Untitled - Barz and Hippo
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Noto soprattutto per la serie di culto Cinico Tv e distintosi come direttore della fotografia, Ciprì dirige il suo primo film senza Maresco e sorprende per la sua rinnovata capacità di raccontare una Sicilia che diventa metafora dell’Italia. Il suo cinema è popolare e farsesco, ma una farsa che è tragedia. Racconta la miseria peggiore: quella contenuta nella ricchezza. scheda tecnica durata: nazionalità: anno: regia: soggetto: sceneggiatura: fotografia: montaggio: scenografia: costumi: musiche: distribuzione: 90 MINUTI ITALIA 2012 DANIELE CIPRÌ ROBERTO ALAJMO, DANIELE CIPRÌ DANIELE CIPRÌ, MASSIMO GAUDIOSO, MIRIAM RIZZO DANIELE CIPRÌ FRANCESCA CALVELLI MARCO DENTICI GRAZIA COLOMBINI CARLO CRIVELLI FANDANGO interpreti: TONI SERVILLO (Nicola Ciraulo), GISELDA VOLODI (Loredana Ciraulo), ALFREDO CASTRO (Busu), FABRIZIO FALCO (Tancredi Ciraulo), AURORA QUATTROCCHI (Nonna Rosa), BENEDETTO RANELLI (Nonno Fonzio), PIERO MISURACA (Masino), GIACOMO CIVILETTI (Giovanni Giacalone), ALESSIA ZAMMITTI (Serenella Ciraulo), PIER GIORGIO BELLOCCHIO (Sordomuto). premi: PREMIO MARCELLO MASTROIANNI a un giovane attore emergente a Fabrizio Falco, 69. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica PREMIO PER IL MIGLIORE CONTRIBUTO TECNICO, PER LA FOTOGRAFIA, a Daniele Ciprì, 69. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica Daniele Ciprì Nato a Palermo, 17 agosto 1962, è un regista, sceneggiatore e direttore della fotografia italiano. In coppia con Franco Maresco, realizza a cavallo tra gli anni '80 e '90 la serie Cinico Tv. Presto divenuto un cult, Cinico tv si compone di brevi clip nelle quali grotteschi personaggi (rigorosamente uomini) dei sobborghi e della provincia di Palermo vengono ripresi e solitamente intervistati, con un umorismo nero ed espressionistico che si fa metafora sarcastica dell’Italia tutta intera. Non indifferente alla riuscita di Cinico tv è la cura per la fotografia, qui in bianco e nero, che spetta soprattutto a Ciprì. È lui a seguire l’aspetto fotografico anche del suo primo lungometraggio, Lo zio di Brooklyn (1995), sempre realizzato insieme a Maresco, e in seguito di Totò che visse due volte (1998), che suscita reazioni scandalizzate. Come direttore della fotografia lavora anche ad alcuni film di Roberta Torre, tra cui Tano da morire (1997) e Sud Side Story (2000), a due film di Marco Bellocchio, Vincere (2009) e Bella addormentata (2012), e ad altre pellicole. La parola ai protagonisti Intervista a Daniele Ciprì così dice il regista del film. Si intitola È stato il figlio, il regista è Daniele Ciprì. Esiste anche un romanzo che si intitola È stato il figlio, al quale il film ovviamente si ispira, il suo autore è Roberto Alajmo. Ambedue palermitani. Ambedue suppergiù cinquantenni. Ambedue fuoriclasse nello sguardo sbieco, grottesco quanto basta, sulla realtà. Nell’eterna, tormentata storia dei rapporti fra letteratura e cinema, con infinite recriminazioni reciproche e accuse di infedeltà, compare come una variante gaudiosa il seguente dialogo (reale!) fra uno Scrittore che ha scritto un romanzo e un Regista che vuole trarne un film. Il Regista: "Scriverò un soggetto dal libro e te lo farò leggere. Ma guarda che cambierò molto, cambierò tutto". Lo Scrittore: "Non c’è problema, fai liberamente, basta che tu mi dia un biglietto per il cinema quando il film uscirà". Alajmo, spiritoso, dice che "uno scrittore che pretende di lavorare a un film da un proprio libro è come la suocera che accompagna gli sposini in viaggio di nozze. Anche se è la migliore del mondo, sempre suocera è". Il romanzo, l’ha conosciuto attraverso Bellocchio. "Era passato di mano in mano, l’avevano visto Emma Dante, Roberta Torre, altri registi. Tutti concordi sull’impossibilità di farne un film. Io lo lessi e mi piacque, ma non mi dava immagini alla mia maniera. Presi tempo per pensarci". La scintilla scoccò in un ufficio postale. "Stavo facendo la fila. Improvvisamente mi è scattata l’idea di un