Il lavoro che cambia

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Il lavoro che cambia
Il lavoro che cambia
2. IL LAVORO CHE CAMBIA
Francesco Garibaldo1
Abstract.........................................................................................................................................................2
Parte I: Un quadro di sintesi del lavoro che cambia ....................................................................................3
Introduzione ..................................................................................................................................................3
1.
I cambiamenti strutturali della divisione del lavoro............................................................................4
1.1
Produzione e servizi ...................................................................................................................6
1.2
Gli effetti imprevisti della diffusione delle Tecnologie della Informazione e della
Comunicazione (Tci)................................................................................................................................7
1.3
Nuove forme della produzione e nuove forme di organizzazione del lavoro (Nfwo) e le relative
conseguenze sul lavoro.............................................................................................................................11
1.4
Segmentazione e dualismo: la risposta adattiva delle imprese e le conseguenze sul lavoro......15
2.
Mercato del lavoro e transizioni ........................................................................................................19
3.
Il lavoro ed i soggetti..........................................................................................................................23
3.1
Il lavoro femminile...................................................................................................................23
3.2
La soggettivizzazione del lavoro..............................................................................................24
3.3
Il lavoro autonomo...................................................................................................................25
Parte II: L’evidenza empirica relativamente a nuove forme di impresa e mutamenti nell’organizzazione
del lavoro......................................................................................................................................................26
4.
Il quadro concettuale..........................................................................................................................26
5.
Concentrazione senza centralizzazione .............................................................................................27
6.
Deverticalizzazione e esternalizzazione ............................................................................................33
6.1
Il lavoro tra deregolamentazione e autonomia .........................................................................38
6.2
Domanda di lavoro, autonomia e competenza professionale ...................................................45
Bibliografia ..................................................................................................................................................52
I saggi, i documenti e i materiali predisposti ai fini del contributo sono elencati a pag. 58.
1 La seguente relazione si è avvalsa di una serie di contributi che esperti nazionali hanno fornito alla
Commissione. Il modo con il quale tali contributi sono stati recepiti e l’insieme della relazione di sintesi sono
di responsabilità esclusiva dell’estensore e non coinvolgono né coloro che hanno contribuito né la
Commissione nel suo insieme.
1
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
IL LAVORO CHE CAMBIA
Francesco Garibaldo
Abstract
Il rapporto tematico sul lavoro che cambia sviluppa un’analisi critica di una serie di
stilizzazioni interpretative molto diffuse negli ultimi venti anni. A queste considerazioni si
aggiunge una parte di rassegna di analisi empiriche, sia quantitative che qualitative, svolte
in Italia ed in Europa; la rassegna supporta le affermazioni critiche svolte nella parte
generale del rapporto.
Le stilizzazioni analizzate sono: (1) un massiccio spostamento dell’occupazione dalla
produzione ai servizi; (2) la possibilità attraverso le tecnologie dell’informazione e della
comunicazione di accedere ai benefici di agglomerazione, tipici di economie locali, su
scala prima impensabile; (3) la nascita di nuove forme di collaborazione-integrazione di
attività tra le imprese; (4) la tendenza alla riduzione dei livelli gerarchici interni alle
imprese con la conseguente riorganizzazione delle funzioni e dei ruoli a tutti i livelli
dell’impresa; (5) la flessibilità come elemento chiave delle nuove pratiche operative; (6)
l’adozione di Nuove Forme di Organizzazione del Lavoro (NFWO), cioè di un insieme di
pratiche basate sul coordinamento interfunzionale delle attività e su una gestione delle
risorse umane coerente con la domanda di maggiore flessibilità, competenze professionali
maggiori ed un coinvolgimento, secondo la lezione giapponese, dei dipendenti nella
realizzazione delle prestazioni dell’impresa; (7) contestualmente, il diffondersi di un
nuovo concetto per il settore pubblico, il cosiddetto New Public Management (NPM); (8)
la fine o la marginalizzazione del vecchio modello taylorista-fordista di produzione, ed il
suo corrispettivo nel lavoro burocratico; (9) l’affermarsi di un alto contenuto e domanda
di conoscenza nei nuovi lavori e nelle nuove modalità di svolgimento dei vecchi con la
conseguente marginalizzazione chi non è adeguatamente istruito; (10) il ridursi di
importanza delle competenze manuali tradizionali che verranno man mano assorbite da
sistemi di macchine guidate da sofisticati software – degli “schiavi tecnologici” capaci di
rispondere a comandi vocali o di seguire comportamenti non programmati orientati ad
uno scopo funzionale; (11) la nascita dei nuovi lavoratori specializzati, i lavoratori della
conoscenza, coloro che, organizzeranno e gestiranno i processi lavorativi e costituiranno
la nuova elite, basata sul merito e non sul censo o sul controllo del capitale; (12) il formarsi
di un’era di riequilibrio oggettivo del rapporto di potere tra Lavoro e Capitale perché il
Capitale non avrebbe più avuto bisogno di forza lavoro sostanzialmente infinitamente
intercambiabile – con la eccezione di pochi “capi” o superspecialisti – ma di
un’intelligenza diffusa che avrebbe reso il rapporto di lavoro a tal punto individualizzato
da rendere obsoleti vecchi sistemi di inquadramento e retribuzione; (13) il diffondersi di
sistemi di Relazioni Industriali ad alta “individualizzazione” e di forme di contrattazione
individuale e di superamento della rappresentanza e della contrattazione collettiva; (14) il
superamento dell’epoca della fatica fisica e dei rischi legati all’ambiente lavorativo e il
rischio di una nuova classe di rischi legati al sovraccarico cognitivo.
Il rapporto analizza inoltre le transizioni sul mercato del lavoro e aspetti del rapporto
tra il lavoro e alcuni specifici soggetti.
2
Il lavoro che cambia
Parte I: Un quadro di sintesi del lavoro che cambia
Introduzione
Le nove dimensioni analitiche del lavoro che cambia che hanno guidato la ricerca
sono: strutturali, organizzative, spaziali, temporali, professionali esistenziali, familiari 2.
Questo saggio prende le mosse dalla metà degli anni ’70 del ‘900, cioè l’inizio del grande
processo di ridefinizione dei rapporti tra capitale e lavoro in Europa e negli Usa e l’inizio
delle trasformazioni strutturali dell’economia che attraverso le grandi ristrutturazioni degli
anni ’80 e ’90 ci hanno portato a dove siamo. Il periodo tra la fine della seconda guerra
mondiale e la metà degli anni ’70 può essere diviso in tre parti: il primo periodo è la
ricostruzione che si conclude verso la metà degli anni ’50, segue la grande ristrutturazione
dell’industria che porta agli anni ’60 e determina la nascita di realtà industriali,
prevalentemente nell’industria di stato, che introducono in Italia nuove tecniche di
management e nuovi criteri di produttività. Ad iniziare dal 1963 sino alla vera e propria
insorgenza del 1968-1973 si apre in Italia una nuova fase di confronto tra capitale e
lavoro, parte di un quadro internazionale, che rimette in discussione l’insieme della
condizione lavorativa ma influisce significativamente su tutte le nove dimensioni prima
indicate.
Tutta questa fase in termini molto generali è caratterizzata da una diminuzione del
lavoro agricolo e da una crescita del lavoro industriale; trasformazione molto rilevante su
tutte le nove dimensioni indicate,dato che essa si associa a processi di inurbamento e di
trasformazione della struttura e delle relazioni famigliari. Si ha contemporaneamente,
dopo i grandi processi di ristrutturazione e razionalizzazione produttiva della metà degli
anni ’50 il consolidarsi di realtà di piccole e medie imprese, processo che accelererà
all’inizio degli anni ’70. Nel corso degli anni dell’insorgenza operaia e sindacale,
contestualmente ad una tendenza europea che aveva il proprio baricentro nel centro e
nord Europa, anche in Italia si affrontano i temi dell’organizzazione del lavoro
realizzando sia significativi miglioramenti degli ambienti lavorativi che della condizione
lavorativa. Si apre una riflessione, a seguito d’iniziative sindacali, sulle lavorazioni a ritmo
vincolato e sui limiti del taylorismo. Si realizzano anche soluzioni innovative, sia pure in
isole sperimentali, nel mentre prende piede un tentativo di automazione integrale dei
lavori a catena. Questa situazione nuova si troverà a fare i conti con il cambiamento
internazionale di fase che inizia nel 1974.
Questo saggio concerne la dimensione micro, cioè a livello dell’impresa quando non
della singola azienda, dei cambiamenti avvenuti; vi sono inoltre alcune considerazioni
relative alla dimensione spaziale – territoriale ed alcune valutazioni sul mercato del lavoro.
Mancano temi essenziali come quello dei migranti e del lavoro femminile perché sono
affrontati in altri saggi.
2
La concettualizzazione in nove dimensioni è di Aris Accornero che ringrazio per il prestito concettuale.
3
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
1.
I cambiamenti strutturali della divisione del lavoro
La grande trasformazione delle società capitalistiche su scala mondiale, avvenuta a
partire dalla metà degli anni ’70, può essere raccontata in molti modi e sono disponibili
numerosi schemi di sintesi, ognuno dei quali ritiene essenziale l’uno o l’altro dei numerosi
mutamenti avvenuti. Una delle tante versioni di quanto è avvenuto ma orientata a
comprendere la situazione italiana può essere sintetizzata per punti:
1.
si è determinato un massiccio spostamento dell’occupazione dalla produzione
ai servizi. Si riprodurrebbe quindi lo stesso schema che ha presieduto alla
trasformazione da società agricole a società industriali e vi è chi profetizza una
riduzione in peso percentuale sulle attività economiche delle attività industriali
allo stesso livello cui si sono attestate le attività agricole;
2.
si è sviluppata, affermata e diffusa una nuova tecnologia orizzontale –
analogamente a quanto è accaduto precedentemente con il vapore e
l’elettricità – la tecnologia dell’informazione e della comunicazione (Tci);
basata sulla convergenza dell’informatica e delle telecomunicazioni. La nuova
tecnologia renderebbe oggi accessibili i benefici di agglomerazione, tipici di
economie locali, su scala prima impensabile. La creazione di reti tra imprese
basate sulla Tci, infatti, si realizza attraverso fenomeni quali la
esternalizzazione di funzioni e processi, prima concentrati nella stessa impresa,
e nella dispersione territoriale, anche con catene logistiche lunghe, di funzioni
e processi che prima, anche se facenti capo ad imprese diverse erano
concentrate su scala locale o al più regionale / nazionale.
3.
sono cambiate le modalità della produzione che non può più basarsi solo su
economie di scala ma deve coniugarle con economie di scopo ed una forte
differenziazione di prodotti con una conseguente riduzione del volume di lotti
produttivi. I cambiamenti che ne derivano riguardano le relazioni tra le
imprese, l’organizzazione interna delle imprese e le forme di organizzazione
del lavoro. In sintesi, per un verso si ha una dispersione spaziale delle
precedenti grandi imprese centralizzate in unità più piccole e flessibili nel
mentre si ha una riduzione delle micro imprese a favore delle piccole e medie,
si sviluppano conseguentemente nuove forme di collaborazione – integrazione
di attività tra le imprese. Per altro verso si diffonde una tendenza alla riduzione
dei livelli gerarchici interni alle imprese con la conseguente riorganizzazione
delle funzioni e dei ruoli a tutti i livelli dell’impresa. Infine la flessibilità diviene
l’elemento chiave delle nuove pratiche operative che una volta affermatesi
retroagiscono con significativa continuità con le relazioni tra le imprese,
l’organizzazione interna delle imprese e le forme di organizzazione del lavoro,
determinando quindi un circuito di cambiamento continuo;
4.
Questi cambiamenti spingerebbero verso l’adozione di Nuove forme di
organizzazione del lavoro (nella letteratura internazionale con l’acronimo
inglese Nfwo)3, cioè di un insieme di pratiche basate sul coordinamento
Bartezzaghi, E., Cagliano, R., The diffusion of new forms of work organization in Italy: an open debate, in Garibaldo,
F.; Telljohann,V. (eds.), New Forms of Work Organisation and Industrial Relations in Southern Europe, Petre Lang,
Frankfurt am Main, 2007 e Cagliano, R., Caniato, F., Micelotta, E. , Spina, G., Alternative Approaches To The Use
Of Temporary Work And New Forms Of Work Organisation;
vedi
inoltre
il
rapporto
della
Presidenza
della
UE
del
novembre
2002,
in
3
4
Il lavoro che cambia
5.
6.
7.
8.
9.
10.
interfunzionale delle attività e su una gestione delle risorse umane coerente
con la domanda di maggiore flessibilità, competenze professionali maggiori ed
un coinvolgimento, secondo la lezione giapponese, dei dipendenti nella
realizzazione delle prestazioni dell’impresa.
Contestualmente, a partire dalla fine degli anni ‘80, si è sviluppato e poi diffuso
un nuovo concetto per il settore pubblico, il cosiddetto New public
management (Npm)4 che introduceva accanto a vecchi dei nuovi strumenti per
la gestione dei servizi pubblici;
il vecchio modello taylorista – fordista di produzione, ed il suo corrispettivo
nel lavoro burocratico, sarebbe finito o ridotto a posizione marginale. La
natura “turbolenta”, cioè imprevedibile e non pianificabile dei mercati e più in
generale del contesto socio-economico delle attività lavorative, infatti,
richiedono tali e tante variazioni improvvise che è necessaria un intrinseca
flessibilità organizzativa che può scaturire solo dalla mobilitazione del
potenziale creativo e flessibile del lavoro umano. Tale potenziale può liberarsi
solo se si premia l’imprenditività5 del singolo, cioè la sua autonomia e
responsabilità. Su questa base si possono introdurre, poi, modalità nuove di
co-operazione lavorativa;
i nuovi lavori e le nuove modalità di svolgimento dei vecchi quindi sarebbero
caratterizzati da un alto contenuto e domanda di conoscenza.6 Tale domanda
non può essere soddisfatta dal classico ciclo sequenziale “scuola – lavoro –
pensione” ma richiede un costante aggiornamento. Verranno quindi
discriminati e marginalizzati coloro che non sono adeguatamente istruiti e non
hanno accesso a momenti continui di formazione ed aggiornamento;
l’intelligenza farà aggio sulle competenze manuali tradizionali che verranno
man mano assorbite da sistemi di macchine guidate da sofisticati software –
degli “schiavi tecnologici” capaci di rispondere a comandi vocali o di seguire
comportamenti non programmati orientati ad uno scopo funzionale -;
la capacità quindi di manipolare simboli - in specifico simboli di natura logicomatematica - sarebbe diventata quindi il valore guida dei nuovi lavoratori
specializzati:i lavoratori della conoscenza, coloro che, organizzeranno e gestiranno i
processi lavorativi e costituiranno la nuova elite, basata sul merito e non sul
censo o sul controllo del capitale. Si andrebbe affermando quindi una società
della conoscenza 7.
si sarebbe aperta quindi un era di riequilibrio oggettivo del rapporto di potere
tra lavoro e capitale perché il capitale non avrebbe più avuto bisogno di forza
lavoro sostanzialmente infinitamente intercambiabile – con la eccezione di
http://ec.europa.eu/employment_social/labour_law/docs/wo_obstacles_reportplusannexes_en.pdf.
