Giro di Francia - Girolamo Giro Macchiarelli

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Giro di Francia - Girolamo Giro Macchiarelli
Giro di Francia
Francesco Buranelli
Ancora una volta un artista ci sfida a riconoscere nelle sue tele e soprattutto nei nostri occhi di spettatori i molteplici aspetti dell’arte. Non
è un professionista della pittura a farlo, ma un uomo che nella vita fino ad oggi ha affrontato altre sfide, non quelle dell’immagine, ma
quelle della parola, cimentandosi in una brillante professione forense.
Proprio forse dalla sua approfondita conoscenza dei molteplici aspetti degli uomini e del mondo ha tratto la voglia di far emergere il suo
talento artistico.
Affrontare il mondo ed il suo mistero con strumenti nuovi, inediti per lui, è l’obbiettivo primario della sua arte “L’esperienza più bella che
possiamo avere è il senso del mistero. È l’emozione fondamentale che accompagna la nascita dell’arte autentica e della vera scienza. Colui
che non la conosce, colui non può più provare stupore e meraviglia è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere.” (A. Einstein).
Il mistero lo seduce e lo intriga infatti, come pochi sanno, il primo quadro dipinto da Giro è stato “Passion”: un’opera che sintetizza
mirabilmente la sua personalità e illumina in un solo colpo il percorso intellettuale e artistico di un affermato avvocato che d’improvviso
si è trasformato in “giovane” e promettente pittore.
Non parliamo di età anagrafica bensì della prorompente vitalità espressiva, da parte di un uomo che ha avuto tutto dalla vita (salute,
cultura, fede, famiglia, lavoro, benessere, carisma...), in grado di comunicare al mondo la sua capacità di percepire e di trasmettere i
sentimenti più veri, di esprimere sensazioni primordiali, di percorrere la via della ricerca del bello e del Vero che, solo oltre la percezione
del sensibile, si riesce a cogliere nella sua essenza ultraterrena, divina.
È proprio il caso di dire che ci troviamo di fronte ad una ricca ed equilibrata interiorità che sta esondando.
È questo, in estrema sintesi, il percorso artistico che Girolamo Macchiarelli, in arte Giro, ha proposto in questo suo inedito “Giro di Francia”,
una mostra che ha voluto intitolare “Spaesaggi”. Dove il prefisso “s” – che in grammatica dovrebbe corrispondere ad una esse privativa,
con un significato di negazione, contrario, rispetto al valore del sostantivo al quale è stata anteposta – in arte, nel suo linguaggio artistico
assume, invece, il significato di “oltre”, di “al di là”.
Se torniamo al quadro “Passion”, vi riconosciamo subito la sua vena innata di elaborare un linguaggio di segni e di colori purissimi che
nasce e supera il figurativismo che, nello stesso tempo, continua a persistere in alcune delle sue composizioni, come accade nel “notturno”
oppure nell’alba (“all’inizio del giorno”).
E così “Passion” si presenta come un capolavoro di sintesi teologica e artistica che solo un grande ed esperto artista avrebbe potuto
dipingere all’apice della sua carriera, dopo essersi cimentato in molteplici dipinti con lo stesso soggetto, invece Giro lo ha realizzato di
getto, quasi istintivamente, e come opera prima della sua breve carriera artistica.
Perché è la mente che guida la mano, la maturità di una elaborazione lunga una vita che sta esplodendo nell’impeto di una creatività che
il brillante avvocato celava in sé.
È nel dualismo tra l’affermato, ironico e disincantato Girolamo ed il giovane, appassionato Giro, tra la maturità intellettuale e culturale di
Girolamo ed il giovane desiderio di gridare al mondo la sua voglia di vita, che è nato Giro, un nuovo artista che nasce già maturo, capace
di saltare o meglio di sintetizzare interiormente in anticipo tutti i passaggi tecnici, formali, accademici, che hanno portato i più affermati
artisti ad elaborare un proprio linguaggio pittofico.
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Giro sente, vede, dipinge “oltre”, dopo aver vissuto, amato, pensato sé stesso ed il mondo; è questa la sua forza, è questa la sua grande
capacità che gli ha permesso di vestire immediatamente la “maglia gialla” del suo primo “Giro di Francia”.
