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La follia dei dannati. Frantz Fanon e la psichiatria
I. Razzismo e alienazione
L’opera più completa e rappresentativa del giovane Fanon è certamente
Peau noire, masques blancs, pubblicata a Parigi nel 1952.
Si tratta di un testo complesso e magmatico, scritto con un linguaggio
appassionato e immaginifico, che attinge a fonti culturali molteplici ed
eterogenee articolandone gli spunti in modo non sempre rigoroso, ma funzionale all’obiettivo centrale di tutto il discorso: la denuncia perentoria e
intransigente del travaglio psicologico in cui si trova a vivere l’uomo di
colore, vittima del razzismo e della violenza ereditati dalle vicende del
colonialismo. Lo scopo del lavoro è chiaro:
Quello che vogliamo è aiutare il Nero a liberarsi dall’arsenale di complessi
germinato in seno alla situazione coloniale.1
Il materiale utilizzato proviene dalla letteratura come dalla filosofia,
dalla psicanalisi, dall’esperienza personale dell’Autore e da testimonianze
raccolte negli ospedali e nei quartieri popolari di Lione. Il rigore metodologico è generosamente sacrificato di fronte all’urgenza del tema:
Lasciamo i metodi ai botanici e ai matematici. Vi è una zona in cui i metodi
si riassorbono. Noi vorremmo sistemarci in questa zona.2
A dire il vero, si tratta in parte di una scelta dettata dall’estrema comples1 Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche. Il nero e l'altro, Milano, Marco Tropea Editore,
1996, p. 26.
2 Ivi, p. 11.
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sità derivante dall’intersecarsi di molteplici livelli di lettura della situazione:
Sebbene avessi intrapreso lo studio dell’alienazione psichica del Nero, capii
che non potevo passare sotto silenzio certi elementi, i quali, per psicologici
che potessero essere, investivano problemi propri di altre scienze.3
Se, da un lato, l’Autore ritiene che un’interpretazione psicanalitica sia
indispensabile per individuare le “anomalie affettive responsabili dell’instaurarsi di un edificio di complessi”,4 dall’altro egli è ben consapevole
del fatto che l’analisi non può assolutamente prescindere dai contesti
economici, storici e sociali in cui prendono forma le dinamiche psicologiche individuali. La realtà, infatti, almeno in questo caso richiede quella
che egli chiama una “comprensione totale”.
Se l’analisi intrapresa è principalmente psicologica, tuttavia resta evidente che
la vera disalienazione del Nero implica una brusca presa di coscienza delle
realtà economiche e sociali … [e che] … se vi è un complesso di inferiorità,
questo è conseguenza di un duplice processo: in un primo tempo economico;
d’interiorizzazione o, meglio, di epidermizzazione di questa inferiorità, in
un secondo.5
Quindi, in ultima analisi,
non vi sarà vera e propria disalienazione se non nella misura in cui le cose,
nel senso più materialista, avranno ripreso il loro posto.6
Appare chiaro che la zona in cui i metodi si riassorbono è proprio quella
del messaggio politico: dunque, sebbene Fanon affermi che “quest’opera è
uno studio clinico”,7 egli è perfettamente consapevole (e non ne fa certo un
mistero) del fatto che i materiali desunti dalla realtà ospedaliera sono selezionati e trattati fin dal principio in base a fini di denuncia.8 Inoltre, bisogna
3 Ivi, p. 42.
4 Ivi, p. 10.
5 Ibidem.
6 Ivi, p. 11.
7 Ivi, p. 12.
8 Cfr. Pietro Clemente, op. cit., p. 18.
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aggiungere che in questo testo (ancor più che negli altri) è evidente il
coinvolgimento emotivo personale dell’Autore, cosa che ha senz’altro contribuito a determinare quel sacrificio del metodo di cui si parlava poc’anzi:
l’oggettività scientifica risultava impossibile perché l’alienato, il nevrotico,
era mio fratello, era mia sorella, era mio padre.9
Tuttavia, uno degli elementi che conferiscono maggior valore a Peau
noire, masques blancs è proprio il fatto di essere la prima analisi critica della
situazione coloniale e delle sue ricadute psicologiche svolta dall’interno,
ovvero a opera di un colonizzato.
Se al metodo quantitativo, alle statistiche, ai questionari si è preferita la
testimonianza viva, l’interpretazione, lo spunto polemico, ebbene anche
questo diventa motivo di interesse, soprattutto nel momento in cui può
essere colto come manifestazione di un personale cammino di liberazione.
Come dice Fanon:
Questo lavoro vorrebbe essere uno specchio a infrastruttura progressiva dove
potrebbe ritrovarsi il negro in via di disalienazione.10
E se, da un lato, manca di sistematicità, dall’altro quest’opera è ricchissima di idee, spunti, intuizioni estremamente stimolanti, tutte saldamente
agganciate all’orizzonte dell’esistente e orientate a una sua ferrea critica:
Qualsiasi problema umano deve essere preso in esame a partire dal tempo.
L’ideale infatti è che, sempre, il presente serva a costruire l’avvenire. E
questo avvenire non è quello del cosmo, bensì quello del mio secolo, del
mio Paese, della mia esistenza. […] Appartengo irriducibilmente alla mia
epoca. Ed è per essa che devo vivere. L’avvenire deve essere una costruzione
sostenuta dall’uomo esistente. Questa edificazione si riallaccia al presente
nella misura in cui io pongo quest’ultimo come cosa da superarsi.11
Si cercherà, nel presente capitolo, di mettere a fuoco le principali tematiche sollevate da Fanon in questo testo, che è un po’ la summa del suo
9 Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, op. cit., p. 198.
10 Ivi, p. 152.
11 Ivi, p. 12.
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pensiero negli anni che vanno dal ‘46 al ‘52, ovvero nel periodo degli studi
universitari svolti a Lione. Sarà dedicata, inoltre, una certa attenzione a Le
syndrome nord-africain:12 un articolo pubblicato nello stesso anno di Peau
noire, masques blancs e che, pur presentando rispetto a quest’ultimo una
omogeneità di argomenti e di linguaggio pressoché totale, offre però la possibilità di svolgere alcune interessanti riflessioni sui rapporti tra medici
occidentali, categorie scientifiche e pazienti immigrati.
1. Liberare l’uomo
Una delle chiavi interpretative necessarie per comprendere l’opera del giovane Fanon è la sua concezione del razzismo come negazione dell’uomo.
Le parole che utilizza sono perentorie e provocatorie: “il Nero non è un
uomo”, ciò che bisogna fare è “liberare l’uomo di colore da se stesso”, “davvero qui il problema è di liberare l’uomo”.13
Il nero non è un uomo perché è stato disumanizzato. Secoli di oppressione,
di sfruttamento, di schiavitù, di occupazione violenta delle sue terre a opera
degli europei gli hanno inculcato la mistificazione razziale secondo cui il
bianco è un essere superiore: più civile, più pulito, più intelligente, più
spirituale... Il bianco, insomma, è uomo a pieno titolo.
