999 del Glass-Steagall Act (la legge che imponeva la
separazione tra banche commerciali e banche d’investimento) e
alle disposizioni sul welfare di Clinton, è stato attuato o previsto.
Semmai, i risultati di Medicare (il programma di assicurazione
medica) e del Sarbanes-Oxley Act (la legge per il controllo dell’operato delle aziende emanata a seguito dei numerosi scandali
finanziari come quelli della Enron) andranno rubricati nella colonna in perdita. Quanto al Patriot Act (la legge per prevenire gli
attacchi terroristici), ha eroso le libertà civili, con il consenso bipartisan di repubblicani e democratici, molto più dell’Espionage
Act di Woodrow Wilson. I controlli e gli equilibri istituzionali,
nonché il pragmatismo politico, hanno limitato quello che la Casa Bianca poteva fare in politica interna, in un contesto in cui i
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blocchi elettorali rimangono regolarmente separati a causa dei
programmi fondati sui «valori». Nessun altro significativo spostamento a destra si è verificato nel centro di gravità della politica americana sotto Bush, indebolito dalla sconfitta dei repubblicani nelle elezioni di medio termine del 2006. In sintonia con le
consuetudini delle presidenze americane dal 1945 in poi, il protagonismo dell’amministrazione si è concentrato piuttosto all’estero, suscitando con l’operato in Medio Oriente una diffusa reazione di proteste internazionali e inducendo molti commentatori
e studiosi a teorizzare l’emergere di un esplicito impero americano o, viceversa, il suo precipitoso declino.
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Cina, Giappone, Unione Europea, Russia, India, Brasile e Stati Uniti rappresentano insieme oltre la metà della popolazione
mondiale e l’80% del PIL globale. Se è vero che i due principali obiettivi della politica estera americana dalla seconda guerra mondiale in poi sono stati estendere il capitalismo sino alle
ultime estremità della Terra e conservare il primato USA all’interno del sistema internazionale degli Stati – il secondo visto
come condizione per la realizzazione del primo –, quale bilancio possiamo trarre dai primi anni del XXI secolo? In gran parte, un bilancio positivo per il capitale, che ha ampliato e approfondito il suo predominio. I mercati finanziari si sono estesi dappertutto a spese delle più antiche forme di relazione sociale o economica. Indipendentemente dalle forze al potere
(Partito comunista, liberaldemocratico, gollista, laburista, Russia unita, Partito del Congresso, Partito dei Lavoratori o Partito repubblicano), a fare un grosso passo in avanti, con tempi e
modalità diverse, è stata una politica a sostegno della proprietà
privata, senza significativi passi in direzione contraria. Piutto308
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sto, in conseguenza dell’internazionalizzazione del commercio
che guida la crescita mondiale, abbiamo assistito a una sempre
maggiore tendenza delle principali economie capitalistiche a
intrecciarsi stabilmente fra loro, in una reciproca interdipendenza.
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Dal punto di vista politico, qual è il bilancio? Sostanzialmente,
quello che va delineandosi, a uno stadio ancora incipiente, è un
equivalente moderno del Concerto delle potenze che si formò
dopo la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche. Vale a
dire, livelli crescenti di coordinamento formale e informale per
conservare la stabilità dell’ordine costituito, affiancato dalle
tradizionali manovre per avvantaggiarsi nel rispetto delle regole condivise, senza radicali dissensi. Il Consiglio di Sicurezza
dell’ONU è uno dei principali teatri di questo processo e lo
confermano le risoluzioni prese all’unanimità sull’Iran. Tuttavia, sussiste un’importante differenza tra il Concerto delle potenze dopo il Congresso di Vienna e la sua controparte dopo la
visita di Nixon in Cina del 1972 e il Congresso di Parigi. Oggi,
infatti, il sistema è tenuto insieme da un’unica superpotenza,
che gode di una posizione di assoluta egemonia su tutti gli altri
Stati: una situazione ben diversa da quella dell’epoca di Metternich e di Castlereagh, in cui mancava una forza paragonabile a
quella americana. Disponendo della più grande economia al
mondo, di mercati finanziari, di una valuta di riserva, di forze
armate, di basi globali, di un’industria culturale e di un linguaggio internazionale, gli Stati Uniti posseggono risorse con le
quali nessun’altra forza potrebbe competere. Le altre potenze
accettano questa situazione asimmetrica e si guardano bene
dall’ostacolare le aspirazioni americane negli ambiti di maggio309
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re importanza strategica. Di regola, i conflitti rimangono confinati a settori commerciali secondari (Airbus, Doha Round e simili) dove, data la relativa povertà della posta in gioco, possono verificarsi scontri alla pari; o in aree di confine dove si sovrappongono diverse ambizioni geopolitiche (il Caucaso, il Baltico, il Turkestan). Le altre grandi potenze fanno poco per riequilibrare i rapporti con gli Stati Uniti, nei modi tradizionali,
sia perché i loro interessi economici si sono sempre più strettamente intrecciati a quelli americani (una circostanza impensabile all’inizio dell’Ottocento), sia perché traggono beneficio da
ruolo di poliziotto che Washington esercita nelle regioni meno
stabili del pianeta, ben felici che siano gli americani ad addossarsi i compiti più gravosi e talvolta rischiosi. Per questo, se da
una parte il peso specifico dell’America nell’economia globale
va chiaramente diminuendo, mentre crescono poteri capitalistici alternativi, dall’altra gli Stati Uniti continuano a esercitare
un’influenza politica superiore a qualsiasi altro Stato in un universo regolato dalle logiche del profitto e del privilegio, ora fittamente interconnesso, e nel quale le élite si considerano membri integranti della «comunità internazionale».
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Questa struttura non ci consegna tuttavia un sistema privo di
frizioni o di attriti. La Russia e la Cina non accettano che gli
Stati Uniti si radichino troppo profondamente nell’Asia Centrale o che spingano in modo troppo aggressivo l’Iran in un angolo. L’India continua a opporsi al patrocinio americano sul
Pakistan. E la UE si balocca con l’idea di una forza di dispiegamento rapido propria. Il primato americano impone ai propri
soci una serie di faux frais o spese impreviste che difficilmente
diminuiranno. Ma proprio perché gli interessi particolari degli
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Stati Uniti non coincidono in modo automatico con gli interessi generali del sistema, si rende necessario un Concerto delle
potenze coscientemente gestito per sedare le tensioni internazionali. D’altra parte, l’armonizzazione degli interessi non sarà
mai perfetta e i meccanismi per favorirla sono ancora tutti da
trovare: pressioni e contropressioni si accavallano in un diseguale ma solido processo di contrattazione. Fino ad oggi, tuttavia, le lacune e i grossolani limiti del sistema non hanno seriamente minacciato la legittimazione di una «comunità internazionale» intesa come sinfonia dell’ordine capitalistico globale,
sia pure con un eccentrico direttore d’orchestra.
In tale Concerto, dato l’universale intersecarsi dei mercati
finanziari e dei beni nell’età post-nucleare, è lecito aspettarsi
che le relazioni fra gli Stati si mantengono al di sotto della soglia dell’antagonismo, come viene definito dalla classica teoria
della dialettica. Questo non significa che le grandi potenze siano tutte capitalistiche in egual misura. L’inadeguatezza economica e politica della Cina e della Russia rispetto agli standard
occidentali costituisce un perdurante fattore di disturbo nei
meccanismi di funzionamento del sistema, per altri versi fluidi.
La scommessa dell’Occidente è che, quando avranno raggiunto pienamente il loro statuto di potenze mondiali, queste forze
si saranno ormai conformate ai modelli occidentali. La somiglianza dei modi di essere renderà allora accettabile una loro
posizione di supremazia (fin troppo prevedibile per la Cina). I
più lucidi teorici dell’imperialismo americano sono pienamente coscienti del fatto che il primato americano e la civiltà liberale mondiale non sono logicamente interdipendenti. Anzi essi
prevedono, esplicitamente e senza ansia, che tale primato sia
destinato a tramontare non appena avrà portato a compimento
la propria missione (forse nel giro di una generazione, secondo
una delle previsioni più razionali): realizzare una civiltà liberale mondiale.
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In tali condizioni, la tendenza generale dell’amministrazione repubblicana è stata sostanzialmente la stessa di quelle precedenti.
Più decisa invece è stata la politica di riavvicinamento ai due
grandi antagonisti dell’America all’epoca della guerra fredda:
Cina e Russia. Cooptate senza difficoltà nel Concerto delle potenze, entrambe hanno trovato negli Stati Uniti un partner disponibile ad assisterle nello sviluppo di un’economia basata sul
mercato (spesso per mezzo di funzionari che hanno studiato negli USA), rispettoso delle loro scelte laddove sono in gioco le più
acute sensibilità nazionali (a Taiwan o in Cecenia) e favorevole
ad ammetterle alle celebrazioni dello spettacolo globale (il summit di San Pietroburgo, le Olimpiadi di Pechino, ecc). Certo,
non mancano motivi di alterco – con Mosca, per gli impianti missilistici troppo vicini e con Pechino per lo yuan troppo debole –,
ma finora sono stati tenuti sotto controllo. Nello stesso tempo,
gli Stati Uniti hanno rinsaldato i legami con il Giappone e stretto
un nuovo accordo con l’India. Pochi gli attriti con il Brasile, a
parte i battibecchi sul commercio, che non hanno avuto gravi
conseguenze sul piano dell’alta politica. In Europa l’opinione
pubblica, influenzata dallo stile più che dalla sostanza, si è irritata per l’esplicito rifiuto di Bush di firmare il protocollo di Kyoto
o di riconoscere le competenze della Corte penale internazionale, che Clinton aveva più ambiguamente e diplomaticamente
ignorato. Ma su questioni di sostanza l’amministrazione repubblicana ha ottenuto successi maggiori, non solo incoraggiando
l’allargamento della UE dopo quello della NATO, ma anche
convincendo Bruxelles a inserire fra le voci principali dell’agenda politica l’ingresso della Turchia nella UE. Come verso il Giappone, la Cina, l’India, la Russia e il Brasile, anche verso l’Europa
la strategia americana si colloca in un rapporto di sostanziale e
non retorica continuità con le linee del dopo guerra fredda.
