James Hillmann, Un terribile amore per la guerra

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James Hillmann, Un terribile amore per la guerra
Immaginario sociale
20/05/2005
James Hillmann, Un terribile amore per la guerra
di Maria Teresa Granati
"Pòlemos di tutte le cose è padre" (Eraclito)
"L'Essere si rivela al pensiero filosofico come guerra" (E. Levinas).
La filosofia e la teologia, dal pensiero greco classico fino ad oggi, pur
riconoscendo, con Eraclito, Lévinas e altri, la guerra come "componente
primordiale dell'Essere", l'hanno ignorata, ad eccezione di Thomas Hobbes,
che la considera lo stato naturale dei rapporti umani.
E' la guerra a segnare profondamente le strutture dell'esistenza e le stesse
idee su di essa, essendo "alla base della logica aristotelica degli opposti,
delle antinomie kantiane, della selezione naturale di Darwin, della lotta di
classe e persino della rimozione dell'Es da parte dell'Io". E tuttavia essa
viene relegata nella scienza militare, nella storiografia, diventa cronaca,
racconto di vittorie e sconfitte, trattati, diplomazia, analisi delle "cause" o
delle "conseguenze".
Con l'alta tecnologia moderna cambiano i linguaggi, la guerra può
chiamarsi "ingerenza umanitaria", il massacro di migliaia di civili "danno
collaterale", le bombe diventano "intelligenti".
La ferocia, il sangue, la morte vengono rimossi, l'orrore della guerra è
inspiegabile, "inimmaginabile" (Susan Sontag) e persino segretari di stato e
generali definiscono disastri come la guerra del Vietnam, il massacro di
Pearl Harbor o l'attacco alle Torri gemelle come conseguenze di un "difetto
di immaginazione".
Lo scopo dichiarato dell'ultimo splendido libro di Iames Hillmann è
quello di comprendere la guerra partendo dal suo "terribile amore", ossia
scavando, penetrando nella psiche profonda, per individuare gli archetipi
dell'immaginazione, i miti, la filosofia, la teologia, la religione che hanno
generato e nutrito quell'"amore che nessun altro amore è riuscito a vincere".
Se non entriamo dentro la guerra... e la follia del suo amore... non
riusciremo mai a prevenirla né a parlare in modo sensato di pace e di
disarmo".... dunque "dovremo accantonare il nostro disprezzo e il nostro
orrore di pacifisti per tutto ciò che riguarda eserciti e guerrieri... nessuna
sindrome può veramente essere strappata alla sua tragica fissità se prima
non spingiamo l'immaginazione fin dentro il suo cuore... dentro i miti, la
filosofia, la psiche profonda della guerra", dentro la teologia, la religione, la
storia. L"elusiva irrazionalità" della guerra esige un salto immaginativo...
andare "nello strato di base della mente, che è poetico, mitico". Citando
Whitehead, l'autore aggiunge: "Se la civiltà deve sopravvivere, l'espansione
della comprensione è una necessità primaria", e qui la comprensione vuol
dire penetrazione fin dentro "gli abissi disumani della crudeltà e dell'orrore e
nell'oscuro intreccio di orrore e amore sublime".
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Credo che Hillmann faccia ancora di più di quanto promette,
coinvolgendo il lettore in un percorso appassionante che parte,
inaspettatamente, da Giambattista Vico, giudicato un "filosofo del
profondo", e dal suo invito a superare il ragionamento causale e il
razionalismo di Cartesio e Newton per attingere al fondo poetico e mitico,
ovvero alle strutture archetipe dell'immaginazione. Soccorrono i miti, come
narrazione e "normazione dell'irragionevole", frutto del pensiero greco per
dire l'inesplicabile, che soggiace (o presiede?) alle vicende umane: la guerra,
l'amore sessuale, la violenza, la morte.
Tutto ciò comporta un taglio netto con le teorie tendenti a "spiegare" le
cause sociali, politiche, economiche, psicologiche della guerra, e, ancor più,
con le diatribe tra pacifisti e fautori dei conflitti.