Il nero invece è poco più di una bestia da soma, un selvaggio, schiavo di
appetiti animaleschi, incapace di trascendere la natura e di elevarsi alla vita
dello spirito per soggiogarla. Niente di strano se il colono si arroga il diritto
di amministrare il suo Paese, le sue risorse e la sua stessa vita: in fondo, ciò
che gli sta offrendo in cambio è la salvezza dalla bestialità, l’opportunità di
accedere a uno stadio di maggiore civiltà... in altre parole, gli sta offrendo
la possibilità di farsi uomo.
Ed è venuto un giorno, in effetti, in cui questa possibilità è stata affermata
come qualcosa di reale: portando fino in fondo la sua opera di civilizzazione,
il bianco ha dichiarato che tutti gli uomini sono uguali e hanno pari dignità.
Questo principio, nato da lontane radici cristiane e sviluppatosi storicamente nel crogiolo dell’Europa moderna, è stato calato dall’alto sulle teste
di milioni di africani colonizzati: il velo pudico di un ideale per celare il
12 Frantz Fanon, “Le ‘syndrome nord-africain’”, in Esprit, n. 2 (febbraio 1952).
13 Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, op. cit., p. 8.
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concreto permanere della schiavitù, per non vedere i volti sporchi e sofferenti di chi continuava a essere asservito e sfruttato, per rendere più
sopportabile – magari – un certo puzzo di sangue e di selvatico...
Sebbene, dai tempi dell’abolizione della schiavitù, la legge affermi
l’uguaglianza degli uomini, nei fatti essi continuano a essere diversi: “Il
Bianco è chiuso nella sua bianchezza. Il Nero nella sua nerezza”.14 Ciò
accade innanzitutto perché non è stato il nero, lo schiavo, a conquistare la
propria libertà: essa gli è stata elargita dal bianco, unilateralmente. Non c’è
stato un vero momento di contrapposizione, una vera lotta tra il servo e il
padrone: di conseguenza non c’è stato neppure un autentico riconoscimento
delle due parti. È evidente che l’impianto di questo ragionamento si rifà apertamente alla dialettica servo-padrone descritta da Hegel nella Fenomenologia
dello Spirito. Il filosofo tedesco, a cui è dedicato un paragrafo di Peau noire,
masques blancs, è uno dei principali punti di riferimento del pensiero del
giovane Fanon. Ci sarà modo di discuterne più approfonditamente nella
seconda parte. Per il momento, mi limito a rilevare che l’intero testo dello
psichiatra martinicano si regge sullo schema di quella che potremmo chiamare dialettica del riconoscimento.15 Riprendendo Hegel:
L’autocoscienza è in sé e per sé in quanto essa è in sé e per sé per un’altra;
ossia essa è soltanto come un qualcosa di riconosciuto.16
Ciò vuol dire, secondo Fanon, che l’uomo non è davvero tale fino a che
non riesce a imporsi a un altro uomo per farsi riconoscere da esso:
finché non è effettivamente riconosciuto dall’Altro è ancora quest’Altro il
tema della sua azione. Da costui, dal riconoscimento, dipendono il suo valore
e la sua realtà umana. È in quest’Altro che si condensa il senso della vita.17
Perché ci sia un vero riconoscimento, però, è necessario che ci sia reciprocità. E questa non può essere data che dall’opposizione reciproca, ovvero
dalla lotta per la libertà. Ma il nero, come dicevamo, questa lotta non l’ha
14 Ivi, p. 9.
15 Cfr. Pietro Clemente, op. cit., p. 20.
16 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Firenze, La Nuova Italia, 1960, p. 153
(citato da Fanon a p. 188).
17 Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, op. cit., p. 88.
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mai sostenuta: la libertà gli è stata concessa dall’alto, con un riconoscimento
astratto, formale, unilaterale. Di conseguenza il bianco continua a essere il
tema della sua azione: è al bianco che l’uomo di colore guarda per essere
riconosciuto, è dallo sguardo del bianco che egli si aspetta di esser fatto
uomo. Così, mentre molti bianchi continuano a ritenersi superiori ai neri, ci
sono molti neri che aspirano con tutte le loro forze alla “lattificazione”: essi
in tanto si sentono uomini in quanto si possono credere bianchi. Si sforzeranno, allora, di parlare come i bianchi, di vestire come i bianchi, di comportarsi come i bianchi, di leggere e studiare come leggono e studiano i bianchi...
Finché resteranno nella loro terra, tra i loro simili, potranno quasi credere al miracolo: essere un uomo, essere un vero uomo... con la stessa
dignità di tutti gli altri... perché gli uomini sono tutti uguali... noi uomini
siamo tutti uguali... Ma basterà che incontrino un bianco perché l’incantesimo si spezzi: “Toh! Un negro!”. Anziché farlo uomo, lo sguardo dell’altro lo pietrifica, fa di lui una cosa, un oggetto. Un negro.
Colui che voleva semplicemente essere un uomo tra gli uomini si scopre
rinchiuso in una cella di idee preconcette, ereditate dalla sua storia, dal passato della propria gente e dal modo in cui l’Europa colonialista guardava a
essa: il cannibale, il selvaggio, il feticista, le tare razziali e l’arretratezza
mentale dell’indigeno... È bastata un’occhiata, una frase pronunciata sbadatamente, senza nemmeno l’intento di ferire. E il principio dell’uguaglianza
è andato a farsi benedire. Egli è un inferiore. Ma attenzione! Il nero è un
inferiore – protesta Fanon – perché lo si inferiorizza! “Si abbia il coraggio
di dirlo: è il razzista che crea l’inferiorizzato”.18 Vediamo dunque, un po’
più da vicino, in che modo questo accada.
2. Il processo di inferiorizzazione
Uno degli ambiti in cui è possibile cogliere in atto il processo di inferiorizzazione è quello del linguaggio. Fanon si occupa di questo tema nel
primo capitolo di Peau noire, masques blancs e anche, parzialmente, in “Le
syndrome nord-africain”. L’analisi, nel primo caso, riguarda l’esperienza
del nero delle Antille (anche se l’Autore ritiene di poterne allargare i risultati
18 Ivi, p. 82.
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La follia dei dannati. Frantz Fanon e la psichiatria
a tutti i popoli colonizzati), mentre nel secondo caso concerne il rapporto
tra il medico occidentale e l’immigrato nord-africano. Il problema di fondo
viene così presentato:
... il Nero delle Antille sarà tanto più bianco, cioè si avvicinerà tanto più al
vero uomo, quanto più avrà fatto sua la lingua francese. […] Ogni popolo
colonizzato, cioè ogni popolo in cui si sia instaurato un complesso di inferiorità a causa dell’avvenuta distruzione dell’originalità culturale locale, è
posto di fronte al linguaggio della nazione civilizzatrice, cioè della cultura
metropolitana. Il colonizzato si allontanerà tanto maggiormente dalla “foresta”
che gli è propria, quanto più avrà fatto suoi i valori culturali della metropoli.