personaggio, lo sbrigafaccende, che racconta quella storia mentre è in attesa alla posta, per pagare bollette altrui in cambio di pochi spiccioli". Com’è stato il suo approccio a questa prima regia da solo? NA dire il vero non lo avrei mai fatto, non mi convinceva, avevo paura di girarlo. Lo definisco un film mortuario ma allegro che racconta il dramma di una famiglia italiana e non solo palermitana. La disperazione che si vede sulle facce dei protagonisti un po' ci appartiene. Ora quando lo vedo, dico a me stesso: cavolo, ci sono riuscito. Magari è folle, incompiuto, brutto: però è mio. Ciprì, nel film il narratore sbrigafaccende Busu ha la faccia aspra di Alfredo Castro. Come lo hai scelto? Ero innamorato di lui da Tony Manero. Purtroppo ho dovuto doppiarlo, voleva parlare in siciliano. Ma è cileno. Le facce, le facce degli attori di questo film raccontano la storia prima ancora che venga raccontata. Chi ha già visto il film dice che è fantastico, “un Homer Simpson alla palermitana”. Una sfida. Eppure sì, mi sono detto. Non sono uno che prende un libro per trarne un film. Ho cercato la storia reale alla quale Alajmo si era ispirato. Non era come la raccontava lui. E io l’ho raccontata in un’altra maniera ancora. La mia. Due immaginari, il suo e il mio, si sono sovrapposti alla realtà. Uno nasce, e muore com’era nato. Non posso staccarmi da come ho sempre raccontato le storie. Può essere che la mia formula di oggi sia diversa da quella del passato. Meno radicale, meno antropologica. Meno nudità, meno animalità. Però lo sguardo è sempre lo stesso. Ognuno ha il suo modo di gestire musicalmente l’immagine. Ho lavorato sui corpi, sulle facce, sui gesti. In libertà. Il libro mi dava questo. Palermo è fra i protagonisti del film, ma le riprese non sono state fatte là. Non ho mai girato a Palermo: mi evoca troppa contemporaneità. Ma potrei parlare di Palermo anche girando in Russia. Volevo una periferia popolare che raccontasse tutta l’Italia; l’ho cercata ad Augusta, l’ho trovata a Brindisi, quartiere Paradiso. Cinque settimane appena di riprese. È un percorso visivamente particolare. Come un ricordo disegnato male, grottesco. A Palermo ci vivi, almeno? Non più. Palermo non la voglio neanche più ricordare. Ti risucchia nel nulla, è una terra che uccide. Amore e odio. Vivo in Sicilia, chissà dove: è un anno che non vado a casa. Ma a Palermo sono nato e cresciuto anche professionalmente. Facevo i matrimoni. Raia-Ciprì: la bottega di fotografia, a conduzione familiare. Negli anni Settanta e Ottanta era celebre. Mio padre riparava macchine fotografiche, mamma era del paese di Frank Capra. Ma io non sapevo scattare l’attimo. Mi stimolava l’immagine in movimento. E allora facevo in super 8 piccoli corti. Orrendi. La famiglia che racconti mi sembra molto legata alla tradizione siciliana… È una storia assolutamente siciliana, anche se potrebbe essere ambientata in tanti altri posti del Sud. Subito dopo il film con Bellocchio (Vincere, ndr.) mi è arrivata la proposta di curare la regia del romanzo di Roberto Alajmo, ‘È stato il figlio’. Non conoscevo il libro, anche se il lavoro di Roberto mi era noto. La storia mi affascinava, era piena di tragica ironia, ma l'ambientazione era talmente realistica che non riuscivo a capire come poterla raccontare per immagini. Stavo per dire di no, parlai a lungo anche con Bellocchio per cercare un consiglio di un collega illustre, quando i produttori mi dissero di aver pensato a me proprio per scongiurare il pericolo di fare qualcosa di convenzionale. Ecco come e perché ho deciso di accettare questa sfida. Che Palermo descrivi? Una città che sta nel mio immaginario, una Palermo di immagini della mia adolescenza, della mia famiglia. Molti dei personaggi collaterali possono assomigliare anche morfologicamente a persone da me realmente conosciute in passato. Poi per una serie di coincidenze le scene del quartiere siciliano sono state interamente girate in Puglia, ma questo fa parte della 'magia del cinema'. Ci sono una serie di personaggi che compongono