4 Greca, R., Evaluating the change in social work organization. Rhetoric, Institutionalization and Political Decision Making,
in The International Journal of Public Sector Management, Vol. 11, 1998.
5 Bartolozzi, P. e Garibaldo, F. (a cura di), Lavoro creativo e impresa efficiente. Ricerca sulle piccole e medie imprese,
Roma, 1995, Ediesse.
6 Si sarebbe quindi in una fase di transizione verso una società della conoscenza, si vedano in proposito i lavori di
Lundvall, Bengt-Ake and Borras, Susana, 1997, The Globalising Learning Economy: Implications for Innovation Policy,
Report DGXII, European Union Commission, Brussels, 1997; Lundvall, B.-Å. & Archibugi, D., 2001 The
Globalizing Learning Economy, New York: Oxford University Press; Casey, C., Labour Markets, Organizations and
the Uses of Education, paper presentato al Congresso del Work and Labour Network su Education, Science
and Labour il 21 – 24 September 2006 a Osnabruck, Germania.
7 Castells, M. The Rise of the Network Society, Oxford, Blackwell, 1996.
5
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
11.
12.
pochi “capi” o superspecialisti – ma di un’intelligenza diffusa che avrebbe reso
il rapporto di lavoro a tal punto individualizzato da rendere obsoleti vecchi
sistemi di inquadramento e retribuzione. Sarebbero divenuti quindi prevalenti
sistemi di relazioni industriali ad alta “individualizzazione” o addirittura si
sarebbero superati i classici strumenti del sistema di relazioni industriali –
contratto collettivo, rappresentanza sindacale in azienda, ecc - per forme di
contrattazione individuale. Il riequilibrio infatti del rapporto di potere tra il
singolo lavoratore e l’impresa avrebbe consentito di superare la rappresentanza
e la contrattazione collettiva, nata per compensare il preesistente squilibrio di
potere;
le persistenti differenze tra chi lavora sarebbero divenute una misura oggettiva
delle differenze di capacità in termini di autonomia, creatività e responsabilità;
in questa prospettiva mentre si considerava superata l’epoca della fatica fisica e
dei rischi legati all’ambiente lavorativo, si paventava, come rischio
fondamentale per la salute e la sicurezza di chi lavora, un sovraccarico
cognitivo che in collegamento con un’evidente intensificazione ed estensione
dell’uso del tempo avrebbe creato pericoli seri all’integrità psicofisica dei nuovi
lavoratori.
In quest’ottica uno dei veicoli fondamentali di innovazione per l’Europa doveva
diventare l’innovazione organizzativa combinata con quella tecnologica8 . Di qui nascono
una serie di programmi, progetti e indicazioni della Comunità, prima dell’Unione europea,
poi; tra questi il più recente ed ambizioso è il libro verde per una partnership a sostegno
della nuova organizzazione del lavoro. Questo insieme di misure si orienta su due filoni
base: la formazione e schemi pubblici di sostegno all’innovazione organizzativa.
I dodici punti appena elencati sono fortemente caratterizzati dalla costruzione di veri
e propri stereotipi del cambiamento. È abbastanza evidente che i processi in natura non
sono lineari e privi di contraddizioni, ragione per la quale ognuno di essi va rivisitato
criticamente per articolarlo in modo più realistico, quando non per scoprire che la realtà è
ben lontana da quanto lo stereotipo dice.
1.1
Produzione e servizi
Lo spostamento di quote rilevanti degli occupati dalla produzione ai servizi è
indubitabile se si sta in Italia e nelle società occidentali. Le cose cambiano
significativamente con l’ingresso nel mercato mondiale capitalistico della Cina, dell’India
e, in misura minore, della Russia. Questi tre paesi hanno portato a un aumento di alcuni
ordini di grandezza della quota di lavoro industriale su quello dei servizi, come ha ben
argomentato e documentato Gallino 9 ; è bene notare che non si tratta solo di un dato
virtuale, come accadeva quando le rispettive quote di produzione relative al lavoro
industriale erano confinate all’interno di quei paesi, dato che una parte rilevantissima di
tale lavoro industriale è messa direttamente sul mercato mondiale e quindi influenza in
varia misura il mercato del lavoro di ognuno dei paesi ad esso partecipanti, tra cui l’Italia.
European Commission, Partnership for a New Organisation of Work, Green Paper. European Commission,
Brussels, 1997.
http://europa.eu.int/comm/employment_social/soc-dial/social/green_en.htm
9 Gallino L, Cosa non funziona nelle leggi sul lavoro, in ‹‹ la Repubblica››, 19 giugno 2007.
8
6
Il lavoro che cambia
Un sottocapitolo di questa riflessione riguarda l’allargamento dell’Europa a 27; essa infatti
assemblando realtà socio economiche largamente differenti modifica in modo rilevante
l’insieme della realtà economica e specificatamente le modalità della produzione
industriale e del funzionamento dei mercati del lavoro nazionali.
Una seconda cautela interpretativa riguarda il rapporto tra produzione e servizi alla
luce dei processi crescenti di esternalizzazione di attività produttive e di servizio da parte
delle aziende industriali, sia grandi che piccole e medie. Una parte significativa infatti dei
servizi, e delle relative quote di occupati, è rappresentata da funzioni industriali
esternalizzate ed organizzate come un’attività industriale; anzi una serie di attività
professionali, un tempo organizzate secondo gli schemi tipici della libera professione e/o
delle attività liberali legate alla cultura, vengono progressivamente organizzate secondo gli
schemi tipi di un’attività industriale. In Italia, se si sta ai dati registrati sino all’ultimo
censimento, si hanno percorsi diversi tra le regioni; ad esempio in Emilia Romagna ed in
Veneto si è avuto l’aumento contestuale in termini occupazionali, negli anni novanta del
secolo scorso, del terziario avanzato e dell’industria mentre in Lombardia e Piemonte il
terziario è cresciuto nel mentre calava l’industria. In entrambi i casi il nesso tra industria e
servizi del terziario avanzato è stringente ma nel secondo caso prevale il decentramento. Il
rapporto tra industria e servizi avanzati è d’altronde coerente con lo schema
dell’affermarsi di una società della conoscenza che, al di là degli slogan, in concreto si
traduce nella crescita di una filiera orizzontale, una sorta di nuova infrastruttura, che
raccoglie la ricerca e lo sviluppo, l’informatica e le attività connesse, la consulenza e i
servizi alle imprese, le attività professionali legate ai nuovi standard contabili ed
amministrativi, le attività multimediali ed artistiche; queste attività hanno bisogno di una
ambiente strutturato per sostenerle e quindi di università, centri di ricerca, fondazioni,
ecc.
L’esistenza o meno di questa filiera orizzontale, nonché la sua ricchezza e varietà, fa
la differenza tra le varie aree territoriali e le diverse regioni; come hanno dimostrato varie
ricerche internazionali essa ha, a sua volta, delle dinamiche di agglomerazione basate su
economie di scale e prossimità agli utilizzatori e delle dinamiche evolutive legate alla
capacità attrattiva di talenti che ne assicurino la riproduzione. Il ruolo delle città e delle
aree metropolitane ha quindi un peso significativo nell’acquisire, stabilizzare e fare
evolvere questo capitale sociale. In questo contesto un peso significativo ha il processo di
internazionalizzazione delle medie imprese industriali italiane, se tale processo infatti è
vitale e strategico per il futuro allora questa infrastruttura deve acquisire la capacità di
attrarre e stabilizzare competenze internazionali; in questa prospettiva sono essenziali le
politiche specifiche delle università.
Questo è uno dei capitoli della necessità di costruzione di un sistema paese.
1.2
(Tci)
Gli effetti imprevisti della diffusione delle Tecnologie della Informazione e della Comunicazione
Gli scenari ottimistici e lineari prospettati negli anni novanta del secolo scorso
relativamente alla Tci sono quelli dimostratisi più deboli nella loro capacità di previsione.
Alcune cose appaiono ormai chiare e contraddicono una serie di aspettative
“messianiche” sugli effetti automatici e necessitati che tale tecnologia avrebbe dovuto
produrre; c’è infatti una letteratura non trascurabile che facendo leva sulla natura
“orizzontale” ed “ubiquitaria” di internet ne aveva dedotto che tale tecnologia avrebbe
7
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
diminuito il carattere gerarchico di un insieme di istituzioni e reso di scarso peso il
problema della gerarchizzazione dei territori, secondo il classico schema del centro di una
periferia, attraverso la “morte della distanza” e la valorizzazione dei “luoghi”, del locale.
In realtà le cose stanno diversamente. Per andare direttamente alle conclusioni di una
serie di studi e ricerche si può ricorrere a Garcia [2002] che ha sottoposto ad analisi critica
tre ipotesi largamente diffuse e, per noi, di grande interesse. Le tre ipotesi sono
riassumibili in tre affermazioni, la prima asserisce che è in corso uno spostamento di
potere dalle nazioni, definite come entità geografiche, alle aziende transnazionali, la
seconda che le aree tradizionalmente svantaggiate, come quelle rurali, troverebbero nuove
opportunità e, infine, in una direzione opposta alle prime due, la tesi che la crescita delle
città globali, organizzate come in una rete o catena, avverrebbe a spese delle economie
non metropolitane.
La prima affermazione si basa su una sola delle tendenze delle possibilità legate alle
Tci, cioè la loro flessibilità e potenziale ubiquità che consente di creare catene produttive
e di servizio globali. Vi è un altro lato attivo che così viene descritto. “ ciò di cui questo
scenario non tiene conto, comunque, sono i nuovi costi di transazione che con grande probabilità
emergeranno in una economia globale, e come essi possano servire a rinforzare la necessità di stati –
nazione” 10 . Infatti storicamente ad una crescita delle attività commerciali prima o poi
corrisponde un intervento governativo per sostenerla, attraverso la costruzione di
infrastrutture, e per ristrutturare e garantire i diritti di proprietà. Su questo ultimo punto
infatti il Wto è impegnato in negoziati multilaterali che si affiancano a negoziati bilaterali;
tali negoziati, totalmente dominati dalla ideologia neoliberista tesa alla privatizzazione di
ogni attività legata allo scambio delle informazioni, devono comunque fare i conti con chi
in molti paesi, sicuramente una larga parte dell’opinione pubblica europea, considera
l’informazione, in senso lato, prevalentemente come un bene pubblico da proteggere
contro la privatizzazione e la costruzione di attività economiche orientate al profitto.
Alcuni dei conflitti ultimi, nel settore delle comunicazioni, hanno a che vedere proprio
con queste diversità di valutazione e di valori tra Europa e Usa. Tali conflitti ovviamente
richiedono un ruolo maggiore delle istituzioni politiche e amministrative; il che avviene
negli stati-nazione o, dove si è costituita una nuova giurisdizione, come nell’Unione
europea, secondo uno schema di pluralità degli ordinamenti che produce spesso conflitti
di competenza con e tra gli stati – nazione; se poi si considera l’Asia, la cosa è ancora più
evidente. Infine si pensi, sia in Europa che negli Usa, alla ancora aperta fase di riregolamentazione del settore delle comunicazioni e dei tentativi di definire un settore
economico nuovo che unifichi le comunicazioni con la cosiddetta “produzione dei
contenuti”, cioè l’industria culturale 11 . Questa prima affermazione, quindi, coglie una
parte della realtà ma non fa i conti con altri aspetti della realtà che stanno acquisendo
progressivamente sempre più rilievo.
La seconda,di grande rilevanza politica per noi,è egualmente in grado di cogliere
alcuni aspetti della realtà ma sottovalutarne pericolosamente altri. Come nel caso
precedente l’aspetto che viene colto è quello delle potenzialità insite nella nuova
Garcia, D. L., The architecture of global networking technologies, in Sassen, S. (ed.), Global networks, linked cities,
Routledge , New York, 2002, pp. 58-59.
11 In proposito si veda: Garibaldo, F. e Ortoleva, P., New information technologies training, qualifications and
professional profiles, IPL, Working Paper, 06; Garibaldo F. (2000), Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione,
la regolazione, l’offerta di beni pubblici, in Lavoro e welfare nella sfida della New Economy, <<L’Assistente Sociale>>,
n. 4. Garcia, D. L., 2000, Networks and the Evolution of Property Rights in the Global, Knowledge-Based Economy,
paper per la 28ma Telecommunication Policy Research Conference, Alexandria, Virginia, Settembre 2000.
10
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Il lavoro che cambia
tecnologia, quello che viene completamente rimosso è il fatto che la tecnologia viene
messa in opera non in un “vuoto sociale e istituzionale”ma nel “pieno” di rapporti di potere, di
lotte economiche sociali e di conflitti di autorità e giurisdizione. Se quindi evidentemente
le Tci rappresentano una grande opportunità per le aree rurali perché: “ aggregando la offerta
e la domanda orizzontalmente, le tecnologie di rete possono risolvere molti dei fallimenti del mercato
associati alle economie rurali e generare nuove sinergie economiche basate sulle economie di
agglomerazione.” 12 , è altrettanto vero che realizzare tali opportunità è estremamente difficile
perché le nuove tecnologie, per ragioni di potere e di profitto, vengono focalizzate quasi
esclusivamente sulle città e le regioni a forte urbanizzazione. Si creano così dei centri e
delle periferie, non solo su scala globale ma a qualunque livello della scala geografica.
Infine le città globali e le economie non metropolitane. Anche in questo caso
l’affermazione iniziale coglie una parte della realtà, cioè il fatto che le città globali sono in
grado, meglio di altri luoghi, di affrontare i crescenti costi di transazione di una economia
globale con rilevanti problemi di coordinamento. Il punto è che “l’architettura flessibile e le
capacità funzionali delle tecnologie di rete avanzate” consentono di “reagire e bilanciare le spinte
verticali che spingono le città a collegarsi a livello globale” attraverso “forze che stabiliscono legami
orizzontali , ancorando le città alle loro realtà economiche in un più ampio contesto regionale. Nella
nuova economia, il locale (local places)continuerà a contare. Comunque, questi luoghi non rimarranno
intonsi dalla espansione globale dei mercati; al contrario, per sopravvivere, le comunità locali, devono
ridefinirsi rispetto a loro”13 .