Sarà tanto più bianco quanto più avrà rigettato la sua nerezza, la sua “foresta”.19
Saper parlare un francese corretto, dunque, è per il colonizzato una
garanzia di status, di rispettabilità. Nelle scuole della Martinica si insegna a
disprezzare il vernacolo e a guardarsi dall’uso di “creolismi”. La borghesia
indigena si esprime in creolo con la servitù. Se in Francia si dice “parlare
come un libro stampato”, nella colonia si dice piuttosto “parlare come un
bianco”. La questione riguarda la dignità stessa dell’individuo di fronte al
prossimo: infatti, secondo Fanon, “per l’uomo parlare significa esistere, in
assoluto, per l’altro”,20 e l’antillano che dimostra di avere un’ottima padronanza della lingua francese sarà guardato con rispetto e timore dai propri
consimili. Sarà considerato un quasi-Bianco – e in un certo senso lo è, dal
momento che parlare “significa soprattutto assumere una cultura, sopportare
il peso di una civiltà”.21
Egli ha scelto di far propri i valori del dominatore e ribadisce questa scelta
con la perizia che impiega nell’enunciare ogni sua frase. Tuttavia, recandosi
nella madre patria, quest’oratore provetto scoprirà che il colore della sua
pelle è sufficiente a determinare nel bianco un particolare atteggiamento linguistico di accondiscendenza e paternalismo. Il bianco infatti, pur in buona
fede, in linea di massima si rivolge ai neri in un francese semplificato, come
quello che si utilizza talvolta con i bambini: “Tu perché lasciata grande savana e venire con noi?”, dice un prete a un ragazzo di colore, cattolico, che
19 Ivi, p. 16.
20 Ivi, p. 15.
21 Ivi, p. 16.
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sta partecipando a un pellegrinaggio di studenti.22 Questo fatto, apparentemente banale, merita secondo Fanon una certa attenzione.
Un simile modo di parlare, infatti, sottende una presunzione di superiorità, per quanto mascherata da una sorta di benevola sollecitudine: “Io li
conosco i negri. Bisogna rivolgersi loro con gentilezza, parlargli del loro
Paese. Saper parlare con loro, questo è il punto...”.23 Tale atteggiamento è
molto frequente nei medici, per esempio: se tutti gli ammalati europei sono
accolti da una frase tipo: “Si accomodi prego, che cosa si sente?”, quando
toccherà a un nero o a un arabo la formula sarà piuttosto: “Siediti, amico.
Cos’hai? Dove senti male?”, se non addirittura: “Tu cosa non andare?”.24
Ebbene, secondo l’Autore, rivolgersi a un uomo di colore in questo modo
vuol dire metterlo a disagio e, soprattutto, ghettizzarlo. Infatti “parlare francese storpiato significa esprimere questa idea: ‘Tu, resta dove sei’”,25 ovvero
nella foresta, nella savana, nel tuo passato privo di storia e di cultura. E ancora:
Storpiare il francese è imprigionare il negro, è perpetuare una situazione di un
conflitto in cui il Bianco infesta il Nero di corpi estranei estremamente tossici.26
Dunque da un lato il colonizzato ambisce a parlare francese perché il
sistema coloniale ha suscitato in lui un complesso di inferiorità; dall’altro,
attraverso il linguaggio, si manifesta anche un complesso di superiorità del
bianco. Quest’ultimo, da un punto di vista logico, è precedente: infatti
è esso che pone il rapporto di soggezione, è il linguaggio del bianco che
definisce il “posto” del negro.27
Nell’ambiente medico, tanto per esemplificare, esiste una sorta di
tradizione orale per mezzo della quale il personale scopre l’esistenza di una
“sindrome nordafricana”.28 In altre parole il medico occidentale che riceve
un paziente nordafricano sa già fin dal principio di avere a che fare con un
22 Cfr. ivi, p. 26.
23 Ivi, p. 27.
24 Cfr. ivi, pp. 27-28.
25 Ivi, p. 29.
26 Ivi, p. 31.
27 Pietro Clemente, op. cit., pp. 28-29.
28 Cfr. Frant Fanon, “Le syndrome nord-africain”, op. cit., p. 15.
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La follia dei dannati. Frantz Fanon e la psichiatria
potenziale imbroglione, con un fannullone, un malato immaginario:
Tout Arabe est un malade imaginaire. Le jeune médecin ou le jeune
étudiant qui n’a jamais vu un Arabe malade, sait […] que “ces types sont
des farceurs!.29
Quando, poi, proverà a parlare con lui (con il tono paternalistico di cui
si è detto sopra) per cercare di capire da che genere di disturbo sia affetto,
si troverà di fronte a una serie di risposte vaghe e difficilmente interpretabili:
“Dove hai male?”
“Nella pancia.” (Mostra quindi torace e addome)
“In che momenti?”
“Sempre.”
“Anche la notte?”
“Soprattutto la notte.”
“Hai male piuttosto di notte che di giorno, eh?”
“No, sempre.”
“Ma più la notte che il giorno?”
“No, sempre.”
“E dove fa più male?”
“Qua.” (Mostra quindi torace e addome)30
Il medico, allora, comincerà a ricordarsi di quella tradizione orale, di
quella strana malattia di cui aveva sentito parlare... In seguito cercherà
invano di individuare una lesione organica che possa essere la causa del
malessere lamentato dal paziente: ai medici infatti, dice Fanon, si continua
a insegnare che ogni sintomo presuppone una lesione – sebbene nei congressi sia ampiamente riconosciuta la realtà dei disturbi psicosomatici e
l’importanza del sistema neurovegetativo, del diencefalo, delle ghiandole
endocrine, ecc...31 Non riuscendo a localizzare nessuna lesione, comincerà
29 “Ogni Arabo è un malato immaginario. Il giovane medico o il giovane studente che non
ha mai visto un Arabo malato, sa […] che “questi tipi sono dei burloni”». Ibidem.
30 Ivi, pp. 10-11.
31 Cfr. Ivi, p. 14. Vale la pena sottolineare come il paradigma medico a cui Fanon allude come
auspicabile ma trascurato abbia trovato oggi un'importante sistemazione teorica nell'ambito della
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a vedere il pensiero medico in difetto, ma prima ancora che possa acquisirne
consapevolezza a questa lesione se ne sostituirà un’altra, molto meno scomoda: è il malato a essere in difetto! È un malato “indocile, indisciplinato,
che ignora le regole del gioco”32... A pensarci bene c’è già una categoria
che corrisponde a questa situazione: il linguaggio fornisce una casella che
vi si attaglia a perfezione e che, anzi, attendeva il paziente fin da prima del
suo arrivo... Ora è chiaro! È solo un altro caso di “sindrome nordafricana”.