Se si vuole far cessare l'orrore, occorre immaginare e comprendere lo
strato profondo, la pulsione terribile che fa dire al generale Patton del film
omonimo, dopo una battaglia cruenta e di fronte a morti, feriti, distruzione:
"Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita".
Il nesso tra guerra e religione, gli archetipi del mito, la "strana unione" tra
amore e guerra, tra Ares e Afrodite, il sublime, sono alcuni fondamentali
nuclei tematici che l'autore affronta, alternando la trattazione teorica con
racconti autobiografici, o "digressioni", scavando appassionatamente e con
coraggiosa crudeltà su di sé, "figlio di Marte" e di Aprile, il mese più
crudele, il mese che apre, che fende, violenta apertura attraverso irruzione...
"Mi piace attizzare le opposizioni, accendere la miccia del pensiero
appassionato, la guerra come clima abituale...". L'autore accetta, sulla scia di
Foucault, l'esperienza di scrivere un libro che può strapparlo da se stesso,
liberarlo, trasformarlo; un progetto di "desoggettivazione" aperto a rischi di
dissoluzione, perché "in questo libro la follia è la guerra ed esso si propone i
fini che la guerra raggiunge: destabilizzare, desoggettivare, distruggere..."
Cambiare chiave ermeneutica, partire dalle profondità della psiche, visitare
i morti per acquisire sapienza, come fecero Ulisse, Enea, Orfeo, Dioniso... è
un atto di "capitolazione nei confronti della terra e della sua inumana
oscurità", è la comprensione come perdita di sé di cui parla Gadamer,
riconoscendo che altrimenti non siamo in grado di comprendere.
"Abbandoniamo le alture della nostra superiorità intellettuale per adeguarci
all'oscura tortuosità di Ermes ctonio".
Hillmann sceglie dunque una via radicale e originale, rinunciando alla
normale sistematicità del percorso di ricerca, lasciandosi trascinare nella
materia magmatica e invitando il lettore a fare altrettanto; e scrive un saggio
quasi "biologico", che colpisce per forza immaginativa e arte della psiche.
E' con emozione ed ammirazione che si segue questo anziano studioso nella
sua opera di scavo, dalla psicologia del profondo al mito, dalla filosofia alla
cronaca, in questo mettersi alla prova raggiungendo il punto di vista "vicino
all'intensità e all'impossibilità".
La guerra è normale, ubiqua e permanente, non irrompente; necessaria,
non contingente. La sua necessità è iscritta nel cosmo e introduce nella vita
l'intollerabile, il terribile e l'incontrollabile. Ma l'orrore della violenza e del
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sangue genera bellezza, desiderio e attrazione; eros, bellezza e seduzione,
fascino e piacere accompagnano Ares in guerra, come Ares e Afrodite si
amano per mutua attrazione degli opposti, congiunzione archetipica, da cui
nasce Armonia. Hillmann ricorre alla citazione del notissimo frammento 31
di Saffo, spesso indicato come espressione del sublime, per rappresentare
questa fusione di amore e guerra, desiderio e orrore.
Il mito di Ares e Afrodite parla di un piacere intenso, di una forza erotica
di guerra e di bellezza molto pericolosa, perché totalmente scatenata,
disinibita e incontrollabile.
Mentre la pace è solo "assenza di guerre", amnesia e rimozione, la guerra
è "principio generatore del risveglio" e mobilita energia. Basta creare un
nemico, l'idea e l'immaginario del nemico. La guerra all'Irak iniziò quando
quella nazione fu proclamata appartenente all'asse del male.
ďż˝? la polis a muover guerra, indirizzando le pulsioni aggressive
individuali contro un nemico, dopo averlo individuato e indicato come il
male. L'immaginazione e la simbolizzazione sono la forza propulsiva;
l'immagine fantasmatica del nemico blocca la vista; l'autore cita René
Girard: "l'unanimità nella violenza unifica la società e il suo atto fondante è
l'uccisione collettiva di una vittima sacrificale".