Ecco quindi consegnatoci un quadro realistico, senza determinismi di alcun genere,
delle interazioni tra Tci, globalizzazione e territorio; vi sono opzioni aperte che
chiaramente non possono essere realizzate se non con chiari, mirati interventi “politici”
che, a seconda dei casi, contrastino, correggano le tendenze spontanee di mercato o
impediscano loro di produrre effetti sociali non desiderati. Il rischio è elevatissimo perché
per dirla brutalmente [Graham, 2002] si può avere che per un determinato luogo, ad
esempio una città od un area metropolitana, ad un massimo di pieno di relazioni globali
possa corrispondere un massimo di disconnessioni locali: “la gente, le macchine, le istituzioni,
gli edifici e i distretti urbani possono divenire intensamente intrecciate nello spazio internazionale
attraverso il potere di intermediazione delle reti infrastrutturali locali – globali. Ma tali spazi possono,
allo stesso tempo, cessare di essere articolati in una qualsiasi modalità significativa con i loro hinterland o
distretti locali, “dissecati” da processi di ristrutturazione urbana, la diffusa spinta alla costruzione di
“fortezze”, strategie di progettazione architettonica ed urbana, pratiche politiche e così via” 14 . Si
realizzerebbe così una situazione per le quali alcune realtà urbane diverrebbero solo
moderni “caravanserragli” lungo “le vie della rete”, luoghi dove si posizionano le grandi
infrastrutture, luoghi insomma purtroppo ancora necessari a sviluppare la rete ma, di per
se stessi privi di valore. Non è un caso che nelle città globali si ha il massimo di
disuguaglianza sociale 15 .
Le osservazioni appena svolte sono di estremo interesse per i sistemi locali di
produzione italiani impegnati in un complesso processo di riorganizzazione. Come
vedremo infatti la capacità di innovazione e l’apertura ai mercati internazionali di tali
sistemi ha bisogno di sofisticate reti produttive disperse nel territorio e connesse da
avanzati sistemi informativi e logistici. La disponibilità delle tecnologie necessarie è solo
Garcia ,D. L 2002, op. cit., pp. 60.
ibidem, p. 61.
14 Graham, S., Communication grids: cities and infrastructure, in Sassen, S. (ed.), 2002, p. 74.
15 Sui dati quantitativi si veda Fainstein,S.S, Inequality in Global City-Regions, in Scott, A. (ed.), Global City-Regions,
Oxford University Press, 2001, pp. 284-298.
12
13
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Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
uno degli aspetti per realizzare tale infrastruttura proprio per le ragioni appena esposte.
Va infine sottolineato ancora una volta che i servizi legati alle Tci tendono ad addensarsi
territorialmente con tipiche logiche da economia dell’agglomerazione.
Se poi si guarda all’introduzione della Tci nei luoghi di lavoro occorre tenere presente
la distinzione della Zuboff [1988] che sottolinea il sostanziale dualismo insito nella
tecnologia dell’informazione (Ti): essa può semplicemente automatizzare delle operazioni
o creare una struttura informativa che sostiene dei processi. Secondo la sua stessa
definizione:
“ Da un lato la tecnologia può essere applicata per automatizzare delle operazioni secondo una
logica che poco differisce da quella del 19° secolo - il secolo del sistema delle macchine – di sostituzione del
corpo umano con una tecnologia che consenta di realizzare gli stessi processi con più continuità e controllo.
Dall’altro lato la stessa tecnologia genera simultaneamente delle informazioni sui sottostanti processi
produttivi ed amministrativi, informazioni tramite le quali un organizzazione realizza i propri compiti.
Tale tecnologia fornisce un più profondo livello di trasparenza delle attività che erano parzialmente o
completamente opache. Per questa via la tecnologia dell’informazione va oltre la logica tradizionale
dell’automazioni” 16 .
A partire dalla seconda possibilità si giunge alla Tci cioè alla convergenza della
tecnologia dell’informazione con quella della comunicazione.
Questa ambivalenza spiega le ragioni per le quali una delle previsioni ottimistiche,
quella di una spinta derivante automaticamente dalla diffusione di tali tecnologie ad un
più alto livello di qualificazione del lavoro, non si è in realtà verificata. Infatti la Ti come
una nuova forma di automazione del lavoro non comporta alcuna necessità specifica di
una più alta qualità di esso. Perché ciò si determini occorre che l’impresa evolva verso
nuove forme organizzative (Nfwo) che richiedono nuove relazioni collaborative tra i
lavoratori, da cui una diversa qualità del lavoro, e quindi un uso pieno ed appropriato
delle potenzialità orizzontali delle Tci. Ciò può svilupparsi sia all’interno delle
organizzazioni che tra le organizzazioni, siano esse imprese industriali od altre forme di
organizzazioni economiche, come illustrato da tanta letteratura 17 .
Si ha quindi una relazione forte tra nuove forme di organizzazione del lavoro, più alti
livelli di qualificazione, maggiore autonomia e quindi un uso più appropriato delle
potenzialità delle Tci.
Zuboff, S., In the age of the smart machine ; the future of work and power, Heinemann Professional Publishing,
UK, 1988. Page 9 – 10 . Traduzione Italiana: L'organizzazione interattiva - (In the age of the smart machine) /
Shoshana Zuboff ; edizione italiana a cura di Emanuele Invernizzi, Ipsoa, Milano.
17 Brousseau, E.; Rallet, A., Beyond Technological or Organisational Determinism: A Framework to Understand the Link
Between Information Technologies and Organisational Changes, in Macdonald S., Madden G. (eds.), Telecommunications
and Socio – Economic Development , North, Holland, 1998; Wiendahl H.P., and Helms K., Variable Production
Networks - Successful Acting in an “Alliance of the best”, in Proceedings of IFIP WG 5.7 Working Conference:
Organizing the Extended Enterprise, Ascona, 15-17 September, 1997; citato da Raffaella Cagliano,
Angelamaria Smiraglia, Politecnico di Milano; Bardi, A., Processi di trasformazione regionale e ridefinizione della
fisionomia della struttura produttiva in Italia. Il caso dell’Emilia-Romagna, saggio inviato come contributo alla
Commissione.
16
10
Il lavoro che cambia
1.3
Nuove forme della produzione e nuove forme di organizzazione del lavoro (Nfwo) e le relative
conseguenze sul lavoro
Bartezzaghi e Cagliano 18 , del Mip, dopo avere definito che cosa si debba intendere
per Nfwo e sottolineato la loro indispensabilità per accompagnare l’insieme dei processi
di trasformazione avvenuti dalla metà degli anni settanta del secolo scorso, registrano la
loro difficoltosa diffusione, almeno rispetto ai livelli attesi, in generale in Europa ( con la
rilevante eccezione dei paesi nordici), particolarmente in quella del sud e quindi in Italia.
Tali difficoltà sono evidenziate da un rapporto19 commissionato dalla Commissione
europea alla società Business Decision Limited, per verificare il grado di applicazione del
libro verde sulla Nfwo. Se invece di considerare il modello nella sua interezza e coerenza
interna si guarda ad una proxy , la diffusione cioè della Produzione flessibile strategica, che è un
paradigma riconosciuto internazionalmente – definito dai tre principi della multifocalità,
della integrazione di processo e di un ruolo più autonomo e partecipato dei lavoratori
nella soluzione dei problemi( Process ownership) - e misurato da una indagine internazionale
che si è svolta nel 1993, 1996 e 2001, l’Italia non sfigura nella media europea. Indagini
italiane svolte a Torino nel 200220 per un verso confermano che i primi due criteri della
Produzione flessibile strategica sono presenti in modo diffuso, in special modo i temi della
integrazione di processo, coerentemente con la diffusione della esternalizzazione di
funzioni, mentre gli aspetti di Process ownership, che implicherebbero una domanda formale
di livelli elevati di autonomia e competenza professionale, singola e collettiva, da parte
delle imprese non trovano che un debole riscontro.
In conclusione, seguendo anche i dati forniti dall’indagine BDL, una politica
dell’offerta da parte della Commissione – più o meno intellettualmente e tecnicamente
complessa e sofisticata – non ha trovato “un cavallo disposto a bere”, se non che per
rilevanti eccezioni legate ai diversi settori economici, al diverso posizionamento strategico
di mercato delle aziende e, perché no?, dalle diversità culturali.
Sembra quindi che per un verso le imprese italiane, in special modo alla fine degli
anni novanta e nei primi anni del nuovo secolo, malgrado i dati economici aggregati
nazionali poco brillanti abbiano attraversato una fase di ristrutturazione che ha interessato
particolarmente le medie imprese21 , ma, dall’altro verso, che tale processo ristrutturativo
si sia tradotto in una “adozione” dei nuovi standard internazionali, cioè in una loro
applicazione selettiva.
Analoghe considerazioni si possono fare relativamente al cosiddetto Npm, cioè ai
nuovi criteri di organizzazione della attività pubbliche. I nuovi concetti sono stati applicati
meccanicamente ed ideologicamente su piccola scala producendo effetti paradossali quali
ad esempio un aumento piuttosto che una riduzione dei costi nel settore dei servizi
sanitari e uno spostamento di risorse, in una situazione di taglio delle risorse, dalle attività
di servizio a quelle di contabilizzazione e controllo impoverendo quindi i servizi erogati.
La Commissione ha chiesto a centri indipendenti dei suggerimenti di politiche tese a
superare gli ostacoli che si sono frapposti alla realizzazione delle nuove forme di
organizzazione del lavoro; tra i vari suggerimenti sembrano tuttora attuali i seguenti.
The diffusion of new forms of work organization in Italy: an open debate , in Garibaldo, F.; Telljohann, V. (eds.), New
forms of work organisation and industrial relations in southern Europe , Peter Lang, 2007, pp.221-240.
19 BDL, New Forms of Work Organisation. The Obstacles to Wider Diffusion, European Commission, 2002.
20 Provincia di Torino e Fondazione Istituto Per il Lavoro, Posizionamento competitivo e politiche di sviluppo della
componentistica auto nella provincia di Torino.
21 Marini, D., contributo alla Commissione.
18
11
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Come Broedner e Latniak [2002] hanno evidenziato nel loro rapporto:
Guardando ai pretenziosi obiettivi strategici dell’Europa da una parte e rendendosi conto dello stato
scadente e sbilanciato della disseminazione di nuove forme di organizzazione del lavoro – con una
consapevolezza pubblica così come un interesse manageriale e sindacale più in fase di restringimento che di
espansione – dall’altro lato, appare necessario definire una strategia europea coerente per lo sviluppo e la
disseminazione di nuove forme di organizzazione del lavoro. Una tale strategia oggi manca dato che lo
sviluppo reale del processo innovativo in Europa è “più guidato da progetti piuttosto che da una strategia”
e “dalla pubblicazione del Libro Verde non ci sono state nuove iniziative tese a costruire la capacità o ad
animare un cambiamento dei luoghi di lavoro” (Ennals e atri. 2001: 271). Una siffatta strategia deve
distinguere chiaramente i livelli le prospettive e le attività in macro e micro, ma deve al contempo garantire
che siano tra di loro coordinate e complementari. Gli sforzi tesi a ri-regolare le condizioni di quadro (
come l’orario di lavoro, la sicurezza sociale, la formazione e l’addestramento) nella prospettiva della
cosiddetta “flexsecurity” – cioè la combinazione di flessibilità e sicurezza del lavoro (N.d.T.) – e la
“sostenibilità” come prerequisiti per lo sviluppo delle risorse umane devono essere collegati e combinati con
la promozione di nuove forme di organizzazione del lavoro che servano come mezzi per risultati economici,
competitività, livelli occupazionali e forme di crescita migliori.
La grande rilevanza che lo sviluppo di nuove forme di organizzazione del lavoro ha sia per la
qualità della vita lavorativa che la produttività e la crescita è, malgrado una evidenza empirica molto
forte, ampiamente sottostimata ( se non negata) in tutta Europa. Vi è quindi un grande rischio che la
UE non riesca a costruire le pietre angolari necessarie a erigere i quattro pilastri della sua strategia per
l’occupazione e ad aprire la strada a una modalità per la sua realizzazione. Conseguentemente, sono
necessarie iniziative urgenti per accrescere la consapevolezza pubblica per i temi fondamentali
dell’organizzazione del lavoro indicati ed il loro impatto sulla crescita e lo sviluppo delle risorse umane( in
modo particolare negli Stati membri dell’Europa del sud. Iniziative tese a sostenere una ampia
realizzazione di strategie della “strada alta” per realizzare benessere economico e qualità del lavoro
devono essere integrate nelle procedure di riferimento della strategia europea per l’occupazione. A tal fine i
Piani di Azione Nazionale (PAN) devono contenere chiare affermazioni sulla disseminazione di nuove
forme di organizzazione del lavoro e sulle conseguenze che esse hanno sui risultati economici ed
occupazionali sulla base di indagini svolte con regolarità. Questi risultati forniscono informazioni
complementari e indispensabili agli sforzi nazionali di de e ri-regolamentazione delle condizioni di quadro
(ciò può dissolvere i miti neoliberisti sullo sviluppo economico). Le pratiche Finlandesi connesse ai loro
Programmi Nazionali possono servire come modello a tale scopo. Ameno che tali regolari campagne per la
consapevolezza e tali procedure di riferimento non siano sviluppate seriamente, la strategia occupazionale e
la costruzione di una società basata sulla conoscenza che sia avanzata e produttiva rimarrà una pura
illusione. 22
E come Ennals ha suggerito:
L’approccio tradizionale è quello di identificare obiettivi chiave, trovare casi di eccellenza che
dimostrino le caratteristiche desiderate, quindi estrarre gli approcci necessari per una regione, un settore, un
Paese. C’è scarsa se non nessuna evidenza che tale approccio funzioni in pratica. È tutto meno che facile
il trasferire lezioni apprese in casi di eccellenza (Ennals e altri. 2001: 271), per quanti ne accumuliamo
nei database e sui siti web. Non è difficile produrre manuali, scatole degli attrezzi ed altri materiali per la
disseminazione, ma è difficile indicare processi risultanti di apprendimento che sostengano tale idea. È
facile annunciare la formazione di nuove “reti di apprendimento”, ma molto più efficace, quando può
Broedner P., Latniak E., Sources of Innovation and Competitiveness: National Programmes Supporting the Development
of Work Organisation - Report to DG Employment and Social Affairs, October 2002.
22
12
Il lavoro che cambia
essere fatto, aggiungere dimensioni di apprendimento a forme di raggruppamento già esistenti come catene e
reti di fornitura che i loro naturali mezzi di sostentamento. 23
Il processo di ristrutturazione, con particolare attenzione alle PMI
I processi di ristrutturazione, sia quelli andati a buon fine che quelli falliti, sono stati
accelerati dall’apertura al confronto con i mercati esteri e con i concorrenti di altri paesi,
in assenza della possibilità della svalutazione della moneta dopo l’adozione dell’euro. Ciò
è avvenuto sia semplicemente per la realizzazione e progressivo allargamento dell’Unione
europea come effettivo mercato integrato sia per i cosiddetti processi di globalizzazione.
