Numero Giugno `10

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Numero Giugno `10
Giugno '10
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Giugno '10
Numero Giugno '10
EDITORIALE
Benritrovati a un nuovo appuntamento con “Fuori dal Mucchio” e con quanto di meglio
avviene nell’ambito della sempre più vitale scena underground italiana. Una realtà piccola a
livello di locali e spazi, enorme per quanto riguarda il numero di band, etichette e dischi
pubblicati; il che rende non semplice il nostro lavoro di selezione, ché nella quantità non
sempre è agevole trovare la qualità, che pure non manca. Anche questo mese, comunque,
ci pare di aver selezionato per voi proposte di livello medio più che buono, delle quali potete
leggere nella sezione delle “Scelte”. Per quanto riguarda gli “Incontri”, invece, si passa dalle
atmosfere heavy-psichedeliche degli Ufomammut (che festeggiano il decennale dall’uscita
del loro primo album) alle avventure multimediali dei Grimoon, dagli interessantissimi
Ciclope agli ormai sciolti Six Minute War Madness (in occasione della ristampa del loro “Full
Fathom Six”, anch’esso risalente a un decennio esatto fa); e poi, ancora, Sikitikis, Marquez,
Jet Set Roger ed Elton Junk, artisti la cui conoscenza merita assolutamente di essere
approfondita, al di là di qualsiasi discorso legato a generi e stili.
Buona lettura, quindi, e buoni ascolti. E appuntamento al mese prossimo per l’ultimo “Fuori
dal Mucchio” prima della pausa estiva.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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Ciclope
Scambio di mail con Francesco Andrea Berti, bassista del quartetto Ciclope. “Una notte
l’inferno” (Green Fog/Venus/Believe) è un album d’esordio, votato al rock in italiano, che
abbina sonorità aggressive e contenuti sospesi tra buio interiore e suggestioni surreali.
Cerchiamo di vederci meglio.
Cosa resta della precedente esperienza come We Were OnOff e che obiettivi vi siete
invece posti come Ciclope?
Il cammino fatto finora con We Were OnOff rimane saldo ed è di fondamentale importanza
perché riflette in pieno quelle che sono le nostre sensibilità e i nostri intenti; Ciclope non
sostituisce We Were OnOff, ma vi si affianca. Abbiamo sentito l’esigenza di sperimentare
con la lingua italiana e con un uso diverso della voce, a partire dalla stessa fase
compositiva; il progetto We Were OnOff, infatti, dava più spazio agli strumenti, creando
dinamiche un po’ più “suonate” e lasciando alla voce in inglese il compito di incorniciare il
tutto, anche apparendo distante. Con Ciclope, invece, ci è piaciuto avere modo di iniziare
quello che per noi è un vero e proprio esperimento: un cantato in italiano, utilizzando la voce
in modo più efficace, partendo talvolta dai testi per arrivare alla struttura ritmica. Detto ciò,
eravamo proprio noi quelli più curiosi di ascoltare il risultato dell’esperimento... Abbiamo
puntato molto su ritmiche serrate e taglienti, una voce come detto presente, chiara, diretta e
non scontata. Vogliamo continuare su questa strada, senza autolimitarci, facendo sempre
quello che ci piace nel modo per noi più originale possibile. Vogliamo cantare nella nostra
lingua, in un modo radicalmente diverso da quello che le varie radio e TV mainstream ci
propongono quotidianamente, anche toccando tematiche che di solito il pop-rock nostrano
evita o sfiora in modo superficiale. We Were OnOff rimane vivo, ma in letargo, Ciclope è
sveglio e procede di buon passo.
In molti hanno evidenziato un’affinità, sia sonora che attitudinale, con Il Teatro degli
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Orrori: ciò suona per voi come un complimento o vi infastidisce?
Direi tutte e due le cose. Ci fa senza dubbio piacere essere in qualche modo ricondotti a
una band che ben conosciamo, stimiamo, con la quale abbiamo condiviso il palco e che
sentiamo vicina anche per appartenenza geografica... Crediamo, però, di avere una
attitudine un po’ diversa, sia a livello strumentale che di contenuti. Capisco che oggi un certo
tipo di rock in Italia sia portato avanti in modo egregio e quasi esclusivo dal Teatro degli
Orrori, e che quindi sia abbastanza prevedibile associare certe sonorità a questa band. Da
parte nostra possiamo però dire di avercela messa davvero tutta per caratterizzare il più
possibile il nostro lavoro, sia vocale che strumentale. C’è poi da considerare il fatto degli
ascolti e di alcune basi di partenza che immagino siano abbastanza comuni tra chi fa musica
come la nostra: la scena rock americana fine anni 80/ inizio 90 in tutte le sue sfaccettature e
caratterizzazioni sonore ha lasciato veramente un segno profondo ed è inevitabile che
persone e musicisti della nostra generazione la ritrovino nei propri lavori, nella propria
attitudine.
Teatro degli Orrori a parte, si avvertono di tanto in tanto rimandi a gruppi come
Marlene Kuntz, Massimo Volume o Linea 77. Quali sono, in realtà, gli ascolti o più in
generale le influenze artistiche che vi hanno segnato?
Le influenze artistiche e gli ascolti che ci hanno segnato sono veramente vari e differenti per
ciascuno di noi, è veramente difficile dire chi o cosa è stato fondamentale per la nostra
formazione. Spaziamo molto facilmente dalla Motown al doom. Direi però che tutti e quattro
siamo sempre stati poco attenti e attratti dalla scena nostrana, che a parte qualche piacevole
eccezione, tra cui i nomi citati, non ci ha mai entusiasmato troppo. Apprezziamo la cultura
musicale classica, gli anni ‘70, il metal e l’hard rock. Quello che ci può accomunare tutti e
che fa un po’ da caposaldo è il filone rock minimalista “albiniano” della scena di Chicago e
della Touch And Go, passando per il post-hardcore alla Fugazi, agli Unwound, al post-rock
di Karate e Tortoise e altre influenze più dispari e matematiche che portano fino
all’avanguardia jazz/noise. Solo per fare qualche nome, anche se ce ne sarebbero
abbastanza da riempire un elenco bello corposo...
All’esplosione degli anni 90 era seguita una certa fase di stallo, ma negli ultimi anni la
situazione è decisamente tornata a farsi movimentata, parecchio creativa. Che
opinione avete dell’attuale scena rock italiana?
La scena rock italiana nel corso degli anni è sempre stata un po’ disgraziata, se paragonata
a quella di altri paesi: sarà la mancanza di cultura musicale o la scarsa volontà di investire
da parte di chi fa dischi... Fatta questa premessa, ci sono però sempre stati, anche se a
macchia di leopardo, degli esempi di eccellenza, di originalità e qualità; quelle realtà che
riempiono un locale col passaparola e che risultano poi indimenticabili. Negli anni ‘90 è
successo che alcuni locali e operatori del settore, sull’onda dei fermenti d’oltreoceano,
hanno iniziato a interessarsi all’underground, dando una mano a creare in alcune aree dei
veri e propri movimenti di ottimo livello. Qui da noi, tra Veneto e Friuli, sono stati anni belli, in
cui era possibile farsi dare il contatto del gestore di un locale da un amico, ottenere una data
ben pagata, fare un buono spettacolo con pubblico interessato e garantito. Ora, malgrado la
situazione dopo lo stallo sia di sicuro più creativa, faccio difficoltà a ritrovare la spontaneità e
l’interesse di dieci anni fa. Certo, ai grossi eventi o ai concerti dei nomi più pubblicizzati ci va
un sacco di gente, ma è come se a nessuno interessasse più ciò che c’è di alternativo. È
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chiaro che questa è un’analisi soggettiva. Con WWO abbiamo avuto la possibilità negli anni
scorsi di fare più di qualche data tra Sicilia, Calabria e altre regioni del Sud: beh, devo dire
che là le cose, per affluenza di pubblico, partecipazione ed entusiasmo. funzionano meglio
che da noi. Ora MySpace e Facebook aiutano a farsi conoscere e ascoltare: ci sono sempre
più band con profili aggiornati ed è facile farsi un idea, positiva o negativa, senza uscire di
casa, davanti al computer, invece che uscire e infilarsi in un qualche club per uno show dal
vivo. Dicendo questo mi sento un dinosauro, ricordando più di qualche “demo” registrato in
cassetta e distribuito a mano... Altri tempi.
In base alla vostra esperienza quanto è difficile al momento, all’interno della
medesima scena rock italiana, riuscire a ritagliarsi uno spazio personale, farsi
ascoltare?
Direi che è sempre più difficile perché nel corso degli ultimi anni si sono aggiunti ostacoli e
complicazioni. Tempo fa la strada migliore per divertirsi con un buon riscontro era saper
rendere bene la propria proposta e suonare il più possibile. Prima o poi qualche etichetta
saltava fuori, così come altre utili e stimolanti collaborazioni. Adesso pare che la cosa meno
importante sia suonare e suonare bene: conta avere siti in regola e un’etichetta, anche se
sei tu stesso che fa finta di possederla. La programmazione della maggior parte dei club è
gestita da agenzie che promuovono gruppi amici o amici di amici ed è sempre più difficile
riuscire a proporsi senza i giusti agganci. Più quantità, meno qualità. In sostanza oggi, per
riuscire a fare quello che fino a sei o sette anni fa era facile, ci si deve impegnare parecchio
di più. La situazione comunque non è tragica, chi vuole lavorare bene continua a farlo e a
proporre concerti e dischi di qualità. Noi speriamo di avere delle chance e di far interessare
più persone possibili al nostro progetto.
Come procedete alla lavorazione dei pezzi, tra composizione della musica e stesura
dei testi?
Ciclope è nato con lo scopo di rendere comprensibile in lingua italiana un cantato
“importante” e distante dalla maggior parte delle proposte pop odierne; per raggiungere
l’obbiettivo abbiamo anche adattato il nostro approccio alla composizione. Normalmente i
nostri brani nascono prima strumentali, anche se poco strutturati; Igor, il cantante,
contrariamente a quanto faceva prima con We Were OnOff, non suona e si dedica solo alla
voce che viene impiegata come un vero e proprio strumento, si inserisce negli intrecci creati
da chitarre e bassi e va a definire la struttura generale del pezzo, arricchendolo di senso e
significato. Non è una regola generale, capita infatti che spesso sia una melodia vocale con
le sue cadenze a indirizzare il suonato, magari in qualche stacco, cambio o passaggio. La
sfida più importante è stata appunto quella di concepire in modo differente la nostra
produzione, tenendo in primo piano i testi e l’espressività vocale, per poi riadattare e
ricostruire assieme una base ritmica decisa e portante. Per la stesura dei testi e per definire
le tematiche ci affidiamo alle idee che emergono in sala prove, luogo che viviamo non
solamente come occasione per far pratica sui pezzi, ma anche e soprattutto come momento
di confronto a trecentosessanta gradi. Uno di noi può arrivare con un testo o un’idea da
sviluppare, così come può capitare di lavorare direttamente tutti assieme.
Pensate, insomma, che sia importante esprimere determinati concetti nella nostra
lingua?
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Sì, la lingua italiana è il motore che ha dato il via a Ciclope. Non pensiamo però che sia
importante o fondamentale cantare in italiano; per noi è stata un’esigenza, la volontà di
metterci davanti a qualcosa che nel corso degli anni precedenti avevamo sempre
volutamente accantonato. Dall’inizio dell’anno scorso invece ci siamo ritrovati a pensare a
cosa sarebbe potuto venir fuori dall’esperimento di un pezzo di prova in italiano. Beh, non è
stato facile, ma alla fine siamo stati soddisfatti del risultato ottenuto. Il fatto di cambiare
lingua ha reso meno immediata la scrittura dei testi, ha reso importante un lavoro sulla
metrica e soprattutto la necessità di arrivare a tematiche forti che uscissero dirette e scandite
con forza. Per concludere, il processo che ci ha portato a questo progetto e a questo primo
disco ci ha sensibilizzati sulle potenzialità espressive della nostra lingua e siamo soddisfatti
del fatto che quello che abbiamo scritto, che diciamo possa essere capito.
Nelle note di presentazione esprimete l’esigenza di rapportarsi alla “realtà nuda e
cruda” del mondo esterno, che non è di certo confortante come evidenziato dal titolo
e dal mood dell’album. Quali erano gli intenti a livello concettuale?
Non abbiamo cercato di confortare o rassicurare nessuno bensì fare del nostro meglio per
mostrare quegli aspetti che di solito sono i più scomodi e che non vengono quasi mai presi in
considerazione. Non volevamo parlare della politica, della necessità del cambiamento, delle
rivoluzioni, dell’amore o di fatti e avvenimenti quotidiani. Ci siamo invece concentrati su tutto
quello che accade a ciascuno di noi dopo una giornata qualsiasi, quando si è da soli con se
stessi. Non è per questo un lavoro pessimista o cattivo, è semplicemente un percorso che
tende a dare risalto alle pulsioni che isolano, piuttosto che a quelle che avvicinano; anziché
partire da esperienze personali per arrivare a una visione generale del mondo, siamo partiti
dal minimo comune denominatore della superficialità dell’apparire e del voyeurismo di
massa per poi arrivare dritti all’intimo nudo e crudo dell’individuo. Abbiamo intrapreso un
percorso volto allo smascheramento dei sentimenti più intimi, un richiamo alle emozioni per
ridare dignità e importanza alle nostre debolezze, senza però liquidarle come cose di poco
conto o cercare di risolverle prendendo come riferimento il personaggio di un film, una frase
fatta... Non ci si può sempre sentire dei “nessuno” che comunicano senza avere nulla da
dire; ci siamo metaforicamente alzati dai nostri comodi divani, siamo scappati dai telegiornali
thriller e non crediamo più che sia rassicurante sentirsi dire che andrà tutto bene. Ci siamo
chiusi nel buio di noi stessi, il tempo di riprendere fiato e riaffrontare una nuova giornata, una
notte l’inferno.
Oltre al Teatro degli Orrori, ci sono altri nomi recenti, su tutti Le luci della centrale
elettrica, che risultano generazionali nel rapportarsi al disagio esistenziale. Al di là
delle differenze stilistiche, vi sentiti vicini a un simile approccio espressivo, magari
inevitabile specchio dei tempi correnti?
Non saprei esattamente come etichettarci. Non so se sia possa parlare di disagio
esistenziale; siamo stati attratti dall’idea del concept e abbiamo di conseguenza sviluppato
tematiche collegate, ma analizziamo ciò che ci circonda partendo dagli aspetti meno noti o
meno scontati, ci piacciono i paradossi e le cose surreali. Per noi essere lo specchio dei
tempi correnti non è raccontare quanto male stiamo perché le cose non funzionano o
indicare come responsabile questa o quella ragione; abbiamo sempre avuto l’ambizione di
essere un qualcosa di più, un qualcosa di diverso e sfuggevole che non si esaurisca con la
critica sociale o con il male di vivere, ma che vada oltre, possibilmente affiancando agli
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aspetti crudi, tristi, negativi o malandati della realtà odierna altri aspetti onirici e visionari, che
credo non manchino in questo nostro primo lavoro.
Una curiosità: perché avete scelto proprio il nome Ciclope, con relativi logo,
splendido artwork e altrettanto splendido videoclip?
Come detto prima, per noi la sala prove è anche un luogo di scambio di idee. L’idea Ciclope
è nata quasi per caso, dopo che ci si stava arrovellando su un possibile nome d’impatto per
il nostro nuovo progetto. Leonardo, chitarra/basso e cervello dietro a Toyshirt, si stava già
occupando di alcuni progetti grafici e ha accolto molto favorevolmente l’idea Ciclope,
iniziando subito a far lavorare la fantasia con bozzetti e disegni. Il video e l’artwork sono stati
il frutto di un duro lavoro, ma anche della fortuna di avere tra noi un professionista che,
vivendo appieno il processo creativo e musicale, è sempre in grado di rendere delle grafiche
d’impatto, che ci sono sempre piaciute e che continuano a rappresentarci in pieno.