È solo un altro magrebino simulatore, che cerca uno stratagemma per starsene a oziare a spese del contribuente francese.
Il paziente nordafricano, scrive Fanon, “con la sua semplice apparizione
entra in un quadro precostituito”.33 L’atteggiamento del personale medico è
guastato a priori dal pregiudizio razziale, che impedisce di affrontare la
realtà del malato in modo obiettivo e con la profondità che meriterebbe.
Non basta, infatti, rivolgere la propria attenzione alla costituzione somatica
del paziente: è necessario procedere a una vera e propria diagnosi di situazione.
In altre parole bisognerebbe cercare di comprendere la qualità delle sue
relazioni con l’ambiente, le sue occupazioni e le sue preoccupazioni, la sua
sessualità, la sua tensione interiore, il suo sentimento di sicurezza o insicurezza, i pericoli che lo minacciano e, infine, la sua storia personale.34
Così facendo si scoprirebbe che “il Nord-Africano riunisce tutte le condizioni che rendono un uomo malato”:35
Senza famiglia, senza amore, senza relazioni umane, senza comunione con
la collettività, il primo incontro con lui stesso avverrà secondo una modalità
nevrotica, una modalità patologica, si sentirà svuotato, senza vita, in un
corpo a corpo con la morte, una morte al di qua della morte, una morte nella
vita, e cosa c’è di più patetico di quest’uomo dai muscoli robusti che ci dice
cosiddetta Psiconeuroendocrinoimmunologia e degli studi derivati dall'applicazione dell'epistemologia della complessità alla medicina, così come nel modello biopsicosociale in psichiatria.
Per un primo approccio a questi temi si veda Francesco Bottaccioli, Psiconeuroendocrinoimmunologia, Milano, Red, 2005, Paolo Bellavite, La complessità in medicina, Milano,
Tecniche Nuove, 2009, V. Cigoli e M. Mariotti (a cura di), Il medico, la famiglia e la comunità.
L'approccio biopsicosociale alla salute e alla malattia, Milano, Franco Angeli, 2002.
32 Ibidem.
33 Ivi, p. 13.
34 Cfr. ivi, p. 16.
35 Ivi, p. 18 (mia traduzione).
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La follia dei dannati. Frantz Fanon e la psichiatria
con la voce sinceramente incrinata: “Dottore, sto per morire?”36
Mi pare evidente che da queste pagine si possano cogliere fecondi
stimoli per riflettere non soltanto sul rapporto tra medici occidentali e
pazienti immigrati, ma anche sulla problematica relazione tra sintomi e
segni, tra la realtà concreta dell’individuo che soffre e l’astrattezza degli
impianti categoriali, sull’opportunità, inoltre, di affiancare alla consueta
diagnosi clinica quella che Fanon chiama “diagnosi di situazione” e, di qui,
sulla necessità di affiancare alla scienza medica quelle discipline che
possono fornire gli strumenti e i metodi per realizzare una simile diagnosi
(psicologia, sociologia, storia, antropologia, fenomenologia). Tutto ciò,
tuttavia, condurrebbe lontano dal tema del presente paragrafo, ed è per
questo che tali considerazioni saranno riprese in un secondo momento. Per
ora ci si volgerà, invece, a prendere in esame un altro aspetto del processo
di inferiorizzazione, così com’è presentato nel capitolo “Il Negro e la
psicopatologia” di Peau noire, masques blancs.
La riflessione, questa volta, parte dall’importanza dei rapporti tra famiglia e società nello sviluppo psichico dell’individuo. Secondo Fanon, che
si rifà agli studi di Joachin Marcus,37 in una situazione “normale” famiglia
e società si trovano tra loro in un rapporto di continuità, sono per così dire
l’una il prolungamento dell’altra. Questo è ciò che accade in Europa e in
tutti i Paesi “civilizzatori”, ma anche presso quelle società chiuse che sono
state preservate dal loro influsso. In simili circostanze, vita familiare e vita
nazionale sono tra loro in armonia.
Il bambino che esce dall’ambiente parentale ritrova le medesime leggi, i medesimi principi, i medesimi valori. Un bambino normale che sia cresciuto in
una famiglia normale sarà un uomo normale.38
È su questa continuità che si regge la validità della teoria psicoanalitica
per gli uomini occidentali.
36 Ibidem (mia traduzione).
37 Joachin Marcus, “Structure familiale et comportements politiques. L'autorité dans la
famille et l’État”, in Revue Française de Psychanalyse, aprile-giugno 1949.
38 Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, op. cit., pp. 125-126.
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Infatti, puntualizza Fanon, la psicoanalisi si occupa essenzialmente di
comprendere i comportamenti che si verificano nell’ambito della realtà
familiare: anche la nevrosi dell’adulto, per essere capita, viene ricondotta
alle esperienza conflittuali che l’individuo ha vissuto all’interno della famiglia, quando era bambino. È qui, d’altronde, che il mondo gli si offre per
la prima volta. In linea di massima, l’individuo interiorizza l’autorità parentale nel Superego, per poi assimilarla alle autorità che incontrerà nella
realtà politica e sociale. In questo modo, l’autorità dello Stato sarà per lui la
riproduzione dell’autorità familiare che l’ha modellato durante l’infanzia.
Ora, ciò che Fanon vuole sottolineare con forza è che nell’uomo nero,
invece, accade esattamente il contrario:
Un bambino nero normale che sia cresciuto in seno a una famiglia normale si
anormalizzerà al minimo contatto con il mondo bianco.39
Egli, infatti, anziché trovare nella società l’analogo della propria struttura
familiare introiettata nel Superego, sarà costretto a ricacciare la propria
famiglia (nera) nell’inconscio. Per spiegare questo fenomeno, lo psichiatra
antillano ritiene che sia necessario ricorrere alla categoria junghiana di
inconscio collettivo e a quella di catarsi collettiva infantile.
In ogni società – dice – devono esistere dei canali attraverso i quali le
energie accumulate sotto forma di aggressività possano essere sfogate senza
pericolo. È a questa esigenza che rispondono, per esempio, i giochi negli
istituti per l’infanzia, gli psicodrammi nelle terapie di gruppo e i settimanali
illustrati per i giovani. Ora, è proprio su questi ultimi che vale la pena
soffermarsi a riflettere. Questi giornali, infatti, sono scritti esclusivamente
da bianchi e sono destinati a ragazzi bianchi. Tuttavia, nelle Antille (ma
Fanon pensa che la cosa possa essere estesa a tutte le altre colonie) questi
stessi giornali sono letti avidamente anche dai ragazzi indigeni. Così, se la
loro funzione essenziale è quella di imparare a indirizzare e liberare l’aggressività collettiva, il ragazzo nero imparerà a convogliare le proprie pulsioni
aggressive alla maniera dei bianchi e a rivolgerle verso i medesimi oggetti.