La spinta, quasi uno shock, derivatane ha terremotato l’insieme della struttura
industriale con effetti differenti nelle diverse aree del paese. Che cosa accade?
In primo luogo la creazione dell’Unione europea ha spinto verso processi di
concentrazione senza la tradizionale centralizzazione. Questi processi hanno modificato
radicalmente il panorama industriale anche italiano, l’Italia, per un verso ha visto evolversi
alcune medie imprese a leader di nicchie globali – europee o anche extraeuropee - di
mercato, per altro ha prevalentemente visto, attraverso acquisti e/o fusioni, alcuni settori
tradizionali integrati in gruppi europei. Inoltre la nuova modalità di produzione è basata
sulla modularizzazione, su un sistema produttivo cioè nel quale la catena di fornitura si
segmenta in differenti livelli ed il primo di essi ha il compito di produrre non più un
singolo componente ma un gruppo di componenti, cioè un modulo, mentre il secondo ed
il terzo si relazionano rispettivamente con il primo ed il secondo per la fornitura di
componenti e sub-componenti. Il nuovo sistema ha determinato un riassetto di intere
aree territoriali che sono divenute luoghi di fornitura specializzata, quindi con un grado
significativo di integrazione, di filiere produttive europee.
L’effetto di queste trasformazioni è molto differenziato, per area territoriale, per zona
geografica e per settore di attività. Vi sono, almeno nell’area che Marini 24 chiama l’area
NCA, cioè Nord Centro Adriatico, l’area nella quale si sono concentrate le medie
imprese, alcune costanti che caratterizzano una ristrutturazione di successo:
I.
La possibilità di crescere e diventare più grandi senza essere più grossi; un
ridimensionamento quindi della questione dimensionale;
II.
La scelta dell’apertura ai mercati esteri che comporta una focalizzazione sulla
strategia almeno di medio periodo;
III.
Una diversificazione tra proprietà e gestione e l’introduzione di ruoli
manageriali specifici con una conseguente riorganizzazione che implica
investimenti;
IV.
Un maggiore orientamento al marketing rispetto alla quasi esclusiva attenzione
alla qualità del prodotto/servizio fornito;
V.
Nuove forme di passaggio generazionale assistite da tecniche specifiche;
VI.
Un’attenzione all’organizzazione interna che si traduce in un orientamento
dell’organizzazione alla domanda del cliente (ad esempio riorganizzando la
produzione per flussi dedicati) in termini di qualità e velocità di risposta;
Ennals R, The Existing Policy Framework to Promote Modernisation of Work: Its Weaknesses, Final report to the
Commission, October 2002.
24 Marini, D., Medie imprese: l'impossibilità di essere normali, in Marini D.( a cura di), Fuori dalla media. Percorsi di
sviluppo delle imprese di successo, Marsilio Editori, Venezia, 2008.
23
13
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
VII.
L’integrazione della propria flessibilità produttiva nella filiera di riferimento
(n uso crescente quindi della Tci in senso proprio, l’”informates” della
Zuboff);
VIII. La gestione attiva della rete di relazioni produttive che caratterizzano la
propria filiera con una conseguente attenzione ai problemi di governance della
rete;
IX.
Un orientamento crescente all’innovazione di prodotto con la conseguente
necessità di ibridare le proprie competenze tradizionali con nuove
competenze da acquisire all’esterno;
X.
Una maggiore attenzione alla formazione del capitale umano.
A differenza di Marini che vede avvenire questi cambiamenti in un rapporto di
evoluzione del ruolo dei distretti, Bardi pur concordando su queste costanti che hanno
caratterizzato il successo di una serie di Pmi, ritiene, a partire dall’esperienza dell’Emilia
Romagna, che ciò sia avvenuto a seguito di una crisi dei distretti che ha fatto emergere
una nuova realtà industriale: le filiere. La media impresa internazionalizzata è il
protagonista chiave delle filiere, sia che essa sia leader di prodotto o fornitrice di moduli
altamente specializzati. Secondo Bardi il sistema produttivo locale, a differenza di quanto
avveniva nei distretti, si articola gerarchicamente, si formalizzano i rapporti tra imprese. Si
determinano quindi delle diseguaglianze tra le imprese ordinate in una gerarchia formale;
emerge quindi l’aspetto ambivalente della modularizzazione. Mentre per le imprese al
vertice della catena non vi sono effetti imprevisti, se non quando esternalizzano per un
errore di valutazione competenze che nel lungo periodo emergono come strategiche, per
le aziende recipienti del processo si possono avere due casi opposti:
a) L’azienda committente non ha come unica motivazione l’esternalizzazione dei
costi e quindi si determina una spinta verso l’efficienza gestionale, qualificando le
competenze logistiche e contribuendo ad introdurre piattaforme informatiche
avanzate nelle aziende recipienti;
b)Viceversa l’azienda committente è solo focalizzata sul contenimento dei costi il
che porta alla marginalizzazione ed all’impoverimento delle imprese più
periferiche della catena. In questo secondo caso, purtroppo ben presente in Italia,
l’effetto è quello di creare una sacca di lavoro sottopagato e marginalizzato con
una possibile deriva verso forme di lavoro grigio e nero.
Sul piano delle politiche quindi diventano fondamentali tutte le politiche locali e
nazionali tese a favorire l’opzione a) rispetto a quella b). Da questo punto di vista ciò che
essenziale è favorire la capacità d’innovazione, specialmente quella di prodotto/servizio
non tanto e non solo delle medie imprese, molte delle quali hanno già fatto passi in questa
direzione, ma dei sistemi locali di produzione nel loro insieme, spesso caratterizzati da
una risposta reattiva ai cambiamenti. Solo se questo circuito virtuoso si metterà in moto
allora le nuove forme di organizzazione del lavoro (Nfwo) troveranno dei “cavalli disposti
a bere” e analogamente si qualificherà diversamente da quanto accade oggi la domanda di
lavoro. Vanno quindi integrate le politiche orientate all’offerta di consulenza e servizi alle
Pmi ed alla formazione dei lavoratori con politiche tese a modificare il posizionamento
delle imprese e quindi la loro domanda di servizi e di lavoro qualificato. Come esposto nei
capitoli precedenti un tale esito richiede anche politiche d’infrastrutturazione del territorio
che non possono avvenire solo per via di mercato.
14
Il lavoro che cambia
1.4
Segmentazione e dualismo: la risposta adattiva delle imprese e le conseguenze sul lavoro
Dall’insieme delle considerazioni svolte si dovrebbe dedurre che il dualismo o la
segmentazione del mercato del lavoro sarebbe confinato principalmente nella filiera
produttiva. Essa infatti si articolerebbe, a seconda della forza relativa della singola
impresa, in segmenti a maggiore o minore valore aggiunto; tali segmenti poi si
addenserebbero individuando delle vere e proprie polarità. Le imprese quindi al vertice
delle specifiche filiere, cioè le aziende Oem (Original equipment manufacturer) e quelle
fornitrici di moduli, dovrebbero avere una maggiore coerenza interna sia in termini di
organizzazione dell’impresa che di organizzazione del lavoro, con una conseguente
valorizzazione delle caratteristiche plastiche e di conoscenza del lavoro; sarebbero
insomma quelle che tradurrebbero in pratica lo slogan della società dell’informazione.
Da quanto sin qui detto è abbastanza evidente che il dualismo interno alle varie filiere
produttive è una realtà diffusa. Vi sono casi esemplari di reti paritetiche e di reti di
eccellenza, il cui principio aggregatore non è la requisizione, da parte di un singolo
partecipante della maggior parte del valore aggiunto derivante dalla cooperazione
complessiva delle diverse imprese. Spesso, in queste situazioni anche la realtà interna alle
singole imprese si basa su una selezione del personale basata sulla valorizzazione delle
competenze e qui si trovano i casi migliori di sviluppo delle Nfwo. Si tratta anche di realtà
il cui uso delle Tci è appropriato e sofisticato. Sono i casi nei quali più evidenti sono i
limiti di sistema sul piano locale, regionale e nazionale.
La realtà prevalente è invece quella di filiere con gradi più o meno forti di
segmentazione/polarizzazione tra alcuni attori forti e gli altri. In questi casi l’adozione di
standard di eccellenza, rispetto ai criteri prima indicati (capacità innovativa, orientamento
all’internazionalizzazione, Nfwo, uso appropriato delle Tci, ecc.), è, quando esiste,
selettivo e in larga misura basati su una concezione di inseguimento (catching up) delle
aziende leader, senza cioè una strategia di trasformazione coerente e di medio periodo; in
questi casi conta la cultura aziendale e non è possibile prevedere, in base al
posizionamento di mercato o altri parametri, quale politica la specifica impresa seguirà.
Vi sono poi “gli ultimi” della filiera per i quali la lotta quotidiana è la pura sopravvivenza.
La condizione lavorativa è largamente dominata dalla posizione relativa nella catena
del valore della singola impresa, non solo nel senso ovvio dei suoi margini di ritorno e
quindi degli aspetti salariali. In realtà nelle nuove reti di impresa le aziende leader
determinano in modo forte le modalità di funzionamento delle aziende sub-fornitrici che
non siano quelle di moduli. Le quantità prodotte, il sequenziamento dei prodotti, i ritmi e
la velocità di consegna, la qualità, ecc. sono determinate in modo preciso dall’ordine del
committente. Il caso dei fornitori di moduli è diverso perché diverso è il grado di
autonomia imprenditoriale e manageriale, per altro verso quando il rapporto di
integrazione è particolarmente evoluto si determinano scambi di informazione e
procedure decisionali interaziendali che non passano necessariamente per i vertici
funzionali, si creano così nuove realtà produttive che richiedono nuovi sistemi di
governance aziendali. Queste nuove situazioni modificano significativamente le modalità
lavorative e sono di norma più aperte a forme di adozione, in tutto o in parte delle Nfwo:
organizzazione per team, significative deleghe di autorità verso il basso a tutti i livelli,
forme accentuate di autonomia professionale, ecc.
“Gli ultimi” vivono una condizione di precarietà fortemente accentuata; non si tratta
della precarietà del rapporto di lavoro in senso giuridico - contrattuale ma di una
15
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
precarietà di fatto; sono situazioni di confine con l’area del lavoro grigio e nero. Si tratta
di prendere atto che, in una situazione sociale come quella europea ed italiana, forme
imprenditoriali tradizionali di pura vendita di “ore-macchina” non sono più in grado di
continuare ad esistere e trarne le relative conseguenze.
Ad evitare interpretazioni deterministiche, cioè spiegazioni che fanno discendere dal
posizionamento di mercato e/o tecnologico della singola azienda la natura della
organizzazione del lavoro e la qualità della condizione lavorativa valgono le
considerazioni appena svolte ma non esauriscono il campo dei possibili fattori
condizionanti alternativi al mercato ed alla tecnologia. Tra questi è di particolare rilevanza
la efficacia e la qualità dell'iniziativa sindacale; in Italia in alcune fasi storiche essa ha
costretto il sistema delle imprese, attraverso vincoli contrattuali e di fatto e con una sua
capacità di produrre una cultura con capacità egemoniche, a scegliere un determinato
percorso organizzativo o tecnologico indipendentemente dal suo posizionamento di
mercato e/o tecnologico. Un caso famoso tra tanti è quello del Lam (Lavorazione
asincrona motori) nel 1977 cioè di una serie di stazioni di lavoro composte da più banchi
fissi; le stazioni sono collegate attraverso magazzini inter-operazionali, che permettono
l'asincronismo; la movimentazione dei motori avviene tramite carrelli auto-motori (mini
trailer); il flusso dei materiali è governato da un insieme di calcolatori di processo. Perché
il caso è famoso? perché è l'ultimo caso di una progettazione che nasce da un vincolo di
progetto legato alla natura dei rapporti tra lavoratori, sindacato aziendale e direzione, sia
pure per negativo. Infatti l'impianto fu progettato per potere essere efficiente anche
qualora gli addetti si attenessero strumentalmente all'organizzazione formale negando un
comportamento cooperativo25 . Una tale pregnanza dell'iniziativa sindacale nel concorrere
per positivo o per negativo a sagomare la natura delle scelte organizzative e tecnologiche
delle imprese è oggi difficilmente registrabile, si ha quindi una prevalenza dell'iniziativa
manageriale che, a sua volta, dipende anche da opzioni politiche e culturali.
I processi interni alle singole imprese, come si è detto dipendono prevalentemente
dalle scelte imprenditoriali e manageriali e dai posizionamenti acquisiti; si hanno quindi
processi di riorganizzazione che internalizzano la dualità prima descritta nella filiera.
Tale dualità/segmentazione è stata ampiamente descritta dalla letteratura e riassunta
in uno schema auto esplicativo.
Migliarese P. e Romano P., Strategie di progettazione ed organizzazione del lavoro: due casi di realizzazione di impianti
innovativi di una grande azienda automobilistica, in Ciborra, C. e Lanzara, G.F. (a cura di), Progettazione delle nuove
tecnologie e qualità del lavoro, Milano, Angeli, 1984. e Garibaldo F., Lavoro, Innovazione, Sindacato, Costa&Nolan,
Genova, 1988.
25
16
Il lavoro che cambia
Figura 1 – La fabbrica flessibile
Fonte: [John Atkinson, 1988]
Nella fabbrica tipo degli anni '80 e '90 quindi si ha una segmentazione interna che
distingue un gruppo centrale di persone - la cui dimensione oscilla tra il 15 ed il 30% degli
occupati di quella azienda –sulle quali l'azienda conta come fattore di continuità e
stabilità. Su queste persone vi sono investimenti, più o meno rilevanti, di formazione e la
pressione, ormai universale, della flessibilità viene soddisfatta con le modalità della
flessibilità funzionale. In questi casi cioè la flessibilità origina da una capacità flessibile
strutturale derivante da un’organizzazione dell'impresa e del lavoro elastica a sufficienza
da adattarsi alle varianze.