Contatti: www.ciclope.me
Elena Raugei
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Elton Junk
“Loophole” (Forears) è l'ultima prova di eclettismo degli Elton Junk, in disco di canzoni rock
apparentemente classiche infiltrate in realtà da cambi di umore e di atmosfera, con la
presenza di molti ospiti e una naturale predilezione al bilinguismo. Ne abbiamo parlato con il
cantante e chitarrista del gruppo senese, Andrea Tabacco.
“Loophole” è il frutto di sei mesi di lavoro, tre in studio e tre impegnati a limare e
rifinire i brani: una scelta che in qualche modo rispecchia il sound dei pezzi, da un
lato immediati e molto rock, dall'altra piuttosto vari e complessi nelle loro sfumature.
Andrea Tabacco: Ci è sempre piaciuta la musica con diversi piani di lettura, credo che sia
una via per aprire la coscienza. Piuttosto che ascoltare dieci dischi ho sempre preferito
ascoltarne uno dieci volte. Credo che questo sia passato nel mio modo di scrivere. Dall'altra
parte, non amiamo la musica troppo cerebrale. E' stato quindi necessario un lavoro di sintesi
in studio. A differenza dei dischi precedenti questo è un lavoro molto più meditato, e forse,
proprio per questo, più accessibile.
La cosa che colpisce immediatamente, ascoltando il vostro disco, è il binario
parallelo su cui scorre la musica: da un lato un eclettismo che vi consente, come già
in passato, di attraversare atmosfere e arrangiamenti anche molto diversi tra loro,
dall'altra una particolare predilezione per certe atmosfere tra new wave e desert rock
che mi fanno venire in mente Gun Club e Thin White Rope. Insomma, è un disco
eclettico, come sempre, ma anche molto classico, molto compatto nel prediligere una
forte dialettica con una certa tradizione rock. Trovo che la forza del disco sia anche
una naturale e mai forzatamente esibita schizofrenia, comunque più evidente rispetto
al passato.
La possibilità di portare per mano l'ascoltatore in posti dove non è solito andare: questo ci
affascina della musica. Credo che la sperimentazione in ambito rock abbia ancora molto
margine. Penso, in particolar modo, che il rock’n’roll possa essere un genere soggetto a
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contaminazione da parte di altri, e allo stesso tempo possa diventare genere contaminante,
a sua volta. A ben guardare, diventa superfluo qualsiasi discorso di appartenenza a un
genere. Certo, la galassia è quella del rock, ma non c'è un pianeta preciso su cui ci piace
vedere la nostra musica. Le canzoni sono come persone, possiamo metter loro tutti i vestiti
che vogliamo ma quello che conta è quello che c'è dentro al vestito.
Vi siete assestati nella dimensione del power trio, eppure “Loophole”, nella sua
compattezza, è comunque un disco pieno di ospiti, con contributi di musicisti che
provengono da background anche molto diversi. Scelti, immagino, in base alle
esigenze di ciascun brano.
Esatto. Il germe dei pezzi nasce solitamente in camera mia, poi diventano "Elton Junk".
Vengono preparati per l'esecuzione dal vivo in sala prove e ai concerti. Quando funzionano
registriamo e, se serve, aggiungiamo altro. Il criterio di scelta degli interventi è stato questa
volta particolare. Era necessario non calcare in maniera "didascalica" i vari riferimenti
classici che tutti possono sentire nelle nostre canzoni. Questo per preservare quel senso di
straniamento che si prova ai nostri concerti. Gli ospiti in questo caso hanno costituito la
variabile necessaria a far si che l'alchimia funzionasse. Sono arrivati, e ci hanno stupito con
la loro arte. Alla fine siamo stati noi le vittime dello stesso straniamento, perché, pur avendoli
"scelti", hanno avuto grande libertà di interpretazione e hanno portato i pezzi su altre
dimensioni.
Avete sempre alternato l'inglese all'italiano, l'impressione è che la scelta della lingua
sia profondamente legata al mood del singolo brano, e che l'italiano risulti più
funzionale alle vostre spinte più cantautoriali se vogliamo... C'è qualche particolare
motivo dietro a questa scelta "bilingue", e alla necessita di portarla avanti? Spesso i
gruppi che praticano questo genere di scelta prima o poi si accasano su uno dei due
versanti.
È in parte vero: l'italiano funziona meglio quando è poesia. Con l'inglese le parole diventano
invece veri e propri strumenti musicali. Anche questa però è una delle tante regole che ci
piace violare.
Non sentiamo l'esigenza di limitare la nostra musica all'uno o all’altro
idioma, per lo stesso motivo per cui non sentiamo la necessità di accasarci nel rock piuttosto
che nel punk o nella psichedelia. Pian piano sta passando negli italiani il concetto che
volevamo esprimere con "Elton Junk". Credo che rompere le scatolette dei generi musicali e
– soprattutto – delle mode musicali, sia il primo passo per portare un'evoluzione nella scena
italiana.
Contatti: www.myspace.com/eltonjunk
Alessandro Besselva Averame
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Grimoon
Per metà Italiani e per metà francesi, i Grimoon continuano con il loro terzo album, “Super 8”
(Macaco/Audioglobe), un percorso nell'immaginario che è, non sembri una consumata
iperbole, unico nel suo genere. Ci siamo fatti raccontare il mondo dei Grimoon da Solenn Le
Marchand e Alberto Stevanato.
La scelta dei titoli non è casuale: dalla “lanterna magica” del lavoro precedente a
“Super 8”. Non è però una questione di migliorie tecnologiche, ma la scelta di
utilizzare mezzi diversi. Rispetto al lavoro precedente avete seguito un percorso più
personale, nel senso che ci sono pochi interventi e contributi esterni, ma
contemporaneamente avete in qualche modo ampliato la vostra formula, allargandola
a coloriture a tratti più psichedeliche e ad una concezione più “orchestrale” degli
arrangiamenti. Siete d'accordo?
Solenn e Alberto: Le canzoni di “Super 8” sono state scritte in modo diverso rispetto a
quelle di “Les 7 Vies Du Chat”. “Super 8” è nato in sala prove con tutto il gruppo e quindi
abbiamo subito iniziato a pensare agli arrangiamenti e, appunto, alle parti “orchestrali”. “Les
7 vies du chat” era invece nato da provini per chitarra, voce, drum-machine e synth. Gli
arrangiamenti sono poi stati sviluppati in studio assieme a Giovanni Ferrario. Secondo noi, in
realtà, è “Les 7 vies du chat” ad essere un po' più psichedelico, Ferrario ci spingeva verso
suoni meno convenzionali, ogni strumento passava attraverso amplificatori ed effetti
analogici. “Super 8” è invece un disco molto pensato e suonato già prima di entrare in studio,
di conseguenza ne è uscito fuori un album più ricco di arrangiamenti, anche se qualche
brano era inizialmente incompiuto. “Partisan” e “Je me transforme”, che sono praticamente
nati in studio, lasciano più spazio alla psichedelia. Nei titoli ci piace sempre rendere in
qualche modo omaggio alla Settima Arte, alla quale ci sentiamo decisamente legati. Inoltre,
la lanterna magica e il super8 sono mezzi affascinanti, e non poco, li abbiamo utilizzati
entrambi con grande piacere ed entusiasmo. Sono mezzi misteriosi, a loro tempo entrati
nell’immaginario collettivo, da cui non si sa mai cosa ne uscirà. Ci piace pensare che la
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stessa cosa valga anche per i Grimoon.
L'impressione, ascoltando il disco e guardando il film che lo accompagna, “Neera”, è
che ci sia un costante travaso di atmosfere da un mezzo all'altro, con una malinconia
e una coloritura noir di fondo. Il disco non è l'accompagnamento sonoro del film (e
viceversa) eppure entrambi provengono in qualche misura dallo stesso luogo della
vostra sensibilità artistica. In questo senso, mi pare che i Grimoon siano più una
specie di “factory” che una pura e semplice band.
Solenn: Sì, è decisamente vero! Negli anni siamo in qualche modo riusciti a coinvolgere
numerose persone attorno al progetto, che vuole essere una sorta di “work in progress”.
Tutto nasce dalla necessità di dare una qualche forma artistica al mondo che popola la
nostra fantasia. Il colore di partenza è il nero, ma poi sfuma continuamente...il nostro
immaginario si lascia volentieri contaminare da tutto quello che ci circonda. In concerto
proiettiamo anche dei cortometraggi da noi realizzati, molto “colorati”, sia le storie raccontate
che le tecniche utilizzate variano e ci portano in zone meno ombreggiate... “Super 8” si
chiude con la canzone “Je me transforme”, che contiene il nostro manifesto: “tout ce qui est
dans ma tête existe pour être transformé” (“tutto quello che è nella mia testa
esiste per essere trasformato”). Tutte le idee possono prendere una qualche forma artistica,
e il film “Neera” rappresenta abbastanza bene questo pensiero. I campi esplorati fino ad ora
sono stati principalmente la musica e il video ma già con “Neera” ci siamo avvicinati a nuove
forme artistiche. Diamo retta a quello che ci passa per la testa e ci lasciamo volentieri
influenzare da tutto quello che ci circonda.
Al di là dei suoni, mi pare che questa volta, come già avveniva in passato ma con più
determinazione, le vostre canzoni abbiano scelto una dimensione più narrativa,
proprio come nel film, parallelamente, affrontate una delle storie più universali
possibili, legata alla stessa concezione di creazione artistica... Il racconto, i
personaggi, sono al centro del disco.
S.: Quando scrivo i testi delle canzoni mi lascio molto ispirare da quello che vedo e sento...e
tutto passa poi attraverso il filtro della fantasia e della trasformazione! Mi piacciono le
trasformazioni e le metafore. A questo va senz'altro aggiunto un certo fascino per l'atto della
creazione artistica, della magia che vi è contenuta. C’è poi da dire che girando un
cortometraggio per ogni brano torna molto utile raccontare delle storie nei testi delle canzoni.
Ne ricaviamo personaggi e scene che diventano altrettante storie visive.
Che cosa ci potete dire di questa “San Diego connection”? Oltre alle date in
compagnia dei Black Heart Procession, e al fatto che Pall Jenkins è autore della
copertina del disco, al banco del mixer c'è il loro concittadino (e in passato anche
componente dei BHP) Scott Mercado, che ha tra l'altro pubblicato l'ultimo suo album
su Macaco Records... Come è nato questo canale privilegiato (immagino attraverso
una di quelle concomitanze che ancora dimostrano la vitalità della scena
indipendente) e come vi siete trovati, partendo da un punto di vista già in qualche
modo “internazionale”, a lavorare con un musicista statunitense?
Solenn e Alberto: La “San Diego connection” è nata praticamente assieme ai Grimoon.
Poco dopo l'uscita del nostro primo demo ci siamo messi in contatto con Pall dei Black
Heart, poi il tempo e l'amicizia hanno fatto il loro percorso. Nel 2006 abbiamo incontrato di
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persona i Black Heart e abbiamo aperto due loro concerti in Italia. Così abbiamo incontrato
Scott Mercado (aka Manuok) e ci siamo innamorati della sua musica. Il resto è andato avanti
progressivamente: Scott e Pall hanno suonato su un brano di “Les 7 vies du chat”, abbiamo
pubblicato il disco di Manuok, Scott è venuto in Italia in tour, e poi a registrare “Super 8”, Pall
è stato da noi a Capodanno e infine è arrivato il tour italiano con i Black Heart Procession. Il
tutto in modo molto semplice e naturale, perché c'è stima reciproca e voglia di collaborare. A
ottobre saremo noi ad andare da loro, per un tour sulla West Coast e poi vedremo...Ci siamo
sempre trovati bene con loro, non solo in tour. Con i musicisti di San Diego non esiste
l’egoismo e l’atteggiamento protezionista che tante volte abbiamo incontrato in Italia,
soprattutto per quanto riguarda i concerti. Con loro si sta bene, in semplicità, senza trucchi
né opportunismi. Apprezzano il lato artistico dei Grimoon come noi apprezziamo il loro. Ma
questo non accade solamente con gli americani: in “Les 7 vies du chat” abbiamo collaborato
con artisti italiani ed europei dall'approccio analogo. Per la produzione di “Super 8” è stato
facile lavorare con Scott: lui aveva già capito chi erano i Grimoon e come interagire con noi.
Aveva delle idee per la produzione delle canzoni e un approccio molto disponibile nei
confronti delle nostre personalità musicali ed artistiche. Le cinque settimane passate
assieme in tour nel 2009 sono sicuramente state di aiuto. L’intermediario era Francesco
Donadello, che si occupava della parte tecnica e assecondava Scott nella sua ricerca di
suoni e direzioni per le canzoni.
Contatti: www.grimoon.com
Alessandro Besselva Averame
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Jet Set Roger
È sempre molto piacevole una chiacchierata con Roger “Jet Set” Rossini. Il rocker
bresciano, che è anche un eclettico studioso della forma-canzone, racconta con ricchezza di
particolari il suo mondo “glam”, all’indomani dell’uscita dell’ottimo secondo album, “Piccoli
uomini crescono” (Kandinsky/Audioglobe).
C’è nel tuo nuovo disco, fin dal titolo, l’idea di un racconto di formazione, della
somma di racconti di formazione. Era intenzionale?
Credo si tratti di un fatto non intenzionale. Quando penso al romanzo di formazione penso a
Salinger o Greene o Musil e non avevo intenzione di scrivere l'equivalente musicale di “The
Catcher In The Rye”. Penso che gli Who abbiano fatto qualcosa del genere con
“Quadrophenia”. Non tanto perché si tratta di un concept, quanto perché il tema dell’uscita
dall’adolescenza è affrontato in ogni pezzo in maniera esplicita. È vero che anche sul mio
disco, fatte le debite proporzioni, c’è parecchio su questo tema, a partire dalla title track, ma
credo che manchino l’unitarietà di narrazione e la specificità dell’intento.
La produzione di Marco Pirroni è stata un regalo finale al tuo lavoro. Come hai fatto a
coinvolgere un mostro sacro come lui?
Avevo dieci anni quando vidi in TV il clip di “Stand And Deliver” di Adam & The Ants, e
rimasi totalmente conquistato da quel personaggio e da quel sound così “flamboyant”. Penso
che abbiano pesato parecchio sui miei gusti musicali a venire. Scambio e-mail con Marco da
parecchi anni: è amico di amici che ho a Londra. Ho tutti i dischi che ha inciso con Adam
Ant, ma apprezzo anche il suo lavoro con Sinéad O’Connor e i Wolfmen. Quando mi rispose
per la prima volta una decina di anni fa per dirmi che gli era molto piaciuto un mio demo,
quasi caddi dalla sedia...
Con gli artisti l’etichettatura offende e annoia, ma mi pare che, dopo “La vita sociale”,
con “Piccoli uomini crescono” tu ti sia addentrato sempre più decisamente in un
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glam-rock italiano.
Sì, penso che sia vero. “La vita sociale” era ancora molto inglese: l'italianità era limitata ai
testi. Crescendo (formandomi?) credo di aver trovato una sintesi più efficace. Forse “Piccoli
uomini crescono” rappresenta una specie di sbandata cantautorale. Sarà il prossimo disco,
del quale ho terminato da poco la scaletta, a rappresentare il vero punto d'arrivo.
Apprezzo molto il fatto che tu declini nella nostra lingua un genere assai poco
italiano. Tu peraltro sei mezzo inglese, essendo nato a Londra da madre inglese.
Come vivi questa sfida?