Egli si identificherà di volta in volta con la figura del vincitore, dell’esploratore, dell’avventuriero, mentre i suoi nemici saranno il Lupo, il Diavolo,
39 Ivi, p. 126.
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il Genio Cattivo, il Male, il Selvaggio... e in tutto questo non ci sarebbe
nulla di male, se non fosse che questi personaggi negativi, veri e propri
catalizzatori dell’aggressività, “sono sempre rappresentati da un negro o da
un indiano”. Come conseguenza di tutto ciò,
Nelle Antille il giovane negro che a scuola non smette di ripetere “i nostri
antenati della Gallia” si identifica con l’esploratore, col civilizzatore, col
Bianco che porta la verità ai selvaggi, una verità tutta bianca. Si ha identificazione, vale a dire che il giovane Negro adotta soggettivamente un
atteggiamento da Bianco. […] Il fatto è che l’antillano non si pensa nero; si
pensa antillano. Il negro vive in Africa. Soggettivamente, intellettualmente,
l’antillano si comporta come un bianco. Orbene, è un negro e se ne accorgerà
una volta in Europa.40
A causa di questa identificazione (bianco-bene, nero-male), al contatto
con la società bianca il nero assisterà al tracollo dei valori interiorizzati:
scoprirà di essere visto come quel negro che aveva introiettato come immagine del negativo e oggetto di odio. È così che diverrà un inferiorizzato (o,
come precisa Fanon, è così che lo si inferiorizza). Per poter restaurare il
proprio orizzonte di valori, sarà portato a respingere la propria origine e a
cercare di “bianchificarsi”.41 A mano a mano che si avvicinerà al mondo
bianco, il nero sarà costretto a spingere la propria struttura familiare nell’Es.
Questo trauma, per giunta, è vissuto in maniera del tutto peculiare: pur
avendo radici inconsce, esso viene continuamente esperito a livello cosciente:
Poiché il dramma sociale si svolge alla luce del giorno, il Nero non ha il
tempo di farlo sprofondare nell’inconscio.42
Il colore della pelle è una costante irriducibile, un fatto che non lascia
scampo. Lo sguardo del bianco esercita sul nero una pressione continua,
che lo inchioda inesorabilmente al peso della sua melanina. Il supplizio si
rinnova a ogni istante, non c’è “quell’amnesia affettiva che caratterizza la
nevrosi-tipo”.43 A questo punto, dice Fanon:
40 Ivi, p. 130.
41 Cfr. Pietro Clemente, op. cit., p. 39.
42 Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, op. cit., p. 132.
43 Ibidem.
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Se la struttura psichica si rivela fragile si assiste a un crollo dell’Io. Il Nero
cessa di comportarsi come individuo azionale. Lo scopo della sua azione
sarà l’Altro (sotto forma del Bianco), perché solo l’Altro può valorizzarlo.44
Come si può vedere siamo ritornati al tema iniziale della dialettica del
riconoscimento. Questa volta, però, possiamo dire di averla compresa più a
fondo e, soprattutto, in modo più concreto e determinato.
Ciò che risulta da questa analisi, secondo Fanon, è che
qualsiasi nevrosi, qualsiasi comportamento anormale, qualsiasi eretismo affettivo in un antillano è la risultante della situazione culturale.45
Ovvero: è dovuta al fatto che un’infinità di strumenti di informazione e
di pressione psicologica (giornali, riviste, fumetti, educazione, libri scolastici,
manifesti, cinema, radio...) penetrano subdolamente nell’individuo e nella
sua collettività, impiantandovi una visione del mondo che sarà inevitabilmente bianca, dal momento che nelle Antille non ha luogo alcuna espressione
nera. Esiste quindi, come ben sintetizza Pietro Clemente,
una complessa schiavitù del negro causata dall’impostazione culturale tipica
del dominio coloniale.46
3. Donne nere, uomini bianchi. Donne bianche,
uomini neri
Uno degli ambiti in cui si manifesta questa “complessa schiavitù” è il modo
in cui l’uomo e la donna di colore si rapportano a un partner bianco. Fanon
sviluppa la sua analisi prendendo come riferimento due opere narrative: Je
suis martiniquaise di Mayotte Capécia e Un homme pareil aux autres di
René Maran.
Il suo punto di partenza è un principio molto generale, che riguarda la
natura stessa dell’uomo:
44 Ivi, p. 134.
45 Ivi, p. 133.
46 Cfr. Pietro Clemente, op. cit., p. 39.
36
La follia dei dannati. Frantz Fanon e la psichiatria
L’uomo è movimento verso il mondo e verso il suo simile. Moto di aggressività che genera l’asservimento o la conquista; moto di amore, dono di sé.47
Entrambe le componenti si possono manifestare anche simultaneamente.
Ora, se l’amore inautentico è già stato descritto da Sartre in L’Être et le
Néant, l’amore vero, che consiste nel “volere per gli altri ciò che si chiede
per se stessi, quando questa richiesta integra i valori permanenti della realtà
umana”,48 rimane tra i fenomeni più difficili da comprendere. Tuttavia, è
possibile affermare con certezza che esso “richiede la mobilitazione di
istanze psichiche fondamentalmente liberate da conflitti inconsci”.49 Ciò
detto, si può rapidamente dedurre che tra un partner nero e uno bianco una
simile condizione difficilmente si potrà dare:
l’amore autentico rimarrà impossibile fintanto che non saranno espulsi
quel sentimento di inferiorità o quell’esaltazione adleriana, quella ipercompensazione che sembrano essere la caratteristica fondamentale della
Weltanschauung nera.50
Prendendo in esame il romanzo autobiografico di Mayotte Capècia, Fanon
rileva che la protagonista è ossessionata dalla preoccupazione di salvare la
razza, di redimerla attraverso la lattificazione, ossia rendendola più bianca
possibile. Per questo essa non riesce nemmeno a prendere in considerazione
l’idea di innamorarsi di un uomo nero: soltanto l’incontro con un uomo
bianco può far progredire la razza. Sposare un nero sarebbe semplicemente
assurdo, significherebbe regredire:
Si tratta di non affondare di nuovo nel negrume e ogni donna delle Antille si
sforzerà, nei suoi flirt o nei suoi legami, di scegliere il meno nero.51
Profondamente condizionata dal processo di inferiorizzazione, Mayotte
aspira a farsi ammettere nel mondo bianco attraverso il rapporto di coppia,
sperando di recuperare, così, quell’universo di valori che le sono stati inter47 Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, op. cit., p. 37.