la famiglia protagonista del tuo film… Sapevo che le facce erano fondamentali per interpretare i personaggi che avevo in mente. Dopo aver visto Tony Manero, Alfredo Castro è stato amore a prima vista. E così Fabrizio Falco, Giselda Volodi, Rori Quatrocchi, Benedetto Raneli, Giacomo Civiletti, Alessia Zammiti, Manuela Lo Sicco oltre a tutti i ruoli minori affidati ai miei attori di sempre. In un set come questo mi volevo sentire a casa. Discorso a parte va fatto per il tuo protagonista, Servillo… Con Toni è stata una storia particolare. Nicola era il personaggio più difficile e importante. Abbiamo fatto numerosi provini. Tutti gli attori erano straordinari, ma Alessandra e Giorgio, i miei produttori, non si convincevano mai. Avevano la loro idea fissa, il loro asso nella manica, il Nicola perfetto, Toni Servillo. Io non ce lo vedevo proprio e pensavo che neppure mi conoscesse. Lui era per me come una specie di attore mitologico, un 'Laurence Olivier Edoardo De Filippo Marcello Mastroianni'. E invece è stato un sodalizio perfetto, è un attore straordinario e dopo questo film anche un grande amico. Quindi all’inizio non eri convinto al 100% che potesse interpretare il ruolo di Nicola Ciraulo? Non è assolutamente così, anzi. Avevo paura che lui potesse non accettare, insomma ero sicuro che non mi avrebbe neppure risposto al telefono. Quando mi hanno fatto leggere il romanzo, non avevo un immaginario di visi e volti. Avevo sì una storia ma non sapevo quali fossero le facce più giuste. Ma quando ci siamo incontrati e mi sono subito detto, vabbè è perfetto, e abbiamo trovato un punto comune nella interpretazione del romanzo di Roberto che peraltro lui aveva già letto. Toni era preoccupato dal dover recitare in dialetto, ma gli ho spiegato che non mi interessava l'accuratezza della pronuncia. Fin dall'inizio sapevo che non avrei voluto un attore siciliano, ma qualcuno che fosse in grado di evocare i personaggi della Palermo della mia infanzia. Toni mi ha regalato tantissimo, con lui mi sono subito divertito e penso che si sia divertito anche lui. I primi documentari per una cooperativa legata a Giuseppe Tornatore, l’incontro con Maresco, i corti a Fuori orario di Enrico Ghezzi. Franco l’ha visto, il film? Lo vedrà, ma non avremo modo di criticarci a vicenda. Percorso concluso, e concluso male. Ora che tutti hanno accesso facile alle tecnologie dell’immagine, come si capisce chi è davvero un fotografo, davvero un regista, insomma un autore? Risposta rapidissima. Il problema non si pone: non è cambiato nulla. Pensare di avere il mestiere perché si ha il mezzo è un’illusione. Anzi: è più complicato proprio perché è più facile. Abbiamo tanto senza avere nulla, siamo diventati più cretini. Ormai non stampiamo neanche più le foto, tutto si riversa in quel c... di televisore, mezzo che ci separa dal mondo. Chiedo scusa per la parolaccia. Qual è la parolaccia? Televisore? Certo. Anche al cinema si fa televisione. Disastro totale. Se vado al cinema voglio invece viaggiare, come con Fellini, con Pasolini. Oggi chi crea mondi, al cinema? Pochissimi. Sorrentino, Garrone, Bellocchio, Bertolucci... Siamo pochissimi". Hai mai pensato di raccontare qualcosa di diverso dalla Sicilia? Sì, in effetti sto pensando ad altre storie, ma non penso a questa cosa come ad un addio alla mia meravigliosa terra. In fondo anche Frank Capra, che è nato nello stesso paese di mia madre, ha raccontato della Sicilia pur avendola lasciata in tenera età. E' un esempio da seguire. Recensioni Paolo Mereghetti. Il Corriere della sera All' America che si presenta a Venezia con The Master di Paul Thomas Andesron ha risposto l' Italia con È stato il figlio, esordio nel lungometraggio di Daniele Ciprì: la chiave stilistica è agli antipodi del film Usa, ma la capacità di leggere la «mostruosità» delle persone altrettanto acuta. Dietro una scelta volutamente farsesca (dove Toni Servillo riesce a raccontare lo squallore del suo personaggio senza cadere nella macchietta) sembra prendere forma il peggiore degli incubi