Diversa è la situazione dei restanti lavoratori e lavoratrici, essa varia da una
condizione puro lavoro temporaneo sino a forme a termine, a part-time, ecc. La flessibilità
che caratterizza questo gruppo è quella numerica. Essa si può realizzare in due modi
diversi:operando sulla natura del rapporto d’impiego (part-time, temporanei, contratti a
termine e lavori precari) in modo tale da disporre di un numero più elevato di lavoratori,
quando necessario, senza cambiare la dimensione minima stabile di produzione che
garantisce il punto di pareggio nei momenti di bassa del mercato. Questa, in Italia, è stata
la scelta della grande distribuzione. Si può, alternativamente, operare sull’orario di lavoro
attraverso lo straordinario, l’orario annuo di lavoro e la creazione o eliminazione di turni
di lavoro. Questa è stata, in Italia, la scelta dell’industria metalmeccanica
Il dualismo/segmentazione del mercato del lavoro ha quindi due motori attivi: il
primo è quello connesso alla catena del valore delle diverse filiere produttive; il secondo è
quello internalizzato in misura maggiore o minore nelle singole imprese.
17
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Si determinano così statuti del lavoro differenti, con gradi cioè di maggiore o minore
durezza nella tutela della condizione di lavoro, sia nel mercato sia all’interno della singola
impresa. Si creano così dei processi di transizione dall’uno all’altro status, sia ascendenti
sia discendenti. Ciò che non è ovvio è che i processi di transizione sono in una certa
proporzione confinati, avvengono cioè all’interno di sezioni specifiche del mercato del
lavoro che, infatti, non funziona che parzialmente come mercato unificato sia in relazione
alla caratteristiche della domanda e dell’offerta di lavoro ma anche geograficamente.
Prima di analizzare i diversi status interni al mercato del lavoro e le transizioni che vi
avvengono è utile cercare di farsi un immagine di sintesi degli effetti complessivi che la
riorganizzazione del sistema industriale italiano, e più in generale del sistema economico,
ha prodotto sulla condizione di lavoro.
L’European Work Condition Survey e l’Italia
Nel contributo di Giarandoni26 sono analizzati i dati italiani dell’indagine condotta
dalla Fondazione di Dublino negli anni 1991, 1995, 2000 e 2005 per i cambiamenti
professionali. Sono stati selezionati i dati su: tempo di lavoro, ambiente fisico e
organizzazione del lavoro; si è teso a evidenziare i trend nel periodo 1991-2005.
Se si considerano i ritmi di lavoro la percentuale di coloro che dicono di non lavorare
mai a ritmi elevati scende dal 41% del 1991 al 14,7% del 2005; è una trasformazione
impressionante dato che, dopo avere scorporato quelli che non hanno risposto e quelli
che non hanno un opinione in proposito si ha che l’84,7% dichiara, nel 2005, di lavorare
con ritmi elevati. Il 49,8% dichiara di lavorare con tali ritmi in un intervallo che va da
sempre a circa metà del tempo. Il dato per quanto impressionante è pienamente
confermato dall’indagine della FIOM su centomila lavoratori e lavoratrici
metalmeccaniche, i cui dati sono stati raccolti nel 2007. Siamo quindi di fronte ad un
aumento di quasi il 300% della pressione sulla prestazione lavorativa.
Le risposte sull’ambiente fisico riguardano le posizioni di lavoro disagiate e/o
dolorose, l’esposizione a vibrazioni, i movimenti ripetitivi delle mani o delle braccia.
Le posizioni disagiate interessano un numero di lavoratori in crescita dal 1991 al 2005
dal 56,1% al 70,5%; è stabile il numero di coloro che sono esposti a vibrazioni.
Per i movimenti ripetitivi è noto che siamo a fronte di un’emergenza europea cosa
confermata dai dati che, in questo caso riguardano le ultime tre rilevazioni. Il numero di
coloro che dicono di non avere questo problema mai o quasi mai passa dal 47,1% del
1995 al 34,5% del 2005. I cambiamenti più significativi sono all’interno dell’universo che
dichiara di avere il problema, infatti mentre le risposte sempre, quasi sempre e per i 3/4
del tempo totalizzavano nel 1995 il 36,5% dei rispondenti, nel 2005 si ha il 43,9%. Non a
caso i disturbi muscolo scheletrici sono ormai un’emergenza europea. Appare chiaro che
la previsione di ambienti di lavoro nei quali fossero scomparsi o diminuiti
significativamente i tradizionali fattori di rischio era del tutto irrealistica; è bene notare
che questa situazione non è un’eccezione italiana e quindi non è ascrivibile ad una relativa
arretratezza del sistema industriale ed economico italiano ma appare radicato nel modello
di riorganizzazione industriale europea degli ultimi 15 anni.
Giarandoni, A., I cambiamenti professionali: dalla fatica all'impegno, contributo alla Commissione di indagine,
Aprile, 2008.
26
18
Il lavoro che cambia
La sezione più ricca è quella relativa all’organizzazione del lavoro; è particolarmente
interessante perché l’insieme dei dati può essere utilizzato come una proxy del grado di
diffusione delle Nfwo.
I compiti ripetitivi sotto i 10 minuti di tempo appaiono stabili, attorno al 40%,
mentre le scadenze molto rigide e molto strette riguardano l’83,7% dei rispondenti nel
2005 contro il 49,6 del 1991, un aumento di quasi il 60%.
Quali sono i determinanti del ritmo di lavoro e che caratteristiche ha il lavoro?
L’indagine fornisce una risposta solo a partire dal 1995.
Sui determinanti vi è un lieve aumento degli obiettivi di produzione, al 35%, un lieve
calo dei vincoli tecnologici, al 16,3%, e del controllo diretto del capo, al 25,5%. Non vi è
insomma una risposta univoca.
Il lavoro, secondo i nuovi standard, dovrebbe comportare l’autovalutazione della
qualità del lavoro svolto da parte del lavoratore ed infatti una quota che oscilla attorno al
70% risponde positivamente. I compiti monotoni interessano quasi il 40% dei
rispondenti, con un lieve calo nel 2005 rispetto al 1991 ed un più significativo aumento
rispetto al 1995. Infatti i compiti complessi riguardano una quota lievemente inferiore nel
2005, il 45%, rispetto al 47,7% del 1991.
Che possibilità ha il lavoratore di scegliere o modificare l’ordine, la priorità dei suoi
compiti? Nel 2005 rispondono positivamente il 54,6% degli intervistati mentre nel 1991
erano il 59,6%.
Analogamente la possibilità di scegliere o modificare il proprio metodo di lavoro cala
dal 76,45 del 1991 al 70% del 2005; viceversa la possibilità di variare la velocità ed il ritmo
di lavoro sale dal 67% del 1991 al 74,7% del 2005, dopo un picco nel 1995 del 78,5%.
Senza volere trarre da questi dati conclusioni che richiedono informazioni più
articolate e studi di tipo qualitativo si può dire, anche considerando i risultati dell’indagine
Fiom27 , che lo schema di una linea di adozione selettiva di alcuni elementi della Nfwo e
dei nuovi standard gestionali sembra confermata.
2. Mercato del lavoro e transizioni
Come osservano Alboni, Camillo e Tassinari [2008]:
Il dualismo del mercato del lavoro italiano e il processo di “segregazione” dei lavoratori “atipici”
viene inoltre ad essere ulteriormente confermato dall'esame delle matrici elaborate dal CNEL (2007) sul
cambiamento della condizione professionale dei lavoratori. Fatto 100 il numero di lavoratori dipendenti a
termine nel 2005, risulta che dopo un anno solo il 29 % ricopriva una posizione lavorativa a tempo
indeterminato, mentre il restante 65% continuava ad essere occupato in posizioni a termine e circa il 5%
risultava disoccupato. Per interpretare correttamente questo dato è necessario tener presente che circa
l’88% dei lavoratori che hanno un contratto di lavoro a termine afferma che “la temporaneità non è una
loro scelta volontaria”, a fronte del 55% per l’insieme dei paesi dell’Unione Europea 28 . Con riferimento
ai lavoratori autonomi parasubordinati, la probabilità di transizione verso il lavoro a tempo
indeterminato risulta assai più bassa, circa del 12%, e ciò può essere ricondotto in parte alla circostanza
che una percentuale di questi non aspira né, pertanto, ricerca posizioni di lavoro subordinato29 . I tempi
27 Garibaldo
F., Rebecchi, E. ( a cura di), Metalmeccanic@, Meta Edizioni, in corso di stampa.
Audizione del presidente dell’Istituto nazionale di statistica Luigi Biggeri alla XI Commissione (Lavoro
pubblico e privato) – Camera dei Deputati, Roma 7 novembre 2006 nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulle
cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro.
29 Anche il Ministero del lavoro nel documento Occupazione e forme di lavoro precario, (Roma, 13 novembre 2007)
28
19
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
di transizione dal lavoro a termine o parasubordinato al lavoro a tempo indeterminato costituiscono
quindi uno degli snodi fondamentali della situazione attuale del mercato del lavoro in Italia e in Europa,
in quanto la transizione al lavoro a tempo indeterminato implica la maggiore stabilizzazione degli
individui non solo occupazionale ma anche professionale e, in ultimo, dei progetti di vita30 (Anastasia e
Danilo, 2008).
Il gruppo di ricerca della facoltà di statistica di Bologna ha quindi elaborato un
metodo per valutare i tempi di stabilizzazione e lo ha applicato al caso della provincia di
Bologna.
Provincia il cui mercato del lavoro è dualistico con una quota preponderante di
lavoratori dipendenti a tempo indeterminato cui si affianca e in un certo modo si
contrappone una quota non trascurabile di lavoratori flessibili/precari. È su questi ultimi
che si concentrano quasi esclusivamente gli eventi di avviamento/cessazione dei rapporti
di lavoro che si caratterizzano per:
a) Il carattere “intermittente” dell’occupazione;
b) Un’alta rotazione degli avviamenti al lavoro;
c) Una durata assai esigua dei singoli avviamenti;
d) Una bassa probabilità di transizione dal lavoro dipendente a tempo determinato
al lavoro dipendente a tempo indeterminato.
Quanto si protrae nel tempo un contratto, facendo riferimento al periodo 2004-2006?
Ecco quanto ha trovato il gruppo di ricerca:
Per quanto riguarda i contratti a tempo indeterminato si ha una probabilità di poco inferiore
all’80% che la durata dell’avviamento sia superiore a 1000 giorni (il che in pratica coincide con la
lunghezza del periodo sottoposto ad analisi); anche la durata degli avviamenti come apprendista è
piuttosto lunga, vi è infatti una probabilità superiore al 50% (durata mediana) che l’avviamento superi
una durata di 836 giorni.
Per quanto riguarda le tipologie di contratto temporaneo le durate mediane sono enormemente più
basse: si va dai 29 giorni degli avviamenti in qualità di lavoratore interinale ai 105 giorni di durata
mediana degli avviamenti come lavoratore a tempo determinato, per salire infine ai 213 giorni degli
avviamenti secondo gli “altri contratti” (principalmente come lavoratori parasubordinati, come si è già
detto).
Non vi sono differenze di genere, almeno per quanto riguarda gli avviamenti con
contratto di lavoro temporaneo, mentre vi sono in ragione delle classi di età, esse
riguardano la durata mediana:
Per la classe di età fino a 25 anni la durata mediana è di 120 giorni, per abbassarsi a 98 giorni sia
per la classe di età 25-34 anni che per la classe di età 35-44, mentre per i soggetti con più di 45 anni la
durata mediana si abbassa ulteriormente fino a 92 giorni. Sembra quindi che per i soggetti più giovani la
condizione di “precarietà” nell’avviamento al lavoro temporaneo sia meno pronunciata rispetto ai soggetti
più anziani (in particolare quelli con più di 45 anni), per i quali si può supporre che sussista un effetto
segnale negativo connesso al fatto di essere alla ricerca di lavoro in età matura, segnale che contribuisce a
“confinarli” nelle posizioni lavorative di più corta durata.
ha diffuso stime sul processo di transizione da una forma contrattuale all’altra, utilizzando sia i dati Istat
raccolti con l’indagine sulle Forze di Lavoro che i dati Inps costruiti sulla base dell’Archivio Longitudinale
Attivi e Pensionati. I risultati tratti dalle due fonti sono discordanti, in quanto secondo i dati Istat,
considerando il periodo 2005-2006, posto uguale a 100 il numero di lavoratori a termine nel 2005, il 71,0%
risultava ancora occupato a termine nel 2006. Al contrario, secondo il dato Inps, la probabilità di permanenza
nello stato di lavoratore a termine dopo un anno è pari al 40%.
30 Fabrizio Alboni, Furio Camillo e Giorgio Tassinari, Il dualismo del mercato del lavoro e la transizione da lavoro
temporaneo a lavoro a tempo indeterminato in provincia di Bologna, contributo alla Commissione di indagine.
20
Il lavoro che cambia
Quanto tempo deve passare affinché, con una certa probabilità, un occupato a
tempo determinato “transiti” in una posizione lavorativa a tempo indeterminato?
Ecco le conclusioni del gruppo di ricerca bolognese:
Quasi i due terzi del collettivo rimangono quindi in modo “permanente” in posizioni di lavoro
temporaneo, poiché gli eventi di lavoro a tempo indeterminato che interessano questo insieme di lavoratori
hanno una durata irrisoria. Più in generale, dall'esame dei dati si mette in luce una forte “non linearità”
dei percorsi lavorativi, in cui l'alternarsi di periodi di lavoro con tipologie di contratto differenti è assai
frequente, ed in cui il passaggio da lavoro temporaneo a lavoro a tempo indeterminato non identifica
necessariamente il passaggio ad una situazione di lavoro stabile. Queste evidenze ci inducono a ritenere che
il lavoro temporaneo tenda a configurarsi in molti casi come condizione di tipo permanente, piuttosto che
come gradino iniziale di una vita professionale stabile .
Quanto tempo si rimane nello stato di lavoratore a termine?
Attorno ai 300 giorni ma ciò che rileva è che per quelli che avviati a termine, quasi il
64% del campione, la situazione che se ne ricava è di un’alternanza di precarietà e
disoccupazione.
Il risultato più significativo di tale studio è che: dalle nostre elaborazioni si mostra in modo
assai forte ed incisivo come il lavoro temporaneo possa costituire una “trappola”, analoga in qualche
misura alla trappola della povertà, da cui e' difficile uscire, in quanto la probabilità di continuare a
ricoprire posizioni lavorative a termine è molto elevata, per cui, paradossalmente, il lavoro temporaneo
diventa una “condizione permanente”.
D’altronde a conclusioni non dissimili giungeva il rapporto Ires sull’occupazione
femminile, che prendeva in considerazione i dati occupazionali del 2005 e commentava:
L’andamento della disoccupazione non è più legato, specialmente nelle regioni depresse, alle
variazioni dell’occupazione: occorre ripensare le chiavi di lettura del mercato del lavoro e gli stessi
indicatori usati per rappresentarlo. Il tasso di disoccupazione – da solo – non misura più lo stato di
salute del mondo del lavoro, va contestualizzato e integrato con altre informazioni. Il lavoro temporaneo è
in crescita costante da 15 anni e presenta oggi, nel suo insieme una numerosità complessiva stimata
nell’ordine di due volte il numero dei disoccupati. E’ un aggregato per sua natura instabile poiché le
persone che lo compongono cambiano continuamente, transitando per altre “stazioni” del mercato, la
disoccupazione e quell’area grigia delle NFL che a pieno titolo andrebbe rivalutata nell’ambito del
mercato.