48 Ibidem.
49 Ibidem.
50 Ivi, p. 38.
51 Ivi, pp. 41-42.
37
Mauro Semenzato
detti a causa del colore della sua pelle. Infatti, dice Fanon,
nel negro c’è un’esacerbazione affettiva, una rabbia perché si sente piccolo,
una incapacità a qualsiasi comunione umana che lo confinano in una insularità
intollerabile.52
Non solo. Scomodando Anna Freud, lo psichiatra martinicano puntualizza
che il Nero non può vivere la propria insularità come un processo difensivo
di limitazione dell’Io. Infatti, se è vero che
quando l’Io è giovane e plasmabile il suo ritiro da un campo di attività è
talvolta compensato da successi in un altro campo, sul quale concentra tutto
il suo interesse… [e se è vero che questo fenomeno] … quale metodo di fuga
dal dolore non appartiene alla psicologia delle nevrosi, ma rappresenta uno
stadio normale dello sviluppo…53
ebbene tutto ciò continua a essere impossibile al Nero, fintanto che egli
ha bisogno di una sanzione da parte del Bianco. Ed è questo il caso della
Capécia, la cui storia non fa che incarnare questa ossessiva richiesta di riconoscimento da parte del mondo bianco, che Fanon chiama eretismo affettivo.
Analoghe osservazioni si possono svolgere sul conto di Jean Veneuse,
protagonista del romanzo di René Maran.
Ciò che egli vuole più di ogni altra cosa è dimostrare agli altri di essere
né più né meno che un uomo, simile a loro. Ma è lui stesso il primo ad aver
bisogno di questa dimostrazione. E tutto ciò si riflette nella sua relazione
con Andrée Marielle, figlia di un noto poeta francese: entrambi si amano,
ma è come se Jean avesse bisogno di un’autorizzazione da parte degli altri
bianchi per vivere pienamente questo rapporto. Poco importa che, con il
suo lavoro intellettuale, sia diventato essenzialmente europeo per cultura e
formazione: egli resta tuttavia incapace di “evadere dalla sua razza”. Gli è
indispensabile sentirsi ripetere: “tu sei uno di noi”, “tu sei un bianco”.
52 Ivi, pp. 43-44.
53 Anna Freud, L'Io e i meccanismi di difesa, Martinelli Firenze, 1967, pp. 91-92, citato da
Fanon a p. 44 del testo in esame.
38
La follia dei dannati. Frantz Fanon e la psichiatria
Jean Veneuse vorrebbe essere un uomo simile agli altri, ma sa che questa
situazione è falsa. È un questuante. Cerca la tranquillità, il consenso negli
occhi del Bianco.54
Tuttavia – e qui si tocca il punto che realmente Fanon vuole mettere in
luce – né il comportamento di Veneuse né quello della Capécia possono
essere presi come modello generale dei rapporti tra l’uomo e la donna neri
e i rispettivi partner bianchi: sono solo esempi di comportamenti nevrotici.
In particolare Jean Veneuse mostrerebbe i tratti di un’introversione primaria,
derivata da carenze affettive vissute nella prima infanzia. Da ciò deriverebbero sentimento d’esclusione, non-valorizzazione di sé come oggetto d’amore,
ossessivo bisogno di riconoscimento e rassicurazione da parte dell’altro...
tutte caratteristiche proprie della nevrosi d’abbandono. Il personaggio di
Maran, dunque, non rappresenterebbe un’esperienza tipica dei rapporti nerobianco, ma “un certo modo di comportarsi di un nevrotico, accidentalmente
negro”.55
Fanon si rivolge a quello che è uno dei suoi principali obiettivi polemici: la presunta “costituzionalità” dei fenomeni psichici. Non esiste, egli
afferma con forza, una “costituzione” fondamentalmente nevrotica degli
uomini neri: può esistere, piuttosto, la “struttura” nevrotica di un individuo,
che sarà
l’elaborazione, la formazione, l’esplosione nell’Io di conflitti provenienti,
da una parte, dall’ambiente e, dall’altra, dal modo affatto personale con cui
questo individuo reagisce a quelle influenze.56
Le nevrosi collettive, quindi, non hanno origine biologica ma culturale.
E, nel caso degli uomini neri, quest’origine è essenzialmente un retaggio
del razzismo e del colonialismo. Per il nero inferiorizzato, dunque, la “lattificazione” non è l’unica via d’uscita (peraltro illusoria). Prendere coscienza
delle radici storiche della propria alienazione può aprire la strada a una
soluzione diversa e radicale, una soluzione che non è soltanto psicologica
54 Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, op. cit., p. 67.
55 Ivi, p. 70.
56 Ivi, p. 72.
39
Mauro Semenzato
ma, come dice Fanon, “implica una ricostruzione del mondo”.57
4. Il “negro” nell’inconscio collettivo europeo
Questa “ricostruzione del mondo” è necessaria non soltanto per liberare la
comunità nera dai propri complessi ma, in un certo senso, per redimere
l’umanità intera. Infatti, come Fanon sottolinea a più riprese, la situazione
coloniale-razzista è tale da disumanizzare tanto i neri quanto i bianchi, tanto
gli oppressi quanto gli oppressori. Ciò che essa genera è una duplice alienazione, di cui pagano il prezzo tanto gli uni quanto gli altri. Per questo
Fanon può dichiarare: “il nostro scopo è quello di rendere possibile un sano
incontro tra il Nero e il Bianco”.58 Perché entrambe le parti, nel momento in
cui entrano in contatto, si comportano secondo modalità di condotta alienate.
E se, come abbiamo visto, l’alienazione dell’uomo nero si manifesta
principalmente in un complesso di inferiorità e in un’ossessiva ricerca di
riconoscimento da parte del bianco, quest’ultimo – sostiene lo psichiatra –
il più delle volte dimostra di avere un atteggiamento negrofobico. Un’ampia
casistica clinica e una lunga serie di osservazioni personali dell’autore in
svariati contesti attesterebbero che, nella società bianca, il Nero compare
come “oggetto fobogeno”. Per comprendere questo fenomeno bisognerebbe
rivolgersi direttamente a quello che è il cuore del mito negro nella cultura
europea: il sesso.
Tanto a livello conscio quanto a livello inconscio, nella psiche bianca
sembra essersi radicata l’idea mitica di una straordinaria potenza sessuale
degli uomini neri:
Per la maggioranza dei Bianchi il Nero rappresenta l’istinto sessuale (non
educato). Il negro incarna la potenza genitale al di sopra delle morali e delle
interdizioni. Le Bianche […] scorgono regolarmente il negro sulla soglia
impalpabile che dà ingresso alle orge, ai baccanali, alle sensazioni sensuali
allucinanti...59
57 Ibidem.
58 Ivi, p. 71.
59 Ivi, p. 148.
40
La follia dei dannati. Frantz Fanon e la psichiatria
Così come, negli ebrei, si tende ad assolutizzare e temere il potenziale
“appropriativo” (l’intelligenza, la scaltrezza, l’abilità nel commercio, nella finanza, nella politica...), i neri vengono appiattiti sul livello biologico e genitale:
Pensate! Con la libertà che hanno, in piena boscaglia! Sembra che abbiano
rapporti sessuali sempre e in ogni luogo. Sono dei genitali. Hanno tanti
bambini che non li contano più. Diffidiamo, perché ci inonderanno di meticci.