Il momento “pivotale” di questa sfida fu quando assistetti a un concerto degli Strafottenti,
gruppo punk rock dell’underground bresciano che aveva contatti con Luther Blissett. Fino ad
allora avevo sempre cantato in inglese. Gli Strafottenti cantavano in italiano, ma senza i
noiosi luoghi comuni pseudo-poetici che ammorbano la scrittura degli autori nostrani. Il
giorno dopo cambiai in italiano tutti i testi, rimanendo alla scrivania quasi ininterrottamente
per 72 ore. Col tempo sono diventato un po’ meno rigido su certi aspetti: all’inizio rifuggivo
come la peste qualsiasi tipo di approfondimento o di digressione poetica, ora parlo di tutto
ciò che mi interessa, usando il filtro di un linguaggio diretto e musicale.
Chi sono i tuoi maestri di stile?
Non ho molti riferimenti italiani. Apprezzo il primo Bennato, Alberto Camerini, i CCCP, la
PFM e ovviamente De André, ma non credo di essere stato influenzato da loro. Mi hanno
influenzato molto di più gruppi underground come Gli Strafottenti o i Negozi d’Armi. I miei
punti di riferimento stranieri sono una marea. Direi quasi tutto il glam rock, il mod, il punk, la
new wave più rock, gli Stones, i Faces, Neil Young, l'hard rock, il blues delle origini, il
rock’n’roll, i dischi della Stax. Negli anni Novanta e Zero le influenze maggiori sono stati
Pixies, Grandaddy e Dresden Dolls. Se dovessi definire un unico maestro di stile direi John
Cale: è un rocker con una formazione classica come me, e applica ad ogni suo lavoro un
estremo rigore stilistico.
Parliamo un poco delle canzoni. “Buttati Battista” mi pare un invito a fare “coming
out”. Com’è nata?
Mi è venuto in mente il riff, e sono andato di sopra a provarlo un po’ al pianoforte. Ho preso
qualche appunto e poi ho cercato fra le bozze di testo quello che si adattasse meglio alla
musica. Immaginavo un tizio timido e ritroso che avrebbe voluto ballare con gli altri, ma non
si decideva ad entrare in pista. Stabilite quali erano le due o tre frasi che funzionavano
meglio e qual era il plot, sono andato avanti a scrivere per suggestione, cercando il giusto
schema ritmico. Lavoro sempre così.
Una scia di cinismo attraversa alcune tracce. In “Non so cosa farci” affermi quanto ti
abbia cambiato questa società. Sono cambiate davvero le tue priorità?
La canzone parla della stanchezza per una relazione arrivata al capolinea, ed è pervasa da
un senso di resa e di vuoto. Questo pezzo come altri due sul disco parla di un momento
difficile che ho attraversato veramente alcuni anni fa. Si tratta di pezzi che avevo lasciato da
parte, e che ho recuperato e rimaneggiato per queste sessioni. Per alleggerire l'atmosfera,
ho inserito alcuni commenti più leggeri.
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Immagino che gli altri due pezzi siano “Non mi ricordo più” e “Non ci voglio più
pensare” (le tre canzoni del “Non”), pervasi da un senso di oblio imposto, di
negazione.
Sì, queste due canzoni sono legate a “Non so cosa farci”: le ho scritte nello stesso periodo
(1998-‘99), e parlano della stessa vicenda affrontandola da diversi punti di vista. “Non ci
voglio più pensare” è più leggera, mentre “Non mi ricordo più” è la più disperata: ai tempi
bevevo parecchio e mi stavo un po’ perdendo per strada. Pubblicare questi pezzi mi ha
anche aiutato ad esorcizzare una volta per tutte quel momento.
Non è meno cinica “L’avresti mai detto”, nella quale immagini di uccidere, di notte
nella sua stanza, un tuo confidente. Un tradimento amicale estremo. Ce la spieghi?
Questa è una storia dark che prende spunto da confidenze intime non richieste fattemi da
un collega di lavoro. L’episodio fu abbastanza imbarazzante: non riuscivo a capire perché si
stesse aprendo proprio con me. Certe persone sembrano non avere una vita sociale e
scambiano i colleghi di lavoro per i propri amici, infliggendogli i loro “drammi” personali. Mi
comportai nella maniera più corretta possibile, ma il fastidio che mi era rimasto addosso mi
ha portato a sviluppare una vicenda di violenza e tradimento. Forse la sublimazione di quello
che avrei voluto fare.
Nel disco c’è spazio per un’altra tua passione musicale, il vaudeville. Non è affatto
insolito che glam e vaudeville vadano a braccetto. Come convivono nella tua musica?
Ho studiato il modo di scrivere le canzoni di alcuni autori di Broadway. Sono sempre stato
affascinato da quella che mi sembra essere una sorta di “forma canzone originaria”. Glam
rock e vaudeville vengono associati spesso perché fanno riferimento a un ideale dandy di
musica raffinata e decadente. Il glam da un certo punto di vista non è che il vaudeville
applicato al rock.
Cosa rappresenta la “strega”, a cui dedichi una canzone?
Lo spunto viene da una serata ad Offagna, nelle Marche, dove io e mia moglie
acquistammo una statuetta di cera a forma di strega. Rimase su una mensola di casa per
mesi finché non pensai che bruciandola la notte di Halloween ci saremmo liberati del
maleficio senza offendere alcuna potenza infernale. Non è che ci credessimo del tutto: credo
fosse un gioco che ci aveva preso un po’ la mano.
Ti piace dividerti tra molti impegni. Cosa farai dopo questo nuovo disco?
Non sono contento di come sono arrivato al traguardo di “Piccoli uomini crescono”: la band
era in fase di disgregazione, nessuno conosceva i pezzi, è stato tutto schizofrenico e
stancante. Ora in trio ho trovato una nuova stabilità, con il mio chitarrista Pietro Zola, e
Beppe Facchetti alla batteria. È una specie di power trio senza basso, con un sound molto
scarno. Un incrocio fra i Dresden Dolls e il disco, che amo molto, “Songs For Drella” di John
Cale e Lou Reed. Voglio prendermela comoda, lavorare bene i pezzi nuovi e arrivare a
registrare quello che spero sia il mio disco migliore. A dicembre ci sarà la riedizione del mio
annuale spettacolo natalizio, e la porta è sempre aperta per nuove collaborazioni con Wu
Ming.
Contatti: www.myspace.com/jetsetroger
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Gianluca Veltri
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Marquez
Dopo l’uscita (in download, e in edizione limitata e ordinabile da www.marquezonline.com)
de “Il rumore migliore”, in attesa, chissà, di una sua distribuzione discografica, incontriamo il
gruppo romagnolo dei Marquez, lanciando la palla delle risposte a Andrea Comandini e
Dario Giovannini, che rappresentano le due anime/gruppi che si fondono ogni volta nella
realizzazione dei loro nuovi brani, rispettivamente i MWB e gli Aidoru.
Marquez: un (cog)nome importante, che sembra riecheggiare paternità letterarie di
peso...è così, o è solo un puro caso?
Andrea: Marquez aveva in primo luogo un suono interessante con quella zeta che noi
romagnoli pronunciamo in un modo tutto nostro, e poi sì, c’è un riferimento al Marquez della
letteratura, per il quale ho personalmente preso una sbandata diversi anni fa.
Quando, dove (perché?) nascono i Marquez, e chi è che li ha fondati?
Dario: I Marquez sono nati naturalmente da un rapporto di scambi, reciproche influenze e
reciproca stima. Sono costituiti dal nucleo (Andrea Comandino e Antonio Comandini) degli
MWB, band che ha segnato la scena cesenate per tutti gli anni 90, e da me e Michele
(Bertoni, Ndr.) degli Aidoru. Diciamo che in questo progetto io e Michele spendiamo tutta la
nostra natura votata alla canzone.
Com’è organizzata la vostra band, e come si è evoluta nel corso degli anni anche
nell’utilizzo della “musica” e nel tipo di testi/storie/umori?
A.: Che la band sia “organizzata” rimane da verificare...diciamo che comunque il tempo ha
fatto sì che migliorassero tanti aspetti relativi alla costruzione di una canzone, e spero che
questo sia successo anche nella fase di scrittura dei testi che spesso vivo come momento di
riflessione intima con me stesso e sui quali quindi investo molto.
Siete tutti contaminati da “altre” esperienze al di là della musica, come il teatro, la
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performing arts...quanto portate di queste esperienze ulteriori, e vi hanno anche
condizionato nel cammino che state facendo?
A.: È come portare alla vita di tutti i giorni l’esperienza di un viaggio in un paese lontano. La
mia casa prende in qualche modo la stessa importanza del viaggio ogni volta che sto via per
un po’. Questo progetto è la casa alla quale mi piace tornare dopo qualunque viaggio.
D.: Certamente, il luogo in cui ci troviamo, per certi versi a misura d'uomo, rende possibile
una serie di scambi interdisciplinari che forse in situazioni più grandi e dispersive sarebbero
più difficili da instaurare. Il rapporto con il teatro e con la poesia per esempio hanno
influenzato tantissimo il mio modo di lavorare all'interno della musica, sia dal punto di vista
compositivo/esecutivo sia dal punto di vista organizzativo.
Siete al vostro secondo album, ufficiale, con “Il rumore migliore”, dopo “L’incredibile
storia...”. Ma c’è scritto sul vostro sito che il vostro primo lavoro “accettabile” risale al
1995. Cos’è successo in questi 15 anni? Quante anime hanno vissuto, anche in
evoluzione di stile e colori, i Marquez?
A.: Sono successe tante cose... Le anime che tengono in vita questo progetto bene o male
sono sempre le stesse, il fatto che siano passati tanti anni da un lavoro all’altro è più legato
ad un discorso di tempi lavorativi di tutti da gestire. In realtà mi piace anche pensare di non
dovere avere fretta, almeno in questo caso.
Cosa c’è dietro “Il rumore migliore” e ai suoi brani? Quale il suo significato? È
interessante notare anche come dell’EP che l’ha preceduto, “L’anno del toro”, non
avete utilizzato nessun brano, risultando un album (mini) vero e proprio. Due progetti
(e anime) ben distinti?
A.: Avevamo un bel po’ di canzoni e ci è sembrato logico dare spazio a tutte quelle che lo
meritavano; siccome l’album aveva già una sua identità abbastanza definita ci è venuta
l’idea dell’EP “Il rumore migliore” racconta un periodo particolarmente oscuro della mia vita
ed è un disco di canzoni nel senso più classico del termine per il quale abbiamo tentato di
curare al massimo la produzione. “L’anno del toro” di contro è una raccolta di canzoni
decisamente meno canoniche prodotte in maniera molto più ruvida. Due progetti distinti che
raccolgono un lungo tempo di scrittura.
Quanto si è trasformato (se l’ha fatto) il modo di pensare e fare musica intorno a voi
dal vostro esordio, se dichiarate sul sito amarezza per un mondo musicale incapace
di accogliere gruppi che come il vostro sembrano non accettare la necessità di avere
un’etichetta di genere, ma invece si lascia conquistare da un’esigenza a cui dare
forma, non preventivabile (se poi è davvero così...)?
D.: Personalmente trovo che l'esigenza di comunicazione, di stupire, di creare qualcosa che
faccia a tutti i costi “notizia”, abbia alterato in maniera irreversibile il bisogno di arte autentica
e sincera. Non voglio apparire nostalgico o utopista, anche perché non rinnego e non
disprezzo certi aspetti del mondo attuale, voglio semplicemente sottolineare l'importanza di
un'arte vera e fortemente autonoma, non condizionata e condizionabile da altri aspetti
esterni come l'immagine a tutti i costi, la moda ecc... Inoltre trovo che questa “fame” di
notizia e di novità sia più una legge dettata dal mondo della produzione piuttosto che da
quello della fruizione.
A.: L’amarezza sta principalmente nel fatto che in questo paese non cambia mai niente,
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nessuno ha il coraggio di andare fuori dai binari di una presunta tranquillità e nella musica
non è così diverso. Con gli anni ho imparato a concedermi il lusso di fare le cose che mi
piace fare anche a costo di procedere da solo o con il solo aiuto dei miei compagni di
viaggio; fare la musica che voglio è la cosa importante.
È allucinante comunque riflettere su come oggi spesso e volentieri si pensi più, da
parte delle case discografie, a vendere un prodotto, già confezionato, che a
proporre/rischiare su di una “creazione”. Comunque, per ora si può trovare “Il rumore
migliore” grazie alla strada dell’autoproduzione (il download con offerta libera, e poi le
edizioni limitate su ordinazione). Ma credete che abbiate davvero bisogno di trovare
un “genere” ben preciso?
A.: Come dicevo sopra la cosa che conta è fare la musica, del resto non mi curo ormai più,
tanto da prendere la decisione di fare decidere a chi ascolta il prezzo di quello che ha
ascoltato. Il discorso delle etichette è complesso; certo è che siamo di fronte a una rottura di
quel tipo di logica e per quanto mi riguarda la musica bisognerebbe tornare ad ascoltarsela
dal vivo.
D.: Noi abbiamo un genere ma non abbiamo un mercato. Le case discografiche sono in crisi
e producono solamente cose che hanno già un mercato sicuro, o per motivi storici o per
motivi di tendenza. Io penso che questo problema sia il frutto di almeno un ventennio speso
alla ricerca spudorata del successo commerciale, tralasciando il fatto che comunque di arte
e di cultura si sta parlando.
Quali sentite essere i vostri punti di forza? La profondità e varietà dei testi e
tematiche che trattate, una forza e molteplicità musicale? Cosa vi piacerebbe
sviluppare, e su cui spingere di più?
A.: Mi ritengo sempre abbastanza soddisfatto del livello raggiunto fino a quando non mi
fermo a riflettere su quello che ho fatto e scopro di non esserlo più, dunque devo ripartire.
Trovo che questo mio desiderio di migliorare continuamente quello che faccio sia tutto
sommato un punto sul quale far leva.
D.: Io penso che una bellezza oggettiva sia il metodo migliore per appagare ed essere
appagati. Su questo perlomeno vorrei continuare ad investire e ricercare per sempre. Trovo
che sia un po' il senso della mia vita.
Cosa si nasconde nel futuro dei Marquez? Quali progetti presenti/futuri? Siete in
tournée? Tra l’altro l’anno in corso è dal 14 febbraio quello della tigre, il prossimo del
coniglio...
A.: La tournée dovrà aspettare, stiamo lavorando tutti un bel po’, dunque se ne riparlerà il
prossimo autunno. A me piacerebbe riuscire a pubblicare qualcosa di nuovo entro l’anno,
perchè c’è già un po’ di materiale nuovo da incominciare a lavorare: spero di riuscirci. Del
coniglio non sapevo nulla, ma mi interessa per una serie di motivi,magari salta fuori un’idea.
Contatti: www.marquezonline.com
Giacomo d’Alelio
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Sikitikis
“La cosa più bella di ‘Dischi fuori moda’ è che... non è un disco”: c'è una profonda e
sorridente serenità in Diablo, voce dei Sikitikis, al momento di raccontare il terzo lavoro del
gruppo, e di raccontarlo per paradossi. Un lavoro importante. Un lavoro problematico,
perché il primo lontano da ogni forma di supporto di Casasonica (anche perché Casasonica,
nel frattempo, come etichetta discografica non esiste più). Come corollario di questa serenità
vi aspettate un po' di frecciate polemiche verso il passato, verso certe situazioni del
passato? Sbagliate. Nulla di tutto questo. “Resteremo per sempre grati a Casasonica, per
tutto quello che ha fatto per noi. È con lei che abbiamo esordito ufficialmente nel mercato
discografico, è con lei che abbiamo avuto la possibilità di uscire dalla Sardegna e cominciare
a girare in modo estensivo il Continente. Torino è stata una esperienza meravigliosa – a me
ad esempio capita ancora di sognarla, la città, Piazza Vittorio... e nel dirtelo mi stanno
venendo letteralmente i brividi anche adesso. Ora però c'erano mille motivi per tornare a
stare in Sardegna. Nel mio caso, poi, anche il fatto di essere diventato marito e papà”.
