ETTORE ARCHINTI UN TESTIMONE 1.Ettore Archinti nacque a Lodi
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ETTORE ARCHINTI UN TESTIMONE 1.Ettore Archinti nacque a Lodi
ETTORE ARCHINTI UN TESTIMONE 1.Ettore Archinti nacque a Lodi il 30 settembre 1878. Fin dal termine delle scuole elementari si dedicò alla scultura prima nel laboratorio di marmi e sculture di Tommaso Giudici, poi all'Accademia di Brera. Viaggiatore curioso e attento, studioso appassionato della natura e dell'uomo scelse di vivere una vita dedicata alla difesa della libertà, dei diritti dei più poveri e dei lavoratori dedicandosi alla politica come servizio per migliorare la vita della comunità. E consigliere provinciale di Milano. Predicatore della nonviolenza fu più volte tradotto in carcere, sopportò isolamento, umiliazioni, sofferenze, discriminazione. Nonostante ciò non ha mai smesso di credere nella capacità dell'uomo di riparare ai suoi errori e di rinascere. In una lettera al suo giovane amico Giovanni Vigorelli, noto scultore lodigiano, scrive una frase che può essere considerata un testamento spirituale: L'artista deve soffrire più di tutti, soprattutto non vuol servire nessuno, attaccarsi a nessuna catena e fare quello che gli detta il cuore”. Presentiamo ora alcune letture che narrano l'arresto e la morte di Archinti tratte dal libro di Ercole Ongaro: Ettore Archinti. Un testimone. 2. All'alba del 21 giugno 1944 Archinti fu svegliato da colpi e voci alla porta: erano agenti venuti da Milano... Mentre gli perquisivano la stanza ebbe il tempo di raccogliere poche cose e di appuntare un saluto su un foglietto di carta usata: “Coraggio miei cari, l'amore è eterno ed io per sempre Resterò tra voi”. Scrivendo quel commiato Ettore, forse per un attimo, lucidamente intuì e presentì di partire per un viaggio senza ritorno... Lo portarono via in una Lodi quasi deserta: per strada i pendolari assonnati del primo treno per Milano. Entrò direttamente a S. Vittore, dove il giorno prima erano stati trasferiti la Folli e Meazzi. Edoardo Meazzi descrive così Archinti detenuto: “Nella cella è quello che si alza più presto, che cerca le notizie che trapelano dal di fuori: crea intorno a sé un cerchio di simpatia, discute infervoratamente con i compagni di sventura d'idee vecchie e nuove, si sforza di correggere dei traviati cercando di convincerli a lasciare la via del male con il calore della sua fede ingenua e appassionata...” 3. La notte tra il 16 e il 17 agosto i detenuti di S. Vittore furono svegliati, fatti uscire dalle celle, contati, sotto il controllo delle mitragliatrici. Molti di essi erano convinti che i tedeschi volessero scegliere prigionieri da fucilare per rappresaglia... Anche Archinti, dopo 57 giorni di S. Vittore, senza essere mai stato interrogato né aver conosciuto perché era stato catturato una seconda volta, pur essendo stato dichiarato inabile al lavoro da una visita medica, partiva per il campo di concentramento. L'ultima lettera di Ettore, in data 20 agosto rievoca il viaggio e alcune prime impressioni sul nuovo domicilio: “Bolzano a 230 metri sul livello del mare è certamente un bel soggiorno per noi che proveniamo da S. Vittore, Mi hanno rasato, dato una camicia di flanella verde, immatricolato 3131 con triangolo rosso, facilità di pulizia. L'orribile soggiorno si S. Vittore viene facilmente dimenticato e con esso gli insetti ed i carcerieri...” 4. Il 6 settembre oltre 500 detenuti del campo di Bolzano vennero stipati su vagoni bestiame, sbarrati dall'esterno, che furono aperti soltanto al termine dello spossante viaggio: su ogni vagone era stata posta soltanto una cassetta di mele da dividere fra tutti, nient'altro. Il giorno dopo arrivarono, al mattino presto, in una località dell'Alta Baviera, Flossenburg, presso i confini con la Cecoslovacchia. Incolonnati e scortati attraversarono la borgata, adagiata in un paesaggio collinare incantevole... Continuarono su una strada in terra battuta finché giunsero all'entrata del lager. Il campo aveva un esteso piazzale per l'appello dei deportati; le baracche si arrampicavano, ordinatamente allineate, sul fianco di una collina... 