A Parigi, un rifugio segreto ospita i giornalisti minacciati in Iraq, Siria
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A Parigi, un rifugio segreto ospita i giornalisti minacciati in Iraq, Siria
DI EVA MORLETTO - FOTO DI SIMONE PEROLARI/SYNC In questa foto: Philip Spinau, fondatore della Maison des Journalistes [BUON 2008, MONDO!] A Parigi, un rifugio segreto ospita i giornalisti minacciati in Iraq, Siria, Bulgaria, Turkmenistan PHILIP, L’AMICO DELLA VERITÀ N o, niente soldi dal Governo . I partiti restano fuori di qui. I giornalisti di molti Paesi in patria non ricevono stipendio ma sopravvivono con le bustarelle di questo o quel politico. Ricevere denaro dal Governo francese significherebbe per loro rimanere ancorati alla stessa mentalità...». A parlare è Philip Spinau, 53 anni, ex documentarista e fondatore, con Danielle Ohayon, redattrice di France Info, della Maison de Journalistes di Parigi, associazione che si occupa di fornire alloggio e sostegno agli operatori dei media fuggiti dai regimi oppressivi dei propri Paesi, dalle torture e dalle minacce, innescate per aver scritto, fotografato o filmato qualcosa che il potere locale non ha gradito. Per portare avanti la propria attività, la Maison riceve il 50% del supporto economico dai Fondi europei per i rifugiati e il rimanente dai numerosi media francesi – tra questi Le Monde, Paris Match e Canal Plus – che hanno aderito all’iniziativa. Philip Spinau cerca la neutralità e un basso profilo. «In pochi sanno che questa organizzazione esiste, alcuni degli ospiti ricevono ancora minacce, è opportuno che il luogo resti in una sorta di anonimato». E così niente insegne, nulla che dall’esterno faccia capire che questa ex fabbrica di un quartiere popolare di Parigi è l’approdo di rocambolesche vicende umane e professionali. L’iniziativa di Philip Spinau ben si è legata alle finalità di Reporters sans Frontières e alla 36 GENNAIO 2008 CLUB3 necessità di disporre di uno spazio fisico in cui accogliere temporaneamente i giornalisti in attesa di venire riconosciuti come rifugiati politici. Possono rimanere qui sei mesi, un periodocuscinetto per lenire i traumi e tessere i presupposti per una nuova vita in terra francese. Una volta ottenuto un alloggio esterno, tuttavia, la Maison rimane ancora per tutti un punto di riferimento, una nicchia protettiva, una famiglia, un luogo in cui i ricordi atroci si stemperano in una nuova consapevolezza: quella di poter denunciare e raccontare, di essere finalmente legittimati a chiedere giustizia. Alla Maison i giornalisti stanno attaccati a Internet a consultare le notizie del proprio Paese, a tempestare di mail ogni istituzione che possa mobilitarsi per cambiare le cose. Dall’apertura, il 3 maggio 2002, gli ospiti sono stati più di cento. Provengono da Siria, Iraq, Turkmenistan, Cuba, Turchia, Burundi, e da tutti i Paesi segnati in rosso sulla mappa di Reporters sans Frontières, che ogni anno elenca gli Stati in cui la libertà di stampa è negata. Tra queste realtà, la Siria è uno dei posti in cui Rsf ha fatto emergere una delle situazioni 씮 CLUB3 37 GENNAIO 2008 [BUON 2008, MONDO!] MONDIR (Iraq) LEILA (Curda) JESUS (Cuba) IZANA (Marocco) ALEXANDRA (Bulgaria) MWSAJUMA (Burundi) «Mi caricarono in auto, in uno spiazzo 씮 più inquietanti. Ne sa qualcosa Ahmed Massoud, 31 anni, di origine curda, ex studente di giornalismo all’università di Damasco. «Lavoravo come fotografo per Amude, un giornale web curdo», racconta. «Quattro anni fa la comunità organizzò una manifestazione di protesta per le vie della capitale: i bambini curdi chiedevano che le lezioni a scuola potessero essere impartite nella lingua madre. Era una manifestazione pacifica, sostenuta dall’Unicef. La polizia siriana attaccò i partecipanti, bambini compresi, malmenandoli e disperdendoli. Scattai alcune foto, che vennero pubblicate sul sito di Amude. Qualche giorno dopo, era il 2003, venni arrestato all’Università di Damasco mentre stavo sostenendo un esame. Mi interrogarono e torturarono per quaranta giorni. Sono stato in carcere per tre anni, con l’accusa di attività sovversiva, in una cella larga un metro e alta un metro e mezzo, al buio, mangiando ed evacuando nello stesso posto. Vedevo la luce solo al mattino quando mi prelevavano per un’ora di torture: venivo attaccato a cavi elettrici, picchiato con un