Ma andiamo per ordine. Un capitolo nella storia del gruppo è stato chiuso. Se n'è aperto un
altro. Vediamo come è iniziato il tutto: “Dicevo appunto che ‘Dischi fuori moda’ non è un
disco. Tutto il materiale che lo compone è stato originariamente scritto senza pensare
assolutamente che sarebbe stato il contenuto del nostro-nuovo-LP. Nostro-nuovo-LP che
non sapevamo nemmeno se ci sarebbe mai stato; potevamo smettere, potevamo
concentrarci solo sul lavoro di sonorizzazione che tante soddisfazioni ci ha dato, potevamo
solo far uscire tracce isolate via web... Poi è successo che abbiamo incontrato Manuele
Fusaroli della Infecta. Per caso. Ma un caso che non è un caso, visto che l'affinità che subito
è emersa fra noi e lui è stata magica, sembrava che fosse quasi inevitabile andare d'accordo
su tutto. Continuando poi con le casualità: la base di Manuele è in provincia di Ferrara,
Emilia quindi, e contemporaneamente io stavo vivendo un momento di grande fascinanzione
verso la scrittura emiliana – intendo quella musica, con Dalla ma anche Vasco, così come
quella letteraria, vedi ad esempio Paolo Nori. Tutto torna. Ma il punto fondamentale è che
Manuele ci ha capiti e ci ha assecondati. L'idea di un mucchio di canzoni diverse fra di loro,
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apparentemente slegate, fatte appunto per non essere un album, gli è piaciuta parecchio. È
riuscito a lasciarci totale libertà in sede di registrazione ma al tempo stesso ha portato un
eccezionale lavoro sulla pasta del nostro suono. In passato eravamo abituati ad un
approccio più invasivo, nella produzione; stavolta non è stato così, stavolta non abbiamo
smesso di respirare per tutta la durata della lavorazione dell'LP una profonda sensazione di
leggerezza e libertà, senza preoccuparci della disomogeneità, del non controllo su tutta una
serie di fattori, della non presenza di una direzione precisa... situazione inedita per noi, che
nei due album passati eravamo abituati a lavorare seguendo più o meno un concept”.
E questo disco, molto libero e quasi casuale quindi, come si inserisce nella geografia del
rock italiano indipendente contemporaneo? “Non so nemmeno io perché, ma credo sia
possibile tracciare dei denominatori comuni fra quanto fatto da noi con ‘Dischi fuori moda’ e
le ultime cose di Zen Circus, Tre Allegri Ragazzi Morti, Virginiana Miller, anche Amour Fou –
l'uso della lingua, certe scelte stilistiche, certa voglia anche di concedersi delle forzature... Mi
viene da pensare che, come dire?, stia succedendo qualcosa. Forse la consapevolezza che
la scena indipendente italiana può vivere e permettersi una nuova maturità. Non c'è più la
sbornia iniziale del 'tutti possono essere famosi' generato dal primo periodo MySpace, ma
nemmeno le depressione seguita alla scoperta che in realtà le cose non erano cambiate di
molto, era solo aumentata la confusione. Oggi mi sembra che tutti, musicisti e ascoltatori,
stiano imparando ad usare con lucida consapevolezza le risorse a disposizione, senza
sovrastimarle né sottovalutarle. Gli anni passati sembrava ogni tanto contasse solo la corsa
a vendere la propria coolness. Oggi per fortuna non è più così, si torna a lavorare e pensare
più in profondità”.
Ecco, a proposito di coolness, essere un gruppo di Casasonica, anzi, addirittura il primo
gruppo di Casasonica è stato un fardello/opportunità non da poco – credo ad esempio che
abbia influenzato notevolmente il modo in cui siete stati visti, ascoltati e recensiti. Nel bene e
nel male. “Ma la cosa interessante, se vai a leggere i commenti sul nostro account su
Last.fm o su MySpace, è che cominciamo ad avere molti ascoltatori che non hanno idea di
cosa sia stata Casasonica e di cosa noi per Casasonica abbiamo fatto in passato. Un'altra
cosa interessante è che le gente ha cominciato a comprare massicciamente i nostri cd ai
concerti. Ci vedono, gli piacciamo, prendono i cd – semplice così. A Roma abbiamo venduto
una quarantina di cd, a Milano poco meno, anche le altre date hanno avuto dei riscontri
notevoli. Segno che la gente arriva e giudica senza pregiudizi, ma segno anche – almeno ci
piace pensare sia così – che il nostro nuovo materiale funziona molto bene tradotto dal vivo,
anche al di là delle nostre previsioni”. Quindi? E ora? “Ora, contiamo di fare un bel po' di
date in giro per l'Italia in autunno, e già stiamo notando con piacere che ci arrivano sempre
più richieste dal sud Italia, dove in passato facevamo fatica a farci notare. In Sardegna le
cose vanno non bene, ma benissimo, ci troviamo sempre più spesso a dover addirittura
rifiutare delle date; oltre a questo, quando non siamo su un palco come live ci stiamo dando
da fare per migliorare il panorama dei club cagliaritani, soppiantiamo i fighetti e organizziamo
dei DJ set a modo nostro. Questo è il futuro prossimo. Per il futuro remoto, si vedrà; ma
l'idea di fare un salto di qualità definitivo, che ci porti in territori pop (a livello di riscontro
ovviamente, e non di banalizzazione della nostra proposta artistica), non l'abbiamo
abbandonato né abbiamo intenzione di abbandonarlo. Com'è giusto che sia”.
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Contatti: www.sikitikis.com
Damir Ivic
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Six Minute War Madness
Dieci anni fa “Full Fathom Six” dei Six Minute War Madness raccoglieva come un confluire di
strade diverse che si incontrano: sperimentazioni, contaminazioni punk garage, gusto. Ogni
canzone in questo disco va oltre il raccontare una storia ma gratta sui dissidi di allora (erano
gli anni 90), puzza di sudore buono, concima idee su idee e conclude un percorso o
perlomeno vi mette un punto. Wallace, Il Verso del Cinghiale e Santeria oggi insieme
ristampano l’album (con distribuzione Audioglobe) e lo fanno diventare doppio, grazie a un
ricco contorno di registrazioni live, demo, partecipazioni a compilation. Ne parliamo con il
cantante Federico Ciappini.
Come nasce l’esigenza di mettere le mani in pasta nel passato? E perché proprio quel
disco?
In realtà è Mirko di Wallace Records che è un nostro carissimo amico da moltissimi anni,
particolarmente appassionato di quello che noi abbiamo fatto, che ci ha stimolato a rivedere
e rivendicare qualcosa che per noi era molto importante. In particolare questo disco perché è
l’ultimo che abbiamo realizzato, e ha rappresentato davvero un punto di arrivo per una
ricerca che abbiamo portato avanti per tanti anni. In più era un anniversario importante, visto
che erano dieci anni dell’attività della Wallace e contemporaneamente dall’uscita di “Full
Fathom Six” per cui di conseguenza lui è stato particolarmente appassionato e noi abbiamo
accettato di buon grado la possibilità di fare questa cosa con Audioglobe e Santeria ma
anche con Il Verso del Cinghiale.
Quando è uscito “Full Fanthom Six” che atmosfera si respirava? Tutti noi assorbiamo
in un vortice di eventi quello che ci piace, voi che cosa avevate apprezzato e da cosa
vi sentivate coinvolti?
All’epoca sicuramente noi eravamo in una condizione particolare, nel senso che avevamo
già fatto due album e c’erano dei progetti collaterali che si stavano portando avanti e penso
che in quel momento si respirava un’aria - da parte nostra chiaramente - che era di ricerca,
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di volontà di cambiare il nostro modo di vedere la musica. Questo disco è stato l’ultimo che
abbiamo fatto tutti assieme e ci ha coinvolti non solo per un tipo di ragionare sulla musica di
carattere semplicemente tecnico, ma è stato davvero un punto d’arrivo culturale per noi e
anche un modo di chiudere certi rapporti personali che avevamo. È stato difficile, quindi, ma
ci ha dato tantissime soddisfazioni.
Dentro questa riedizione della Wallace ci sono parecchie chicche. Con quale criterio
le avete scelte?
Abbiamo cercato di inserire brani che facevano parte del nostro passato e che non erano
più disponibili: i demo, le compilation e pezzi che abbiamo creduto essere interessanti
proprio per dare un’idea di sviluppo artistico. Uso questo termine tra le virgolette, perché mi
fa sempre un po’ paura considerarci come artisti, insomma eravamo dei ragazzi che
venivano dal garage dal suono grezzo invece l’arte è una cosa seria. Comunque abbiamo
cercato di dare un’idea di quello che è stato il nostro storico e la nostra evoluzione.
Chiamiamola così.
Non a caso, avete inserito anche un live per non dimenticare una parte molto
importante del vostro repertorio. Qual è il live che ricordate con piacere ripensando a
quegli anni?
Io non ho mai amato molto suonare dal vivo, faccio molta fatica a rapportarmi con il
pubblico, soffro molto la tensione e sicuramente il live che più mi è piaciuto e stato il
concerto come apripista dei Massimo Volume forse perché fu l’ultimo concerto che si fece
insieme proprio per “Full Fanthom Six”. Concerto bellissimo con tantissima gente. Uno dei
tre concerti in cui presentammo il disco perché, pur avendo suonato molto in precedenza,
per quest’ultimo ci limitammo a tre concerti.
Ma tu lo sapevi che era l’ultima volta?
No, in realtà non lo sapevo, ma sapevo dentro di me che sarebbe stata una delle ultime
volte, però è stato un concerto davvero straordinario e che non dimenticherò mai.
Ricordando invece le etichette che vi pubblicavano, come la Blubass, quali differenze
di approccio avete riscontrato rispetto ad oggi?
C’era un’attitudine più artigianale con una grossissima passione, con una grande attenzione
alle cose che venivano fatte. C’erano delle forti amicizie, era un rapporto incredibile quello
che accadeva, ora mi sembra di notare che - salvo determinate situazioni, una delle quali è
l’isola felice della Wallace - il mercato della musica indipendente sia finto, nel senso che sì,
ci sono etichette indipendenti ma nella maggior parte dei casi cercano degli sbocchi legati
alle major e ai canali tradizionali, mentre prima c’era un’attitudine molto più legata
al’autoproduzione e all’autogestione ed era tutto più affascinante e romantico.
Quanto è stato importante il supporto di Fabio Magistrali?
Fabio Magistrali non è stato importante, ma assolutamente fondamentale, al di là del fatto
che era e resta una grande amico. Io personalmente lo conosco da quando avevo
quattordici anni. Ha una visione della musica molto originale, un professionista che ci ha
dato tantissime indicazioni non solo tecniche, ma ci ha dato tantissimi stimoli culturali non
solo riguardo alla musica di cui è un estimatore e una persona attentissima quindi sembra
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quasi scontato, ma è veramente un grande anche a livello umano perché riesce a cogliere
esattamente le specificità di ogni progetto e a carpire le caratteristiche migliori di una
persona, quindi è estremamente stimolante. Cosa posso dire? Sono innamorato. È stato
assolutamente eccezionale e continua ad esserlo – ne sono sicuro - con chi lavora in questo
momento.
E il prossimo disco dei Six Minute War Madness, quando uscirà?
No, credo proprio che non uscirà mai, nel senso che noi abbiamo chiuso la nostra
avventura, è stato bellissimo, ma io mi assumo le responsabilità di quello che dico e credo
che forse proprio per colpa mia non uscirà mai più un nostro disco.
Ma tu Federico avevi partecipato come super ospite al secondo disco degli
Shipwreck Bag Show, credevo fosse nata lì la voglia di tornare ad avere il gruppo e
invece no?
No, io sono a disposizione degli amici, per cui Paolo e Xabier soprattutto ne approfittano
ingiustamente, perché sanno che io ho un rapporto con loro incredibile e che ci vogliamo
bene per cui cerco di essere sempre disponibile ai loro progetti e mi piace molto perché li
stimo, li seguo e li apprezzo però non partono da me certe iniziative, sinceramente penso di
avere chiuso la mia parentesi anche se mi dispiace molto. La musica rimane, anzi suppongo
rimarrà per sempre come la cosa più importante della mia vita, ma in questo momento mi
fermo, poi chi lo sa?
Contatti: www.myspace.com/sixminutewarmadness
Francesca Ognibene
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Ufomammut
In un mondo dove le certezze vanno sgretolandosi, sapere che gli Ufomammut festeggiano
dieci anni di attività, senza aver mai messo nessun tipo di bavaglio alla loro obliqua creatività
è motivo di orgoglio, non solo per loro, ma per l’intero movimento rock tricolore, preso
d’assalto com’è da ragazzini finto alternativi e da programmi televisivi che catapultano
impettiti bambini, accompagnati da genitori con osceno orgoglio, a cantare canzoni e
canzonette. Per fortuna che ci sono gli Ufomammut verrebbe da dire, tre alieni che cercano
tra i suoni di basso, batteria, chitarra e synth, nuovi anfratti, nuove caverne, che possano
soddisfare il loro desiderio di accendere percorsi alternativi per un rock – se tale vogliamo
definirlo – che è vibrazione di desideri, angosce e paure, ma anche il viatico per qualcosa di
indefinibile. Dieci anni dicevamo, ma la festa che ci accompagnerà alla fine del mondo forse
è solo cominciata.
Non so se siete tipi da feste, ma dobbiamo ricordare che gli Ufomammut celebrano
dieci anni di vita. Considerando la scena musicale del nuovo millennio, che stritola
tutto, questo è un traguardo importante in assoluto, ma che in Italia diventa quasi
epico. Cosa volete ricordare raccontante di questa parte della vostra storia?
Poia (chitarra, synth): La longevità è dovuta a diversi fattori: fortune di vario tipo,
ostinazione, voglia di suonare e creare, superare i propri (molti) limiti. Soprattutto, per noi è
stata importante, da sempre, “l'autogestione”: molta parte di ciò che ruota attorno al gruppo,
è sotto la nostra responsabilità, le scelte che abbiamo fatto non sono mai state imposte da
qualcun altro.
Urlo (basso, voce): Per l'esattezza sono 11 da quando abbiamo deciso di dar vita al
progetto Ufomammut. Sono passati 10 anni dall'uscita del nostro primo disco “Godlike
Snake”. Personalmente non amo le feste, anzi, cerco di starne il più lontano possibile e
credo che il miglior modo di ricordarci che siamo dei vecchi e che abbiamo passato un sacco
di tempo insieme condividendo parecchie emozioni, sia stato dar vita ad “Eve”. Sono passati
tanti anni, abbiamo creato molta musica, ma non abbiamo ancora raggiunto la cima della
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nostra avventura.
Vita (batteria): È sicuramente un bel traguardo ed è anche un decennio importante della
nostra vita musicale e non. Forse nessuno di noi si aspettava di andare avanti così tanto e
soprattutto di creare un certo interesse tra gli amanti della musica. Una tra le cose che
ricordo più volentieri è la differenza di produzione dei vari album, siamo partiti con "Godlike
Snake" registrato in una cascina con un 8 piste, delle quali una non funzionante per nulla ed
un'altra a mezzo servizio. "Eve" invece l'abbiamo registrato in uno studio professionale con
l'ausilio della tecnologia e con l'aiuto di Lorenzer che riesce sempre a soddisfare le nostre
esigenze.
Ci siamo sentiti in occasione dell'uscita del vostro album precedente. Che tipo di
urgenza ha dato vita a “Eve” e quali percorsi ha avuto la scrittura del nuovo lavoro?