Hillmann demolisce sia la lettura "di genere", che attribuisce al
patriarcato l'origine della guerra, sia il luogo comune dell'influsso
massmediatico, che incoraggerebbe alla violenza. Nulla, di fronte al fascino
delle armi, come emblema di amore-morte, amore sublime, ineffabile; la
battaglia vissuta come altruismo, eticità suprema.
La guerra non ha altra causa che se stessa e la sua inumanità deriva dalla
sua autonomia, che ne svela la natura di azione mitica, (spargimento di
sangue, sacrificio rituale), l'immortalità e l'inarrestabilità. La sindrome dei
reduci, violenza, suicidi, disperazione, non fa che confermare questa essenza
archetipica.
Dunque non può nulla la ragione contro la fascinazione di eros e
violenza, che è impulso archetipico e chiede sangue, sacrificio rituale, anche
se si tratta di guerra hight-tec e di truppe ben addestrate di nazioni famose
per la loro cultura, civiltà, leggi umanitarie. Persino la terra sembra volere la
guerra, pretendendo un tributo di sangue sacrificale per essere posseduta. In
una delle sue più belle e intense "digressioni", Hillmann parla della guerra
di Secessione, delle guerre europee, rifacendosi a Gaston Bachelard e alla
sua analisi dell'immaginario della terra e dei suoi due elementi essenziali,
individuati nell'azione, ovvero nella furiosa volontà di combattere, e nel
riposo della morte; campi di battaglia e cimiteri. Come dire che i "semi della
guerra", sparsi nei secoli col sangue di milioni di uomini, fanno germinare i
denti del drago di cui narra il mito di Cadmo.
L'idea che l'Essere si riveli come guerra, secondo l'affermazione di
Lévinas, vale non solo per il pensiero filosofico, ma anche per le grandi
religioni monoteistiche, le cui divinità sono bellicose. Non fa eccezione il
Dio biblico, né quello cristiano dell'amore, alla cui chiamata non si può non
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rispondere. "La cultura cristiana ha ispirato la più duratura macchina bellica
mai conosciuta". " Le religioni monoteistiche, tutte, a differenza dei miti,
non si limitano a narrare, ma chiedono di credere in un unico dio,
proclamato come reale, supremo e trascendente, scatenando l'intolleranza, il
conflitto, la guerra contro chi ha pretese analoghe.
Gli Usa sono insieme la più grande potenza militare e la nazione più
religiosa, le armi da fuoco e quelle di distruzione di massa convivono con
chiese e pratiche di beneficenza, violenza dilagante e settarismo religioso.
L'analisi di Hillmann, per la complessità e l'originalità dell'approccio
rimette in discussione epistemologie, filosofie della politica e della storia,
teorie psicologiche e antropologiche consolidate. La sofferta lucidità di
visione dello studioso ottantenne sembra spazzare via molte certezze
apodittiche e molti luoghi comuni, non solo sul piano teorico, ma anche
nelle implicazioni concrete e nel dibattito culturale e politico.
"Con tutta la sua spietatezza questo libro è un gesto di prevenzione, un
tentativo di shockterapia, il suo compito è quello di immaginare il reale"...
penetrando dentro il cuore della guerra per conoscerla, per combatterla, per
contenerla. Non un'esaltazione estetica, ma un coraggioso libro contro la
guerra. Possiamo rifiutare il percorso proposto e arrestarci sulla soglia. E,
tuttavia, ritengo difficile ignorare queste pagine. Per restare, ad esempio, sul
tema del rapporto tra religione e guerra, se, come afferma Hillmann, "la
guerra conferisce senso", se "la religione è guerra e la guerra è religione",
bisognerà approfondire e ripercorrere criticamente e con ottica nuova le
varie, opposte analisi e posizioni su guerre anche recenti, le teorie sugli
scontri di civiltà, sui "fondamentalismi" e, persino, sulle guerre "per" la
democrazia o sulle "ingerenze umanitarie".
Bisognerà, forse, chiedersi se è possibile, e come, almeno contenere gli
spiriti di Ares e il terribile amore che il dio ispira nel petto degli uomini.
