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Diecidieci
di Giorgio Molinari
C’è un matto seduto vicino a me che parla da solo; ha un aspetto gentile e distinto nel suo
vestito color cane che fugge con la cravatta a righe azzurre e marroni. Sembra stia
parlando di me, dico sembra perché percepisco solo alcune parole; tipo: “Mangiucchiava
briciole… Scribacchiava…Rosso.”
Era quello che stavo facendo io davanti al tavolino con sopra aperitivo, patatine al
barbecue, noccioline ed il mio quaderno.
Non mi fa concentrare. Ora si è messo a parlare della Shoah. Ha lo stesso tono di mio
nonno quando mi raccontava una favola: monotono che ti portava dolcemente verso il
sonno.
Ma io devo stare sveglio! Uff! Potrei cambiare tavolo, ma dovrei spostare il bicchiere, i
piattini delle patatine e delle noccioline. Mi sembra brutto.
Si è acceso una sigaretta. Beato lui. Ho smesso, anche se non avrei voluto.
Si alza. Si avvicina. Oh no, ci manca che attacca bottone…
Mi passa accanto e si allontana, lasciando dietro di sé una nuvoletta azzurrognola di fumo.
Tornerà; sul tavolo ha lasciato gli occhiali, un libro, una matita ed un pacchetto da dieci di
sigarette.
Bha! Torno alla mia storia.
Devo partecipare ad un concorso il cui tema è: DIECI.
Ma dieci di che? Dieci omicidi o dieci aperitivi? Dieci noccioline? Oppure dieci ragazze?
“Dieci ragazze per me posson bastare…”
“Motocicletta dieci acca pi tutta cromata…”
Ma Lucio era un genio…io no.
Dieci.
Cazzo scrive uno sul Dieci?
Sbircio il tavolino del matto: occhiali, libro, matita e…un pacchetto da dieci sigarette.
Forse…ficco le dita tra le noccioline che non sono certo l’ideale per il mio colesterolo.
Un piccione…ecchecazzo!
Lo sfacciato volatile plana sul tavolino cercando di ghermire le noccioline.
“Shh!” lo mando via con un gestaccio “Via!”
Dieci.
Eccolo che torna.
Il matto, no il piccione.
Si siede e ricomincia a parlare. Un borbottio continuo, sommesso con voce roca.
“Deportato…ghetto…millenovecentoquarantatre…Roma…storia…mia vita.”
Finisco nervoso il mio aperitivo.
Ma lui borbotta, borbotta.
Che fastidio.
Scrive e borbotta.
No, non sta scrivendo; sottolinea il libro. Non sta parlando a vanvera, sta leggendo.
Mi sporgo verso di lui per cercare di capire.
Si avvicina una coppia sui quaranta, forse di più.
Il lui della coppia dice: “Papà.” Quasi un sussurro.
Ma il matto continua a leggere.
Lei dolce:” Papà è tardi. Vieni torniamo a casa.”
Ma quello niente. La coppia si guarda intorno imbarazzata: non c’è molta gente in questo
venerdì di primavera alla casa del Cinema di Villa Borghese.
“Papà Angelo” riprende lei “Vieni via, su.”
“Non mi chiamo Angelo.”
I due si guardano. Sento i loro occhi su di me che fingo di essere concentrato sul mio
quaderno.
Ma ascolto.
“Il mio nome non è Angelo. Io mi chiamo Diecidieci.”
“Va bene. Ma ora andiamo, dai Angelo.”
“No Angelo!” urla “Diecidieci! Guarda!”
Si sbottona il polsino della camicia; salta il bottoncino che vola a terra; tira su la manica
mostrando l’avambraccio pallido striato da vene grigiastre. Sul polso riesco a leggere una
scritta: 1010.
“Va bene” dice il lui della coppia “va bene Diecidieci. E’ ora di venire via.”
Mentre lei gentilmente lo aiuta ad alzarsi, lui prende gli occhiali, il libro, la matita, le
sigarette.
“Lasciale quelle, che gli fanno male.”
Si allontanano sorreggendo l’anziano signore tra loro che continua a borbottare.
Sento una lacrima che scende calda sulla guancia.
Il pacchetto da dieci mi fissa. Il mio colesterolo non mi permette di fumare. Mi guardo
intorno: nessuno mi considera.
Ma che cazzo! Chissenefrega!
Allungo la mano prendo il pacchetto e sfilo l’ultima sigaretta rimasta.
La decima sigaretta del signor Diecidieci.
E mentre fumo con un certo gusto penso che ora ho una storia da raccontare.
Ma non la racconterò, non questa.