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II. La casa della guerra
Su questo sfondo, si staglia il teatro militare del Medio Oriente. Qui, e qui soltanto, l’amministrazione repubblicana sembra
aver rotto con l’indirizzo politico seguito a livello globale dopo
il 1989 o addirittura dopo la seconda guerra mondiale, finendo
col provocare la sdegnata reazione dei maggiori alleati europei.
E si tratta di una reazione di sostanza, non di maniera, dato che
gran parte dei Paesi della UE hanno giudicato la guerra in Iraq
non soltanto gratuita, bensì anche molto pericolosa per l’Occidente, con conseguenze che rischiano di gravare sugli europei
ben più che sugli americani. Quasi tutti i commentatori in Europa, e in gran parte negli stessi Stati Uniti, considerano ora la
guerra come un’aberrazione irrazionale, riconducibile o a miopi interessi di parte (le compagnie petrolifere o le aziende in genere) o ai deliri ideologici dei fanatici strateghi di Washington
(la cricca dei neoconservatori). Ma se in ogni altra parte del
globo l’amministrazione repubblicana ha coordinato mezzi e fini in modo più o meno razionale, la spiegazione del diverso
trattamento riservato all’Iraq deve muovere logicamente dal
Medio Oriente e non dagli Stati Uniti. La domanda fondamentale da porsi è allora la seguente: quali speciali caratteristiche
possiede questa zona per essersi attirata una politica tanto anomala nei suoi confronti?
1
È chiaro che le enormi riserve di petrolio della regione ne fanno da molto tempo un’area strategicamente importante per gli
Stati Uniti. Ma, all’epoca dell’invasione irachena, il rifornimento energetico americano non era minacciato (né lo è mai stato).
Gli Stati satellite controllano i pozzi petroliferi dell’intera peni313
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sola arabica e l’acquisizione delle riserve irachene – che pure
possono aver rappresentato un fattore incentivante all’invasione – avrebbe fruttato appena un modesto incremento energetico.1 Nel 2002, considerato il ruolo che svolgeva nell’OPEC, il
regime del partito Baath poteva essere per Washington tutt’al
più una spina nel fianco, non più (semmai meno) fastidiosa dell’Iran o del Venezuela. Tuttavia, il tentativo di annessione del
Kuwait compiuto agli inizi degli anni Novanta aveva provocato un serio allarme, perché allora l’Iraq avrebbe potuto trasformarsi in un produttore di petrolio più importante della stessa
Arabia Saudita e in una più ricca potenza militare. Perciò, dall’epoca di Clinton, la politica USA – con l’approvazione europea – è sempre stata quella di cercare di distruggere Saddam:
con l’embargo, i bombardamenti, i tentativi di colpo di stato o
l’omicidio. L’insuccesso di questi sforzi (che evidentemente richiedeva di valutare misure più energiche) costituisce un altro
fattore che sta dietro l’invasione. A tutti i livelli dell’establishment americano era diffusa la convinzione che l’Iraq fosse un
affare incompiuto e il regime di Saddam un affronto che nessuna amministrazione poteva tollerare. Perciò bisognava abbattere il dittatore a tutti i costi.
2
L’attacco quindi non è sbucato fuori dal nulla. Piuttosto è stato l’ultimo atto di una serie crescente di operazioni belliche
piovute più o meno ininterrottamente sull’Iraq dal 1991. In tal
senso, non si è trattato di una «rottura» (nel significato che
danno normalmente gli storici a questo termine) quanto piuttosto di una «escalation» delle ostilità, proseguite per oltre un
decennio sotto il vessillo della legge internazionale. Solo minimizzando il grado di violenza diretta contro l’Iraq e la popola314
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zione irachena negli anni di Bush senior e di Clinton si può sostenere la tesi di un improvviso allontanamento dalle precedenti consuetudini della politica estera americana. Certo, dall’invasione le vittime sono aumentate rispetto al periodo precedente
al 2003. Ma sono dello stesso ordine di grandezza: centinaia di
migliaia di morti. Nella prima fase – improntata nei termini militari classici alla Ermattungsstrategie2 –, l’impunità è stata assicurata dalla rimozione di qualsiasi contrappeso sovietico nella
regione. Nella seconda fase – con il cambiamento di prospettiva verso una Niederwerfungsstrategie –, si è ritenuto che l’impunità potesse derivare dalla «rivoluzione negli affari militari»,
ovvero dall’avvento della guerra elettronica con attacchi di precisione a bersagli tattici. Il disinvolto blitz di Clinton in Iugoslavia e le incruenti scorrerie di Rumsfeld in Afghanistan hanno indotto a pensare che la RMA (Revolution in Military Affaires) non avesse controindicazioni. Questa è la tesi sostenuta in
particolare dai falchi repubblicani, ma non una loro esclusiva:
è stata la democratica Madeleine Albright, segretario di Stato
di Bill Clinton, a chiedersi a che cosa servisse disporre del più
potente esercito al mondo e non usarlo.
3
Tali considerazioni, tuttavia, spiegano semplicemente come mai
per un decennio l’Iraq sia stato oggetto di continua ansietà da
parte di Washington e perché si potesse concepire un attacco in
Medio Oriente pensando di non correre eccessivi rischi. Non
spiegano invece per quale ragione l’amministrazione Bush, anche in base a una valutazione errata, si sia avventurata in una
guerra alla quale si opponevano due dei maggiori alleati europei,
oltre che una significativa minoranza dell’élite americana: peraltro una guerra in lampante contraddizione con l’atteggiamento
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che gli Stati Uniti hanno conservato in altre parti del mondo. Tale diversità di comportamento può essere compresa solo alla luce delle reazioni psicologiche all’11 settembre. L’attacco alle
Twin Towers e al Pentagono aveva permesso di mobilitare la nazione in favore dell’offensiva in Medio Oriente, tradottasi nella
vittoria lampo sull’Afghanistan e accolta con il plauso quasi unanime della popolazione americana e della comunità internazionale. Ma, una volta caduta Kabul, era opinione comune che, data la mancanza di qualsiasi connessione fra Al Qaeda e il partito
Baath, non ci fossero motivi razionali per marciare su Baghdad.
Perciò, per giustificare tale impresa, si è dovuto far ricorso al
pretesto delle armi di distruzione di massa.
4
Nondimeno, storicamente un’irrazionalità circostanziale – di
solito, un’ingiustificata e fatale decisione, come la dichiarazione
di guerra di Hitler agli Stati Uniti nel 1941 – è quasi sempre il
riflesso di una più ampia irrazionalità strutturale. Così è stato
per l’operazione «Iraqi Freedom». Per dirla in termini spicci, la
realtà era – e rimane – questa: il Medio Oriente è un’area del
pianeta in cui il sistema politico statunitense, così com’è attualmente costituito, non può agire secondo un calcolo razionale
nell’interesse della nazione, perché occupato da un altro soverchiante interesse. La posizione degli USA nel mondo arabo – e
per estensione musulmano – è compromessa infatti dal massiccio e ostentato sostegno accordato a Israele. Considerata da tutti nella regione come una forza predatrice che non avrebbe mai
potuto godere di quarant’anni di impunità senza il consistente
rifornimento di armi e di denari da parte degli americani, oltre
che della loro sistematica protezione in seno alle Nazioni Unite, Israele è obiettivo dell’odio popolare a causa dell’espropria316
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zione e della persecuzione ai danni dei palestinesi. Per estensione, l’America è fatta oggetto dello stesso odio. È in questo contesto che affondano le ragioni dell’attacco di Al Qaeda sul suolo americano. Dal punto di vista della superpotenza americana
razionalmente intesa, uno Stato palestinese che è poco più di un
fazzoletto di terra non rappresenterebbe nessuna minaccia, e lo
si sarebbe potuto creare in qualsiasi momento del mezzo secolo trascorso, semplicemente contenendo il flusso di dollari, armi e veti a beneficio di Israele. La ragione per cui ciò non è accaduto è chiara e va rintracciata nell’influenza che la lobby
israeliana esercita sul sistema politico americano e sui mezzi di
comunicazione, traendo forza dalla potente comunità ebraica
statunitense. Non solo questa lobby distorce i «normali» processi decisionali in tutti gli ambiti in cui è coinvolto il Medio
Oriente. Ma fino a poco tempo fa impediva che si potesse anche solo nominare la questione palestinese nei tradizionali luoghi di discussione: un tabù che, come ogni forma di repressione, ha finito con l’iniettare un’altra massiccia dose di irrazionalità nella politica mediorientale degli Stati Uniti.3
5
L’affondo contro Saddam deve essere interpretato tenendo
conto di questo instabile contesto. Già dalla fine degli anni Novanta, molti repubblicani premevano per l’inasprimento delle
misure antirachene. Ma la neoeletta amministrazione Bush aveva anche criticato il carattere indiscriminato degli interventi di
Clinton all’estero, dimostrando scarso interesse per le dottrine
dei diritti umani e prendendo poche o insignificanti iniziative
di politica estera nei primi mesi. A trasformarla improvvisamente in un regime iperattivo sono stati gli attacchi dell’11 settembre, che le hanno permesso di far passare quella che altri317
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menti sarebbe stata un’impresa difficile da far digerire agli elettori americani – una guerra per fare crollare Saddam Hussein –
in un’operazione che ha avuto l’appoggio pressoché unanime
del Congresso. Ma, come la successiva invasione dell’Iraq, neppure l’11 settembre è sbucato fuori dal nulla.4 Semmai, si dovrebbe dire che, con l’attacco alle Twin Towers, l’irrazionalità
strutturale del ruolo che l’America ha assolto in Medio Oriente si è ritorta contro di essa. Il sostegno assicurato per decenni
all’espansionismo israeliano non ha mai corrisposto agli interessi logici del capitalismo americano, ma soltanto a quelli della lobby israeliana – e, più di recente, del fondamentalismo cristiano –, interessata a conservare la propria influenza sulla politica regionale di Washington. Prima di allora, gli Stati Uniti
non avevano mai dovuto pagare sul proprio territorio un prezzo per il patrocinio dato ad Israele. L’11 settembre rappresenta da questo punto di vista una svolta (certo il sostegno a Israele non è l’unica motivazione dell’attacco di Al Qaeda, ma l’attacco sarebbe inimmaginabile senza tale precedente: non a caso il primo pronunciamento pubblico di Bin Laden, sette anni
prima, prestava al destino della Palestina più attenzione di
quanto ne riservasse a qualsiasi altro problema, compreso quello delle truppe statunitensi sul suolo dell’Arabia Saudita).5 Una
volta riuscito, l’attentato ha scatenato le ansie popolari di vendetta, finendo con l’irrigidire l’irrazionalità originaria (mentre,
sull’onda del plateale trionfo in Afghanistan, l’amministrazione
repubblicana aveva agio a indirizzare le passioni contro l’Iraq).