Analogie e differenze con il vostro passato? In sintesi ha obiettivi diversi questo
album?
Poia: In “Eve” c'è stato uno spostamento del nostro livello di concentrazione: gli ingredienti
sono sempre quelli, e addirittura le prime note di “Eve” risalgono a più di dieci anni fa (quindi
il tempo per noi è circolare...). L'obiettivo è affilare gli strumenti: ho avvertito una certa
progressione durante questi anni, e l'avvicinamento tra l'immagine mentale che ho della
nostra musica e quello che esce effettivamente dalle casse. “Eve” è il primo dei nostri dischi
che ascolto con piacere e non con un senso di fastidio.
Urlo: Abbiamo ampliato l'aspetto visuale della nostra musica. Con “Eve” il rapporto
immagini-suono si è fatto ancora più forte.
Vita: Ogni album ha esigenze diverse anche perché comunque cambiano i tempi, le
tecnologie e si scopre sempre qualcosa di nuovo. L'obiettivo e sempre quello di cercare di
fare bella musica e sempre diversa.
Quando siete in fase di composizione quali sono i motivi principali di attrito e
discussione? Quando capire che è siete soddisfatto di un pezzo e quindi è il momento
di scrivere la parola fine e di passare al prossimo brano?
Poia: Da qualche anno registriamo le prove, anche perché è solo con l'ascolto a freddo,
(possibilmente a distanza di mesi) che riusciamo a capire se un'idea sia valida oppure
debole, da migliorare o buttare. Solitamente preferiamo non cambiare troppo o
sovra-arrangiare, mantenendo una certa “rozzezza”.
Vita: Normalmente non ci sono attriti durante la preparazione degli album, ognuno mette il
suo e di solito le idee combaciano. La parola fine viene quando siamo soddisfatti in pieno del
pezzo, quando gira come vogliamo noi e soprattutto quando ci piace.
Urlo: Beh, il momento di passare ad altro è alla fine di mesi di concerti sempre con gli stessi
pezzi...
Considero la vostra musica molto cinematografica, ma per un cinema claustrofobico,
quasi sospeso e senza tempo. Se vi venisse chiesto di scrivere una colonna come
affrontereste la cosa e con chi vi piacerebbe lavorare?
Urlo: Come dicevo prima, la musica che creiamo è molto “visiva”. Lu, una dei tre Malleus
(assieme a me e Poia), lavora all'aspetto video dei nostri live e, come già era stato fatto per
“Lucifer Songs”, ha creato una versione video dell'intero disco. E devo dire che è
affascinante muoversi nella foresta di suoni e visuals che ha creato. Mi piacerebbe lavorare
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con Kenneth Anger (un nuovo “Lucifer Rising”), Tarantino e Miike per dirne alcuni.
Poia: Con Neri Parenti...ah ah! Con Kubrick non è più possibile.
Vita: Credo che sarebbe il massimo, un sogno che si realizza. Non ho idea di come si lavori
dietro una colonna sonora ma mi porrò il problema se ci sarà l'occasione. Non so con chi mi
piacerebbe lavorare ma sicuramente a qualche film d'azione o a qualche horror. In passato
abbiamo concesso il brano "Hopscotch" a un regista indipendente canadese per il suo film
"Clear".
Pensate che la vostra musica possa avere un tipo di pubblico particolare o può
raggiungere tutti, dall’alternativo pseudo intellettuale, al metallaro all’innamorato del
jazz e delle avanguardie?
Vita: Non credo che Ufomammut abbia un particolare tipo di fan ma credo possa piacere a
più tipologie di ascoltatori perché è una sorta di improvvisazione di rock estremo, psichedelia
ed a volte elettronica. Nel mio particolare caso ascolto differenti generi musicali che variano
dalla musica classica al rock più pesante passando per la musica reggae al jazz..
Poia: Non saprei: forse può essere maggiormente apprezzata da chi non suona.
Urlo: Infatti, molte persone si fermano alle capacità tecniche dei gruppi che ascoltano,
molto spesso, specie in Italia, mi capita di leggere più critiche alle capacità esecutive che
non a quello che la musica trasmette. A volte, essere “ignoranti” tecnicamente può essere
un bene sia per chi suona sia per chi ascolta.
L’Italia – musicalmente, ma non solo, se avete voglia di allargare il raggio – è un
paese per vecchi e perché sì o no?
Poia: Beh, anche noi non siamo più giovanissimi. Comunque non è solo un paese per
vecchi. È un paese in cui anche molti giovani sono vecchi. Vedo scarsa reazione, gente che
subisce la “macchina” (così come ascolta passivamente la musica che viene imposta
dall'alto). Anestesia generale sulla mente. Una vera tristezza. E il raggio del discorso, come
dici, lo si può tranquillamente allargare.
Vita: L'Italia è troppo attaccata alle tradizioni, son d'accordo è un paese per vecchi.. Non
riusciamo a concepire che tutto si evolve compresa e soprattutto la musica, continuiamo a
far vendere dischi ai melodrammatici napoletani (musicalmente parlando naturalmente) o ai
vecchi rocchettari che sono anni che hanno scaricato le pile e vengono mantenuti in vita coi
defibrillatori..
Urlo: Non penso sia solo l'Italia ad essere vecchia. È un momento in cui le grosse label
stanno morendo e si aggrappano coi denti ai media per cercare di stordire i possibili fruitori
musicali con musica orribile. C'è un estenuante e continuo bombardamento di gruppi pessimi
a cui i media danno uno spazio enorme a discapito di molta ottima musica che rimane
relegata in quello che è un circuito underground. Suonando ci si accorge che molte persone
sono prigioniere di quel che leggono e sentono su riviste che ormai sono talmente
sputtanate che mettono in copertina i gruppi che pagano più pubblicità... È una grande fetta
della comunicazione che guida i gusti della gente, non dimentichiamolo. L'Italia ha avuto
grossi gruppi come Area, New Trolls, Goblin, Raw Power e tanti altri che sono conosciuti più
all'estero che qui... Ci sarà un motivo, no?
C'è un paese in questa galassia, dove la vostra musica viene recepita meglio e
perché secondo voi? Dove vorreste suonare, intendo locali, contesti, festival e magari
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in compagnia di chi?
Urlo: Senza andare su Marte, dove so per certo che ci ascolta qualcuno, siamo molto amati
in Polonia e in Belgio. Abbiamo fan molto affezionati e ne siamo contenti. Mi piacerebbe
suonare con i grandi del passato italiano come gli Area, ad esempio. Sono sicuro che
Demetrio Stratos si divertirebbe a giocare con noi. E almeno, per una volta, ci sarebbero dei
cantati decenti nei nostri pezzi...
Poia: Non esistendo più le band che considero mitiche (senza abusare dell'aggettivo come
si fa oggi), non saprei che risposta dare...Non ho un desiderio particolare, ci sono band che
mi piacciono moltissimo, ma se devo suonare anche io non mi posso vedere i concerti degli
altri.
Vita: È un po’ che non ci suoniamo più ma ho sempre sentito i concerti in Belgio molto caldi
da parte del pubblico ma non saprei effettivamente spiegare il motivo di tutto ciò, forse c'è
una comunità di fan di Ufomammut.. ahahah. A parte gli scherzi mi son sempre trovato
bene e ci torneremo presto. Mi piacerebbe fare un tour coi Motörhead prima di morire, anche
se non sono belgi..
Contatti: www.ufomammut.com
Gianni Della Cioppa
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Andrea Cola
Cola
autoprodotto
“Se il mondo piange, perché non piangi, Amore?” sussurra col sorriso “La mattina presto” di
Andrea Cola, che come un nuovo giorno apre l’EP che anticipa l’uscita prevista per ottobre
2010 del suo primo album da solista. Una nuova vita artistica per Cola, che, dopo i suoi anni
a Cesena nei Sunday Morning, ha deciso di non lasciare tutto allo scioglimento del gruppo
che aveva molte belle promesse da poter mantenere. Un lento avvicinamento alla data
autunnale che è partito con l’uscita del singolo “Piove a Milano”, accompagnato dalla
convincente cover del cavallo di battaglia d’epoca dei Formula 3, una “Bambina sbagliata”
che vedeva tra gli autori Mogol. Mentre parallelo continua per lui anche il progetto col nome
di Do Not Cry For The Country Boy - inglese anche la lingua cantata, chitarra acustica in
musiche e armonie rarefatte che ti cullano in una nebbia sospesa -, Cola si è tuffato, con
l’EP marchiato semplicemente con il suo cognome, nei luoghi del cantautorato (in) italiano
più sincero, che guardando al passato appartiene al presente con parole che nei cinque
brani che lo compongono richiamano malinconia, ma detta con nostalgica spensieratezza.
Proprio un sorriso che si inclina verso la vita quello che lo attraversa, a partire dalla opening
track “La mattina presto”, per continuare in “Battiti”, “Piove a Milano”, arrivando all’esplosione
in crescendo dell’ipnotica “L’isola”. Concludendosi con “Bambina sbagliata”, il mini album
dimostra di avere come carte vincenti assieme alla personalità profonda di Andrea Cola
anche il contributo di singoli elementi di altri gruppi della prolifica realtà di Cesena, come
Mirko Abbondanza, Dario Giovannini e Diego Sapignoli (Aidoru), Glauco Salvo (Comaneci),
Filippo Bianchi (64 Slices of American Cheese). Non c’è che da attendere con attenzione
ottobre.
Contatti: www.myspace.com/lamattinapresto
Giacomo d’Alelio
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Atlanto
L’uomo, il sogno e il nuovo giorno
Emmeciesse
Ma che bella sorpresa. Un quartetto della provincia di Vicenza, che senza tanto clamore e
privo dei soliti appoggi di sponda che permettono di conquistare la giusta visibilità, ma solo
grazie alla forza delle proprie idee, produce un album intenso e pieno di buona musica.
Suonano un rock vigoroso gli Atlanto (ex Okkupato, nove anni di storia, due album e
centinaia di concerti all’attivo), che profuma di Dredg e Mars Volta, con la giusta dose di
emocore, ma hanno il raro dono di non toccare quasi mai la sponda del pop radiofonico (il
quasi è per “Pioggia di giugno”, pericolosamente vicina a, orrore, Lost e Finley). L’atto di
coraggio più grande del gruppo, non è il cantato in italiano, che pure è assolutamente
funzionale e utilizzato bene, ma il contenuto delle liriche. Basta testi negativi, smettiamola
con le frustrazioni dell’età e che il domani sarà certamente peggiore, Doc, un cantante (e
chitarrista e pianista) bravissimo, sceglie la strada della positività, della speranza e centra
sempre il bersaglio, senza mai essere banale o retorico. Vi posso garantire che tra i solchi di
questo “L’uomo...”, ci sono almeno quattro potenziali hit, che gruppi ben più noti
pagherebbero per incamerare nel proprio repertorio. Non l’apertura di “Questo nuovo
giorno”, ma la successiva “Ogni gesto semplice”, un fiume in piena di riff e con un refrain
strabiliante; tocca poi a “La mia risposta” con una successione di cantati irresistibile, mentre
le altre due gemme sono “Corri fino in fondo” e “Il raggio”. In mezzo, tante altre cose belle e
interessanti, come “La felicità” solo per piano e voce, la chitarra acustica e i cori de “Il posto
più bello” e la chiusura di “Quello che rimane”, tutti elementi che portano in una sola
direzione, gli Atlanto meriterebbero il salto di qualità. A oggi è il mio disco rock italiano
dell’anno. Complimenti ragazzi.
Contatti: www.myspace.com/atlantorock
Gianni Della Cioppa
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Bluff
Il macabro epilogo
Novunque/Self
La musica dei Bluff in una sola parola? “Leggera”, nel bene e nel male. In effetti il rockettino
del duo marchigiano – giunto con “Il macabro epilogo” all’esordio ufficiale – nei momenti
migliori sa essere fresco e spensierato come un tardo pomeriggio al mare; e questo in sé
non è affatto un male, perché c’è un momento per ascolti impegnati(vi) e seriosi e uno per
dischi più facili e di maggiore immediatezza. Vi sono però episodi in cui sembra che
l’ensemble voglia ammiccare un po’ troppo, nei testi così come nelle atmosfere “da locale
estivo all’aperto”. E allora col passare dei minuti anche la sottigliezza e la levità possono
diventare pesanti, generando qualche sbadiglio. Nel contesto giusto, però, un disco come
questo può senz’altro funzionare, grazie a melodie a presa sufficientemente rapida e a un
buon lavoro in fase di produzione e arrangiamento, tra sottili impennate rock e curato pop
radiofonico (da intendersi in senso non necessariamente negativo), senza dimenticare quella
solare incursione in territori ska rappresentata da “Filobass”. Meglio di tre quarti della musica
commerciale che si sente oggi in giro, anche perché infinitamente più vero e onesto;
dubitiamo però che il lettore medio del “Mucchio” possa trovare tra questi microsolchi motivi
di entusiasmo o di un interesse che non sia solamente momentaneo e superficiale, ché tra le
caratteristiche dell’album lo spessore artistico non è esattamente quella più facile da
individuare.
Contatti: www.myspace.com/bluffrecordsband
Aurelio Pasini
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Capone & BungtBangt
Bio Logic
Sciarap-Arealive/Edel
L'idea è senz'altro bella, e non si può senz'altro accusare Maurizio Capone e i suoi di
essere saltati all'ultimo sul carro obamiano dell'ecosostenibilità: è infatti da un decennio e
passa che il caravanserraglio Capone & BungtBangt si diverte a crear musica basandosi
unicamente su materiali di riciclo – e intendiamo non in senso di composizione musicale, che
in tal campo i riciclatori sono ormai migliaia di milioni, ma nel senso proprio della
fabbricazione concreta degli strumenti. “Bio Logic” è in certi momenti decisamente il frutto
migliore del loro ingegno, in primis in quanto a risultato finale offerto dagli strumenti in
questione. Certe parti percussive suonano saporite, come pasta sonora ma anche come
mixaggio, in un modo che pure produzioni iperlussuose dovrebbero decisamente invidiare.
L'amalgama con gli strumenti tradizionali è perfetto. Insomma, c'è qualità. Una qualità
originale. Una qualità che di riflesso vorremmo vedere anche a livello compositivo, e lì
invece si perde qualche colpo. Non perché ci siano cadute di stile o banalità troppo banali,
ma in effetti si resta nell'alveo di un pop-rock educato che, se contamina (funk, jazz, rap...),
lo fa solo con effetto-cartolina, stando attento a restare in superficie e a non offendere
nessuno. Se Capone e il resto della truppa imparassero per il futuro ad essere più spigolosi
e scomodi anche sul pentagramma, ne sentiremmo delle ottime, oh sì. Per ora si resta a
metà del guado.
Contatti: www.myspace.com/caponebungtbangt
Damir Ivic
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Clerville
Killing Polar Bears
Red Birds-Seahorse/Audioglobe
I Clerville sono una formazione dedita alla musica strumentale, formatasi a Catania nel
2003 e giunta al secondo album sulla lunga distanza, a seguire l’esordio “Nihil admirari” e
l’EP “2 atmosfere e il vuoto” del 2006. Registrato da Marcello Caudullo e Alessandro
Falzone, “Killing Polar Bears” suona al tempo stesso ricercato e moderno, arioso e
inquietante. Se la cinematografica “When I Was An Angel” rammenta certe composizioni di
Mogwai, Sigur Rós o Kaki King, “Telkens Weer” vira in direzione maggiormente
dissonante e futuristica, “Bubble Grass” persegue la strada della sperimentazione, la title
track pennella scenari avventurosi, “667” abbina corpuscoli di elettronica, fasci di chitarre e
disturbanti brusii di sottofondo e “Gli anni 70 sono finiti da un pezzo” oltrepassa i dieci minuti
di durata inanellando molteplici cambi di andamento. Mentre sonorità sintetiche ed elettriche
distorte si avviluppano fra loro con fare suadente e morboso, l’immaginario di riferimento è
fatto da “distese innevate”, “stridere del ghiaccio”, “l’eco del vento”. Il tutto sembrerebbe
perfetto per accompagnare un lungometraggio di stampo fantascientifico, ma l’osservazione
potrebbe sembrare limitante dacché il progetto di Marco Papale, Davide Trovato, Fabio
Terranova e Dario Chiofalo - a dividersi fra chitarre, basso, batteria, effetti, programmazioni,
percussioni e drum-machine – possiede senz’altro una valenza intrinseca, una robustezza
che giustifica un ascolto, per quanto impegnativo, di certo soddisfacente.