Diverse sono, per quanto concerne il rischio di segregazione, le conclusioni di
Anastasia e dei suoi colleghi [2008], che hanno seguito delle “carriere occupazionali” dei
giovani lavoratori ‘esordienti’ tra il 1998 e il 2007; si tratta di un gruppo di 34.501 soggetti.
Essi hanno distinto i giovani lavoratori osservati in tre gruppi, “tenendo conto, oltre che della
tipologia del rapporto iniziale e della condizione finale, anche di una terza caratteristica, vale a dire del
conseguimento o meno, nel periodo osservato, di un’opportunità di stabilizzazione, intendendo per tale
un’assunzione a tempo indeterminato, a prescindere dalla durata effettiva del rapporto in tal modo
instaurato.
Analiticamente:
a)
il primo gruppo (“A”) è costituito da lavoratori (circa 3.000: 8,5% del totale) che non
hanno mai incrociato/beneficiato opportunità di stabilizzazione; la netta maggioranza di
costoro risulta non occupata nel 2007 mentre poco più di 800 sono quanti potrebbero
rappresentare – almeno a questo livello di analisi – dei casi di soggetti “stabilmente
intrappolati”;
b)
il secondo gruppo (“B”) è quello maggioritario (quasi 19.000 soggetti, 54,4%) ed è formato
da quanti hanno esordito con un rapporto a tempo determinato ma successivamente hanno
avuto un’occasione di stabilizzazione; in quasi un terzo dei casi la stabilizzazione è stata
21
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
conseguita a seguito di trasformazione del rapporto iniziale. Nel 2007 la maggior parte dei
lavoratori di questo gruppo - circa 13.000 - risultano occupati a tempo indeterminato; tra i
rimanenti, la maggioranza risulta non occupata (almeno come dipendenti di aziende private)
mentre più modesto è il contingente formato da quanti risultano occupati a tempo determinato
(meno di 2.000 persone);
c)
il terzo gruppo (“C”) è composto da quanti hanno esordito subito con un rapporto di lavoro
a tempo indeterminato (poco meno di 13.000 soggetti: 37%); non tutti peraltro sono rimasti
in tale condizione: la quota dei “decaduti” - vale a dire transitati da un tempo indeterminato
a un tempo determinato - risulta di poco inferiore al 10% mentre più consistente è
l’ammontare di quanti nel 2007 non appaiono più presenti in base dati (oltre 3.000
soggetti).” 31
Dalla loro analisi se ne ricava che:
a. il tasso di occupazione per l’insieme del gruppo osservato si riduce lentamente,
assestandosi alla fine poco sopra il 70%;
b. oltre il 90% dei soggetti osservati ha incrociato – in qualche momento un’opportunità di lavoro a tempo indeterminato: il 40% nell’anno di esordio, il resto
successivamente, ma per lo più entro i primi due - tre anni;
c. molti rapporti a tempo indeterminato si sono avviati ma si sono anche conclusi (quasi
sempre, almeno formalmente, per dimissioni del lavoratore), cosicché il tasso di
occupati effettivi a tempo indeterminato si aggira annualmente, a partire dal 2001,
tra il 60% e il 65%;
d. viceversa la quota di occupati a tempo determinato si riduce dal 60% del primo anno
a poco più del 10% nell’anno finale di osservazione32.
Come si può notare si tratta di un risultato significativamente diverso da quelli
precedentemente illustrati. Infatti le loro conclusioni sono:
“In definitiva, questi possono essere riepilogati come i risultati salienti ottenuti:
a. per il gruppo di giovani lavoratori osservato il problema non è stato (tanto) quello di incrociare
un’opportunità di lavoro a tempo indeterminato quanto quello di conservarla;
b. la probabilità di rimanere “intrappolati” in contratti ripetuti ed esclusivi a tempo determinato è
risultata alquanto ridotta: si può stimare aver riguardato il 2-3% degli esordienti;
c. la questione rilevante da indagare sembra spostarsi dal “qual è il rischio di rimaner intrappolati in
una condizione di lavoro a tempo determinato?” a “perché il tempo indeterminato non viene
conservato?”. Vale la pena ribadire che l’elevato turn-over dei lavoratori tra stati
(occupati/disoccupati/inattivi) e, all’interno della condizione di occupati, tra tipologie contrattuali
(tempo determinato/tempo indeterminato), implica che l’osservazione fatta con fotografie a distanza
anche pluriennale33 coglie sì le macrodimensioni quantitative e le connesse variazioni (l’equilibrio
tendenziale del sistema) ma non ci dice, appunto, quanto sia stabile la stratificazione di volta in
volta osservata o se, piuttosto, vi sia elevata mobilità tra gli “stati”. A questi scopi sono ben più utili
le indagini longitudinali, che si possono condurre – come abbiamo cercato di mostrare – anche a
partire dalle banche dati amministrative dei Centri per l’impiego”.
Anastasia B., Maurizio D. (ricercatori, Veneto Lavoro), Dopo la prima occupazione: note su dieci anni di “carriera”
(1998-2007) di una coorte di giovani, contributo alla Commissione, Aprile 2008.
32 Nel caso in cui un soggetto nel medesimo anno risulti interessato da diverse tipologie di rapporto di lavoro,
si considera, ai fini delle statistiche qui presentate, l’ultima.
33 Come d’uso ad esempio nelle indagini sugli sbocchi professionali dei laureati o diplomati, osservati
usualmente a distanza di tre anni dall’ottenimento della laurea o del diploma.
31
22
Il lavoro che cambia
3. Il lavoro ed i soggetti
3.1
Il lavoro femminile
Un ampio rapporto dell’Ires [Altieri, G., Ferrucci, G, e Dota, F., 2008] ha analizzato la
situazione del lavoro femminile in Italia in relazione al lavoro precario.
I risultati principali sono:
• Una donna occupata su cinque, inoltre, ha un lavoro temporaneo. Nella società italiana, ancora
dominata dagli uomini per numero di occupati e posizione nella professione, prende corpo
un’area - prima marginale - ad alta prevalenza femminile, quella del lavoro instabile e precario.
• Le tendenze registrate negli ultimi anni dimostrano, da un lato, l’aumento dell’occupazione
femminile a termine- in particolare nel 2006 è aumentato il numero delle dipendenti a termine
più di quanto sia cresciuto il numero di quelle a tempo indeterminato – e, dall’altro, la stabilità
– se non flessione – del tasso di attività femminile dopo anni di costante aumento.Le donne
italiane scelgono in maggioranza di differire il tempo della maternità partecipando alla
formazione del reddito familiare salvo poi, nel pieno della vita attiva, decidere loro malgrado di
ritirarsi dal lavoro o continuarlo in un regime di basso profilo.
• L’aumento del tempo parziale, prerogativa tipicamente femminile, può essere interpretato come
una soluzione possibile alle necessità di conciliazione in mancanza di servizi efficienti ma,
d’altra parte, la quota prevalente di part-time subìto denuncia lo scarto tra volontà e possibilità
concreta di lavorare.
• In sostanza, non è il lavoro della donna che deprime in Italia la propensione alla maternità ma
piuttosto la mancanza di lavoro, ovvero di occupazioni stabili e ben remunerate.
• Aumenta il rischio che, in mancanza di interventi organici, la diffusione di contratti flessibili si
traduca in precarietà, soprattutto per le donne. Ciò dipende principalmente dal fatto che
l’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro è avvenuto in Italia in una fase di forti
cambiamenti economici e normativi: molto spesso le donne, per avere orari di lavoro brevi o
flessibili, hanno accettato (accettano) occupazioni con contratti atipici, poco o per niente tutelate,
costrette a questa scelta dalla mancanza di alternative in un contesto in cui l’impiego standard
non prevede ancora la possibilità di gestire in forma “conciliativa” l’impegno professionale. La
diffusione di queste forme contrattuali è stata inizialmente giustificata e interpretata, tra la fine
degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, come il risultato di una politica di conciliazione
che avrebbe dovuto favorire l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Oggi, viceversa, è legittimo chiedersi se il ricorso indiscriminato a forme contrattuali atipiche non
rappresenti in realtà un fattore di svantaggio per le donne. Infatti, se da un lato la
flessibilizzazione del mercato del lavoro offre alle donne nuove opportunità di impiego, all’altro
essa determina situazioni di progressivo deterioramento dal punto di vista occupazionale,
economico e sociale [Supiot, 1999].
• Alla luce di quanto sopra esposto è auspicabile la definizione di nuove forme contrattuali che
prevedano orari brevi e/o flessibili in occupazioni stabili, che non avviliscano le donne
“ingabbiandole” in attività part-time dalle scarse prospettive professionali, che permettano alle
lavoratrici di crescere e affermarsi senza discriminazioni di genere. Se le potenzialità di crescita
– qualitativa e quantitativa - dell’occupazione femminile sono affidate a politiche integrate e
sistemiche del lavoro, di welfare e della famiglia, non c’è dubbio che nell’attuale contesto di
mercato - e in assenza di quelle politiche – non sia possibile prospettare ne’ un aumento
significativo del tasso di attività delle donne, in particolare di quelle meridionali poco istruite, ne’
una ripresa decisa del tasso di natalità.
23
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
•
3.2
L’entrata e l’uscita dal mondo del lavoro, lungi dal corrispondere alle diverse esigenze che
intervengono nel corso della vita, diventano di fatto funzionali alla generazione di circuiti che
costringono nella precarietà e nella insicurezza. L’instabilità convince molte donne a ritardare
l’esperienza della maternità, attivando un circolo vizioso: per crescere un figlio è spesso
necessario, e sempre legittimo, il lavoro della madre, lavoro che – in quanto instabile - è messo a
rischio proprio dal sopraggiungere della maternità [Salmieri, 2006]. Si comincia tardi a fare il
primo figlio e si finisce per farne al massimo uno. 34
La soggettivizzazione del lavoro
Una serie di ricerche in Italia ed in Europa ha messo in evidenza un nuovo fenomeno
rientrante tra quelli che nella sociologia tedesca vengono definiti come i paradossi della
soggettivizzazione del lavoro35 . I lavoratori soggetti di questi paradossi sono quelli
analizzati in tante ricerche italiane sul lavoro autonomo, cioè quelli che lavorano troppo,
dieci, dodici ore ed anche di più, quelli che si portano il lavoro a casa e in vacanza, in
sostanza coloro che lavorano senza limiti. Si parla di soggettivizzazione perché è evidente
che la ragione di fondo di questo lavorare senza limiti sta nel fatto che essi si identificano
con il loro lavoro ed il loro desiderio profondo è quello di realizzarsi nel lavoro. Tutto ciò
non è nuovo, era ed è la condizione del lavoro intellettuale, dei manager, di chi ha un
lavoro indipendente e/o artistico, ecc. Ciò che è nuovo è il diffondersi, particolarmente
tra i giovani, di questi comportamenti in ambienti del tutto differenti, tra questi in primo
luogo coloro che lavorano nel campo della Tci. Dove stanno i paradossi? Nel fatto che
lavorando in questo modo essi sono destinati a “scoppiare” (burn out) prima dei 45 anni e
quindi a minare ciò che essi considerano così prezioso; inoltre spesso questo
assorbimento totale nel lavoro indebolisce o rompe i legami sociali sia sul lavoro che fuori
dal lavoro, infine spesso la condizione lavorativa complessiva di questi lavoratori è quella
di uno scambio improprio tra una relativa autonomia operativa e condizioni di lavoro
precarie sia nel senso della stabilità della relazione di lavoro che delle condizioni
lavorative. Come dimostrano ricerche italiane nel settore delle Tci, dell’industria culturale
e dei servizi finanziari la situazione soggettiva sta cambiando anche in questi settori e si
sta verificando la nascita di forme di solidarietà tese a fronteggiare la loro situazione 36 .
Altieri G., Ferrucci G., e Dota F. , 3° rapporto osservatorio permanente sul lavoro atipico in Italia, Roma, Ires.
Zoll, R., The Paradoxes of Subjectivization of work, in Garibaldo, F., Telljohann V. (eds.), Globalisation,
Company Strategies and Quality of Working life in Europe, Peter Lang, 2004.
36 Bolognani M., Fuggetta A., Garibaldo F., Le Fabbriche invisibili. Struttura, sapere e conflitto nella produzione del
software in Italia., Meta edizioni, 2002; e Bolognani M., Società di software e servizi di informatica in IPL,
Globalizzazione, Strategie di impresa e qualità della vita lavorativa, Angeli, 2003; Mediasfera, L’industria culturale, in
IPL, op. cit., Angeli, 2003; Ponzellini A. M., Franco M. T, Il settore finanziario, in IPL, op. cit., Angeli, 2003.
34
35
24
Il lavoro che cambia
3.3
Il lavoro autonomo
Il dibattito sviluppatosi a suo tempo sulle ricerche di Bologna[1997]37 relativamente al
lavoro autonomo, quello cosiddetto di seconda generazione, ha chiarito le dimensioni del
fenomeno, ridimensionandone il peso ed il ruolo38 .
Il dibattito ha avuto ed ha una sua pregnanza perché, come nota Roccella[ 2008]:
Quando si parla di ‹‹ lavoro autonomo di seconda generazione ››, in effetti, sembra supporsi che il
fenomeno vada inquadrato nell’ambito di una più generale tendenza alla crescita del lavoro autonomo tout
court. C’è sempre qualche ambiguità nelle affermazioni in proposito, cifre precise non si riesce ad esibirne,
ma, infine, non si rinuncia a sostenere con enfasi che ‹‹ non solo il lavoro autonomo non diminuisce, ma
cresce impetuosamente, in particolare nelle “nuove professioni”, quelle che spesso vengono definite le
professioni dei “lavoratori della conoscenza” ›› (Bologna, 2006, 560). Gli stessi giuristi più sensibili al
tema, del resto, giustificavano, qualche anno fa, la loro attenzione in proposito anche in base al rilievo che
‹‹ il trend di crescita del lavoro autonomo interessa molti sistemi economici avanzati ›› (Perulli, 2003,
224); e, ancora oggi, continuano a credere che si stia registrando ‹‹ in Italia e in tutta Europa un
significativo incremento del lavoro autonomo in generale ›› [Carinci M.T., 2007, 926].