6
Era ovvio che l’establishment israeliano e le sue ramificazioni
statunitensi sollecitassero l’invasione dell’Iraq: un nemico di
vecchia data che nel corso della guerra del Golfo aveva tentato
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di bombardare Israele. Ma è probabile che le pressioni israeliane siano state solo uno dei fattori che hanno contribuito all’offensiva contro Baghdad (e ciò anche se si potrebbe sostenere
con relativa scurezza che la guerra non ci sarebbe stata se Israele si fosse opposta). Una causalità così diretta non era necessaria. Il punto è piuttosto che in Medio Oriente ogni normale valutazione dei mezzi e dei fini è così alterata dalla discrepanza
tra i fattori presunti e i fattori reali della politica estera americana che un’avventura arbitraria di qualsiasi genere era comunque probabile. Finché Washington rimarrà legata a Tel Aviv,
non c’è modo che la potenza americana agisca in modo razionale. In tal senso, si deve dire che – indipendentemente dalla
questione israeliano-palestinese – la sopravvivenza del regime
del partito Baath costituiva un affronto permanente per tutto
l’establishment americano, e l’artiglieria pesante ad alta tecnologia era già schierata per rimuoverlo. In tali condizioni, lo spirito che sottostava all’impresa era: perché no? Nel clima che ha
fatto seguito all’11 settembre, l’operazione bellica fu un obiettivo bipartisan, approvato dal Congresso, al contrario della
guerra del Golfo, che creò una spaccatura nel Paese.
7
L’influenza di Israele sulla politica americana in Medio Oriente ha avuto anche un’altra conseguenza: quella di erigere una
barriera tra gli strateghi politici di Washington e le popolazioni di quest’area, respingendo le masse arabe al di fuori della
sfera delle normali proiezioni della potenza culturale americana. Nessuno dei Paesi della regione è una democrazia liberale:
il sistema politico più facile da penetrare e di solito una garanzia di fedeltà per Washington. Nondimeno, pochi regimi sono
stati più ubbidienti agli Stati Uniti delle assortite monarchie tri319
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bali arabe o della dittatura egiziana. Tutti gli Stati mediorientali si trovano tuttavia a fronteggiare il problema di giustificare la
propria lealtà nei confronti dell’America di fronte alle atrocità
della condotta israeliana, finanziata, armata e protetta dagli
USA. In genere, essi cercano di proteggersi dalla collera popolare autorizzando i media controllati dallo Stato a versare un
torrente di ingiurie contro gli Stati Uniti. Il clima che ne deriva
rende difficile per le istituzioni culturali e ideologiche americane operare liberamente o per l’intelligence capire che cosa accade davvero sotto la superficie di queste società. Di qui, lo
shock di Washington dopo aver scoperto che la maggior parte
degli aggressori dell’11 settembre erano sauditi. In mancanza
dei normali ingranaggi di potere «leggero» nella regione, per
gli Stati Uniti – quando si trovano di fronte a un’opposizione,
come a Baghdad – la tentazione è sempre quella di ricorrere
ciecamente o impulsivamente al potere «duro», nella speranza
di aprire società rimaste finora impenetrabili a quanto l’Ovest
ha da offrire. Questo è un altro ingrediente della miscela di
aspirazioni che sono all’origine dell’invasione irachena.
8
Naturalmente, oltre al petrolio e a Israele, anche la religione
contribuisce a collocare il Medio Oriente e le regioni adiacenti
al di fuori di quell’ecumene che l’egemonia americana ha stabilizzato altrove. Certo, i governi islamici, e persino quelli più rigidi, si sono dimostrati tutt’altro che restii al completo servilismo verso gli Stati Uniti, come dimostra la storia del regno saudita. Ma, sul piano sociale e culturale, l’islam rimane la più solida barricata contro l’egemonia ideologica del lifestyle americano. Inoltre, la fede islamica contiene un’esplicita carica politica: considerata l’ostilità storica fra comunità cristiana e comu320
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nità musulmana – molto più radicata della loro presunta coesistenza amichevole –, sarebbe sorprendente se la memoria popolare non conservasse traccia dei conflitti del passato, peraltro inaspriti dall’esperienza del governo coloniale anglo-francese. I fallimenti a cui è andato incontro il nazionalismo arabo dagli anni Settanta ha acutizzato tali ricordi, traghettando il sentimento antimperialista in un ritrovato zelo religioso, che ha come bersaglio in pari grado «crociati ed ebrei»: americani e
israeliani. Se si considera che, a differenza del mondo cristiano
e di quello ebraico, finora il mondo musulmano ha dato origine a una modesta tradizione esegetica volta a interpretare le sacre scritture – fraintese, intese metaforicamente, da aggiornare,
ecc. –, appare chiaro che una lettura letterale del Corano ha
una forza morale di gran lunga superiore a quella della Bibbia
o della Torah. Dato che Maometto impone esplicitamente la
jihad contro i miscredenti nei luoghi santi, il salafismo dei nostri giorni – nonostante tutti gli sforzi dei commentatori dell’Occidente o filoccidentali per attenuare le parole del profeta
– poggia su un solido terreno scritturale, che senza dubbio deve imbarazzare molto la maggioranza moderata dei musulmani.
Di qui l’efficace (benché non inesauribile) arruolamento di giovani e fanatici combattenti contro l’«infedeltà globale», che in
Medio Oriente hanno fatto dello scontro di civiltà un fenomeno reale, non essendoci alcun punto di contatto tra la loro concezione del mondo e quella degli «intrusi» occidentali della regione.
9
L’escalation verso l’invasione irachena è avvenuta pertanto in
una regione impenetrabile al normale calcolo degli strateghi
americani, con inevitabili rischi di errore. Ma non è l’esito di un
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improvviso colpo di testa a Washington. È piuttosto il prodotto dell’antico e distorto campo di forze in gioco nel Medio
Oriente, e la cui irrazionalità rispetto ai fini del capitalismo
americano si è ritorta contro di esso con l’11 settembre, aggravando ulteriormente la spirale di irrazionalità, dal momento
che era impossibile per gli Stati Uniti riconoscere che le cause
degli attacchi risiedevano nel sistema politico americano e tanto meno era possibile estirparle. Di fatto, il Pentagono non sbagliava a pensare che bastassero pochi giorni per conquistare
Baghdad e abbattere il regime, con un minimo di perdite da
parte americana. Ciò che non poteva prevedere era la portata
della reazione difensiva che si è andata organizzando in pochissimo tempo (ma questo non lo avevano previsto neppure i critici della guerra, che hanno sottovalutato la base sociale del regime del partito Baath, e io ero uno di loro).6 Poco più di due
mesi dopo la caduta di Baghdad, infatti, i guerriglieri nazionalisti, guidati dagli ufficiali baathisti sopravvissuti, si sono uniti
ai fanatici religiosi salafisti nella resistenza contro gli invasori,
che da quattro anni devasta il morale degli eserciti occupanti e
quello degli alleati. L’Iraq è oggi il principale teatro al mondo
in cui è impegnata la potenza militare americana e sta ampiamente logorando il consenso alla guerra negli stessi Stati Uniti.
10
Ma, se persino gran parte dell’establishment americano è ormai
convinto che la guerra in Iraq sia un pantano, è pur vero che
un catastrofico rovesciamento delle posizioni USA in Medio
Oriente appare molto improbabile. E ciò, in parte, perché l’occupazione ha intensificato più che mai le rivalità fra la comunità sunnita e quella sciita, rendendo probabile il fatto che sarà
una guerra civile più che una vittoria patriottica a porre fine al322
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la spedizione (neutralizzando in tal modo qualsiasi effetto dell’espulsione dell’invasore). Inoltre, per quanto ferocemente
possa combattere, il movimento insurrezionale non propone alcuna alternativa sociale o politica ai modi in cui procede attualmente il mondo in generale. Non a caso nessuno dei baluardi
della potenza americana nella regione è stato sinora influenzato dal conflitto. Tutti gli Stati satelliti – dal Marocco all’Egitto,
dall’intera penisola arabica al Pakistan, come estremo avamposto del sistema americano a est – continuano a essere fedeli agli
Stati Uniti come non mai. Finché rimangono intatte queste colonne, si può tranquillamente lasciare nel caos un Iraq diviso,
sotto la sorveglianza delle basi militari dislocate nel Paese in via
di costruzione e del CENTCOM (il comando centrale delle
forze armate USA per il Medio Oriente, l’Africa dell’Est e l’Asia centrale) in Qatar e in Kuwait, a condizione che il petrolio
continui a fluire nei pozzi.7 Naturalmente, ogni cambiamento
radicale in Pakistan modificherebbe l’equilibrio delle forze nella regione, a cominciare dall’Afghanistan, dove ha preso slancio la guerriglia locale, pur organizzatasi più lentamente che in
Iraq. Ma l’antico spirito di corpo dell’esercito pakistano e la
sua influenza nel Paese (immune da crepe interne o da critiche
da parte del nominale governo civile) rendono improbabile l’eventualità di una sgradevole sorpresa.