Contatti: www.myspace.com/clerville
Elena Raugei
Pagina 34
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Dani Male
Trauma turgido
autoprodotto
Dani Male è un tipo affabile ma forse un po' fuori di testa. Finita l'impresa localissima della
band di cui era leader – i Giuda Matti, un gruppo abbastanza conosciuto un paio d'anni fa
nel comprensorio ceramico della provincia di Modena – il ragazzo si chiude in una stanza,
ascolta il Syd Barrett solista di “The Madcap Laughs” e “Opel” dalla mattina alla sera e
intanto strimpella la chitarra, cannibalizzando le note dell'uomo vegetale e mettendo insieme
una decina di pezzi tra i quali, appunto, “Vegetale” che è un tributo vero e proprio. “Trauma
turgido” è una spirale discendente dalla noia (come recita il secondo pezzo, “Nuoia”) alla
nevrosi di un uomo solo e carico di sdegno sociale, come il Signor Bergamini dell'ultimo
romanzo di Gianfranco Mammi. La chitarra è principalmente pulita, le batterie vere ed
elettroniche scandiscono il ritmo barrettiano degli accordi in progressione e un basso preso
in prestito chiude il cerchio. Dani Male viene dal centro di Sassuolo. Tra l'alienazione
ceramica e la solitudine di una “Domenica malvagia”, sembra di vederlo recluso nella sua
stanza col pavimento riverniciato senza essere mai stato ripulito dalle cicche di sigaretta. I
testi sono strani e parlano di donne, presentatori televisivi, ghetti islamici sgomberati nel
quartiere di “Braida”, il suicidio di Tenco, la solitudine e il disgusto, per chiudersi con una
canzone indiana, “Angadu Pè”, che è l'ultima traccia di un disco che sembra cinico e forse lo
è. Ma è anche un disco affabile. E magari un po' fuori di testa.
Contatti: www.myspace.com/danimanimale
Marco Manicardi
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Facciascura
Quanti ne sacrificheresti?
VRec/Venus
Dopo un lavoro di preparazione e maturazione durato alcuni anni, i veronesi Facciascura –
guidati dai fratelli Francesco e Carlo Cappiotti: il primo chitarrista, compositore e mente della
band, il secondo efficace frontman (un terzo, Guglielmo, è un cantautore prossimo
all’esordio) – hanno raggiunto l’equilibrio e la sicurezza necessari per gettarsi nella mischia e
produrre un album. Il risultato è questo “Quanti ne sacrificheresti?”, allestito su dieci canzoni,
con un telaio che paga dazio alla stagione del rock italiano anni 90, con in testa gli
Afterhours, la band a cui il tempo ha ufficialmente assegnato l’onore di aver sdoganato il
rock in italiano, per non dire Movida, Il Grande Omi e Karma – e non a caso di questi ultimi,
in chiusura di album, rileggono “Il cielo”, con Carlo che divide il microfono con David Moretti,
leader appunto dei – recentemente ritornati in pista – Karma. L’album si apre con “Uno
stronzo qualsiasi”, fantastica sin dal titolo e che evidenzia immediatamente la fluidità di
scrittura del chitarrista, che non eccede in nulla, puntando sull’efficacia del telaio di accordi e
su arrangiamenti semplici, su cui la voce sicura del fratello stende la propria duttilità
interpretativa. Un altro brano che comprova la validità del quartetto è “Ventimila sere sotto al
mare”, una ballata non ruffiana ma dal potenziale radiofonico non trascurabile, mentre
“Cavie” chiama in causa certi Timoria periodo grunge, rievocati anche nella ballata “Se io
sono io”, tesa ed emozionante. Vi sono anche momenti meno ispirati, dove emerge una
certa staticità di scrittura (“Spettri” e “Il tuo paradiso” per esempio), ma anche grazie ad un
linguaggio non banale, nonostante i temi centrali siano i soliti sentimenti e vita, i Facciascura
evitano le secche della ripetitività. Un esordio più che promettente.
Contatti: www.myspace.com/facciascura
Gianni Della Cioppa
Pagina 36
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Fratelli Calafuria
Altafedeltapaura
Massive Arts/Self
Cinque pezzi, una media di tre minuti per sedici in totale, formano l'EP che anticipa la
prossima uscita dopo l'esordio fulminante di un album “Senza titolo” del 2008 che fece de
“La nobile arte” una specie di tormentone dell'indie suburbano milanese. In
“Altafedeltapaura” i Fratelli Calafuria prendono le sonorità del primo album con il modo di
suonare nevrotico e casinista che lo contraddistingueva e comprimono tutto: tempo, spazio e
titoli. Il risultato è un grosso schiaffo in faccia nel baricentro esatto tra la semplicità e
l'ingegno. Forse il pezzo più interessante è il secondo, “Ilfattodeicdincantati”, dove musica e
testo vengono ripetuti, mischiati, fatti saltare in modo talmente ossessivo da far perdere di
significato al concetto stesso di canzone. La batteria va forte, la chitarra e il basso pure, un
sax sghembo e un piano ipnotico fanno capolino in “Denise”, “Affattonormale” è l'unico pezzo
dei cinque che un po' si avvicina alle tracce di “Senza Titolo”, e l'ultima “Bastaironia” è la
summa dei quattro pezzi che la precedono in un capitombolo finale e generale di tutta la
strumentazione. La curiosità per l'album che uscirà non può che aumentare, quantomeno
per capire se ci stanno prendendo in giro o se davvero l'obiettivo dei milanesi sia quello di
distruggere con senno le cose così come le conosciamo in ambito indipendente italiano. Un
amico, ai tempi del primo disco, mi diceva sempre che nei Fratelli Calafuria c'è qualcosa di
banale e qualcosa di geniale. È vero.
Contatti: www.myspace.com/fratellicalafuria
Marco Manicardi
Pagina 37
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Numero Giugno '10
Guido Maria Grillo
Guido Maria Grillo
AM Productions
Esordiente su album, ma da anni impegnato a far circolare la propria idea di cantautorato
attraverso concerti, opere teatrali e partecipazioni a concorsi, Guido Maria Grillo riesce
finalmente, con questo lavoro omonimo, a far arrivare il suo messaggio ad un pubblico
potenzialmente più vasto. Di che si tratta? Di una forma canzone colta e principalmente
ancorata al suono del pianoforte (e in seconda battuta della chitarra), con echi classici e
decadenti in bella evidenza, una voce notevolissima, sempre ad un passo dal farsi
pretenziosa e troppo teatrale o carica di orpelli ma in realtà sempre perfettamente calibrata
su aperture espressive che ricordano di volta in volta Jeff Buckley, Antony Hagerty e, per
rimanere nella penisola, ad Alessandro Grazian. Le radici di questa musica risalgono però
ad autori come Umberto Bindi, e il valore aggiunto ad una proposta già notevole è la
capacità di adattare una espressività poco italiana al nostro cantautorato più classico e
meno universalmente conosciuto. Un disco da ascoltare con particolare attenzione, ricco di
sfumature, classico (come definire altrimenti il tango di “Inutili parole”?) e infiltrato al tempo
stesso da una moderna decadenza e inquietudine. Con una personalità spiccata soprattutto,
caratteristica che è spesso la meno presente quando si parla di dischi in generale,
figuriamoci poi di esordi.
Contatti: www.guidomariagrillo.it
Alessandro Besselva Averame
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IdeaOstile
...Destabilizzazione in corso...
VideoRadio
Con un’inedita formazione allestita senza chitarra, ma con due bassi e un violino, oltre a –
quella sì – batteria e voce solista, gli IdeaOstile sfornano un album di debutto di tutto
rispetto. Il canovaccio su cui si stendono le composizioni del quintetto bellunese è in qualche
modo legato alla frangia del rock progressivo, ma inevitabilmente ci sono tracce se non di
avanguardia, perlomeno di modernità, che assemblano quel tocco malinconico tipico della
dark wave, rintracciabile nella voce decadente e in passaggi quasi zappiani, in un alternarsi
di melodie e dissonanze. Qualcuno ama definirlo art-rock, ma di fondo il gruppo cerca
sempre contatti con la melodia, come dimostrano “Il capitale” e “Cul de sac”, che pure sono
tracce coraggiose, mentre “Scuse geometriche” e “Taunus” hanno un’impronta più legata al
concetto di moderna canzone pop, con i due bassi che stendono un tappeto sonoro, che
suona quasi a mo’ di tastiera. Ci sono buone idee nella mezz’ora abbondante del CD, e i
testi sono maturi e malinconici, ma è chiaro che il ponte che unisce le due sponde tra le
buone intenzioni e il risultato concreto è ancora in costruzione, smussarlo dalle zone
improbe e renderlo percorribile è un compito che richiede una bizzarra lucidità che ai
protagonisti del progetto al momento in parte manca. Come dire che piace l’idea di fondo,
ma l’attuazione è ancora imperfetta.
Contatti: www.myspace.com/ideaostile
Gianni Della Cioppa
Pagina 39
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Inner Vision
Ordinary Chaos
Vina
Esordio del quartetto biellese degli Inner Vision, “Ordinary Chaos” è un buon disco di rock
italiano (cantato in inglese, però), nel quale si respirano atmosfere ruggenti e a tratti
tenebrose. Tra Iron Maiden e Alice in Chains, tra hard più antico e influenze “pacifiche” anni
Novanta; per intenderci, quelle che ci portano dritto al Seattle sound. Niente di nuovo,
nessuna invenzione rivoluzionaria. It’s only rock’n’roll, come diceva qualcuno. Il nome del
gruppo potrebbe derivare dal pezzo omonimo dei System Of A Down del 2002.
Il singolo “Little Big Rain”, episodio assai più acustico e pacificato rispetto alla media del
disco, fa ripensare a Jeff Buckley; un altro richiamo acustico è nella traccia che chiude
l’album ”Flesh Tunnel”, di vedderiana memoria. Assai più leggera “Song For A Velina”, ma
“From Me” è cucita su neri arabeschi minacciosi, “Suck My Kiss”, in piena
zona-Soundgarden, è giocata su malignità armoniche e su bei riff (se indovini il riff sei a
metà dell’opera, a dire poco). La title track “Ordinary Chaos” comincia con riverberi di
chitarre e prosegue incalzante per sciorinare l’entropia quotidiana dei nostri tempi: amore e
odio, luce e tenebra, pianto e riso. “My Situation” è puro metallo pesante declinato in estetica
grunge, e piuttosto muscolari si presentano anche “Demon Vision” e la vagamente
orientaleggiante “Evil Electric Mantra”, che implode in un agghiacciante urlo à la Cobain.
Contatti: www.myspace.com/innervisionrock
Gianluca Veltri
Pagina 40
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Io?Drama
Da consumarsi entro la fine

Via Audio-Discipline/Venus
Un po' “piacioni” sono, gli Io?Drama, e lo capisci da brani come “Fosse stanotte l'ultima” in
cui riaffiora l'epica romantica tipica di formazioni come i Negramaro. Un immaginario in bilico
tra chitarre elettriche sparate e adeguatamente compresse – buona la produzione artistica di
Paolo Mauri, già all'opera con Prozac +, La Crus, Calibro 35 – e violini in sottofondo che
richiamano i conterranei Afterhours. Si parla di un rock misto a canzone d'autore in questo
secondo disco della formazione milanese, anche se di ibrido a oltranza sembra trattarsi visto
che in “Musabella” e “Saverio” si cede a un pop energico in crescendo, in “Preghiera
agnostica” si traffica con certe parentesi acustiche piuttosto teatrali, in “Nel naufragio” si
cede a una ballad quasi caveiana (per lo meno negli arrangiamenti). A completare il quadro,
una seconda parte di scaletta che ripiega invece su una musicalità complessa, stratificata,
vicina alla lezione di formazioni come i Muse (l'ottima “Dafne in tangenziale”) e in qualche
caso vagamente progressiva (“Din din delirio” o le tessiture orientaleggianti di “Sinuosa”). Il
risultato non dispiace affatto, anche se la sensazione è che il gruppo di Fabrizio Pollio,
Fabrizio Vercellino, Vito Gatto e Mamo debba fare ancora un po' di strada per liberarsi di
certe eredità ingombranti e trovare infine la propria vera natura.
Contatti: www.myspace.com/iodrama
Fabrizio Zampighi
Pagina 41
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Numero Giugno '10
Le Rose
Le Rose
Pippola Music/Audioglobe
A volerla riassumere in due parole, basterebbe dire: Le Rose sono Il Genio intrappolato in
uno sgangherato piano bar dove il juke box sia drammaticamente incantato sulle canzoni di
Heather Parisi, con un poster dei Visage alle pareti. Ad un primo ascolto, poi, la pochezza
dei suoni – da tastierina Bontempi o poco più – irrita, irrita non poco. Sarà che
personalmente troviamo davvero poca simpatia verso tutti i “nostalgismi”, verso le supposte
giocosità lo-fi (qualcuno ne è sedotto o almeno intenerito, noi ne faremmo cenere senza
pietà). Pronti a calare la scure, quindi? Nossignore. In mezzo a tutto l'istintivo fastidio, ci
resta abbastanza lucidità – e rigore deontologico – per ascoltare con attenzione l'album,
valutandone un po' tutti gli aspetti. Il punto è che le canzoni assemblate dal duo
artisticamente nato a Roma nel 2006 sono, beh, belle. Belle davvero, ben composte e ben
pensate, con tanto di inquietudini sinistre in filigrana – il vero spartiacque tra robaccia cheap
e faccende interessanti, quando si va ad attingere a certe sonorità e certi periodi stilistici.
Sogniamo di riascoltarle con arrangiamenti più corposi, sempre magari nel filone electro-pop
anni '80 (perché nascono con questo indelebile dna, sia chiaro): la cosa le renderebbe
ancora più brillanti e fascinose. Già così comunque succede che un disco che di suo
vorremo gelidamente stroncare se ne esce invece con una promozione piena, e con l'invito
“Ehi, dateci un ascolto, merita”. Tutto questo mentre lo sistemiamo nello scaffale dei dischi
da riascoltare anche fra un annetto e passa.
Contatti: www.myspace.com/ascoltalerose
Damir Ivic
Pagina 42
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Numero Giugno '10
Leo Minor
December
Face Like A Frog/Goodfellas
Un passato hardcore fin dall'inizio proiettato al di fuori del genere ha portato gli esordienti
Leo Minor, i cui componenti provengono da due disciolti gruppi dell'area di Verbania, Wood e
C9, verso sonorità più contaminate. Sempre all'insegna di una certa robustezza di fondo, ma
dando vita ad una formula che accoglie in sé il post-metal evoluto degli Isis (sempre che sia
possibile ridurre ad una definizione così vaga la musica del gruppo statunitense), le
dilatazioni atmosferiche di certo post rock e un impianto strettamente strumentale. Fa
eccezione un breve frammento parlato all'inizio (l'ospite Elda Belfanti dei Mauve), che fa da
introduzione a quattro lunghi brani ambiziosamente dedicati al “Libro tibetano dei morti”. Una
idea non proprio originalissima, così come le direttrici su cui si muove il gruppo non sono
una vera e propria novità in senso assoluto, sta di fatto che il trio è bravissimo a gestire
tempi, crescendo e atmosfere e sa il fatto suo, a livello di suoni (il fonico Matteo Spinazzé, a
lungo fonico live degli Zu, si è occupato delle registrazioni) così come di scrittura. Leggasi:
ampi spazi di miglioramento, un affiatamento non comune e una prima prova già
decisamente buona.