“Spaesaggi” è una mostra che offre sensazioni forti, capace – attraverso dipinti che coinvolgono emotivamente e culturalmente lo
spettatore – di evocare gli elementi primordiali della natura, quei principi di acqua, aria, terra e fuoco cari al pensiero greco arcaico e
principi ispiratori della cultura occidentale dall’umanesimo all’espressionismo.
L’ironia che affiora dallo sguardo disincantato di Giro appare in mostra fin dal crescendo introduttivo delle tre tele “S’i fosse foco”, “S’i fosse
vento”, “S’i fosse acqua”, un artificio retorico che, rimandando alla poetica goliardica dell’Angiolieri, gli permette di rappresentare quelle
forze invincibili della natura che, pur garantendo la vita ed il sostentamento all’uomo, incutono timore e rispetto, richiamando il tema
attualissimo di un mondo che non abbiamo amato abbastanza e che l’artista vede, mai come nel nostro secolo, vilipeso e disprezzato.
Dunque il rosso fuoco arde una città non più in grado di ospitare l’umanità, una megalopoli snaturata rispetto alla polis, culla originaria di
cultura e democrazia, ormai divenuta luogo di spaesamento. E il fuoco sembra consumare anche il cielo.
“S’i fosse vento” vede un soffio impetuoso scuotere la natura, “tempestandola”, scomponendo fuoco, acqua, luce in un vortice di
straordinario impatto coloristico. Nel dissolversi in un caleidoscopio di colori cosa resterà del mondo, e degli uomini della nostra era
dissennata? Agli artisti la sola possibilità di risposta, che già Bob Dylan nel 1962 mirabilmente sintetizzava nella sua più famosa canzone
“The answer, my friend, is blowin’ in the wind”.
“S’i fosse acqua” ci trasporta dopo il furore del fuoco e l’inquietudine del vento, nella quiete quasi immobile dell’acqua. Tutto è già
avvenuto, sopra e sotto una immaginaria linea di galleggiamento: l’acqua ha ormai quasi “annegato” il mondo; solo un ultimo gorgoglio,
un ribollire quieto testimonia il movimento di una lenta cascata che ha ormai invaso tutto, ed i colori del mondo sommerso traspaiono
nelle velature del pallido color verde acqua.
Il nostro mondo sembra non meritare molto agli occhi di Giro, andrebbe arso, tempestato e affogato? Forse il vero animo dell’artista trova
la sua catarsi nella quarta tela: “S’i fosse vita”, che ci dimostra, con un sapiente dosaggio cromatico, l’amore di Giro per la vita e per il
mondo che rifiorisce in un’esplosione di gioia e di colori, in una sorta di “... nostalgia per il futuro”.
I magici colori di Giro dominano la scena anche nella serie “Artificio di fuochi”, ombrelli di luci colorate che con la velocità del lampo fanno
assaporare la fugacità di quel senso di gioia generato dalla bellezza. La serie si conclude con due dipinti “Indipendence Day” e “In Giro” (o
Girandola), che rappresentano la perfetta sintesi del perenne dualismo umano e pittorico tra Girolamo e Giro.
I fuochi per la festa si accendono nel cielo sulla città che diventa uno spaesaggio, nel quale il riferimento alla Casa Bianca (o a una casa
bianca) si tramuta in un lontano ricordo cromatico per riflettere il tripudio delle scintille di luce che festeggiano nel cielo una invocata
indipendenza, tema ulteriormente sviluppato nella tela successiva, che diventa un’opera quasi autobiografica. “In Giro” il balenare di
colori e di lampi rispecchia il suo personale desiderio di fissare la bellezza della luce, fugace e mutevole per definizione, e capace, nello
stesso istante, di suscitare una gioia incontenibile, fanciullesca, della durata di un attimo, come l’inevitabile rimpianto per la sua effimera
essenza.
Ma è nella quarta sezione, quella dedicata all’acqua e alla sua naturale capacità di trasformarsi in gas, in liquido e in solido che Giro offre
i maggiori spunti di approfondimento ed esplica la sua capacità di coinvolgimento emotivo.
I richiami mitologici della “Nascita di Venere” appaiono contaminati, rispetto alla celeberrima opera botticelliana, da richiami felliniani
di una Venere carnale, statuaria e barocca; la dea ha sublimato nel dipinto tutta la sua sensualità a favore di una algida femminilità
eccessivamente enfatizzata nelle abbondanti forme ed emblematicamente senza testa.