11
All’apparenza, l’Iran continua a giocare negli equilibri della regione il ruolo del jolly. Alleato agli Stati Uniti nel rovesciamento dei talebani e del governo di Saddam Hussein, il regime clericale iraniano ha offerto a Washington (mentre l’America si
sforzava di prendere il controllo dell’Iraq) un insieme di gravi
questioni discordanti fra loro. Le potenti forze di Teheran, im323
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pazienti di un accordo con il Grande Satana (i mullah miliardari, i commercianti dei bazaar, i professionisti occidentalizzati,
gli studenti che si confrontano sui blog…) non hanno perso la
speranza di una visita del presidente degli Stati Uniti analoga
per importanza a quella di Nixon in Cina e continuano a premere in questo senso. Ma, rispetto al 2003, la situazione è cambiata, anche se non del tutto. Una rivolta popolare contro le
classi agiate ha portato alla presidenza un leader meno accomodante, impegnato in politica interna e in politica estera a dare
un po’ di sostanza alla vecchia retorica del regime. Il programma nucleare iraniano, che costituisce uno dei grandi obiettivi
nazionalistici e che neppure gli ambienti filoccidentali possono
rinnegare apertamente, è avanzato in modo considerevole. Né
i suoi progressi rappresentano una significativa minaccia per gli
Stati Uniti. Ma, su questo punto, la pressione di Tel Aviv sulla
politica americana nella regione è stata anche più decisa che
non sulla questione irachena (e mira a costringere l’Iran a rinunciare al proprio programma nucleare). Con il sostegno degli alleati europei, gli Stati Uniti stanno per il momento seguendo una Ermattungsstrategie piuttosto che una Niederwerfungsstrategie, contando di riuscire a riportare alla ragione Teheran
per mezzo di una serie di sanzioni. In Iraq la medesima strategia è fallita. Ma in Iran l’amministrazione americana può contare sulla presenza di fiancheggiatori, ansiosi di rimuovere il
presidente e di addomesticare il Leader Supremo.
12
L’incubo di Israele è destinato a continuare. Nel breve periodo,
Washington può sperare che le forze israeliane (IDF – Israel
Defence Forces) riescano a indebolire gli Hezbollah a sufficienza per installare a tempo indeterminato nel Libano del sud
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truppe turche o francesi che agiscano da guardie di frontiera
per Israele e che Hamas conceda carta bianca ad Abu Mazen
per firmare una resa finale in cambio di un mini-Stato protetto
da mura carcerarie. Su questo piano, gli Stati Uniti possono fare assegnamento sulla UE. Nonostante i governi europei si siano divisi sull’Iraq e l’opinione pubblica sia stata in gran maggioranza ostile alla guerra, l’Europa è sempre stata infatti unita
nel garantire la propria solidarietà a Israele: e ciò non tanto per
la presenza di una forte comunità ebraica, come negli Stati Uniti, ma per un senso di colpa rispetto al genocidio nazista. Se a
parole la UE si dimostra più sollecita a deplorare gli occasionale eccessi dell’IDF, nei fatti ha quasi sempre seguito la strategia
statunitense, interrompendo gli aiuti alla popolazione palestinese come ritorsione per i voti assicurati ad Hamas e approvando la nuova invasione israeliana del Libano. Insieme, Europa e
America non avrebbero difficoltà a garantire l’imprimatur della «comunità internazionale» a qualsiasi soluzione Tel Aviv decida di adottare nei confronti dei palestinesi. Le altre potenze
– Cina, Russia, Giappone, India, Brasile – hanno pochi interessi in Medio Oriente e, purché sia salvaguardato il mercato del
petrolio, sono disposti a tollerare qualunque cosa. Naturalmente, se a lungo andare tale situazione calmerà o no la rabbia delle masse arabe è un altro paio di maniche.
III. Opposizioni
Se questa è all’incirca la mappa bizonale del potere contemporaneo, quali forze si oppongono ad esso (se vi sono) e dove sono dislocate? Necessariamente, tale opposizione non può che
essere «antiamericana»: e cioè antagonista al ruolo egemonico
che gli Stati Uniti assolvono nel mondo. Ma, in quanto tale,
questa opposizione non è in grado di organizzare un rifiuto del
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sistema che gli USA controllano agevolmente e difendono saldamente. Una forza emergente potrebbe assumere, nel frattempo, un atteggiamento ostile all’egemonia americana senza inclinare minimamente verso una contestazione del sistema americano nel suo complesso. È solo la combinazione di questi due
atteggiamenti che indica una vera resistenza, potenziale o effettiva. Se prendiamo come criterio questo duplice rifiuto, come
si presenta la scena contemporanea? Evidentemente, le due regioni da considerare sono l’Europa e l’America Latina: la prima in quanto patria del movimento operaio inteso come fenomeno moderno sviluppatosi in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Scandinavia e altrove; la seconda in quanto unico
continente in cui per tutto il XX secolo si sono ripetute agitazioni di carattere radicale, dalla rivoluzione messicana (prima
della prima guerra mondiale) a quella cubana (dopo la seconda
guerra) fino alle recenti situazioni in Venezuela e in Bolivia, dopo la fine della guerra fredda.
1
Non a caso, è in queste due aree che ha origine il Forum Sociale Mondiale, che riunisce gli unici movimenti alternativi alla
globalizzazione così come si è andata delineando sinora. Ma,
dopo la sorprendente forza propulsiva dimostrata all’inizio, il
Forum sembra ormai a corto di fiato. Privo di un’organizzazione e di una disciplina analoghe a quelle del Comintern (il quale aveva alle sue spalle le risorse, oltre che i maneggi, di un
grande Stato), il Forum ha dovuto fare i conti con l’estrema difficoltà di sostenere una congerie di confuse proteste in tutti i
continenti. Ma, diversamente da quanto si poteva prevedere, la
grande ondata di dimostrazioni contro l’imminente invasione
dell’Iraq non gli ha conferito nuova linfa, in parte a causa del326
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la superficialità di gran parte di tale opposizione (che, a occupazione avvenuta, non ha avuto seguito) e in parte a causa dell’esitazione del Forum a superare la sua originaria cultura da
ONG e a impegnarsi in un più robusto antimperialismo. Con
questi limiti e senza la capacità di mettere in discussione il sistema, c’era forse da aspettarsi che il Forum avrebbe avuto vita breve. Ma è improbabile che la sua eredità vada completamente smarrita.
2
La conferma viene dalla Francia (culla dell’FSM), dove nell’arco di anno si sono succedute tre grandi vampate sociali che devono qualcosa allo spirito del Forum e che hanno profondamente scosso la società francese: la campagna popolare per
bloccare la ratifica della Costituzione della UE, le rivolte giovanili nelle banlieues e la mobilizzazione di massa contro il contratto di primo impiego (CPE). Tutti e tre questi eventi (il primo orchestrato dall’associazione Attac, architetto del Forum)
sono stati una formidabile dimostrazione di protesta collettiva.
In nessun altro Paese europeo si è registrata un’analoga esplosione sociale. Ciò nonostante, le agitazioni non hanno dato origine a un duraturo movimento alternativo. L’elettorato anzi ha
spalancato le porte della presidenza a Sarkozy, conferendogli
un’ampiezza di poteri che non ha eguali in Francia dall’epoca
di De Gaulle e gli ha dato mandato per riformare il Paese in
senso decisamente neoliberale. L’Italia, l’altro Paese europeo
con la più forte tradizione radicale dal 1945, offre pochi motivi di consolazione. Dopo aver battuto di stretta misura Berlusconi, la coalizione di Prodi ha contribuito a indebolire ulteriormente la sinistra italiana, mentre Rifondazione comunista
ha votato per misure di riduzione fiscale e per il mantenimen327
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to delle truppe in Afghanistan e in Libano, e il Partito democratico, erede di quello che una volta era il partito di Antonio
Gramsci, si è addirittura disfatto della parola socialismo. In
Germania, il malcontento sindacale per i tagli al welfare del governo Schröder ha spinto alcuni esponenti della SPD a fuoriuscire dal partito per fondersi con la PDS e dare vita a un nuovo partito di sinistra (Die Linke), che è andato relativamente
bene alle ultime elezioni (con la conseguenza di spingere i socialdemocratici a un più deciso allontanamento) ma continua a
essere isolato dagli altri partiti a livello nazionale. Nonostante il
diffuso malcontento sociale in tutto l’Ovest europeo e i molti
scioperi in Francia e in Germania, oltre alle dimostrazioni in
Italia, i programmi delle classi dirigenti europee muovono
ovunque nella medesima direzione, sia pure a diverso ritmo e
con diversi effetti collaterali: incremento della flessibilità del lavoro (non solo Sarkozy ma anche Ségolène Royal ha chiesto di
rimettere in discussione la settimana di 35 ore in Francia), ulteriore ridimensionamento dello Stato sociale (la riforma del sistema sanitario voluto dalla Merkel in Germania), più privatizzazioni (in Italia, Prodi ha preso di mira i servizi pubblici locali). E a Bruxelles è ben salda la più neoliberale Commissione di
cui si abbia memoria, alla presidenza della quale c’è un fervente sostenitore della guerra in Iraq.
3
In America Latina lo scenario appare molto più vario – drammaticamente più vario. Da un certo un punto di vista, in Brasile il governo di Lula rappresenta la più vasta delusione della sinistra di questo periodo. Il Partito dei Lavoratori è l’ultimo
partito operaio di massa emerso nel XX secolo: di fatto, l’unico davvero nuovo dopo la seconda guerra mondiale. In origine
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era una combattiva forza radicale, emersa dalle lotte popolari
contro la dittatura militare, che non aveva niente da spartire
con le posizioni socialdemocratiche. Arrivato al potere nel più
grande Paese del continente dopo aver denunciato per otto anni l’involuzione neoliberista della precedente amministrazione,
il partito non è riuscito tuttavia a rompere con le antiche ortodossie e anzi ha fatto delle banche e delle istituzioni finanziarie
i maggiori beneficiari del suo governo. Nessuna Borsa al mondo ha annunciato guadagni tanto stratosferici quanto quella di
San Paolo, con un incremento del 900% in soli cinque anni.
D’altra parte, il governo non è una mera replica del precedente: ha distribuito infatti alle famiglie indigenti una parte degli
inattesi introiti derivati dal rialzo dei prezzi delle materie prime
(che hanno fra l’altro prodotto nuovi posti di lavori) e ridotto i
livelli di estrema povertà della società brasiliana, ancora dominata da una forte diseguaglianza. Fatte salve le differenze del
contesto continentale, tali miglioramenti, che hanno alleviato le
condizioni di vita dei ceti poveri senza renderli più attivi, rappresentano forse il più notevole esempio contemporaneo di variante meridionale del modello dominante nel Nord negli anni
Novanta: un neoliberismo «compensativo» anziché «disciplinare», in sintonia con la linea Clinton-Blair piuttosto che con
quella Thatcher-Reagan.8 Come Perón era riuscito a ridistribuire il reddito molto più dei governi socialdemocratici dell’Europa del dopoguerra, allo stesso modo Lula ha favorito compensazioni «tropicali» in modo più efficace di qualsiasi versione
metropolitana della «terza via».