[…] Dio sa come fanno l’amore! Deve essere terrificante.60
Tutti sanno, dice Fanon, che la superiorità del nero non è reale. Ma questo
non ha alcuna importanza, perché il pensiero fobico si muove a un livello
prelogico: il Bianco che detesta il Nero continua a obbedire, in linea generale, a un sentimento di impotenza o di inferiorità sessuale. E questo vale tanto
per le donne quanto per gli uomini.
La spiegazione del fenomeno che viene offerta è la seguente:
Ogni acquisizione intellettuale richiede una perdita del potenziale sessuale.
Il Bianco civilizzato conserva la nostalgia irrazionale di epoche straordinarie
di licenza sessuale, di scene orgiastiche, di stupri non puniti, di incesti non
repressi. […] Proiettando le proprie intenzioni nel negro, il Bianco si comporta
“come se” il negro le avesse realmente. […] Avere la fobia del negro significa
avere paura del biologico, perché il negro non è altro che biologico.61
Di conseguenza, se l’ebreo viene colpito nella sua personalità confessionale, nella sua storia e nei suoi rapporti con gli antenati e i discendenti, il
Nero viene colpito proprio come individuo concreto nella sua corporeità,
perché è proprio quella a essere vista come spaventosa. E una simile paura
– a differenza di quella che caratterizza l’antisemita – non è suscettibile
di razionalizzazione, in quanto “si situa sul piano dell’istinto, sul piano
biologico”.62
Ma da dove nasce, è lecito chiedere a questo punto, una fobia tanto
singolare quanto profondamente radicata? Nel suggerire la risposta, lo
psichiatra martinicano prende spunto (piuttosto liberamente, a dire il vero)
dalla teoria lacaniana dello stadio dello specchio.
60 Ivi, pp. 136-137.
61 Ivi, p. 140.
62 Ivi, p. 138.
41
Mauro Semenzato
Secondo Fanon, l’immagine di sé riflessa dallo specchio, interiorizzata
dal soggetto bianco come simbolo della propria unità psicofisica, subirebbe
“una aggressione immaginaria alla comparsa del Nero”.63 In questo modo
l’uomo nero si costituirebbe nel vissuto più intimo del Bianco come l’Altro
assoluto, il non-Io radicale, l’assolutamente non-identificabile e non-assimilabile. Ma non è tutto. L’alterità radicale del Nero, infatti, non viene caricata
soltanto di significati e paure inerenti la sfera del sesso: al pari dell’ebreo, il
negro diventa facilmente il capro espiatorio dell’aggressività sociale, il simbolo del peccato, della bruttezza, il simbolo del Male.
Rifacendosi – in modo un po’ sbrigativo – al pensiero di Carl Gustav Jung,
Fanon sostiene che la civiltà europea possiede un inconscio collettivo fondamentalmente razzista, poiché ospita in sé l’archetipo del Negro come
espressione di istinti malvagi, dell’oscurità che si nasconde in ogni individuo:
In Europa il Male è rappresentato dal Negro […] L’uomo nero è il carnefice,
Satana è nero, si parla delle tenebre, quando si è sporchi si è neri […] In Europa
il negro sia in concreto sia come simbolo rappresenta il lato perverso della
personalità. […] Il negro, l’oscurità, l’ombra, le tenebre, la notte, i labirinti
della Terra, le profondità abissali, “gettar ombra” sulla reputazine di qualcuno; e
sulla riva opposta: lo sguardo chiaro dell’innocenza, la bianca colomba della
pace, la luce fiabesca, paradisiaca. […] In Europa, vale a dire in tutti i Paesi
civili e civilizzatori, il negro simboleggia il peccato.64
E ancora:
Nello strato più profondo dell’inconscio europeo si è elaborata una zona
eccessivamente nera dove sonnecchiano gli impulsi più immorali, i desideri
meno confessabili. E poiché ogni uomo sale verso il candore e la luce, l’europeo ha voluto respingere questo non civilizzato che cercava di difendersi.
Quando la civiltà europea si trovò a contatto col mondo nero, con quei popoli
selvaggi, furono tutti d’accordo: quei negri erano il principio del male.65
È così, secondo Fanon, che il Nero diventa il capro espiatorio di ogni
forma di negatività: attraverso un meccanismo di proiezione che, egli dice,
è stato descritto dalla psicoanalisi classica e che consiste nell’attribuire all’altro
63 Ivi, nota 25 a p. 176.
64 Ivi, pp. 156-157.
65 Ivi, pp. 157-158.
42
La follia dei dannati. Frantz Fanon e la psichiatria
tutto ciò che di insolito e riprovevole si avverte in se stessi.
Questa reazione di difesa individuale si traduce, a livello di comunità, in
una “imposizione culturale irriflessa”, ovvero in un inconscio collettivo
razzista. Infatti, come viene sottolineato più volte, contrariamente a quanto
sosteneva Jung l’inconscio collettivo non sarebbe il frutto di un’eredità
cerebrale, biologica, bensì qualcosa di acquisito sul piano culturale, ovvero
“l’insieme dei pregiudizi, dei miti, delle attitudini collettive di un determinato gruppo”.66 Ora, se le cose stanno in questo modo, sarà lecito aspettarsi
che un popolo colonizzato e sottoposto al giogo della cultura civilizzatrice
tenderà ad assumere l’inconscio collettivo proprio di questa cultura. Così,
ad esempio – dice Fanon – è normale che l’antillano sia negrofobo, poiché
“ha lo stesso inconscio collettivo dell’europeo”.67 Sennonché, essendo l’antillano stesso un uomo nero, si troverà presto in una grave situazione di
conflitto interiore:
Appena mi accorgo che il negro è il simbolo del peccato, prendo a odiare il
negro. Ma constato che sono un negro. Per sfuggire a questo conflitto le
soluzioni sono due. O domando agli altri di non badare alla mia pelle;
oppure, al contrario, voglio che se ne accorgano. Cerco allora di valorizzare
ciò che è cattivo (perché irriflessivamente ho ammesso che il nero è il
colore del male). Per porre fine a questa situazione nevrotica in cui sono
obbligato a scegliere tra una soluzione malsana, di conflitto, nutrita di
fantasmi, antagonista, infine inumana, non ho che una via: sorvolare questo
assurdo dramma che gli altri mi hanno fabbricato intorno, scartare questi
due termini ugualmente inaccettabili e tendere all’universale, attraverso un
particolare umano.68
Al di là del linguaggio fortemente astratto e pregno di echi sartriani che
caratterizza questo passo, è possibile intuire quale sia la direzione verso cui
tende la soluzione individuata da Fanon.