Vi è cioè un’enfasi sui lavoratori della conoscenza che non è giustificata dalle ricerche
empiriche, come si documenta nella seconda parte di questo rapporto, e che serve a
giustificare, in alcuni, una trasformazione radicale del diritto del lavoro perché vi sarebbe
una fuga dal lavoro subordinato, ovvero un fenomeno che, come documentano
Accornero ed Anastasia, ‹‹ semplicemente (..) non sussiste ›› .
Oltre alle già citate argomentazione di Accornero, Anastasia, Carriere e Altieri, cui si
aggiungono le considerazioni di Gallino, che introduce giustamente il tema della
globalizzazione delle forze di lavoro, cioè argomenti di natura prevalentemente
sociologica, è interessante l’analisi che ne fa un giurista del lavoro, come Roccella, in un
suo contributo alla Commissione. Egli, pur ridimensionando il fenomeno, non ne nega la
rilevanza, dato che le collaborazioni “comunque coinvolgono (non milioni, ma) alcune
centinaia di migliaia di lavoratori, rispetto ai quali è doveroso domandarsi in che senso
possa parlarsi di lavoro indipendente.” Siamo quindi all’opposto della retorica sulla fuga
dal lavoro dipendente; si tratta di estendere e non liquidare le tutele del lavoro
dipendente.
Bologna S., Fumagalli A. (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del post-fordismo in Italia,
Feltrinelli, 1997.
38 Accornero A., San Precario lavora per noi, Milano, Rizzoli, 2006; Accornero A. e Anastasia B., Realtà e
prospettive del lavoro autonomo: un po’ di attenzione, please, in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni
industriali”, XXVIII, 4, pp. 743-755, 2006; Altieri G. e Carrieri M. Il popolo del 10%, Roma, Donzelli, 2000;
Reyneri E. Illusioni e realtà del mercato del lavoro italiano, in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni
industriali”, XXVIII, 3, pp. 569-574, 2006.
37
25
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Parte II: L’evidenza empirica relativamente a nuove forme di impresa e mutamenti
nell’organizzazione del lavoro
Questa parte mette in evidenza, anche con esempi regionali e/o nazionali, quanto
detto nella prima parte.
4.
Il quadro concettuale
L’approccio da me scelto è quello di legare gli aspetti classificatori dei cambiamenti
del lavoro, reperibili nella letteratura, a cambiamenti nella divisione del lavoro. Va
osservato che vi è stata una tendenza prevalente a formalizzare i cambiamenti in corso
come un processo se non lineare quanto meno compatto e descrivibile ni una linea
evolutiva dal vecchio al nuovo. Queste interpretazioni, oltre che criticabili teoricamente,
non sono consistenti con i risultati delle ricerche empiriche che mostrano una grande
varietà di situazioni. Il saggio, utilizzando materiale proveniente da ricerche empiriche
condotte negli ultimi 15-20 anni39 dall’autore assieme ad altri ricercatori, metterà in
relazione dei casi concreti con le ipotesi teoriche più accreditate mostrando le
contraddizioni di fatto e le vere e proprie aporie di tali ipotesi.
La scelta di utilizzare lo schema concettuale classico della divisone del lavoro mi
sembra particolarmente fecondo perché consente di connettere, se non in una relazione
di causa ed effetto diretto, in un rapporto di imputazione causale una costellazione di fatti
relativi al cambiamento nella forma e nel funzionamento delle imprese con le
trasformazioni relative al lavoro.
Tale scelta ovviamente rappresenta un’opzione teorica in particolar modo rispetto ai
teorici dell’autonomia del mercato del lavoro. L’idea che il mercato del lavoro sia come
tutti gli altri mercati e che le dinamiche occupazionali dipendano dalla domanda ed offerta
di forza-lavoro sul mercato del lavoro, idea cara alla scuola neo-liberista e base teorica dei
job studies dell’Ocse, è ormai largamente screditata [Ciocca, 1997:XI, 95 e 271; Pini, 2004:
85] anche per la sua incapacità di spiegare quanto accade alle dinamiche occupazionali sia
in termini quantitativi che qualitativi. Analogamente i fatti hanno mostrato la
infondatezza empirica dell’idea che “L’incontro, libero, delle due funzioni aggregate di domanda e
di offerta dovrebbero determinare il prezzo di equilibrio (nel nostro caso il salario unitario), che porta ad
allocare in modo ottimo, e senza eccessi o deficienze, le disponibilità e le richieste, e quindi a portare,
sempre, alla piena occupazione” 40 . Se infatti le dinamiche quantitative e qualitative
dell’occupazione non possono essere spiegate su se stesse, anche se ovviamente il
mercato del lavoro va studiato ed analizzato anche nelle sue dinamiche interne, ma
richiedono altri fattori esplicativi, si tratta di individuarli e metterli in campo. Il primo e
più ovvio di essi, è la dinamica delle imprese, come esse cioè si sono ristrutturate e
riorganizzate per fronteggiare la mutata scena internazionale, le mutate ragioni di
competitività.
Si tratta dei lavori svolti prima nell’ambito dell’attività dell’Ires nazionale poi della Fondazione “Istituto Per
il Lavoro” (IPL).
40 Pasinetti L. (1997), Stadi di Sviluppo e Disoccupazione: il Ruolo delle Istituzioni, in Ciocca P. (a cura di),
Disoccupazione di Fine Secolo:Studi e proposte per l’Europa , Bollati Boringieri, Torino, p. 95.
39
26
Il lavoro che cambia
Quali sono dunque i quadri concettuali di cui abbiamo bisogno per leggere le
trasformazioni avvenute, nella chiave qui scelta? Le necessità derivanti dalle ricerche sul
campo forniscono una chiave più utile che un astratto esercizio di coerenza teorica
rispetto a modelli chiusi ed autosufficienti. Ricerche empiriche a largo raggio hanno
messo l’accento sui seguenti macrotemi:
1. le strategie di business ed organizzazione produttiva;
2. rapporti con la committenza ed organizzazione della catena di fornitura;
3. le strategie di ricerca e sviluppo nelle aziende di produzione;
4. la strategie di utilizzo del lavoro, le modalità di cooperazione lavorativa, il sistema
di relazioni industriali.
I macrotemi elencati possono essere ricondotti a classificazioni più relative
all’articolazione strutturale del processo produttivo che può essere ricondotta a due
momenti: a) la divisione del lavoro e b) la relazione di impiego cioè la natura del contratto
di lavoro.
La divisione del lavoro, a sua volta, si può articolare in:
• organizzazione della produzione, cioè come sono raggruppate e collegate le
funzioni operative; come sono raggruppate e collegate le funzioni di controllo;
• come si rapportano tra loro le parti componenti il processo produttivo;
• sviluppo tecnico, cioè la divisione delle funzioni tra macchine e uomini;
• organizzazione del lavoro, cioè come i singoli compiti lavorativi si integrano a
comporre una mansione (cooperazione, autonomia e complessità).
La relazione di impiego si articola a sua volta in:
(a) Quale mix tra elementi economici e non economici compongono lo scambio
contrattuale?
(b) Quale mix prevale tra conflitto e cooperazione e quale tra coercizione e
consenso nell'attività lavorativa?
5.
Concentrazione senza centralizzazione
Il primo elemento che rende conto di quanto è accaduto è il processo di
concentrazione senza centralizzazione, cioè di forme di concentrazione che si articolano
in formazioni produttive decentrate, che ha investito il mondo capitalistico negli ultimi
venti anni. In Europa il fenomeno si è definitivamente avviato ad una conclusione con il
passaggio a 27.
Il passaggio dall’Europa a 15 all’Europa a 27 rappresenta, secondo i nuovi criteri di
“saggezza politica”, la scelta del tutto razionale di un mercato interno di dimensioni
sufficienti ad affrontare la competizione internazionale. Un corollario di tale scelta è la
costruzione di un differenziale dei regimi di regolazione del lavoro interno all’Unione
europea; una soluzione analoga a quella degli Stati Uniti. Ciò infatti permette (come poi
cercherò di illustrare) di introdurre dentro all’Unione europea un meccanismo di gestione
dei processi di riorganizzazione industriale che consente non solo, brutalmente, di
dividere quello che mantengo qua e quello che sposto ad Est in termini di investimenti, in
ragione dei differenziali salariali, ma di arrivare a una regolazione fine del sistema che
consenta di trasferire non soltanto fabbriche intere ma specifiche funzioni aziendali. In
questa prospettiva ogni funzione aziendale ha un suo principio di allocazione ottimale che
27
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
può essere distribuito dentro lo spazio europeo che è nato con il passaggio dall’Europa a
15 all’Europa a 27.
Siamo quindi di fronte, in un arco di tempo non molto lungo, a un gigantesco
esperimento sociale proprio in corpore vili: la costruzione di una situazione nella quale
vengono messe in competizione diverse costruzioni storiche nazionali, diversi sistemi di
regolazione, delle società con diversi livelli di sviluppo e delle dinamiche differenti mentre
si determina un massiccio processo di concentrazione industriale.
Un processo di concentrazione che non avviene con le modalità classiche della
concentrazione, cioè la costruzione di grandi imprese integrate, ma attraverso la leva della
finanza e la possibilità offerta dalle tecnologie informatiche; si tratta della costruzione di
reti produttive delle quali è difficile oggi definire la natura. Esse infatti non sono una
catena del valore classica né un’impresa integrata, sono delle forme nuove sulle quali si è
aperto un dibattito tra quelli che si occupano di queste cose. Vediamo più da vicino
questo processo di concentrazione.
Due esempi metalmeccanici chiariscono il punto.
Il primo è quello degli elettrodomestici; in Europa ci sono circa 200.000 dipendenti
quindi non un piccolo settore, di questi 200.000 dipendenti molti sono concentrati in
Italia e in Germania, concentrazione vuol dire che i quattro principali produttori del
settore da soli coprono il 53% del mercato europeo. Se ai primi quattro ne aggiungo altri
tre, quindi giungo a 7, in 7 coprono il 71% del mercato europeo.
Come è avvenuta questa concentrazione? Comprando le altre aziende. Lo spazio
economico europeo costruito all’inizio ha quindi funzionato producendo un processo di
consolidamento in cui un piccolo gruppo di aziende controlla quasi tutto il mercato
europeo. Che effetto ha prodotto questo processo di concentrazione in questo settore
specifico? Ha prodotto nel giro di cinque anni il 23% in meno di occupazione nell’Europa
a 15 mentre in quella a 27 la riduzione è stata molto più bassa perché nei paesi nuovi
entranti sono stati spostati il 30% dei volumi produttivi.
Il consolidamento di questo settore è avvenuto in modo molto semplice, il 30% dei
volumi produttivi sono stati spostati a est ma non vi è alcun nesso tra tali volumi
produttivi a est e il consumo di quelli dell’est che è molto più basso. Così facendo si è
creata occupazione a est ma il bilancio complessivo rimane negativo perché al
consolidamento, avvenuto attraverso la concentrazione, si è aggiunto un processo di
razionalizzazione produttiva che ha prodotto, tra le altre cose, il calo occupazionale.
Un secondo esempio è quello del settore automotive 41 , cioè non solo l’automobile;
nell’automotive lavorano due milioni di occupati diretti in Europa di cui grosso modo un
po’ più del 50% nei produttori finali e gli altri in quelle aziende che un tempo sarebbero
state classificate come fornitrici, qualificazione oggi del tutto inadeguata a rappresentare
questo 50% che raggruppa aziende, i cosiddetti fornitori di primo livello cioè di moduli42 ,
che hanno raggiunto un livello di vero e proprio controllo, anche con una capacità
autonoma di progettazione, di veri e propri sistemi per cui chiamarli fornitori non rende
conto della forza di questi aggregati produttivi.
Se si considera l’effetto indiretto dell’automotive, non solo nel settore industriale ma in
tutti i servizi connessi si stima che in Europa sono interessati dai destini di questa
Is China a Risk or an opportunity for Europe: An assessment of the Automobile, Steel and Shipbuilding Sectors,
Francesco Garibaldo, Philippe Morvannou, Jochen Tholen (eds.), Frankfurt am Main, Peter Lang, 2008.
42 Vedi il contributo di Andrea Bardi alla Commissione.
41
28
Il lavoro che cambia
industria 12 milioni di lavoratori, cioè siamo di fronte al 7% di occupati in Europa che in
qualche modo è coinvolto da decisioni che concernono il settore.
Come è avvenuto qui il processo di concentrazione? Se ci limitiamo all’auto, i primi
cinque produttori europei coprono il 65% del mercato, se scendiamo a tre, il 41% del
mercato, se consideriamo la produzione mondiale bisogna valutare l’effetto Cina.
Si stimava che nel 2015 vi sarebbero stati in tutto 10 produttori globali ma la Cina sta
entrando come produttore finale nel mercato mondiale il che sposta significativamente le
previsioni. In ogni modo la concentrazione nell’auto è avvenuta in modo diverso, spesso
attraverso fusioni, anche perché il livello di concentrazione era già piuttosto elevato.
Vi sono stati fatti forti razionalizzazioni con effetti occupazionali piuttosto
consistenti; anche qui poi siamo di fronte a uno spostamento a est di capacità produttiva
molto forte, con uno scarto tra capacità produttiva e consumo locale stimato nel 2007
pari ad un milione di automobili.
Ho già detto che l’odierno processo di concentrazione non si traduce nella creazione
di grandi aggregati, cioè in una centralizzazione - verticalizzazione, ma attraverso nuove
modalità e lo spostamento ad est è stato in questi due settori una modalità chiave, ma vi
sono anche investimenti (nel caso dell’auto) rilevantissimi in Cina.
Il caso cinese dell’auto, almeno per il prodotto finito, è diverso da quanto accade in
altri settori perché alla de-localizzazione non corrisponde necessariamente una reimportazione, ad eccezione della componentistica auto dove sta già accadendo. In uno
studio recente realizzato per la Fem, disponibile in inglese, il nostro Istituto – Ipl assieme ad altri due gruppi di ricerca ha analizzato i settori dell’auto, dell’acciaio e della
cantieristica navale; da questo studio emerge la rilevanza dell’effetto Cina su settori chiave
dell’industria europea.
I due casi illustrati di nuove modalità di organizzazione dell’industria producono, tra
l’altro, il trasferimento di una serie di costi e di rischi di investimento dalle imprese finali,
in gergo le imprese Oem (Original equipment manufacturing), ad altre imprese; ovviamente
questo influenza la struttura del mercato del lavoro dato che se tutto il rischio viene
spostato in una parte differente della catena produttiva, quella parte della catena sarà
caratterizzata da una condizione lavorativa più precaria e con minori benefici. Non voglio
insistere su questo aspetto, pur rilevante, perché vorrei mettere in evidenza che l’insieme
dei processi prima tratteggiati esaspera la competizione tra imprese, sia a livello globale
che a scala europea, e, al loro interno, tra gli stabilimenti. Infatti le aziende europee poiché
devono ridurre determinati costi decidono in modo coordinato di aprire una vera e
propria asta tra i diversi stabilimenti; è un’asta a rovescio, invece di vincere chi alza il
prezzo, vince chi l’abbassa. Tale asta tra gli stabilimenti è lo strumento attraverso il quale
si determina una pressione sui sindacati dei singoli paesi, dei singoli stabilimenti perché
passino a delle contrattazioni in cessione invece che difensive o acquisitive.