4
I governi del Cono meridionale del Sudamerica presentano
aspetti correlati: più timorosi di quello brasiliano, i governi
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uruguaiano e cileno, più audace quello argentino, anche se dispone di un più stretto margine di manovra economica. In tutti gli Stati, gli alti prezzi delle materie prime offrono una condizione favorevole a modeste riforme sociali. Nel nord, la scena risulta molto più polarizzata. In Venezuela, la presidenza di
Chávez, basata su una formidabile serie di mobilizzazioni popolari a sostegno di un governo radicalmente redistributivo e
antimperialista, costituisce un modello di riferimento per la sinistra dell’America Latina, e non solo. Prima di convertirsi a
metodi plebiscitari, ha dovuto peraltro respingere i ripetuti
tentativi compiuti per rovesciarlo. Il suo successo popolare,
tuttavia, dipende anzitutto dall’andamento del mercato del petrolio: prima il crollo dei prezzi sotto la precedente oligarchia,
che ha portato Chávez al potere, poi al volgere del secolo il recupero, che sostiene la nuova presidenza. Anche in Bolivia, sull’onda degli insuccessi del precedente governo, delle mobilizzazioni di massa e infine del risveglio indigeno, da una società
che costituiva l’originale banco di prova di terapie-shock è
emerso un governo autenticamente radicale. Un processo non
dissimile è in corso in Ecuador. Per parte sua, Cuba ha assecondato le agitazioni andine ed è stata assecondata da esse, mentre
per la prima volta dagli anni Sessanta si è andato allentando il
suo isolamento. Ma per il momento ogni altro contagio politico sembra scongiurato, con la sconfitta di stretta misura di Ollanta Humala in Perù, il secondo mandato di Alvaro Uribe in
Colombia e il consolidamento della presidenza di Felipe Calderón in Messico. Politicamente parlando, l’America Latina rimane il continente più fluido e quello più ricco di speranze.
Ma, per quanto nell’orizzonte politico non ci siano le stesse
chiusure che si registrano in Europa, pare che soltanto condizioni eccezionali (la grande ricchezza di petrolio, la concentrazione indiana) possano infrangere le assortite varianti latinoamericane di quella che passa per rispettabilità politica.
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Che cosa possiamo dire del resto del mondo? Negli Stati Uniti,
con un ribaltamento delle consuetudini del dopoguerra, i conflitti di parte e le tensioni ideologiche risultano oggi molto più
intensi che in Europa. In gran parte ciò è dovuto allo schizofrenico sistema di valori proprio dell’America: una cultura («liberale» o «conservatrice» che sia) che combina la commercializzazione più sfrenata a una devota sacralizzazione della vita, senza
conoscere alcuna opposizione al capitalismo. La guerra in Iraq
ha suscitato manifestazioni di inquietudine in gran parte della
base democratica, ma non ha disturbato il tentativo di Clinton
di riprendere in mano il partito, piegandolo in una direzione più
simbolica. La presidenza Bush ha avuto effetti ambigui sulla
piccola sinistra americana che si sovrappone a questo ambiente.
Se da una parte l’ha galvanizzata politicamente, dall’altra ha indebolito le sue già fragili difese contro il militarismo dei democratici, i cui principali candidati non a caso si sono detti riluttanti a evacuare l’Iraq e disponibili a valutare l’eventualità di un
attacco in Iran. Ma, se dovesse approfondirsi la crisi finanziaria
e immobiliare, il già forte malcontento per l’aggravarsi delle disuguaglianze sociali nei due decenni passati ridurrebbe senza
dubbio le possibilità di manovra degli Stati Uniti all’estero e costringerebbe a prendere misure di riequilibrio all’interno.
6
In Russia, sembra che non possa esserci alcuna seria opposizione al regime in carica. Le nuove leggi elettorali sono state ideate per neutralizzare tanto i liberali quanto i comunisti. Sotto
Eltsin, il catastrofico immiserimento di vaste fasce di popolazione non aveva prodotto nessuna protesta sociale. Oggi, anche
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se persistono enormi sacche di povertà, il miglioramento generale del tenore di vita ha assicurato a Putin un’ampia approvazione. Gli unici pericoli vengono dalla Cecenia dove, nonostante sia stata decimata l’insurrezione, si è insediato un governo
inaffidabile che potrebbe rivoltarsi contro il regime russo. L’identità nazionale cecena del resto non sarà facilmente sradicata. Quanto al Giappone, dove il Partito liberaldemocratico rimane sia pure fiaccamente in sella, i due principali partiti sono
ancor meno distinguibili di quelli americani: il Partito socialista si è estinto, il Partito comunista vegeta in un ghetto. In nessun altro Paese a capitalismo avanzato il sistema politico è altrettanto pietrificato.
7
L’India è l’esatto opposto: continui cambiamenti di governo,
instabilità elettorale, proteste di massa, scioperi su vasta scala,
inquietudine rurale (per non parlare dei pogrom religiosi). Attualmente, il governo del Partito del Congresso dipende dalla
tolleranza parlamentare dei comunisti, che pone un freno alle
manovre neoliberali al centro. Nel Bengala occidentale, i comunisti-marxisti hanno avuto la maggioranza per la sesta volta consecutiva: un risultato impressionante per qualsiasi partito al mondo. Ma, dopo aver approvato una riforma agraria, il
nuovo leader del CPM, a differenza di quanto avviene in altre
regioni indiane, ha inaugurato una politica favorevole agli interessi economici, modificando la legislazione fiscale e prendendo severe misure contro i contadini e i sindacati per attrarre gli investimenti stranieri (e ciò sebbene per sopravvivere alla guerra fredda il CPM abbia ancora una lunga strada da fare, a paragone dell’altro grande partito comunista di una società capitalistica, il SACP sudafricano, che ha trovato la sua
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nicchia al governo insieme all’ANC, che offre un tragico pendant africano al Brasile). La vasta e vivace intellighenzia indiana continua a essere compenetrata da ideali marxisti, dimostrandosi tutt’altro che ossequiosa alla burocrazia di sinistra;
mentre nella stretta fascia verticale che si allunga dal Nepal,
dove l’insurrezione maoista è quasi riuscita a rovesciare la monarchia feudale, la resuscitata guerriglia naxalita9 controlla le
campagne. Ma, date le dimensioni dell’India, queste espressioni di resistenza finiscono con il coesistere in uno Stato saldamente neoliberale. Tuttavia, questo è un ambiente politico
molto più aperto di qualsiasi altro luogo al mondo al di fuori
dell’America Latina.
8
Ovunque è coinvolta un’azione collettiva, il regime cinese continua a reagire in modo spietatamente repressivo, schiacciando
ogni anno le migliaia di proteste dei villaggi (contro l’esproprio
delle terre, contro la corruzione dei funzionari, contro il degrado ambientale), con un numero crescente di vittime. Allarmato dall’inquietudine delle campagne, il governo ha approvato
alcune concessioni fiscali ai contadini, rinforzando nel contempo la polizia antirivolta. Le città, fatta eccezione per quelle delle isolate regioni carbonifere, sono rimaste finora molto più
tranquille. Le vertenze sindacali, quando non sono apertamente represse da funzionari e dirigenti, finiscono di solito nei tribunali. Il regime, che insegue il consenso puntando sulla poderosa crescita economica e sull’appello all’orgoglio nazionale,
gode di scarsa fiducia ma nello stesso tempo gli è concessa una
legittimità passiva. I ceti intellettuali, tradizionale fattore di potere nella società cinese, sono in gran parte delusi: i liberali criticano la mancanza di libertà politiche, i socialisti criticano la
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corsa verso un sistema economico immoralmente polarizzato.
Le posizioni della Nuova Sinistra cinese, uno dei più importanti sviluppi dei primi anni di questo secolo, sono sotto stretta
sorveglianza da parte del regime.
9
In sintesi, questi anni hanno visto alcune spettacolari dimostrazioni di volontà popolare (il Forum Sociale Mondiale nel
2001-02, il Venezuela nel 2002-03, la Bolivia nel 2004, la Francia nel 2005) e in alcuni luoghi un misto di resistenze. Ma la
tendenza generale del periodo è stata un ulteriore spostamento a destra. Nel contempo, si è andato consolidando sempre
più un nuovo Concerto delle potenze, la strada araba continua
a essere paralizzata e gli imperativi dei mercati finanziari
hanno conquistato una crescente egemonia culturale in Europa, nell’Asia Orientale, in America Latina, nel Sud dell’Africa,
in Australia e nella più remota Micronesia. Ammantate di solito di preoccupazioni «sociali» (i repubblicani hanno acconsentito a un aumento del salario minimo, Putin ha aumentato
le pensioni, il Partito comunista cinese ha abolito le corvée di
villaggio), le dottrine neoliberali forniscono quasi dappertutto
la grammatica di base del governo. Nella coscienza popolare è
profondamente diffusa la convinzione che a esse non ci siano
alternative. Al limite può capitare, com’è accaduto in Francia,
che gli elettori boccino i ministri che mettono in pratica tali
dottrine solo per installare al governo una nuova classe dirigente che prosegue regolarmente sulla stessa strada. In questo
universo stagnante, il grido «un altro mondo è possibile» rischia di apparire sempre più disperato. A parte le astrazioni
normative (il socialismo di mercato di Roemer) e gli anestetici
locali (la Tobin Tax o il movimento «Jubilee 2000»), quali al334
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ternative strategiche esistono attualmente? Le proposte più
plausibili sono quella della «pensione globale» di Robin
Blackburn e quella dell’eurostipendio di Philippe Schmitter,10
escogitate per affrontare i mal di testa dell’establishment (crisi
delle pensioni, politica agricola comunitaria) in una direzione
inaspettatamente radicale, di vasta portata. Programmi così ingegnosi sono tuttavia estremamente rari. Possiamo distinguerne altri? Più audacemente ma anche più aleatoriamente, lo
sperimentalismo di Roberto Unger propone una gamma di soluzioni per incrementare gli stimoli all’autoaffermazione personale11, la cui premessa è la mancanza della necessità (e la
probabile diminuzione) di crisi oggettive del sistema quali
quelle che hanno dato origine ai movimenti radicali o rivoluzionari del passato.