Egli ritiene che, per quanto complicate e profonde siano le dinamiche
psicologiche collettive e individuali che si svolgono in seno alla realtà coloniale, esse abbiano pur sempre un punto di partenza: l’oppressione esercitata
sui neri dalla società capitalistica e colonialista dei bianchi. E in questo stesso
66 Ivi, p. 156.
67 Ivi, p. 158.
68 Ivi, pp. 163-164 (corsivo mio).
43
Mauro Semenzato
punto risiede anche il fulcro su cui si può innestare una possibile dialettica
di liberazione dell’uomo: il problema nero si risolve
attraverso i negri sfruttati, schiavizzati, disprezzati da una società capitalista,
colonialista, incidentalmente bianca.69
Siamo ritornati, dunque, all’idea di una “ricostruzione del mondo” che
cancelli le radici materiali di ogni senso di inferiorità e di ogni razzismo
negrofobico. E ora se ne può individuare anche il motore: soltanto gli oppressi,
riscattando a caro prezzo la propria libertà, potranno redimere l’intera umanità dall’alienazione ereditata dallo sfruttamento coloniale. Tuttavia, perché
questo accada, è necessario che essi riescano a oltrepassare il livello della
condotta alienata per accedere a quello dell’azione rivoluzionaria. Contestualmente, sarà compito degli intellettuali fornire una corretta interpretazione
della loro condizione psicologica.
5. Psicologia del colonizzato. La polemica con Mannoni
Nel 1950 Octave Mannoni pubblica a Parigi un ampio saggio intitolato
Psychologie de la colonisation,70 frutto di una serie di studi e articoli dedicati alla situazione coloniale in Madagascar. Frantz Fanon, che è a conoscenza di questi lavori, consacra un intero capitolo di Peau noire, masques
blancs alla dimostrazione che l’autore “pur avendo dedicato 225 pagine
allo studio della situazione coloniale, non ne ha colto le coordinate vere
e proprie”.71 L’impianto accusatorio si regge essenzialmente sul fatto che
Mannoni, sostenendo l’esistenza di una sorta di “predisposizione” del
colonizzato alla colonizzazione, non farebbe che favorire lo status quo del
Madagascar, collocandosi perciò su una posizione reazionaria, contraria al
superamento dei rapporti alienati tra bianchi e neri.
È evidente, anche qui, come la prospettiva politica sia ciò che sta maggiormente a cuore a Fanon. Tanto che, di fronte ai tentativi di interpretazione
psicologica del comportamento del colonizzatore proposti da Mannoni (che
69 Ivi, p. 167.
70 Octave Mannoni, Psychologie de la colonisation, Paris, Ed. Du Seuil, 1950.
71 Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, op. cit., p. 75.
44
La follia dei dannati. Frantz Fanon e la psichiatria
cerca di indagare le diverse sfumature negli atteggiamenti individuali,
ricercando le radici del razzismo anche nella particolare estrazione sociale
della maggior parte dei coloni), egli reagisce contrapponendo una visione
assolutistica del fenomeno razzista:
O una società è razzista o non lo è. […] È utopistico ricercare come un comportamento disumano si differenzia da un altro comportamento disumano.
[…] Non ritroviamo forse in tutte le forme di razzismo la stessa caduta, lo
stesso fallimento dell’uomo?72
E ancora:
Tutte le forme di sfruttamento sono identiche perché sono rivolte a un medesimo “oggetto”: l’uomo. Col voler considerare sul piano dell’astrazione la
struttura dell’uno o dell’altro sfruttamento si maschera il problema capitale,
fondamentale, che è quello di ricollocare l’uomo al suo posto.73
Di fronte a un fenomeno come quello del razzismo, sembra dire Fanon,
ogni indagine conoscitiva perde di interesse e legittimità, nel momento in
cui non si schiera con sufficiente chiarezza in favore di un rovesciamento
delle strutture dell’oppressione.
È inutile, dunque, cercare di distinguere il razzismo di cui sono vittime i
neri d’America da quello che colpisce i malgasci o i martinicani, così come
è inutile sostenere che “il razzismo è opera di piccoli commercianti e di piccoli coloni che hanno sgobbato molto senza grande successo”:74 la verità è,
secondo Fanon, che “la struttura dell’Africa del Sud è una struttura razzista”.75
Non solo: è l’Europa stessa ad avere una struttura razzista, “perché il mito
del negro cattivo fa parte del subcosciente della collettività”.76 Sarà questa
struttura razzista (e non una sorta di “predisposizione psicologica”) che istillerà nel colonizzato un complesso di inferiorità:
io comincio a soffrire di non essere un Bianco nella misura in cui l’uomo
72 Ivi, pp. 77-78.
73 Ivi, p. 79 (corsivo mio)
74 Octave Mannoni, op. cit., p. 16.
75 Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, op. cit., p. 78.
76 Ivi, p. 82.
45
Mauro Semenzato
bianco mi impone una discriminazione, fa di me un colonizzato, mi toglie
ogni valore, ogni originalità, mi dice che sono un parassita del mondo, mi
dice che è necessario che mi metta il più rapidamente possibile al passo con
il mondo bianco. […] Allora tenterò solo e semplicemente di diventar bianco,
cioè obbligherò il Bianco a riconoscere la mia umanità.77
Di fronte a questo desiderio nevrotico, Mannoni suggerisce che il nero
“resti al proprio posto”: la sua innata predisposizione alla dipendenza fa sì
che egli si trovi a proprio agio nel rapporto coloniale, dove il suo senso di
inferiorità incontra un naturale complemento nel dominio esercitato dal bianco.
In questo modo, dice Fanon, al malgascio non rimane che da scegliere tra il
complesso di inferiorità e la relazione di dipendenza. Non si prospetta altra
via di salvezza.
Ma questa, ovviamente, è un’interpretazione mistificatoria della psicologia
dei rapporti coloniali. L’inferiorità del nero, come si è visto, nasce dall’imposizione di un’alternativa manichea tra l’esser bianchi o l’esser bestie:
è la struttura razzista della società coloniale che getta il colonizzato in una
condizione nevrotica. La soluzione, perciò, non potrà che prevedere lo scardinamento di questo assurdo dilemma. Scrive Fanon:
Come psicoanalista devo aiutare il mio cliente a portare alla coscienza il suo
inconscio, a non tentare più una lattificazione allucinatoria, bensì ad agire
nel senso di un cambiamento delle strutture sociali.78
Scopo del lavoro terapeutico sarà, dunque, mettere il paziente in
condizione di scegliere l’azione (o la passività) nei confronti di quella che è
considerata la vera origine del conflitto: l’esistenza stessa del colonialismo.
La disalienazione, quindi – come previsto dallo schema hegeliano descritto
in precedenza – può venire solamente dalla lotta, una lotta vera e violenta
per il riconoscimento della propria libertà.
77 Ivi, pp. 86-87.
78 Ivi, p. 88 (corsivo mio).
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