pasoliniani, quello di un popolo che ha perso la sua identità e che si è arreso alle più squallide tentazioni del benessere. Come la Mercedes che la famiglia Ciraulo si regala e che invece di portare l'agognato innalzamento sociale si trasformerà nello strumento della tragedia. Un dramma che esplode con veemenza nell' ultima parte del film, come a «giustificare» l' amoralità strisciante della prima. Se all' inizio sembra di essere ancora dalle parti di «Cinico Tv» (con meno cupezza e disperazione ma altrettanta ferocia e invenzione), l' intervento mefistofelico della nonna rende esplicite le ragioni per cui i Ciraulo sono come li abbiamo conosciuti, senza dignità né morale. Come se Daniele Ciprì avesse trovato nel romanzo omonimo di Roberto Alajmo non solo una bella storia ma anche il percorso con cui, più o meno inconsciamente, «elaborare il lutto» della sua separazione da Maresco, superando il disperato pessimismo con cui raccontava Palermo all' inizio della sua carriera per aprirsi a una più articolata lettura delle ragioni che generano i Ciraulo di tutt' Italia. Federico Gironi. Coming Soon Inventore, con Franco Maresco, di Cinico Tv, nonché uno dei migliori direttori della fotografia in Italia, Daniele Ciprì esordisce dietro la macchina da presa "in solitaria" con un film che tradisce in maniera evidente il suo curriculum: ma, invece di essere una tara come spesso avviene, questo è un dato nettamente positivo. Perché, adattando il romanzo di Roberto Alajmo, firma un film formalmente ricercato e riuscito senza essere lezioso e formalista, e che fa del grottesco e del cinismo delle lenti sensibili ma mai deformanti, in grado di trasmettere un’umanissima empatia per i protagonisti e le traversie che devono affrontare. È stato il figlio è molte cose, spesso diverse tra loro. È una tragica saga familiare, è un film sull’ombra ansiogena e sanguinosa della mafia, è un film sull’Italia di allora, gli anni Settanta, ma ancor di più di oggi. È un film sullo storytelling, costruito com’è a scatole cinesi, con un narratore (che si è andati a pescare in Cile, è l’Alfredo Castro dei film di Pablo Larrain) che racconta storie che diventano la storia del film, e di cui lui diventerà protagonista. Con l’andamento del sogno, o dell’incubo, a seconda dei casi e dei momenti, È stato il figlio mette alla berlina le miserie materiali ed esistenziali dei suoi personaggi e degli italiani, declinando con forme moderne e goticamente esasperate la lezione della miglior commedia all’italiana, che criticava senza falsi moralismi né strizzate d’occhio, ma era in grado di amare profondamente l’umanità che raccontava. Mettendo in scena una spirale impazzita di violenze e desideri, di megalomanie e di egoismi, Ciprì racconta - non senza errori e qualche scivolone ma con implacabile chiarezza - il dramma di una generazione che si ripete nella sua incertezza, nella sua immobilità, nell’oppressione e nell’impossibilità di evitare che la colpa dei padri (e delle madri, e delle nonne, e dei cugini) si riversi tragicamente su di lei. E la chiusura di desolante metafisicità e di inquietante realtà è, al tempo stesso, raggelante e bellissima. Alberto Crespi. L’Unità Il cinema italiano è periodicamente dato per morto dalla stampa. Poi, altrettanto periodicamente, risorge. Noi siamo convinti che , nonostante il profondo disprezzo che la classe politica gli dimostra (con sinistra continuità da un governo all’altro, occorre dirlo), dia continuamente segni di vitalità. Venezia non fa eccezione: nelle ultime 48 ore sono passati due film che mettono sulla mappa due nuovi registi. In realtà Daniele Ciprì e Luigi Lo Cascio sono nomi già importanti, il primo è stato in coppia con Franco Maresco il creatore di Cinico Tv e il co-regista di film come Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte; il secondo è, almeno dai Cento passi in poi, uno dei nostri attori di punta. Ma È stato il figlio (in concorso) è il primo film «da solista» di Ciprì, mentre La città ideale (Settimana della critica) è la prima regia