Contatti: www.myspace.com/leominor2000
Alessandro Besselva Averame
Pagina 43
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Numero Giugno '10
Les Mange-Tout
Les Mange-Tout
Sister Who/Goodfellas
Les Mange-Tout sono un duo italo-francese (Germana Bargoni e Nathalie Baxs) raggiunto
in studio, in occasione di questo secondo disco (in precedenza c’era stato l’EP “Teatime
With Mr. Who”), dal contrabbasso e dalla melodica di Samuele Palazzi, e la primissima
impressione, dopo appena pochi secondi, è che le due operino da qualche dépendance del
Penguin Café, tanto è sintonizzata la loro musica sulle corde di quelle fragili creature
musicali che sapeva escogitare la buonanima di Simon Jeffes. Non che si voglia stupire con
accostamenti arditi, e siamo ben consapevoli di quanto sia necessario fare le dovute
proporzioni e differenze, nell'avvicinare una originalissima musica orchestrale ad un duo che
canta in primo luogo, ma è inevitabile ritrovarsi ad immaginare le canzoncine aggraziate e
ondeggianti contenute in questo disco nel contesto di quell'indimenticato immaginario
surreal-coloniale, giocoso e illuminato come pochi. Le canzone delle Mange-Tout si librano
con grazia caraibica sfruttando la leggerezza dei loro arrangiamenti ma la collocazione
nell'immaginario “pinguinico” è solo uno spunto di partenza: i riferimenti sono ampi, tirano in
ballo folk e twee pop, tra le altre cose, e la filigrana dei brani è preziosa quanto solo
apparentemente povera e dimessa. È musica che solletica i più immediati ed effimeri sensi
uditivi, questo è il primissimo pensiero, ma poi ci si ritrova a ripetere le melodie fra sé e sé,
ed è lì che ha inizio la magia. Forse piccola e circoscritta, non destinata alle masse,
purtroppo, ma comunque affascinante.
Contatti: www.myspace.com/lesmangetout
Alessandro Besselva Averame
Pagina 44
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Numero Giugno '10
MasCara
L’Amore e la Filosofia
autoprodotto
I MasCara, provenienti dalla provincia di Varese, pubblicano il loro primo EP, interamente
autoprodotto e contenente cinque brani, oltre a una bonus-track. Registrato da Ivan Rossi e
Matteo Cantaluppi, “L’Amore e la Filosofia” è il frutto di tre anni di abnegazione volta a un
duplice obiettivo: da un punto di vista sonoro raccogliere “tutte le sfaccettature degli anni 80
e inizio 90” e riproporle “in chiave contemporanea”, da un punto di vista comunicativo
redigere liriche in italiano che “rappresentano delle storie, punti di vista e sensazioni ma
anche stati emotivi primordiali, il più delle volte veicolati per mezzo di racconti e miti”.
Lucantonio Fusaro (voce), Claudio Piperissa (chitarra), Marco Piscitello (basso), Nicholas
Negri (batteria), Simone Scardoni (piano, synth e violoncello) e la new entry Marcello
Montorfano (chitarra) plasmano così una forma-canzone abbastanza atipica nella
giustapposizione fra un cantato estremamente enfatico e un ricco pastiche musicale, che
ingloba al suo interno forti rimandi new wave o sfumature post-rock così come struggenti
sezioni di archi. Superfluo elencare tutte le influenze che la stessa band non esita a
riconoscere: dai Cure ai Joy Division, dai Jesus And Mary Chain ai Mogwai, dagli Interpol
agli Edirors, dai Sigur Rós agli Arcade Fire, dai Diaframma agli Amor Fou. L’apertura
filo-operistica de “Il gesto di Ettore”, il pathos di “Fiore del male” o le melodie ritmate di
“Andromeda” parlano di una proposta che potrebbe fare del coraggio la propria arma
vincente.
Contatti: www.myspace.com/mascarawave
Elena Raugei
Pagina 45
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Numero Giugno '10
Massimo Buffetti/Marco Vichi
Hanno detto
Spring Art
“Hanno detto” è uno spettacolo di musica teatrale, un’opera da camera in un unico atto. Lo
scrittore Marco Vichi è l’autore del testo, adattato e musicato dal compositore Massimo
Buffetti. Opera affascinante, certo di non semplicissimo ascolto (scordatevi di poter infilare il
CD nel lettore dell’autoradio), ambiziosa, onirica, composita, il cui luogo di fruizione elettiva e
primaria è senz’altro il teatro. S’immagina che venga raccontata la vita di un attore,
attraverso le versioni baluginanti e frammentarie di un gruppo di artisti della compagnia
“Autorivari”. La voce narrante è quella di Lorenzo Degl’Innocenti, la voce femminile è della
mezzosoprano Mya Fracassini, che accompagna i dodici minuti iniziali di “Preghiera”,
l’altero, devozionale atto d’ingresso, nonché diversi altri episodi tra cui “Il mio compagno di
stanza”, in cui l’attitudine cameristica dell’ensemble sposa un approccio ambient. I suoni
sono rarefatti, le cellule verbali e narrative tornano come in un mantra o come nei momenti
d’intermittenza che precedono il sonno. Grappoli di note, sussurri, memento. L’iterazione
percussiva e vocale di “Finché mi stupisco” è una virtuosistica escursione di otto minuti alla
Quintorigo; in altri momenti pare di ascoltare echi di musica contemporanea, Terry Riley e
Brian Eno, Sakamoto. Il violino e il pianoforte, il flauto e il violoncello sono i suoni di questo
lavoro severo e di forte potere evocativo. L’attore uscito di scena – per inciso l’amico Franco
Di Francescantonio, prematuramente scomparso nel 2005 – del quale in maniera affettuosa
ed ellittica si narra la vita, in realtà è come non si fosse congedato mai. È la forza del
racconto.
Contatti: www.massimobuffetti.it
Gianluca Veltri
Pagina 46
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Numero Giugno '10
Miavagadilania
Il mare ci salirà negli occhi
autoprodotto
Non vorrei sembrare uno che si ferma alle apparenze, ma già chiamarsi Miavagadilania, nel
2010, lascia un po’ interdetti. Se ci aggiungiamo un titolo baricchiano come “Il mare ci salirà
negli occhi”, poi, non si parte certo nel migliore dei modi. E la musica... La musica! Ma
perché siamo ancora pieni di band che credono di essere nel 1995 con la convinzione che il
rock dei Marlene Kuntz sia l’unica strada percorribile per fare un certo tipo di rock cantato in
italiano? L’appassionato di musica che è in me non vorrebbe sapere nient’altro, ma il
recensore persevera nell’ascolto per cercare di capire se c’è qualcosa di buono ma questa
volta proprio non se la sente di salvare il salvabile solo per indorare la pillola ed evitare di
fare la figura dell’antipatico. Posso però dirvi che questi Miavagadilania vengono da Milano,
hanno partecipato con un pezzo alla prima, ottima, compilation dell’etichetta meneghina
Canebagnato e questo è il loro esordio dopo aver raccolto buone critiche (a quanto pare il
sottoscritto sarà per l’ennesima volta voce fuori dal coro). Un disco che, nelle parole della
band, sintetizza rock “scuro e tagliente” e viene accompagnato da dieci video per ogni
canzone. Non so. Ascoltando il disco, l’atmosfera è sicuramente scura come può esserla
con chitarre che arpeggiano accordi in minore, distorsioni catacombali e tutta quella sorta di
effetti facilmente dissonanti. Peccato che manchi tutto il resto: spessore, urgenza, onestà.
Purtroppo siamo davanti all’ennesimo caso di una band troppo impegnata a curare il
contesto e si dimentica del testo.
Contatti: www.myspace.com/miavagadilania
Hamilton Santià
Pagina 47
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Numero Giugno '10
Nicodemo
In due corpi
La Fabbrica/Rai Trade
Immaginate una specie di luogo di passaggio tra l'elegante distacco dei Baustelle e
l'elegante perfezione pop dei Blue Nile: Nicola Pellegrino in arte Nicodemo si colloca
esattamente in quello spazio, mediando con una certa bravura il pop raffinato e vicino all'art
rock degli Anni Ottanta (tracce di Sylvian, anche, in certe curve improvvise delle melodie, nel
senso di muoversi in anticipo a contrastare quello che ci si aspetterebbe, la soluzione più
facile che in realtà non arriva) con un eclettismo che appartiene più a questi anni e alla
ricerca frenetica di appigli “d'autore” che li caratterizza. L'operazione riesce soprattutto
grazie alla voce profonda e duttile dell'autore, in grado di offrire ad ogni canzone una patina
di velluto notturno che non è pura e semplice affettazione, e un approccio alla melodia italica
che ricorda, pur con molte differenze, Battiato (sebbene “Telenovele” sia un omaggio
affettuoso e funzionale ma a rischio di autoparodia: peccato veniale, in ogni caso). “In due
corpi” è un disco elegante, colto, ispirato, con appena qualche lieve scricchiolio quando si
lustrano troppo i suoni o ci si lascia prendere la mano dall'impulso a gigioneggiare. In ogni
caso, parliamo di una voce autenticamente originale, che forse non ha ancora raggiunto la
massima capacità espressiva ma ha sicuramente le idee chiarissime sul percorso che va
fatto per ottenere risultati eccellenti.
Contatti: www.nicodemocantautore.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 48
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Numero Giugno '10
Pedro Ximenex
Il nostro disco che suona
Bonsai-To Lose La Track/Audioglobe
Giunti alla terza prova discografica, i Pedro Ximenex si cimentano con il formato del disco a
tema, nello specifico “un concept, sull'essere e l'avere, agiatezza o miseria, bisogni e
affermazioni di un trentenne d'oggi”. Il che, onestamente, vuol dire tutto e niente, e lascia ai
testi la massima libertà di spaziare dall’intimistico al sociale. E in effetti i brani dell'album
sono quasi sempre fruibili indipendentemente l'uno dall'altro, non soltanto per quanto
riguarda le liriche ma anche da un punto di vista musicale, dato che nell'arco delle due
facciate – sì, perché il formato è quello del caro vecchio LP, all'interno del quale è comunque
presente un tagliando per scaricare le canzoni in formato MP3 – il verbo del rock viene
coniugato in maniere delle più varie, a volte andando a parare dalle parti della psichedelia o
del prog meno estremo, altre finendo in prossimità del più tipico rock d'autore tricolore, altre
ancora screziando il tutto con saporiti tocchi di elettronica. Non si fa mancare niente,
insomma, il quintetto di Orvieto, e il risultato sa essere a tratti parecchio convincente; e,
anche se l'impressione è che forse si poteva fare un poco di più per quanto riguarda la mera
scrittura, dal momento che i pezzi sembrano faticare un po' più del lecito a imprimersi nella
memoria, nel complesso la scaletta scorre bene, senza sbavature o particolari cadute di tono
(eccezion fatta per il parlato nell'iniziale “Ne ho bisogno”, di cui invece bisogno non c'era
davvero). Non si grida dunque al capolavoro, ma la promozione per Simone Stopponi e soci
ci pare quantomeno scontata, a patto che loro per primi considerino questa loro fatica un
punto di partenza piuttosto che di arrivo.
Contatti: www.myspace.com/pedroximenex
Aurelio Pasini
Pagina 49
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Numero Giugno '10
Plastic Made Sofa
Charlie's Bondage Club

Smoking Kills
Il collage originale della copertina del “Sgt. Pepper's Lonely Heart Club Band” dei Beatles si
è trasformato in una montagna di volti tra cui si riconoscono Bob Dylan e Oscar Wilde (?) oltre a tutta una serie di orsacchiotti di peluche, animali antropomorfi, pupazzi e signorine
senza veli in pose più o meno ammiccanti - ma la lezione rimane quella propagandata dai
baronetti. O almeno in parte, visto che i bergamaschi Plastic Made Sofa – un EP omonimo
alle spalle – trovano il modo di conciliare le venature pop dei fab four (“Always The Same
Hello”) con un rock sul modello della trinità Strokes/Kaiser Chiefs/Libertines. Il parallelo con i
nostrani The Record's – altra band che ha saputo rinvigorire il linguaggio del rock con buone
iniezioni di creatività - viene quasi immediato, per la semplicità con cui la qui presente
formazione lombarda riesce a suonare credibile ed enciclopedica. Trafficando con il garage
degli Hives (“The Best Of Our Tragedies”), certe chitarre pop-wave in levare alla Franz
Ferdinand (“Charlie's Bondage Club”), frequenze Coral (“Candy”), psichedelia in stile
Supergrass (“My Jingle”).
Quello che stupisce è la naturalezza con cui tutto questo
avviene, segno tangibile di un percorso tutt'altro che improvvisato sbocciato in un
convincente esordio e destinato a lasciare il segno.
Contatti: www.myspace.com/plasticmadesofa
Fabrizio Zampighi
Pagina 50
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Numero Giugno '10
Pocket Chestnut
Bedroom Rock'n'Roll
autoprodotto
Neo-folk, come lo chiamano adesso, leggerezza a volume medio e canzoni d'amore scritte
in cameretta sono le coordinate di “Bedroom Rock'n'Roll”. Chitarrine spensierate, un banjo
strimpellato, slide, qualche tasto di piano in melodie strappacuore e batteria propensa alla
marcetta sono gli strumenti dei lombardi Pocket Chestnut. Dieci pezzi in appena trentatré
minuti: incipit pavementiano, elettrificato e con buone dosi di slide (“Eternal Love?”),
country-pop a seguire (“A Bell Tolls”), una specie di incontro a metà strada tra il blues e
l'indie-pop per “Mind-Shuffled” che è l'episodio migliore anche se troppo isolato, altri
riferimenti più o meno velati ai Pavement (“Love/Pain”), più di qualche accenno e forse
proprio un tributo morale ai Bright Eyes (“Nowhereville”, “Get Back Idea” e le successive) e
infine un saluto alla tradizione puramente country con il traditional “The Long Black Veil”. La
prova dei Pocket Chestnut è forse un po' disomogenea e costellata di alti e bassi, la voce è
sempre la stessa e non la sentiamo mai osare più del dovuto nel suo inglese un po' tirato,
ma “Bedroom Rock'n'Roll” ha una sua filosofia di fondo, se riusciamo vedere le cose con
l'ago della bilancia piegato verso la stanza da letto piuttosto che in direzione del rock'n'roll.
Niente di nuovo; niente male se non vi fate ingannare dal titolo del disco o se il vostro cuore
è spezzato e ha bisogno di conforto a un volume non troppo elevato. Funziona così, lo
chiamano neo-folk.