10
In ogni caso, la validità (economica, sociale ed ecologica) di
questa ipotesi sarà probabilmente la chiave di volta del futuro,
anche se i lettori di The economics of global turbulence di Robert Brenner e di Planet of Slums o The Monster at Our Door12
di Mike Davis potrebbero non esserne convinti. Come aveva
già mostrato Karl Polanyi sessanta anni fa, è soprattutto in tre
ambiti che il sistema si dimostra vulnerabile: lavoro, natura e
denaro. Questi, ha sostenuto il celebre economista ed antropologo ungherese, formano una triade di «merci fittizie» create
dal capitale, che sono state immesse nel mercato ma che in
realtà non sono nate per essere vendute. «Il lavoro è soltanto
un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta
ma per ragioni del tutto diverse […]. La terra è soltanto un altro nome per la natura che non è prodotta dall’uomo. La mo335
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neta infine è soltanto un simbolo del potere d’acquisto che di
regola non è affatto prodotto ma si sviluppa attraverso il meccanismo della banca o della finanza di Stato.» Ma, una volta
che hanno ottenuto piena cittadinanza, tali finzioni hanno demolito qualsiasi esistenza sociale sostenibile. Privati di copertura di protezione e ridotti allo stato di merci, «gli esseri umani
perirebbero per gli effetti dell’esposizione sociale; morirebbero
come vittime di un acuto dislocamento sociale»; «La natura
verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente e il paesaggio deturpati, la sicurezza militare messa a repentaglio, la capacità di
produrre cibo e materie prime distrutta»; mentre «le carenze e
le sovrabbondanze di denaro si rivelerebbero tanto disastrose
per gli affari quanto le inondazioni e la siccità nella società primitiva.»13
Polanyi, che credeva che «nessuna società potrebbe sopportare gli effetti di un simile sistema di rozze finzioni neanche
per il più breve periodo di tempo a meno che la sua sostanza
umana e naturale, oltre che la sua organizzazione commerciale,
fossero protette dalle distruzioni arrecate da questo diabolico
meccanismo», auspicava un rinnovamento degli originali impulsi riformatori che, a suo avviso, avevano tenuto a freno tale
meccanismo nel XIX secolo. Dagli anni Ottanta la «grande trasformazione» si è spostata nella direzione opposta. Che cosa dire delle finzioni oggi dominanti? La manodopera a disposizione del capitale si è moltiplicata come non si era mai visto prima. Nel 1980 la forza lavoro nelle economie capitaliste ammontava a poco meno di un miliardo di persone, nel 2000 è cresciuta a più di un miliardo e mezzo. Nello stesso arco di tempo, in
Cina, nell’ex Unione Sovietica e in India, gli occupati nell’industria hanno raggiunto all’incirca la stessa cifra. Il raddoppiamento della classe operaia mondiale (3 miliardi di persone), avvenuto in pochi anni e in condizioni spesso non meno dure di
quelle dei primi dell’Ottocento, rappresenta il più grande cam336
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biamento strutturale dell’attuale periodo. Vedremo quali saranno le conseguenze a lungo termine. Nel breve termine, l’ampia disponibilità di manodopera rappresenta per il capitalismo
un vantaggio più che una minaccia, in quanto indebolisce il potere contrattuale (riducendo, secondo la più autorevole stima,
il rapporto capitale/forza lavoro del 55-60%14). Su questo fronte, il sistema sembra per il momento abbastanza sicuro, come
suggerisce l’inventario dei movimenti che si oppongono a esso.
La natura rimane più imprevedibile. Se, in genere, si riconosce ormai la portata delle potenziali minacce che essa può
rappresentare per la stabilità del sistema, è pur vero che la
prossimità dei pericoli non è scontata e che si continua a discutere delle misure per evitarli. È chiaro che non si può escludere l’eventualità di uno shock ad ampio raggio che modifichi i
calcoli del futuro. Il disastro di Chernobyl è solo un piccolo assaggio dei possibili effetti di un disastro provocato dall’uomo.
Le catastrofi ecologiche di portata planetaria, sempre più temute, non sono riuscite tuttavia a spingere gli Stati verso l’adozione di un comune programma preventivo. Il capitale, unito
contro il lavoro, rimane diviso contro la natura, mentre le economie rivali e i governi tentano di far cadere i costi di un intervento gli uni sugli altri. È probabile che alla fine prevalga la logica di un agire comune che permetterà al sistema di attrezzarsi per affrontare le emissioni di carbonio, il crescente livello del
mare, il disboscamento, le carenze d’acqua, le nuove epidemie,
ecc. Ma non abbiamo la garanzia che le cose andranno così in
tempi utili. Su questo fronte, l’autocompiacimento è meno giustificato: gli incombenti conflitti su chi deve pagare il conto per
ripulire la Terra potrebbero sostituire gli antichi antagonismi
interimperialistici, che a loro tempo hanno fortemente squilibrato il sistema.
Con tutta probabilità, nel futuro prossimo il denaro rimarrà l’anello più debole. Mentre negli Stati Uniti continua a
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crescere il pesante deficit commerciale, Cina e Giappone accumulano vaste quantità di dollari e l’Europa patisce le importazioni asiatiche a basso prezzo (e la svalutazione della valuta
americana), la stampa economica di tutto il mondo è unita nel
denunciare in modo allarmato i numerosi squilibri dell’ordine
finanziario globale. Nelle maggiori economie capitalistiche
(Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Irlanda, Australia), la
miope espansione del credito ha alimentato la bolla immobiliare, e anche quelle che ne sono state esenti (la Germania)
sono ormai intrappolate nei labirinti della securitizzazione.
Per evitare il tracollo dei mercati finanziari sono allertati i
meccanismi di coordinamento fra gli Stati sviluppatisi dagli
anni Settanta (a partire dal G8 e dai più recenti accordi informali fra le banche centrali). Ma è opinione comune che rischiano di essere schiacciati dalla rapidità e dalla portata delle
crisi finanziarie della società contemporanea. In ogni caso, alla
base del fermento monetario si situano le enormi trasformazioni dell’economia reale, di cui sono l’espressione più mutevole. Qui la domanda che si pone è chiara. Nei mercati mondiali, che la sovrapproduzione ha assediato in molti settori industriali chiave prima dell’ingresso della Cina e dell’India, l’espansione della domanda globale supererà le potenzialità di
un’ulteriore offerta in eccesso o l’una supererà tanto l’altra da
intensificare le tensioni del sistema? Qualunque sia la risposta,
è probabile che nel breve termine il regno del denaro sia fonte
di instabilità, come già sta per avvenire.
IV. Ottimismo dell’intelligenza?
A parte tali considerazioni, la rapida analisi sopra abbozzata si
limita a prendere in considerazione un breve arco di tempo
(non più di sette anni) e aderisce alla superficie degli eventi.
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Ma, se adottiamo un’ottica più ampia, possiamo individuare le
più profonde trasformazioni in corso, indicando differenti esiti politici? Almeno quattro interpretazioni alternative del nostro tempo – ma possono essercene di più – propongono una
diagnosi sostanzialmente ottimistica della direzione nella quale
si sta muovendo il mondo. Tre di esse sono state concepite nella prima metà degli anni Novanta e poi ulteriormente sviluppate dopo l’11 settembre. Naturalmente, l’interpretazione più nota è quella che Michael Hardt e Toni Negri presentano in Impero, e ad essa rinviano le altre tre, con un approccio al contempo critico e positivo. The Faces of Nationalism e Global Nations
di Tom Nairn rappresentano la seconda prospettiva. Il lungo
XX secolo e Adam Smith a Pechino di Giovanni Arrighi la terza. I recenti lavori di Malcolm Bull, culminanti nel saggio States of Failure, ne propongono una quarta. Ogni riflessione sull’epoca attuale deve considerare seriamente interpretazioni
che, a una lettura superficiale, potrebbe apparire in contrasto
con il sentire comune.
1
In parole povere, Tom Nairn sostiene che il marxismo si è
sempre basato su una distorsione del pensiero di Marx, che è
andato formandosi nel corso delle lotte democratiche in Renania negli anni Quaranta dell’Ottocento. Mentre Marx ipotizzava che il socialismo sarebbe stato possibile nel lungo termine
soltanto una volta che il capitalismo avesse concluso il processo di mondializzazione del mercato, l’impazienza delle masse e
dei ceti intellettuali ha condotto alle fatali scorciatoie di Lenin
e di Mao, che hanno sostituito il potere dello Stato alla democrazia e alla crescita economica. Ne è conseguita una deviazione del fiume della storia mondiale nelle risacche di un moder339
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no Medioevo. Ma il crollo del comunismo sovietico nel 1989
consente al fiume di tornare a scorrere verso il suo delta naturale: la globalizzazione contemporanea. Nel suo senso più genuino, la globalizzazione favorisce infatti la diffusione della
democrazia nel mondo, concretizzando finalmente i sogni del
1848, repressi finché Marx era in vita. Nondimeno, lo stesso
Marx ha commesso un errore cruciale, ritenendo che fosse la
classe (e in particolare il proletariato) il vettore dell’emancipazione storica. In realtà, come aveva già mostrato l’esperienza
europea del 1848 e come avrebbe confermato il Novecento,
sono state le nazioni, e non le classi, a proporsi come forze che
muovono la storia, portatrici degli ideali della rivoluzione democratica.
Ma, proprio come il marxismo ha dato vita a una democrazia contraffatta, allo stesso modo dopo la guerra civile americana e la guerra franco-prussiana il nazionalismo – e cioè i grandi
poteri imperialisti – ha confiscato gli ideali della nazionalità.
Tuttavia, nella seconda metà del XX secolo, la decolonizzazione del Terzo Mondo e la desovietizzazione del Secondo hanno
permesso alle nazioni senza nazionalismo – le sole possibili
strutture per «la diffusione universale e l’ampliamento della democrazia come precondizione indispensabile di tutte le forme
sociali che l’oceano aperto rende possibili»15 – di riprendere
possesso del loro territorio. Certo, dopo l’11 settembre il ritrovato nazionalismo della superpotenza americana e il fanatismo
neoliberale hanno temporaneamente arrestato lo slancio progressivo della globalizzazione. Ma ciò non ci spingerà verso l’omologazione del mercato. Al contrario, perché sia umanamente
tollerabile, la logica della globalizzazione richiede che le nazioni democratiche siano diverse fra loro (pena la perdita di confini, incompatibile con ogni tipo di identità). Alla fine (presunta)
della storia non ci attende l’omogeneizzazione sociale o culturale. «Siamo ancora nel mezzo delle rapide della modernità.»