di Lo Cascio. Sono, tecnicamente, due esordi. Entrambi gli autori continueranno a fare altri lavori, Ciprì è ormai un apprezzato direttore della fotografia (qui al Lido firma anche le immagini di Bella addormentata, di Bellocchio) mentre Lo Cascio non smetterà certo di recitare. Ma siamo spinti ad accomunarli non solo in quanto esordienti. I due film, per quanto diversissimi, sono paradossalmente simili. È stato il figlio ha una trama da tragedia greca e del resto la Grecia è contata qualcosa, assieme agli arabi, nella costruzione dell’identità siciliana. Un uomo (un corifeo?) è in fila all’ufficio postale e nell’attesa racconta, a tutti coloro che attendono con lui (un coro?), una storia terribile. C’era una volta una famiglia con un padre ingombrante, una madre succube, un figlio un po’ tardo e una figlia geniale. Quest’ultima, ancora ragazzina, venne uccisa per sbaglio in un agguato di mafia. La vita dei Ciraulo cambiò, ma non come pensate voi: balenò infatti la possibilità di ottenere un indennizzo dallo stato, e nella speranza dell’arrivo di questi «piccioli» i Ciraulo si diedero alla bella vita. Ma nei mesi successivi i debiti si impennarono e i «piccioli» non arrivarono (sembra la storia della crisi economica, no?). Fino a uno scioglimento drammatico in cui il figlio tonto, simbolo di un Sud in cui i giovani pagano colpe non loro, dovette farsi carico dei peccati di tutti… Le indirette citazioni di Kafka e di Sofocle (due scrittori che sul concetto di giustizia hanno scritto capolavori) spiegano perché È stato il figlio e La città ideale siano, almeno nella nostra psiche contorta, simili. Raccontano due parabole, due storie fortemente simboliche in cui lo stile è tutto. Ed entrambi i registi giocano scommesse stilistiche molto audaci. Ciprì opera una sorta di «ripartenza» dallo stile anti-naturalistico di Cinico Tv per scacciare ogni tentazione di realismo sociologico. In questa chiave totalmente surreale, la non-sicilianità di alcuni attori (...) si rivela addirittura funzionale. Il film non è narrativamente fluido, è costruito su un continuo andirivieni di «stop-and-go», ma a Ciprì non interessa minimamente raccontare una storia nel senso classico del termine: semmai una fiaba, in cui la violenza della tragedia si alterna alla dolcezza dei cantastorie. Curzio Maltese. La Repubblica La commedia all' italiana è morta a metà degli anni 70, ferita da Brutti, sporchi e cattivi di Scola e sepolta da Il borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli. I "mostri" dello schermo erano diventati troppo mostri nella realtà per essere raccontati. O almeno per garantire una minima identificazione da parte degli spettatori. Il lavoro di Daniele Ciprì comincia dov' è finita la lezione dei maestri Risi e Monicelli, la riprende con la necessaria dote di necrofilia e la conduce alle conseguenze estreme. La famiglia Ciraulo di E' stato il figlio non è grazie al cielo «la famiglia che tutti potremmo essere», come sostiene l' autore, ma è di sicuro la famiglia che l' Italia di questi anni ha cercato di farci diventare. Un gruppo di "mostri" dominato dalla miseria, rischiarato da un unico e misterioso dono, la bellezza della piccola Serenella, che si perde quasi subito. La bimba viene uccisa da una pallottola vagante durante un regolamento di conti nella periferia di Palermo. Nel buio della disperazione, un vicino di casa fa balenare la scintilla avida di un risarcimento da parte dello Stato per le vittime di mafia. La sola promessa del danaro sconvolge la vita dei Ciraulo, li porta a indebitarsi prima coi commercianti e poi con gli strozzini, in attesa che si compia l' estenuante iter burocratico. Alla fine, quando i soldi arrivano davvero, sono diventati pochi per alimentare il sogno di miracolo economico. Bastano appena per coronarne una parvenza consumistica, l' acquisto di una fiammante Mercedes. L' auto di lusso restituisce a Nicola, che la tratta meglio della povera figlia, una paradossale fierezza paterna. Ma sarà la prevedibile fonte della definitiva