5. I neoarrivati furono tutti assegnati al blocco 23, quello della quarantena. I primi che si recarono ai servizi igienici tornarono inorriditi dai compagni: in un angolo vi era un mucchio di cadaveri, scheletriti ridotti a pura pelle e ossa, senza un filo di carne addosso. Alcuni avevano tatuato il numero di matricolo, tutti erano completamente nudi... Ad aumentare l'orrore di Archinti e dei suoi compagni concorse la vista dei reclusi del blocco 22, denominato il convalescenziario, che in realtà era l'anticamera del forno crematorio perché vi erano assegnati i vecchi e gli ammalati, i malridotti da feroci bastonature dei kapò, insomma tutti gli inabili al lavoro. Furono quelli del blocco 22 ad additare loro un fumo nero e denso che si levava dietro la propria baracca: dal camino del forno crematorio. 6. I blocchi 22 e 23 erano isolati dagli altri; davanti avevano un vasto spazio nel quale i deportati dovevano trascorrere tutta la giornata, anche con cattive condizioni atmosferiche, da mattino a sera. “alle 4,30 sveglia data dal capoblocco. Immediatamente il capoblocco e i suoi si buttavano tra i castelli a sollecitare a gommate e a bastonate i ritardatari, perché immediatamente tutti dovevano essere fuori dalla baracca, e fuori si rimaneva fino alla sera alle 20, qualunque tempo facesse. Alle 5 distribuzione del caffè (acqua calda) e poi adunata sull'attenti in attesa dell'appello del mattino che avveniva alle 7... Cinque giorni dopo l'arrivo morì il primo del gruppo dei deportati con Archinti; Ugo Suardi, assalito da forti dolori al ventre per una peritonite. Olivelli aveva chiesto al kapò di fare qualcosa per lui: la risposta fu una risata. Olivelli raccolse alcuni compagni attorno al giaciglio del morto e pregò ad alta voce... Olivelli, nel periodo di quarantena, continuò la sua azione di assistenza e di conforto. 7. Ma anche Archinti era uno di quelli che aiutava gli altri. Ferruccio Belli ha ricordato: “In una situazione incredibile, ove le prospettive di rimanere in vita andavano facendosi sempre più flebili, ciascuno di noi manifestava reazioni anche incomposte, egoismi, violenze, per cui la vita assumeva aspetti che erano completamente svuotati da ogni contenuto umano. Ettore comprese la tragicità della situazione: la necessità di non lasciarsi completamente sopraffare dalla vista dei moribondi destinati al forno crematorio, dalle continue punizioni e sevizie dei kapò specie sui più anziani e sui più deboli. Archinti si prodigò, anche a scapito della propria incolumità, con spirito umano per parlare, sostenere, aiutare coloro che più degli altri stavano perdendo la volontà di lottare per sopravvivere”. 8. Alla fine di settembre Archinti non fu ritenuto idoneo al lavoro e passò quindi nel blocco 22, il precrematorio in attesa della morte. Antonio Scollo così lo descrive: “Anche ora quando penso ad Archinti o quando ne sento parlare lo rivedo camminare avanti e indietro con la testa bassa, con i vestiti che non bastavano a coprire dal freddo, con gli zoccoli aperti ai piedi. La mia impressione fu che fino all'ultimo rimase sereno e dignitoso”. Guardando fisso la morte negli occhi allucinati dei compagni forse Archinti trovò la forza nel ricordare, ancora una volta, il canto della vita: i campi verdi e gialli della sua terra lodigiana tra rogge e cortine di pioppi, le bianche spiagge dell'Adda, il suo studio rallegrato dal volo degli uccelli e visitato dagli amici, i momenti intensi della creazione artistica, le grandi speranze della passione politica, i viaggi, la musica, l'amicizia, l'amore. 9. Ettore morì il 17 novembre 1944. Aveva resistito 72 giorni nel campo di sterminio di Flossemburg. Il suo corpo denudato, consunto e scheletrito, fu rovesciato sul mucchio di cadaveri del waschraum e poi trasportato al forno crematorio, nella valletta a ridosso del blocco 22. Le sue ceneri si dispersero nel vento assieme a quelle di uomini appartenenti a nazioni e fedi diverse: senza saperlo i suoi assassini adempirono un suo desiderio perché aveva sempre lottato e sognato che gli uomini si ritrovassero liberi da ogni barriera di fede, di nazionalità, di classe. Certamente perfino nel campo di sterminio Archinti fu incapace di odiare, convinto com'era che nel fondo dell'uomo, anche del carnefice, c'è un lembo di cielo, di innocenza, di bontà e che ogni sentimento di vendetta e di odio rende più disumana e inospitale la terra. Ben si comprende allora la sua frase di commiato: Coraggio miei cari l'amore è eterno ed io sempre resterò fra voi.