Leggendo queste pagine affilate come lame, cito ad esempio quelle
sull'"autonomia" della guerra, o le "digressioni" sull'"inumano", o
sull'immaginario della terra che chiede un "tributo di sangue", non posso
fare a meno di ripensare all'altro più giovane studioso, Slavoj Žižek e al suo
"Grande Altro"; sembra quasi che Hillmann scavi sul "represso
primordiale", facendo in qualche modo emergere l'orrore del reale...
Già, ma quale "uso" fare di questo lavoro? Quali nuove prospettive di
ricerca e riflessione teorica, con cui misurarci, quali indicazioni operative
può fornire, per contribuire a "far cessare l'orrore"? L'autore contesta la tesi
di John Nef che vede nella cultura un limite, un freno alla guerra, ricordando
tuttavia che l'Illuminismo elaborò e diffuse a questo scopo l'idea di misura,
di moderazione. A suo parere, occorre altro, ossia "cercare un equivalente
estetico alla guerra"... "poiché l'estetica è una forza...".
Agli americani, che vogliono fare la guerra all'Islam, manca la cultura
estetica, che potrebbe farli uscire dalla loro goffaggine e incapacità di
immaginazione e far loro comprendere la psiche araba affascinata dalla
propria cultura, lingua, poesia, cui devono la coscienza di essere un
popolo...; imparando a valutare il nemico non solo con satelliti spia e codici
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militari, ma lasciandosene penetrare. Potrebbero così "scoprire una nuova
compatibilità con la cultura del nemico, arrivando addirittura a rivedere
l'inutile presupposto che l'Islam sia il nemico...".
Anche la letteratura classica "parla": è sorprendente che nell'inno ad Ares
attribuito ad Omero si chieda al dio di frenare lo "slancio fallace" che
spinge a correre alla guerra, la "stridula voce" nel cuore del popolo che
provoca a gettarsi nella mischia agghiacciante... "Ares, lasciami indugiare al
sicuro nelle leggi della pace e sfuggire così allo scontro con i nemici e al
destino di una morte violenta..."
Dunque, non gettarsi a capofitto nella guerra. Molti secoli dopo, Erasmo,
cristiano fervente, scriverà: "Basta guardare le ragioni che spingono i
cristiani alle armi... essi reprimono e nascondono tutto ciò che potrebbe
conservare la pace... esagerano tutto ciò che possa dare inizio ad una
guerra... questi signori si vantano di estendere con tali mezzi il regno di
Cristo".
Dunque, l'autocontrollo, il freno, la prudenza, la consapevolezza,
ritardare l'azione, differire, tenere a freno, non "gettarsi a capofitto".
Non la ragione e neppure l'amore soccorrono, ma possiamo "dedicare la
nostra appassionata intensità a minare la messa in atto della guerra, forti del
coraggio che la cultura possiede, anche nei secoli bui, di continuare a
cantare... possiamo comprenderla meglio, differirla, lavorare per sottrarla ad
una religiosità ipocrita"; forse "le guerre continueranno, ma almeno saremo
in grado di capire e di non cadere nelle illusioni deliranti della speranza".
Un libro spietato, certo, che vuole "prendere di mira la psicologia
monoteistica della nostra cultura e il cristianesimo che la sorregge": "Con la
fede si può eludere la realtà della guerra, ... dicendo o che la guerra è
normale ed esisterà sempre, o che è inumana e va contrastata con l'amore e
la ragione o che è sublime e dobbiamo riconoscere la sua trascendenza
liberatoria e obbedire alla sacralità della sua chiamata..."; "si può rinnegare
la consapevolezza, dormendo abbracciati all'orsacchiotto dell'innocenza...
Ma la tromba continua a squillare, e, dopo, le poche note penetranti del
silenzio... E' la melodia giusta, vi si sente l'eco di Hobbes: e la vita
dell'uomo è solitaria, povera, odiosa, brutale e breve".
James Hillmann, Un terribile amore per la guerra. Adelphi 2004
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