tragedia. E' stato il figlio segna il ritorno di un talento prezioso, Daniele Ciprì. Oltre alla conferma, semmai ve ne fosse bisogno, della grandezza di Toni Servillo, un Nicola indimenticabile fin dalla prima camminata. A parte questo, pensando alle doti profetiche dell'autore, fa paura. Al principio degli anni ' 90 la "Cinico Tv" di Ciprì e Maresco pareva una galleria di mostri esasperati e si è rivelata invece l' annuncio della classe dirigente che avremmo trovato di lì a poco in Parlamento. Speriamo soltanto, per il bene della nazione, che stavolta Ciprì abbia esagerato con i suoi cieli plumbei sulle nostre disgrazie. Davide Turrini. Il Fatto quotidiano “Questo è un film mortuario”. Parola di Daniele Ciprì per il suo “E’ stato il figlio”, primo film italiano in Concorso alla 69esima Mostra del Cinema di Venezia. E stupiscono la simpatia e il candore antipubblicitario con il quale il papà, assieme a Franco Maresco, di Cinico Tv, presenta il suo primo lungometraggio in solitaria dopo aver diretto “Lo zio di Brooklyn” (1995), “Totò che visse due volte” (1998) e “Il ritorno di Cagliostro” (2003) assieme al sodale Maresco. Divorzio artistico non così consensuale, anche se atmosfere, visi ed eccentricità caratteriali dei personaggi di Cinico Tv rientrano parecchio dalla finestra di E’ stato il figlio. Ambientato in una Palermo desolata e virata su un seppiato anni settanta/ottanta, il film di Ciprì è un bizzarro oggetto di modernariato cinematografico che osa rimescolare contenuti “alti” (mafia, crimine, usura) con la leggiadria formale di una messa in scena grottesca, facce e panze deformate alla Cinico e nanetti alla Lynch, scenari periferici senza via di fuga per lo sguardo. Al centro del racconto la famiglia palermitana Ciraulo, coordinata da papà Nicola (un Toni Servillo particolarmente pimpante in canottiera, barba di qualche giorno e denti gialli), moglie casalinga, figlio ventenne ancora nullafacente, nonno e nonna all’apparenza rimbambiti e la piccola Serenella, improvviso oggetto involontario di un regolamento di conti della criminalità. Morta subito la bimba nel cortile antistante i palazzoni dove vivono i Ciraulo, l’esplosione del possibile dramma si trasforma in un cicaleccio comico surreale, slegato da cause ed effetti dell’uccisione con immediata attenzione al probabile milionario rimborso dello stato per la giovane vittima di mafia. Nicola si fa consigliare dal trafficone amico obeso e da un avvocato azzeccagarbugli per ottenere 220 milioni che faticano ad arrivare. Ed è proprio la grossa somma di vecchie lire che fa scattare la svolta in E’ stato il figlio: denaro prima rifiutato, poi atteso spasmodicamente con tanto di ricorso ad un melomane usuraio per pagare spese senza averlo ancora in tasca, infine speso dopo amletica scelta. Là in mezzo alla periferia più miserabile e sgangherata, tra fuocherelli improvvisati sull’asfalto e disperazione umana mica da ridere, Nicola e famiglia optano per una Mercedes che altro non sarà che l’inizio di una discesa agli inferi e la dissoluzione tragicomica dell’intera famiglia. “E’ il dramma della famiglia italiana evocata da un esempio palermitano proprio grazie all’inserimento nella storia del denaro – spiega Ciprì – è un gruppo familiare legato alla legge arcaica dello stare insieme, remota nel tempo ma con uno smarrimento che è tutto contemporaneo dovuto ad un alienante consumismo. Una tragedia greca in cui ci ho messo tutta la Sicilia che conosco, iconografando la mafia e anticipando l’Apocalisse che viviamo oggi”. Aggiunge Servillo: “Stiamo parlando della ‘roba’ raccontata da Giovanni Verga, quel senso di possesso che da Mastro Don Gesualdo in poi ha imbevuto la letteratura siciliana oltretutto la scelta di Ciprì mi fa tornare alla mente le parole di Sciascia quando diceva che l’origine di molti comportamenti mafiosi è nel matriarcato. Fatto confermato da molte inchieste di magistrati e giornalisti con le donne a decidere presente e futuro dei destini economici delle famiglie”. Supporto decisivo ad una storia tragica