Contatti: www.myspace.com/pocketchestnut
Marco Manicardi
Pagina 51
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Numero Giugno '10
Pongo
Il giusto equilibrio
autoprodotto
Una storia iniziata in una cantina della provincia torinese nel lontano 1994 quella dei Pongo,
con alcuni cambi di formazione e un primo album che precede quest'ultimo di ormai dieci
anni. Un percorso sotterraneo che è partito dal grunge degli esordi (una gavetta a base di
cover di Mudhoney, Nirvana, Sonic Youth), ha transitato per un pop sporcato di rumore non
sempre convincente (il già citato esordio, “Abreagire”), assestandosi infine su forme musicali
più robuste, con ancora forti legami con gli anni Novanta ma la consapevolezza che, nel
frattempo, ci sono stati, per dire, anche i Queens Of The Stoner Age. La scrittura è sempre
legata al pop (tendenza che si manifesta in “Brivido” e nella parentesi quasi acustica di
“Ricominciare”, una ballata che abbraccia per un attimo certa psichedelia folk), la scelta
dell'italiano evidenzia inevitabili (ma non di maniera) rimandi all'esperienza degli Afterhours,
mentre lo stile chitarristico è particolarmente versatile e la batteria pesta quanto necessario
senza perdere per strada le sfumature. Si viaggia così tra hard rock, svisate funk-metal,
tentazioni stoner e un collante efficace a base di puro e semplice rock'n'roll. Un disco
lievemente fuori tempo massimo, forse, ma con una freschezza che lo sostiene e lo fa girare
al meglio.
Contatti: www.pongo.biz
Alessandro Besselva Averame
Pagina 52
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Numero Giugno '10
Roberta Di Lorenzo
L’occhio della luna
EF Sounds
È uscito da pochi mesi, con la produzione artistica di Eugenio Finardi, “L’occhio della luna”,
album d’esordio di Roberta Di Lorenzo, figura degna di nota nel panorama cantautorale
attuale.
È un disco a tratti onirico che emana una forza tipicamente femminile sia nelle melodie che
nelle tematiche, e ogni canzone svela un anfratto dell’animo di una donna contemporanea:
pensieri complessi, dubbi, tormenti, aspettative, sentimenti contrastanti, sogni e disillusioni
che si fanno immagini musicali grazie anche alla limpidezza della voce. In tal senso, è
evocativo già dal titolo il brano “Circe”. “L’occhio della luna” è un disco pensato, mentale,
non di stomaco. Musica e testi non sono banali, così come non lo è la struttura dei pezzi;
uno stile, insomma, raffinato, tipico di chi conosce la musica e con la musica sa giocare, a
volte anche spiazzando l’ascoltatore. Si nota una simbiosi tra voce e pianoforte (in
particolare nei brani “nudi”: “La ballerina e il clown” e “Doloroso istinto”), che fa di questo
strumento forse il compagno più giusto per il suo caleidoscopico universo musicale ed
emotivo. Una delicatezza sensuale attraversa tutto il disco - volutamente il ritmo non decolla
- come un viaggio interrotto solo da qualche silenzio; questo grazie anche alle particolari
sonorità acustiche e classiche degli arrangiamenti (uso di plettri ed archi), nei quali è
piacevolmente riconoscibile l’impronta finardiana. Vocalmente Finardi compare solo nel
primo brano, “Anima dolce liquida”, e come coautore nel singolo “Antigone”, con cui la Di
Lorenzo ha partecipato all’ultimo Festival di Sanremo. Con questo lavoro entra di diritto in
quella preziosa e poco popolata riserva di cantautrici, al fianco di artiste quali Andrea Mirò,
dove c’è ancora il piacere e il tempo d’intrecciare delle storie interessanti da ascoltare.
Contatti: www.robertadilorenzo.it
Chiara Garufi
Pagina 53
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Numero Giugno '10
Roggiu de Mussa Pin-a
Slow Migration
UPR
Nel nome di Fabrizio De André. Il quintetto dei Roggiu de Mussa Pin-a ruba un verso al
grande genovese da “Creuza de mä”. Il brano è “Jamin-a” (la strofa è debitamente
riportata nel booklet). La glossa, e quindi il nome del gruppo, è traducibile in estrema
vividezza con “getto di fica sazia”. Ghironde, chitarre, fisarmoniche, violini e percussioni. Il
catalogo strumentale è presto elencato. Su questi suoni folk-rock, i Roggiu de Mussa Pin-a,
di stanza in Lombardia ma di italiche varie provenienze, imbastiscono musiche popolari
erranti, colonne sonore virtuali. “Blucosio” (zucchero blu?) si accommiata con una
fisarmonica che sa molto di Quartiere Latino. Ma in più d’un momento si ha l’impressione di
trovarsi in un film francese, per esempio di un Claude Chabrol, oppure in un’evocazione
felliniana (è il caso di “Opera galleggiante”). Forte è la componente narrativa delle otto
tracce, sebbene assenti siano le parole, perché i brani sono tutti strumentali. Ma sempre c’è
una “voce” melodica che si leva, sia essa la ghironda, il violino o la fisarmonica. Negli
smarrimenti silvestri di “Cerchi di gesso”, nelle avvolgenti, evocative roteazioni di “Waltz N.
1”. Narrazioni per immagini e suggestioni, come nella notturna “Étoile noire”; o nella
conclusiva, nostalgica “Lontana da me”. La traccia d’inizio invece, “Canzone amena”, che
suona come il racconto delicato di un’alba, era già presente su un album-compilation di tre
anni fa del “Laratro” Contest.
Contatti: www.myspace.com/roggiudemussapina
Gianluca Veltri
Pagina 54
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Numero Giugno '10
The Filmakers
Chemical Love Crush
Halidon
La storia dei Filmakers merita di essere raccontata: già cantante dei Zeropositivo, nel 2008
Luca Solbiati inizia a scrivere i brani per un nuovo progetto, dal respiro più internazionale,
con l’idea di ispirarsi per ognuna a contesti e scenari cinematografici differenti. A contribuire
in maniera determinante al passaggio dalla teoria alla pratica ci pensa il tastierista e
produttore olandese RnO, insieme al quale le canzoni vengono registrate lo scorso anno in
uno studio alle porte di Amsterdam. Dopo avere coinvolto alcuni registi per la realizzazione
dei cortometraggi che accompagneranno l’esecuzione dei pezzi dal vivo, il duo è pronto per
pubblicare – è storia di poche settimane fa – il proprio album d’esordio, “Chemical Love
Crush”. Un lavoro estremamente curato in ogni sua parte, dalla grafica della copertina alla
raffinatezza e alla varietà degli arrangiamenti, che svariano dalle ballate elettroacustiche a
un rock occasionalmente venato di elettronica. In sintesi, una proposta che vorrebbe
collocarsi da qualche parte tra istanze mainstream e sonorità indie senza però cadere in
pieno in nessuna delle due categorie, rischiando così di deludere gli ascoltatori di entrambe
le sponde. Certo, le radio “commerciali” più illuminate potrebbero – e forse dovrebbero –
concedere spazio a qualcuno dei brani qui inclusi, ma ci pare improbabile che l’airplay possa
essere più che occasionale, visto che si tratta di musica non di facile consumo; dall’altra
parte, però, l’eccessiva attenzione verso la forma e la pulizia dei suoni potrebbero risultare
un ostacolo non da poco per l’appassionato “alternativo” medio. Due, a questo punto, le
soluzioni per i Filmakers: metterci un po’ più di cuore e di sangue oppure spegnere del tutto
il cervello e mettere una pietra sopra a qualsiasi velleità artistica o autoriale. A loro la scelta,
ché il rischio di rimanere troppo a lungo in mezzo alla strada è quello di venire investiti.
Contatti: www.thefilmakersofficial.com
Aurelio Pasini
Pagina 55
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Numero Giugno '10
The Shipwreck Bag Show
KC
Wallace/Long Song/Brigadisco/Phonometak/Paint Vox
Se c’è stata un’evoluzione vera del punk, questa è in mano ai Shipwreck Bag Show che
imboccano una strada sempre più stralunata e coraggiosa in “KC”, terzo disco del duo
formato da Roberto Bertacchini alla voce e batteria e Xabier Iriondo alla chitarra, melobar,
mahai metak, melodica, grammofono e voce. In occasione del secondo album del 2009, “Il
tempo... tra le nostre mani, scoppiaaaaaaaaaaa!”, il duo aveva invitato Federico Ciappini dei
Six Minute War Madness, che con la sua voce - anche se solo per qualche pezzo - ha forse
mostrato una nuova direzione ai ragazzi che risultasse più carnale e sinuosa con i testi e la
voce di Roberto in particolare. Il primo album omonimo era quindi la base, le fondamenta
stabili di questo progetto, nato da due musicisti incredibili che si sono annusati, si sono
piaciuti e dopo qualche prova hanno deciso che poteva andare. Per il secondo disco hanno
invitato altri musicisti amici assorbendone le influenze buone, e per “KC” sono tornati ad
essere un duo che condivide a metà e prende per metà l’uno dall’altro in simbiosi, creando
così il proprio capolavoro. Il modo sgangherato di cantare di Roberto ad esempio quando
canta e ripete “mentre la luna mi sta a guardare”, con Xabier che crea attraverso i suoni
l’angoscia in sottofondo, come un respiro delle tenebre insistente che la batteria suonata da
Roberto esalta ulteriormente. Il dolore, i sogni scippati e poi resi possibili, atmosfere lugubri
e terrorizzanti attraverso chitarre che si espongono alla melodia e perdono il controllo come
da innamorati folli.
Contatti: www.myspace.com/shipwreckbagshow
Francesca Ognibene
Pagina 56
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Numero Giugno '10
Thee Jones Bones
Electric Babyland
Il Verso del Cinghiale
Se la copertina del nuovo lavoro dei bresciani Thee Jones Bones – in vinile, con cd allegato
– omaggia in maniera quasi calligrafica, come del resto il titolo, l’“Electric Ladyland” di
hendrixiana memoria, i suoi contenuti si muovono lungo altre coordinate: quelle di un
rock’n’roll viscerale e parecchio selvaggio, nipote degli Stones e figlio bastardissimo degli
Stooges, cugino dei Cramps e dei Gun Club e e cognato del surf più ruvido. Musica che
viene dallo stomaco, ispida, sporchissima, veloce, da ascoltare col volume a palla senza
farsi troppi problemi. Niente di nuovo, ma fatto alla grande, con le giuste – e copiose – dosi
di elettricità e sudore. Come sovente accade in questi contesti, poi, l’organico limitato (voce,
chitarra, batteria, occasionalmente banjo e armonica) non rappresenta assolutamente un
ostacolo, rivelandosi di contro un pregio non da poco, perché è solo quando sono ridotte ai
minimi termini che certe canzoni acquisiscono potenza ed efficacia. A scacciare il temuto
spettro della ripetitività ci pensano arrangiamenti semplici ma vari, che peraltro non si
precludono la possibilità di staccare la spina per qualche minuto, senza che il coinvolgimento
e il divertimento vengano meno. Insomma, se si amano certe sonorità “Electric Babyland” è
un lavoro da non lasciarsi sfuggire, oltre a rappresentare la conferma del ruolo di primo
piano che i suoi autori già da qualche tempo ricoprono nell’ambito della scena r’n’r tricolore.
Contatti: www.myspace.com/theejonesbones
Aurelio Pasini
Pagina 57
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Numero Giugno '10
Those Furious Flames
Trip To Deafness
Bagana/Edel
Iniziamo subito col dire che secondo il contorno modo di ragionare tipico dell'appassionato
di rock un disco che promette un “viaggio verso la sordità” promette già molto bene. E i
ticinesi Those Furious Flames, ovvero gli organizzatori del “viaggio”, per questo obiettivo
hanno scelto la strada più diretta: rock’n’roll in inglese ad alto tasso di cantabilità e veloce al
punto giusto. Il discorso di fatto si potrebbe chiudere qui, anche perché, quasi fosse una via
crucis, nelle dieci tappe in cui è scandita la discesa alla sordità troviamo tutti gli stilemi del
caso. Si parte con l'acceleratore al massimo di “Hell Yeah” e quando si tira un po' il fiato lo si
fa solo per una dichiarazione d'amore sui generis come “You're Like A Drug”, e il sitar che fa
capolino è davvero intrigante. La title track, un vero anthem stradaiolo, è strategicamente
collocata alla fine di un disco che senza acuti né particolari accorgimenti riesce ad arrivare al
risultato prefissato, riuscendo ad essere una sintesi credibile di trent'anni di questa musica.
Certo, il gioco delle citazioni e dei rimandi diverte ma rischia di diventare prevedibile, così
come la voce sembra capace di poter fare di meglio, ma se sapranno continuare su questa
strada sapranno aggiustare la direzione. E noi saremo contenti di intraprendere un altro
viaggio verso la sordità.
Contatti: www.thosefuriousflames.com
Giorgio Sala
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Numero Giugno '10
Tiger! Shit! Tiger! Tiger!
Whispers EP
To Lose La Track/Audioglobe
Nell'unica regione del centro Italia senza sbocchi sul mare si suona come se avessimo
attraversato l'oceano. Beh, i Tiger! Shit! Tiger! Tiger!, da Foligno, l'hanno attraversato più e
più volte dal 2008, data d'uscita dell'esordio “Be Yr Own Shit”, a oggi. “CMJ Music Marathon
and Film Festival” di New York nel 2008 come apertura per le Slits e nel 2009 con ben tre
concerti da soli, poi il “SXSM” di Austin, Texas, nel 2010. Dev'essere lì che il power-trio
umbro ha deciso di prendere cittadinanza spirituale americana, rimodellare il suono ed
evolvere le canzoni veloci e dritte da meno di due minuti per crearne altre e costruire il
“Whispers EP”: tracce di tre o quattro minuti più complesse e nervose dell'esordio, con le
casse dritte accompagnate da orpelli e composizioni più ragionate. Dal post-punk da
classifica a un indie-rock italo-americano come lo suonerebbero i Settlefish: chitarre che
sfornano nenie una dopo l'altra e dagli alti predominanti, basso suonato con la mano che
scorre su e giù per il manico; della batteria abbiamo già parlato. “Whispers”, “VV Fake”,
“Vampire” e “Wheelers” sono simili tra loro eppure ognuna ha la propria anima sbilenca. Gli
amanti del genere si stancheranno a forza di spingere il repeat nel lettore o a girare
continuamente la musicassetta del “Whispers EP”. Gli altri non potranno fare a meno di
godere della dimensione live del trio. Quando sono a casa, i TSTT non vedono il mare
nemmeno da lontano. Basta, però, entrare nelle quattro mura di uno studio di registrazione e
chiudere gli occhi per attraversare l'oceano.
Contatti: wearetstt.blogspot.com
Marco Manicardi
Pagina 59
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Numero Giugno '10
Yut
E.P.
Smoking Kills/Halidon
New wave italiana senza “freejazzpunkinglese” ma con una bella dose di elettronica
d'annata. Come dei Diaframma sintetizzati o dei Litfiba del periodo Istanbul ma raddolciti e
arrotondati nel suono. Gli Yut, milanesi all'esordio, confezionano un EP con tre brani per
meno di un quarto d'ora in totale e si presentano al mondo. Cassa dritta, tastiere di una
manciata di tasti, chitarre suonate a scatti e missaggio all'italiana con la voce in primo piano
perché sia il testo ad arrivare alle orecchie nel primo pezzo, “L'incredibile”; inizio à la Joy
Division per “Zion”, seconda traccia, con arpeggio chitarristico e batteria carica di timpano,
poi sembra di sentire i Litfiba quando parte la voce ed entrano basso e tastiere; conclusione
leggermente più rock per “Sciamenna”, quasi distorta ma sempre devota alla cassa dritta
anche se camuffata. Applauso registrato e fine dell'EP. Quattordici minuti e sei secondi.
Forse poco per dare un giudizio esaustivo, abbastanza per risvegliare appena la curiosità
per il futuro degli Yut. Fab, Diego, Jonny e Nico – alle spalle di alcuni ci sono esperienze in
I've Killed The Cat e Mercury Drops, altri sono conosciuti nel milanese come produttori di
musica elettronica – si presentano così. Poi si rinchiudono nuovamente in uno studio di
registrazione e vedremo cosa ne uscirà.
Contatti: www.myspace.com/yutband
Marco Manicardi
Pagina 60
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