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Hardt e Negri concordano sul fatto che, essenzialmente, la
globalizzazione costituisca un processo di emancipazione, ma
giungono a un giudizio diametralmente opposto sul ruolo che
svolgono le nazioni in seno ad essa. La ricostruzione dei due
studiosi incomincia prima, nel XVI secolo, quando lo spirito
liberatorio del Rinascimento fu represso dalla controrivoluzione barocca, che ha fatto dell’assolutismo la forma originaria
della sovranità moderna. Ma la globalizzazione rappresenta la
morte dell’eredità lasciata dall’assolutismo (fondamentalmente
accolto in modo inalterato dagli Stati-nazione dell’età industriale), con la conseguente dissoluzione delle stesse nazioni in
un solo e uniforme «impero», che segna l’alba di una nuova
epoca di libertà e uguaglianza. Qui, il punto di svolta non è la
caduta del comunismo nel 1989 – a malapena citato –, bensì il
decennio 1968-1978, nel quale la vittoria antimperialista in
Vietnam e le rivolte degli operai, dei disoccupati e degli studenti in Occidente costrinsero il capitalismo a riconfigurarsi
nell’attuale aspetto universale. Con l’avvento di un impero
universale, anche le classi – come le nazioni – si dissolvono,
mentre il capitale trasforma il lavoro in qualcosa di sempre
più «immateriale» destino al singolo e, nello stesso tempo, genera una moltitudine altrettanto universale. Sono finiti i tempi
della liberazione nazionale, della classe operaia e delle avanguardie rivoluzionarie. Ma come l’impero è stato creato dalla
resistenza dal «basso», così cadrà di fronte alla resistenza portata da networks di opposizione spontanea diffusi nel mondo.
Dalle azioni sempre più numerose di questa moltitudine (dimostrazioni, migrazioni e insurrezioni), guidata da un comune
desiderio biopolitico di pace e di democrazia, scaturirà un
mondo postliberale e postsocialista. Senza le mistificazioni
della sovranità o della rappresentanza, il mondo sarà governa341
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to per la prima volta secondo principi di libertà e di uguaglianza. E ciò potrebbe accadere in qualsiasi momento. «Possiamo già renderci conto di come oggi il tempo sia diviso tra
un presente che è già morto e un futuro che è già vivente –
l’abisso che li separa sta diventando enorme. Un giorno un
evento ci proietterà come una freccia verso questo futuro che
già vive.»16
3
Anche la riflessione di Arrighi prende le mosse dal Rinascimento, ma per enfatizzare l’importanza dell’attività bancaria genovese nel XIV secolo anziché l’assolutismo spagnolo del XVI secolo. La forma individuata è ciclica. All’inizio l’espansione capitalista è sempre materiale, e si basa sugli investimenti nella
produzione delle merci e sulla conquista dei mercati. Ma,
quando la concorrenzialità raggiunge livelli tali da abbattere i
profitti, prende il sopravvento l’espansione finanziaria (investimenti in speculazione e intermediazione) come estrema via di
fuga. Una volta esaurita anche questa espansione, segue una fase di «caos sistemico», nella quale i capitalismi territoriali rivali combattono attraverso i loro relativi Stati su un campo di battaglia militare. Lo Stato uscito vittorioso da queste guerre impone la propria egemonia sull’intero sistema rendendo possibile l’inizio di un nuovo ciclo di espansione materiale. Di solito
tale egemonia implica un nuovo modello di produzione, che
combina in modi inediti capitalismo e territorialità, persuadendo gli altri Stati che la potenza egemonica rappresenta «la forza motrice dell’espansione generale della potenza di tutte le
classi dirigenti di fronte ai propri cittadini», perché poggia su
un più ampio blocco sociale. Dalla guerra dei Trent’anni scaturì l’egemonia olandese (monopolio del commercio e della fi342
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nanza globale); dalle guerre napoleoniche, quella britannica (finanza globale, dominio del libero mercato, incipiente sistema
delle fabbriche); dalle due guerre mondiali, l’egemonia americana (finanza globale, libero mercato e società industriale). E
oggi? Come Hardt e Negri, anche Arrighi vede nelle rivolte degli antimperialisti e dei lavoratori degli anni Sessanta e Settanta il moderno punto di svolta, che conclude il ciclo dell’espansione materiale del dopoguerra e costringe il capitalismo alla
fuga in avanti dell’espansione finanziaria. Ora, mentre in Iraq
l’egemonia americana entra in una mortale crisi, questo ciclo si
sta esaurendo a sua volta.
Che altro dire? La manodopera mondiale ha acquistato
sempre più forza,17 ma lo sviluppo più significativo è rappresentato dall’ascesa dell’Asia orientale. All’inizio degli anni Novanta, concentrandosi allora sul Giappone, Arrighi aveva pensato che l’umanità potesse incamminarsi verso tre possibili tipi
di futuro: un impero mondiale (con l’affermazione conclusiva
del controllo imperiale USA sul globo); una società di mercato
estesa a livello mondiale, nella quale l’Asia orientale con in testa il Giappone avrebbe controbilanciato gli Stati Uniti in modo tale che nessun Stato potesse esercitare un’egemonia; o lo
scoppio di una guerra generalizzata, intesa come ultimo scontro proprio del caos sistemico, in grado di distruggere la Terra.
Dieci anni dopo, di fronte all’ascesa ancor più significativa della Cina, Arrighi esclude il primo scenario, conservando soltanto il secondo – più ottimistico – e, con maggiori riserve, il terzo, più catastrofico.18 L’avvento di una società di mercato estesa a livello mondiale, già pronosticata molto tempo prima da
Adam Smith, significherebbe la fine del capitalismo, perché
scomparirebbero i nessi fra Stato e finanza, generati dalla rivalità fra gli Stati, che lo caratterizzano. E significherebbe anche
la realizzazione, a lungo attesa, di una perequazione della ricchezza dei popoli, che lo studioso auspica.
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Il saggio di Bull invece prende avvio dal XVII secolo, quando
nel pensiero politico di Spinoza compaiono le prime avvisaglie
dell’idea di un’intelligenza collettiva involontaria, distinta dalla
volontà cosciente pubblica. Questa tradizione, che da Bernard
De Mandeville arriva ad Adam Smith (la mano invisibile del
mercato) e a Stewart (l’origine naturale del governo) è sfociata
alla fine nella teoria generale di un ordine spontaneo elaborata
da Hayek (forse la più poderosa legittimazione del capitalismo).
Oggi, riaffiora nell’«intelligenza da sciame» propria della moltitudine di Hardt e Negri, contrapposta allo Stato come incarnazione della sovranità popolare, secondo la tradizione che discende da Rousseau.19 La dicotomia sulla quale ritornano Hardt
e Negri, tuttavia, è un’espressione della situazione di stallo in cui
si trova l’agire contemporaneo, schiacciato tra le pressioni del
mercato globalizzante e le populiste reazioni difensive.
Bull osserva che a suo tempo Hegel aveva proposto una soluzione a questa antinomia. I Lineamenti di filosofia del diritto,
infatti, delineano un passaggio dall’intelligenza spontanea della società civile (il mercato così come viene teorizzato dall’economia politica scozzese) all’ordinata volontà dello Stato liberale. Questa eredità, demolita da destra e da sinistra all’inizio del
XX secolo, necessità di una metamorfosi. Nel frattempo, difatti, abbiamo assistito alla disgregazione dello Stato globale che
si era incarnato nell’impero europeo, in quello sovietico e in
quello statunitense: prima la decolonizzazione, poi la decomunistizzazione e ora, com’è evidente, il declino dell’egemonia
americana. Questo equivale all’annuncio di una società di mercato globale e di un’intelligenza collettiva sprovvista di qualsiasi volere pubblico? Non è detto. Al contrario, l’entropia dello
Stato globale potrebbe generare strutture dissipative, che ribaltano la formula hegeliana: non l’inclusione della società civile
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nello Stato, bensì – all’opposto – la ricostituzione della società
civile su basi potenzialmente di non-mercato, come conseguenza della scomparsa dello Stato, già prevista da Marx e Gramsci.
5
Queste riflessioni costituiscono un ingegnoso tentativo di guardare oltre gli aspetti epifenomenici dell’epoca attuale per cogliere la
logica profonda che sottostà ai cambiamenti storici in atto a livello
mondiale. Ma, anche se appaiono lontane dalla cronaca contemporanea, ciascuna di tali ricostruzioni può portare a proprio sostegno una serie di prove empiriche prese dal periodo considerato. A
partire dalla fine degli anni Ottanta, la democrazia rappresentativa si è diffusa nel mondo (dall’Europa orientale all’Asia orientale e
al Sud Africa) senza far registrare inversioni tendenza o punti d’arresto. Dal Caucaso al Pacifico, sono emersi nuovi Stati nazionali
e non è stata ancora escogitata una nuova forma di democrazia
che oltrepassi quella tradizionale. Quanto ai network popolari, si
sono coalizzati a Seattle e a Genova senza una direzione centrale.
Sono calate le quote americane del commercio e della produzione mondiale. La Cina e, più in generale, l’Asia orientale si accingono a diventare il centro di gravità dell’economia globale nei
prossimi decenni. E finora la principale risposta all’espansione
del mercato globale è venuta dalle reazioni populiste.
6
Intellettualmente parlando, tutte e quattro queste interpretazioni assumono come punto di riferimento pensatori vissuti
prima della nascita del socialismo moderno: Toni Negri guarda
a Spinoza, Arrighi ad Adam Smith, Bull a Hegel, e Nairn a
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Marx prima di Marx (il giovane democratico renano che non
aveva ancora steso il Manifesto del Partito comunista). Tutti
questi studiosi hanno un background italiano ma come Toni
Negri potrebbero dire, in una certa misura, di aver sciacquato
«i panni nella Senna». Ciò appare evidente nel caso di Hardt e
di Negri, il cui vocabolario (l’impero a due dimensioni; il nomade; il biopotere) è derivato in gran parte da Gilles Deleuze
o da Michel Foucault. Ma è non meno vero per Arrighi, la cui
visione del capitalismo ha molti debiti con Fernand Braudel.