e beffarda è l’immaginario visivo di Daniele Ciprì, di base direttore della fotografia (...), che ha ricreato Palermo in Puglia (il film si è potuto realizzare produttivamente grazie alla Puglia Film Commission) con una buona dose di spregiudicatezza formale: “Ho cercato di fare sentire Palermo inquadrando qualcosa di astratto. Un po’ come facevamo con Cinico Tv, senza realismo, anche perché è oramai impossibile ricreare quelle inquadrature svuotate. Ricordo che quando Wim Wenders nel 2008 mi ha cercato prima di girare quell’orrendo film che è Palermo Shooting voleva sapere dov’erano quei luoghi per poterli usare, ma all’epoca era impossibile farlo perché erano già diventati scenari periferici già pieni di cantieri sullo sfondo”. Serena Nannelli. Il Giornale Il film di Daniele Ciprì attualmente nelle sale e presentato alla sessantanovesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è un piccolo gioiello, uno dei migliori film italiani dell’anno. E’ stato il figlio, tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Alajmo, dipinge con un realismo grottesco la miseria umana e materiale di certe realtà degradate di periferia nelle quali per ostentare prosperità si farebbe di tutto. Il film ha inizio in un ufficio postale. E’ qui che Busu (Alfredo Castro), un signore trasandato, trascorre le sue giornate raccontando storie a chi aspetta il proprio turno (...). I Ciraulo, negli anni 80, vivono nel quartiere Zen di Palermo e si sostengono grazie al capofamiglia, Nicola (Toni Servillo), che si arrangia a recuperare ferri vecchi dalle navi in disuso abbandonate nella zona portuale. Una disgrazia per mafia, ossia l’uccisione accidentale della figlia più piccola, porta un insperato quanto illusorio benessere economico attraverso un risarcimento dallo Stato. Ma come il sangue ha portato denaro, così il denaro porterà nuovo sangue. La pellicola descrive con efficacia la disperazione che si cela dietro la finta ricchezza cui si immolano certe esistenze. La realtà quotidiana di quest’ umanità abbrutita, inconsapevole e moralmente fatiscente, viene ritratta dal regista attraverso una sorta di lente deformante che ne amplifica l’abominio in modo ad un tempo drammatico e farsesco. Ciprì, da maestro della fotografia qual è, fa un cinema che affascina grazie alla forza delle immagini; da un lato filma con freddo realismo i palazzi e il cemento del quartiere popolare, dall’altro richiama il teatro dell’assurdo indugiando su volti bizzarri, innaturali, a volte mostruosi nelle espressioni. Il microcosmo familiare dei Ciraulo è un covo di personaggi avidi, pronti a monetizzare una disgrazia con la stessa foga che alcuni hanno alle prese con un “gratta e vinci”. Si mette alla berlina un’umanità che volge al disumano e lo si fa in maniera visionaria, secondo paradigmi estetici stravaganti come il gusto per la caricatura. Gli attori appaiono tutti in stato di grazia e rendono i perversi meccanismi familiari ritratti davvero credibili. Qua e là si sente l’eco delle disgrazie e dell’attaccamento alla “roba” de “I Malavoglia” del Verga. E’ stato bravo Ciprì ad amalgamare l’impensabile; mescolando grottesco, melodramma e realismo; mettendo amore ed estro perfino nella ricerca formale; fotografando con uno stile tutto suo luoghi terribili e miseria esistenziale. Lorenzo Taddei. Ondacinema Daniele Ciprì riadatta per il grande schermo il romanzo di Roberto Alajmo, scrive la sceneggiatura assieme a Massimo Gaudioso e si prende tutte le licenze poetiche necessarie per mantener intatto il suo stile, cosa rara di questi tempi, soprattutto in Italia. E' anche direttore della fotografia (come pure in "Bella addormentata" di Bellocchio, in concorso al festival) che - salvo le scene "seppia" - ricorda molto il lavoro compiuto per "La pecora nera" di Ascanio Celestini. Busu (Alfredo Castro) è seduto in un ufficio postale, dove paga bollette altrui in cambio di un compenso. E' lui il narratore, la versione cipriana di Forrest Gump, che in attesa del suo turno racconta storie a metà tra la cronaca e