manganello di gomma, quindi ero obbligato a rannicchiarmi all’interno di uno pneumatico e il pestaggio continuava. I miei famigliari potevano farmi visita ogni due mesi, per quattro minuti a volta. AHMED (Siria) 38 GENNAIO 2008 CLUB3 Una volta scontata la pena, non potevo più frequentare l’università, né ottenere un lavoro; i miei ex collaboratori di Amude hanno contattato Reporters sans Frontières, grazie a loro ho ottenuto un visto per la Francia. Sono fuggito in Libano a piedi, attraverso le montagne, e da Beirut ho raggiunto Parigi». Ahmed ha ottenuto nel 2005 il premio Reporters sans Frontières. Lo mostra con orgoglio. Ahmed non tornerà in Siria, vuole rimanere qui, studiare e imparare il francese. Izana invece ha nostalgia del suo Paese, il Marocco. Come Ahmed, Izana è stata perseguitata per aver scritto in favore dei diritti di una minoranza “scomoda”, in questo caso quella del Sahara occidentale. I suoi articoli per uno statuto autonomo per la regione non sono piaciuti al Governo. «L’editore del giornale per cui lavoravo ha negoziato con lo Stato per evitare di chiudere a causa dei miei articoli. Mi hanno dato un visto per la Francia e invitato caldamente ad andarmene. Il settimanale ha cambiato nome, si è impegnato a seguire la linea governativa e ha ricevuto un bonus di 10.000 euro. Sono stata venduta, hanno sacrificato il mio posto per salvare la redazione». Il Corano, la tunica tradizionale, la polvere di henné e qualche copia di quel giornale di cui non si può dire il nome perché «ne ho abba- mi picchiarono a sangue e mi spezzarono una mano» stanza di minacce». La vita di Izana adesso è tutta qui, in una manciata di oggetti che ha portato con sé in questo esilio non voluto. Ne possiede ancora meno Alexandra detta Kati, giornalista bulgara, che è arrivata qui dopo una fuga precipitosa in auto dal proprio Paese. «Lavoravo per un quotidiano di Sofia, mi occupavo di cronaca locale», spiega Kati, 50 anni, fisico esile e mani forti, che gesticolano in continuazione. Dietro la porta della Maison c’è la Bulgaria, e mentre parla Kati sbircia fuori, ancora con il terrore negli occhi cerulei. «C’è un piccolo quartiere a Sud di Sofia, dove condomini interi sono proprietà della mafia locale, e negli appartamenti vengono fatti prostituire i ragazzini. Ci vanno molti uomini potenti, tra questi parecchi italiani che hanno imprese nella regione di Sofia. Alcune non sono solo aziende delocalizzate ma attività-copertura per mascherare spostamenti di denaro legati al traffico di droga e alla prostituzione. Scrissi alcuni articoli sul quartiere. Denunciai il fatto che fosse la polizia a garantire l’impunità di chi frequentava i condomini del sesso. Una sera, fuori dalla redazione trovai ad attendermi quattro uomini, uno era un poliziotto. Mi caricarono in macchina, facemmo un lungo giro nella periferia della città. Raggiungemmo uno spiazzo isolato, mi pic- chiarono a sangue e mi spezzarono una mano. Mi lasciarono a terra, camminai per ore per raggiungere casa mia, ero sanguinante e la gente mi guardava come fossi una pazza. Dissi a mio figlio di fare le valigie. Il giorno dopo scappammo in macchina verso la Francia». Le minacce di morte hanno portato qui anche Mondir Madfai, iracheno, 28 anni e piglio spavaldo. Ha trovato lavoro a France 24, il nuovo network satellitare francese e sfoggia un accento parigino invidiabile. «Ho imparato il francese all’università, dopo l’occupazione americana cominciai a lavorare per Radio France Internationale. Come molti iracheni che avevano a che fare con imprese straniere, un anno fa scoprii di far parte di una lista di persone da eliminare, messa sul Web da un gruppo estremista. Mi cercavano. Più di una volta i miei genitori trovarono volantini sotto la porta di casa, recanti vere condanne a morte nei miei confronti. Ogni sera dormivo in un posto diverso, finché un amico medico mi fece rifugiare nell’ospedale dove lavorava. Decisi di partire quando un mio collega venne ucciso sulla soglia della redazione». Mondir oggi è raggiante. Reporters sans Frontières ha ottenuto un visto anche per la moglie, ora in Giordania, in attesa di raggiungerlo. Una storia a lieto 왎 fine, quelle di cui qui c’è bisogno. “ ” Ero in una lista di persone da eliminare, messa sul Web da un gruppo estremista. Ogni sera dormivo in un posto diverso CLUB3 39 GENNAIO 2008