Nairn si richiama a Emmanuel Todd che, a suo avviso, ha penetrato nella maniera più chiara, anche se stravagante, le premesse antropologiche della modernità. Infine, Bull fa riferimento a Jean-Paul Sartre, a cui è vicino per le soluzioni adottate. Politicamente, tutte e quattro gli studiosi concordano sul
fatto che la globalizzazione sia un fatto positivo, che ci ha già
consegnato i primi o ultimi rantoli dell’egemonia americana.20
7
La principale linea divisoria fra queste differenti interpretazioni si situa lungo l’asse dello Stato. Per Hardt, Negri, Arrighi e
Bull, l’eclissi del capitalismo è una conseguenza dell’estinzione
dello Stato: nazionale per i primi due; egemonico per Arrighi e
globale per Bull. Viceversa, per Nairn, è vero l’opposto: solo la
piena emancipazione dello Stato-nazione può rendere universale la democrazia e assicurare la diversità culturale necessaria
all’invenzione di nuove forme sociali, tutte ancora da immaginare, al di fuori dell’ordine neoliberale.
Le domande che si possono rivolgere a ciascuno di questi
teorici sono abbastanza chiare. A Nairn si può chiedere: è vero
che la democrazia può diffondersi sul pianeta, ma non è forse altrettanto vero che essa va sempre più assottigliandosi, e non ac346
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cidentalmente, bensì come effetto della sua stessa diffusione?
Gli Stati nazionali emersi di recente sono quasi tutti fragili o
marginali. I confini possono essere un a priori antropologico,
ma per quale ragione dovrebbero essere nazionali? Non possono delimitare una civiltà, una regione o un cantone? A Hardt e
Negri possiamo domandare: la moltitudine non è forse una figura teologica, come lascia intendere l’«esodo» promesso? E
l’«evento» con cui la democrazia universale rimpiazzerà l’impero non tradisce una forma di miracolismo? Ad Arrighi: l’impero
mondiale o la società di mercato estesa a livello mondiale possono annunciare la fine del capitalismo solo se è corretta la definizione braudeliana del capitalismo come sfera dell’alta finanza –
e non del commercio o della produzione – generata dalle rivalità
fra gli Stati. Ma questa definizione è corretta? Ed è vero che le
proteste della manodopera a livello mondiale sono cresciute dagli anni Ottanta? Infine, a Bull: l’impasse creatasi tra il mercato
globale e le reazioni populiste implica che entrambi questi fattori abbiano lo stesso peso e che l’uno non possa progredire a spese dell’altro; è quello che è avvenuto negli ultimi vent’anni? Se è
vero che l’odierna versione dello Stato globale (vale a dire, l’egemonia americana) si sta dissolvendo, perché l’esito dovrebbe essere una società civile globale, di mercato o meno, e non quel
mosaico di poteri circoscritti da mercati regionali e da spazi di
civiltà, descritto da Samuel Huntington?
Ma queste sono interpretazioni che costituiscono punti di riferimento sostanziali per dibattere le linee di sviluppo a venire. La
critica richiede di affrontarle sullo stesso piano argomentativo.
1. Come ha fatto notare Alan Greenspan, le dimensioni ancora incerte delle riserve petrolifere irachene possono avere influito più
ampiamente sui calcoli a lungo termine della guerra.
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2. L’Ermattungsstrategie è «una strategia» indirizzata a «logorare il
nemico», contrapposta alla Niederwerfungsstrategie, che mira invece ad «abbattere il nemico». I due termini furono coniati dallo
storico militare tedesco Hans Delbrück, dieci anni dopo la guerra franco-prussiana. Per il loro uso politico, vedi: Perry Anderson, The Antinomies of Antonio Gramsci, «New Left Review» n.
1/100, novembre-dicembre 1976, pp. 61-70 (trad. it. Ambiguità
di Gramsci, Laterza, Bari 1978).
3. Alla fine hanno rotto il silenzio John Mearsheimer e di Stephen
Walt: prima con The Israel Lobby, in «London Review of Books»,
23 marzo 2006, e poi con The Israel Lobby and US Foreign Policy,
New York 2007 (trad. it. La Israel lobby e la politica estera americana, Mondadori, Milano 2007). Vedi anche il documentato
saggio di Michael Massing The Storm over the Israel Lobby, «New
York Review of Books», 8 giugno 2006. In lampante contrasto e
non senza viltà, la sinistra americana ha enfatizzato l’importanza
della destra cristiana, come se si trattasse di un imputato più accettabile, ignorando che quest’ultima in realtà ha agito piuttosto
da semplice forza d’appoggio. I politici israeliani hanno meno peli sulla lingua. Ehud Olmert, per esempio, ha schiettamente riconosciuto che «le associazioni ebraiche» sono «la nostra base di
potere in America», («Financial Times», 30 novembre 2007).
4. All’epoca dell’attacco, Fredric Jameson osservava: «Gli eventi
storici non si presentano a chiare lettere, ma si dispiegano in un
prima e in un dopo che li rivela solo poco alla volta» («London
Review of Books», 4 ottobre 2001). Per una più approfondita argomentazione, vedi il suo The Dialectics of Disaster, «South
Atlantic Quarterly», primavera 2002, pp. 297-304.
5. Vedi Bruce Lawrence, a cura di, Messages to the World: The Statements of Osama Bin Laden, Londra e New York 2005, pp. 9-10
(trad. it. Messaggi al mondo: la prima analisi delle dichiarazioni di
Osama bin Laden in interviste, lettere, comunicati via internet, registrazioni audio e video, Fandango, Roma 2007).
6. Si veda il giudizio di Ali Allawi, ministro delle Finanze durante
l’occupazione americana, un uomo di certo poco incline a minimizzare la tirannia del regime: «Il partito Baath contava oltre due
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milioni di iscritti quando il regime fu rovesciato. Ma non erano
esclusivamente o prevalentemente arabi sunniti. Nelle strutture
del partito, erano ben rappresentati anche sciiti, turkmeni e curdi», anche se naturalmente «i gradi più alti dell’organizzazione e
i posti chiave erano saldamente nelle mani degli arabi sunniti». E
conclude: «Non è sufficiente identificare gli anni in cui il partito
Baath è stato al potere con i disastri accaduti in Iraq. Il partito si
era trasformato in qualcosa di diverso e aveva attratto un più
complesso coacervo di attese» (Ali Allawi, The Occupation of
Iraq: winning the war, losing the peace, New Haven 2007, pp.
148-149).
Jim Holt ha sostenuto in modo convincente e non senza ironia
che tale esito rapprenterebbe una soluzione ottimale per gli Stati
Uniti. Vedi: It’s the Oil!, «London Review of Books», 18 ottobre
2007.
Per tale distinzione, vedi il penetrante saggio di Stephen Gill, «A
Neo-Gramscian Approach to European Integration», in Alan
Cafruny e Magnus Ryner (a cura di) A Ruined Fortress? Neo-liberal Hegemony and Transformation in Europe, Lanham 2003.
Movimento insurrezionale comunista di ispirazione maoista sorto alla fine degli anni Sessanta nel Bengala occidentale; il nome
deriva dal villaggio di Naxalbari, dove nel 1967 scoppiò una rivolta contadina [N.d.T.].
Si vedano: Robin Blackburn, Plan for a Global Pension, «New
Left Review», n. 47, settembre-ottobre 2007, pp. 71-92, e Philippe Schmitter, How to Democratize the European Union… and
Why Bother?, Lanham 2000, pp. 44-46 (trad. it., Come democratizzare l’Unione europea e perché, Il Mulino, Bologna 2000).
Di Roberto Unger si vedano il più recente What Should the Left
Propose?, Londra e New York 2006 (trad. it. Democrazia ad alta
energia: manifesto per la sinistra del XXI secolo, Fazi, Roma 2007)
e, per un’analisi della crisi, False Necessity, Londra e New York
2004, pp. 540-546.
Mike Davis, Il pianeta degli Slums, Feltrinelli, Milano 2006 e Influenza aviaria, Nuovi mondi media, San Lazzaro di Savena 2005
[N.d.T.].
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Perry Anderson
13. Karl Polanyi, The Great Transformation, Londra 1944 (trad. it. La
grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974, pp. 93-95).
14. Per queste stime, vedi Richard Freeman, What Really Ails Europe (and America): the Doubling of the Global Workforce, in «The
Globalist», 3 giugno 2005. Autorevole economista di Harvard,
Freeman dirige il Programma di Studi sul Lavoro al National Bureau of Economic Research.
15. Tom Nairn, History’s Postman, «London Review of Books», 26
gennaio 2006. Altri testi chiave di Nairn, tutti apparsi sulla «London Review of Books», sono Out of the Cage (24 giugno 2004),
Make for the Boondocks (5 maggio 2005), Democratic Warming (4
agosto 2005) e The Enabling Boundary (18 October 2007). Ad essi si aggiunge America: Enemy of Globalization, in «Open Democracy», 2003.
16. Michael Hardt e Antonio (Toni) Negri, Multitude, New York
2005 (trad. it. Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine
imperiale, Rizzoli, Milano 2004, p. 411).
17. Vedi Beverly Silver, Forces of Labor: Workers’ Movements and
Globalization since 1870, Cambridge 2003.
18. Giovanni Arrighi, Adam Smith in Beijing: Lineages of the TwentyFirst Century, Londra e New York 2007, pp. 7-8 (trad. it., Adam
Smith a Pechino: genealogie del XXI secolo, Feltrinelli, Milano
2008).
19. Vedi Malcolm Bull, The Limits of Multitude, in «New Left Review», n. 35, settembre-ottobre 2005, pp. 19-39, e States of Failure, «New Left Review», n. 40, luglio-agosto 2006. Vedi anche Vectors of the Biopolitical e The Catastrophist, entrambi in «New Left
Review», rispettivamente maggio-giugno 2007 e 1° novembre
2007.
20. Ciò che differenzia la moltitudine dall’impero è la caduta dell’idolo della repubblica americana.
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