la fantasia, senza curarsi della gente che si ferma, lo ascolta e se ne va. Nessuna piuma gli si posa sulle ginocchia. Piuttosto un incidente mortale, oltre la vetrata alle sue spalle. Imperturbabile come in "Post Mortem" di Pablo Larrain(in concorso due anni fa a Venezia) Castro/Busu si rivolge alla sala: "Conoscevo un tale, che per un graffio alla macchina uccise suo padre"... La storia è ambientata negli anni Settanta, in un quartiere popolare di Palermo. Una terribile tragedia si abbatte sulla famiglia Ciraulo, la piccola Serenella (Alessia Zammitti) muore colpita per errore in un regolamento di conti mafioso. Lo sgomento però è ben presto rimpiazzato dall'euforia per i duecento milioni che lo Stato ha stabilito come risarcimento ai familiari della vittima. Ad avere la meglio sull'impiego dei soldi è il padre, Nicola Ciraulo (Toni Servillo), che non solo realizzerà il suo sogno ma convincerà anche gli altri della sua sensatezza. L'epilogo è un susseguirsi di colpi di scena, in un ribaltamento che coinvolge tutti i personaggi e la "struttura" stessa della famiglia. Ad avere la peggio stavolta, è proprio Nicola. Questa storia parla dell'Italia, di Palermo come di ogni altra città italiana. Parla di miseria, dell'apparire come riscatto e fonte di rispetto sociale, dell'illusione del benessere per tutti con cui il consumismo ha travolto le culture del nostro paese. "La miseria della ricchezza" l'ha definita Ciprì, quella meschinità umana senz'epoca né patria. Anziché realistico, o addirittura verista, Ciprì sceglie un registro favolistico, asseconda la sua visione, il disegno di una realtà immaginata, sulla base sì del suo ricordo di Palermo (la città dov'è nato), ma soprattutto del suo sentire. Ecco perché il film è girato interamente in Puglia e il quartiere popolare dove abitano i Ciraulo è a Brindisi e non a Palermo. Ecco perché il dialetto è siciliano ma il suo principale interprete (Toni Servillo) è napoletano. Non è importante che il luogo corrisponda alla realtà, ma che la evochi. La verità è ciò che le immagini, o in un romanzo le parole, evocano. Non è importante, se queste corrispondano alla realtà dei fatti. Lo stesso vale per la pronuncia di Servillo, che contribuisce a creare un'atmosfera forse non attendibile su un piano storiografico, ma assolutamente credibile. In fondo il caos ha un ordine preciso: se tutto è fuori posto, allora è tutto a posto. Questa è la logica di un film che segue sì una trama ben definita - con tanto di inizio, centro, e fine - ma che si sbizzarrisce in una a serie di situazioni - pur con la sensazione che Ciprì si sia limitato, nelle digressioni - e personaggi, ognuno portatore di almeno un tratto caricaturale. Una carrellata che rimanda a certe mimiche di Franco e Ciccio e alla "Cinico Tv" di Ciprì e Maresco dei primi anni novanta: da Busu, ispirato al ciclista Tirone, alla sfilata di obesi in riva al mare, all'avvocato strabico e "forforeggiante" (il barone Cammarata de "Il ritorno di Cagliostro"), l'usuraio ridanciano, la nonna che d'improvviso diviene strega. Notevoli prove del giovane Fabrizio Falco, nell'attonito ruolo di Tancredi, e di Giselda Volodi, la signora Loredana Ciraulo, soprattutto nello strazio finale che asseconda la decisione della madre Rosa (Aurora Quattrocchi). In attesa di "Bella addormentata" di Bellocchio, che lo vedrà ancora protagonista, Toni Servillo si candida decisamente alla Coppa Volpi, dimostrando per l'ennesima volta tutte le sue capacità trasformiste (la camminata, da sola, vale una coppa a parte) e un'estrema facilità di essere il personaggio. In questo bailamme (dis)umano, trascurati e calpestati, più volte fino alla fine, i bambini chiedono parola. Ma nessuno è disposto ad ascoltarli. Tutto ha un prezzo e niente vale più del benessere della famiglia. "E' stato il figlio" è la battuta che non sentiamo pronunciare, ma che ci rimane impressa dentro: un'accusa all'innocenza, alla sua ostinata incapacità di reagire a un mondo che fa di tutto per insegnarle anzitempo il significato della morte.