Le capacità pittoriche di Giro, in rapidissima ed evidente evoluzione qualitativa, si manifestano nelle sottili, trasparenti velature di “Mare
rosso” e nelle spatolature di “Ghiaccio”, per assumere toni di poesia visiva, nelle splendide e delicate tele de “La grande onda” e della
“Cascata blu”, i capolavori dell’esposizione, dove Giro, con grande equilibrio e delicato cromatismo, giocato sull’effetto materico del
bianco e del celeste, rende omaggio alla forza della natura espressa nell’acqua, come elemento di forza e di vita.
E tuttavia proprio nelle splendida tela che ricorda nel titolo il capolavoro di Hokusai, “La grande onda” non evoca il terrificante tsunami
dell’artista giapponese, che devasta il mondo e travolgere uomini e cose, è piuttosto la grande onda, assai più familiare, del nostro
Mediterraneo, “il cavallone” che si abbatte nelle cristalline giornate di settembre sulla spiaggia deserta, nel quale forse sarebbe ancora
bello immergersi e giocare come fanno i bambini.
Ma, attenti agli “Squali”! Ricordo di vacanze nei mari del sud, o metafora del pericolo insito nelle acque cristalline ed invitanti. È il saggio
Girolamo che ci avverte del pericolo o il giovane Giro che ci invita al tuffo più eccitante?
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Nell’avvicinarsi al mondo di Giro, non ci sorprende di trovarvi forti evocazioni dantesche, non iconografiche alla maniera dei grandi
illustratori del sommo Poeta, ma spunti di riflessione e arguti richiami alla condizione umana. Pur non seguendo Dante e Virgilio nei
gironi infernali o nelle più rassicuranti atmosfere del Purgatorio e del Paradiso, si affronta ugualmente il tema dell’uomo, oggi e sempre,
leggendolo nelle sue più varie accezioni. I temi danteschi riaffiorano nei titoli delle opere, il mondo che vi è rappresentato va oltre le
cantiche della Commedia verso un’attualità sempre più vicina a noi.
La “Città Celeste” gioca sul doppio senso: vi è effettivamente raffigurata una città, addirittura dei grattacieli, e le tonalità sono effettivamente
quelle dell’azzurro. Dunque è una città ed è celeste. Ma se la guardiamo con altri occhi vi vediamo la Gerusalemme Celeste dalle alte mura,
dagli ordinati spalti delle quali si affacciano esseri ultraterreni ed evanescenti. Su tutto una luce pura, “divina”.
Possiamo ritrovare gli stessi giochi concettuali nelle tele “Palude Stigia”, “Acheronte” e “ll nono cerchio”, dove un cromatismo più scuro
introduce, ad un mondo più nascosto, una interiorità più complessa, dove le ombre tentano di prevalere sui colori, i titoli ci rimandano
nuovamente all’inferno dantesco, ai dannati del ghiaccio, figurine rosso fuoco immerse in un gelido lago azzurrino. La tela monocroma
della palude dello Stige ha l’atmosfera glaciale, il silenzio totale, ma forse si tratta di un moderno paesaggio urbano di qualche città
mineraria del nord Europa, riflessa nel suo grigio mare. E l’una non esclude, ma anzi evoca l’altra. Il sottile inganno prosegue in “Acheronte”
dove vediamo il demone traghettatore sul fiume livido o forse l’asfalto bagnato di una strada che, in una notte nebbiosa, riflette le luci dei
mille fanali rossi delle automobili in transito, un fiume di vetture che trasporta i dannati del traffico.
Parole antiche, dunque che narrano storie di oggi. E di qui comincia il gioco degli s-paesaggi.
Le tele si susseguono semplicemente numerate, ed è possibile vedervi paesaggi che si disgregano, colore che si fa paesaggio perdendo ogni
riferimento al reale. Vi troviamo il cromatismo forte delle prime tele, la croce centrale che divide il campo dell’immagine che trovammo già
in “Passion”, ci rallegrano le velature ed i riflessi che esplodevano nei fuochi di artificio. Lo spaesamento che ci coglie non è turbamento,
piuttosto ebbrezza di colori e luci.
E dall’ebbrezza ai sogni. Nei sogni di Giro, nei suoi “Onirici” si nuota in colori liquidi, i colori accesi o freddi ci avvolgono. Non tentiamo più di capire e
cessiamo di porci le domande lasciandoci trasportare dalla dolcezza dell’arte “Morire, dormire... forse sognare.” (W. Shakespeare, Amleto).
Francesco Buranelli
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