Si tratta di un sistema di regolazione che viene giocato e gestito in modo preciso per
consentire di risolvere determinati problemi che altrimenti richiederebbero
disinvestimenti che non sempre sono ritenuti positivi perché chiudere uno stabilimento
per costruirne uno ex novo comporta oltre che costi di vario genere anche dei rischi.
Presenterò ora un caso molto interessante perché fa vedere, illustrato dal
management aziendale, come una di queste aziende europee fa i conti con la
competizione globale.
In un recente convengo organizzato dall’Ipl insieme a Fim, Fiom e Uilm la Whirlpool
ha presentato lo schema seguente che evidentemente ritiene una un modo ragionevole di
affrontare la questione. La Whirlpool è una casa produttrice di elettrodomestici ed ha un
29
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
concorrente turco Vestel. Il confronto competitivo è sfavorevole per la Whirlpool,
stabilimento di Napoli anche nell’ipotesi teorica di costruirlo uguale nello stabilimento di
Napoli:
Figura 2
L’analisi del costo industriale, oltre l’interesse in sé, mostra l’importanza relativa delle
singole voci di costo:
Figura 3
Il che consente di individuare con esattezza il divario in euro e definire un divario
sostenibile, pari a 9 euro:
30
Il lavoro che cambia
Figura 4
Il che mette in evidenza l’importanza attribuita all’efficienza della prestazione:
Figura 5
Il che spinge a valutare i costi, anche se non solo quelli salariali:
31
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Figura 6
E i potenziali effetti che deriverebbero dall’applicazione in Italia dell’accordo
nazionale tedesco del 2006 per il settore pubblico e di alcuni accordi aziendali nel settore
privato:
Figura 7
L’esempio è illuminante sulla logica seguita dai grandi gruppi, tanto più in un caso in
cui si è deciso di non ricorrere allo spostamento dello stabilimento ad est ma di
razionalizzare quello esistente.
32
Il lavoro che cambia
6.
Deverticalizzazione e esternalizzazione
Passando ad altri lavori di ricerca sul campo in Italia, uno dei primi risultati del lavoro
di indagine riguarda il concetto stesso di divisione del lavoro.
Sin da Smith vi è un continuo slittamento di senso tra divisione del lavoro nella
società, l'esistenza cioè di attività indipendenti e connesse che consentono di organizzare
complesse attività economiche, e divisione tecnica del lavoro, cioè quella all'interno di una
data organizzazione produttiva. Per Smith la distinzione era fondamentalmente una
distinzione dei punti di vista dell'osservatore, da Marx in qua essa acquista anche un
significato analitico. Tale distinzione si complica enormemente con le nuove forme di
articolazione della struttura industriale (vedi il contributo di Andrea Bardi).
Partiamo da questo ultimo punto. Sin dal primo rapporto Ipl sull’Emilia Romagna, e
dai primi working paper, per poi proseguire con studi settoriali e interventi sollecitati dalle
parti sociali e/o da attori pubblici, l’Ipl ha messo in evidenza l’importanza pratica, ed
anche teorica, delle reti di impresa ed in specifico delle esternalizzazione di attività
(outsourcing). In sintesi noi riteniamo, in sintonia con un ampia letteratura sull’argomento,
che il processo di de-verticalizzazione della attività economiche, industriali e non, sia un
processo per un verso inarrestabile, perché alimentato dalla stessa logica della cosiddetta
globalizzazione, per altro verso che tra le vecchie logiche del decentramento produttivo e
della sub-fornitura classica e queste nuovi schemi di esternalizzazione vi sia una
discontinuità materiale che va colta in tutta la sua pienezza.
Ragionando per idealtipi e sfruttando sia la letteratura internazionale che le nostre
stesse ricerche e riflessioni proviamo a riassumere che cosa sta accadendo.
In primo luogo si può tracciare una distinzione tra le logiche di multinazionalizzazione o trans-nazionalizzazione del passato e il cosiddetto processo di
globalizzazione [Petrella, 1989, 191]. La differenza non sta tanto negli aspetti quantitativi,
dato che come è stato argomentato, il commercio internazionale ha raggiunto dimensioni
ragguardevoli anche in altri periodi storici, ad esempio tra le due guerre mondiali, ma in
aspetti qualitativi che troviamo sia a questo livello macroeconomico che, come vedremo,
anche nella analisi meso e micro-economiche. La novità sta nel fatto che “I mutamenti
radicali nella logica materiale della produzione moderna - la comparsa di nuove, importanti tecnologie,
l'ampia diffusione di capacità tecnologiche avanzate e le convulsioni drammatiche dei tradizionali modelli
di concorrenza internazionale, la complessità e il ritmo del mutamento tecnologico, la convergenza
tecnologica, i massicci aumenti dei costi dello sviluppo, l'onnipresente incertezza organizzativa, tecnologica
e del mercato - hanno reso indispensabile una rivisitazione teorica e pratica del processo di innovazione
nelle società industriali avanzate” [Gordon, 1995].
Le conseguenze di questa nuova logica materiale sono molteplici e ben note; ciò che
noi intendiamo sottolineare è quanto segue:
1. vi è l'esigenza crescente di rapporti collaborativi tra produttori e clienti dal punto
di vista del processo di innovazione del prodotto, dato che gli aspetti della
differenziazione e della specificità del prodotto sono integrati sin dall'inizio nel
processo di innovazione;
2. vi è inoltre l'esigenza crescente di poter contare su alcuni fornitori che siano in
grado di fungere da fonti indipendenti di creatività in un processo di creazione
tecnologica congiunta tra produttori e fornitori; ciò dipende dalle difficoltà
incontrate dai produttori nel gestire direttamente un ventaglio così ampio di
tecnologie interdipendenti.
33
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Per non dare una rappresentazione irenica del processo non può sfuggire il fatto che
tale processo avviene in una determinata configurazione dei rapporti di potere tra le
imprese e in una situazione di sviluppo di una feroce competizione internazionale nella
quale il problema dei costi è in ogni caso un parametro, sia che si scelga la via alta che
quella bassa 43 alla competitività. La differenza sta nel fatto che nell’una i costi devono
rappresentare uno dei parametri, nell’altra il solo parametro. In tutti i casi vi è una
pressione costante, molto forte nell’industria manifatturiera, ma egualmente presente in
tutti gli altri settori economici, sulla riduzione programmata e, apparentemente senza fine,
dei costi attraverso vere e proprie forme di price cap. Collaborazione quindi non sta ad
indicare nulla se non che un fatto denotativo che è bene riassumere perché non sfugga il
punto che, a nostro giudizio è un elemento chiave.
Il fatto nuovo, sia a livello macro che ai livelli meso e micro, consiste nel fatto che
l’outsourcing non è il puro acquisto di una capacità, produttiva e/o di erogazione di servizi,
esterna per soddisfare, durante punte di attività economica o malfunzionamento della
propria capacità produttiva e/o di erogazione di servizi, un insieme di attività concrete
che comunque l’azienda acquirente fa e/o sa fare. Al contrario si acquista da altri un
prodotto e/o un servizio, essenziale per terminare il proprio processo produttivo e/o di
erogazione di servizi, di cui non si dispone più né come capacità né, in molti casi, come
conoscenza. Di qui la collaborazione al fine di integrare processi produttivi, separati e
formalmente indipendenti, a comporre un unico processo produttivo. Non si tratta
neppure del banale assemblaggio di cose nate autonomamente e connesse funzionalmente
ma di prodotti e/o servizi che si devono integrare in modo più “intimo”, cioè sin da fasi
precedenti quella finale sino al caso estremo della co-progettazione e/o co -ideazione.
[Jurgens, 2000]44 .
In una ricerca condotta dall’Ipl insieme a vari istituti di ricerca italiani nel corso del
2002 sono stati analizzati i settori: auto, edile, software ed informatica, industria culturale,
industria radiofonica, public utilities e finanziario 45 .
Nei rapporti di ricerca questa tendenza trova conferma in quasi tutti i settori ma con
proporzioni e caratteristiche diverse.
Per quanto riguarda il concetto di via alta e via bassa si veda: Brödner P., Garibaldo F. , Oehlke P.,
Pekruhl U., Work, organisation and employment. The crucial role of innovation strategies, Institut Arbeit und Technik.
1999.
44 Jurgens, U. (ed.), New Product Development and Production Networks. Global Industrial Experience, Springer,
Berlin, 2000.
45 Globalizzazione, strategie di impresa e qualità della vita lavorativa. Profili di alcuni settori italiani, in IPL, Terzo
rapporto annuale, Angeli, Milano, 2003.
43
34
Il lavoro che cambia
Figura 8 - Edilizia
Questo è il ciclo dell’edilizia:
“il modello che va assumendo sempre più interesse è quello del general contractor, che non consiste nello
svolgere semplicemente una funzione di intermediazione nella catena delle forniture, ma si qualifica per
capacità di progettare, acquisire, organizzare e coordinare apporti diversi di imprese diverse nella
realizzazione di un’opera.
La piramide, al cui vertice si posiziona l’azienda che istituisce il ruolo di agente principale, può assumere
le configurazioni più disparate ma, secondo quanto la letteratura suggerisce, le aree di lavoro più
importanti sono tre: la struttura, gli impianti e le finiture.
A parte, quindi, le forniture dei componenti di base (cemento, profilati metallici, laterizi, etc.) tutte le
lavorazioni si svolgono per fasi in cui intervengono imprese di diversa dimensione ed operatività sui mercati
secondo la natura dell’opera e la sua collocazione geografica.
In questo processo, il risultato finale acquista caratteristiche sempre più personalizzate e contestualizzate
quanto più qualificato è l’intervento delle imprese coinvolte”46 .
Nell’editoria la filiera è estremamente complessa:
46
IPL, op. cit.; Ceccherelli, P., Il settore edile, pp. 108 – 110.
35
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Figura 9 – Filiera editoriale-tipo
Definizione
piano
editoriale
Gestione resi
editore
Negoziazione
diritti
Traduzione
Macero
Stesura
manoscritto
Editing
Raccolta
informazioni
Revisione
Raccolta
illustrazioni
Impaginazione
Spedizione
Progettazione
veste grafica
Correzione
bozze
Imballaggio
Progettazione
copertina
Composizione
per la stampa
Legatura
Gestione resi
distributore
Immagazzinaggio
distribuzione naz./reg.
Gestione resi
grossista
Distribuzione
grossisti
Gestione resi
dettagliante
Distribuzione
aeroporti
Distribuzione
cartolerie
Distribuzione
librerie
Distribuzione
librerie online
Promozione
Consumo libri
Ricerca testi
e autori
Distribuzione
edicole
Distribuzione
GDO
Pubblicità/
Ufficio stampa
Tipografia
Acquisto
carta
Stampa della
copertina
Stampa del
libro
Sito Internet
Magazzino
editore
Gestione
forza vendita
Distribuzione per
corrispondenza
Distribuzione
diretta
Figura 1 - Filiera editoriale-tipo
Dentro questa filiera ogni editore internalizza o esternalizza secondo modalità
differenti in relazione al suo prodotto ed alla sua strategia di business. Una
esemplificazione può essere utile: “L’ideazione e lo sviluppo del progetto editoriale è per l’Editore
A il processo cruciale nella propria catena di valore, cioè viene individuato – nell’intervista e nel
questionario – come il processo nel quale si crea più valore aggiunto. Viene indicato come quel processo nel
quale si definisce maggiormente la specificità della società e dei propri marchi e nel quale, di conseguenza,
si devono concentrare i propri investimenti. Concretamente ciò significa che tra i dipendenti della casa
editrice vi sono alcuni che rivestono esplicitamente il ruolo di progettista. Sono loro che devono analizzare
il catalogo della casa editrice, tenere rapporti con gli insegnanti - che sono l’interlocutore primario di una
casa editrice di scolastica - individuare eventuali lacune nell’offerta e segnalare quali sono i titoli che
necessitano di un aggiornamento o che dovrebbero essere prodotti ad integrazione dell’offerta esistente.(..)
L’Editore A mette dunque l’accento su un aspetto della produzione editoriale che richiede personale
altamente qualificato, motivato e consapevole della politica aziendale e culturale della società. Ciò significa
che l’editore non ha nessun interesse ad affidare questo processo parzialmente o interamente a società
esterne, non vuole – come il suo rappresentante chiarisce anche nell’intervista – operare per questa fase
della propria produzione nessun outsourcing, né vuole attivare per questa fase altre strategie tese a ridurne
il costo. Non è affatto ovvio per tutte le case editrici che questi compiti siano svolti completamente
all’interno. Vi sono editori che si affidano molto ai propri autori per lo sviluppo di un progetto culturale e
vi sono anche editori che affidano interi progetti – sin dall’ideazione e dalla definizione delle specifiche
tecniche e culturali – a società terze. Per l’Editore A, la fase di ideazione è vista invece come il settore nel
quale occorre maggiormente investire. Investire su questo aspetto significa soprattutto investire sulla
formazione e sul coinvolgimento dei propri dipendenti. L’Editore A vorrebbe che in futuro un maggior
numero dei propri dipendenti potesse concentrarsi sulla fase di ideazione, mentre secondo il parere del
36
Il lavoro che cambia
dirigente intervistato buona parte della seconda fase, cioè della lavorazione del testo, potrebbe essere svolta
da società terze e da collaboratori esterni”47 .
Nelle aziende di informatica vi sono tipicamente dei consulenti esterni che
raggiungono di norma il 20% della forza lavoro ma nelle aziende esaminate una fa
eccezione: “il lavoro è tutto internalizzato anche a protezione dei prodotti, ma soprattutto per la
specificità delle conoscenze, difficilmente reperibili sul mercato”48 . Quella che fa eccezione ha un
margine operativo eccezionale ed è una delle due con maggiore successo sul mercato.
Essa è un azienda che viene classificata come “fabbrica del software tecnica” e nel
campione studiato ve ne sono altre due che invece hanno il 25% e il 22% di subappalti e
con performance complessive tra di loro molto differenti.
Ancora differente è il caso dei servizi pubblici a rete dove a differenza di quanto
sostiene la letteratura che distingue con nettezza le funzioni core e non core attribuendo alle
aziende la tendenza a esternalizzare quelle non core: “Negli studi di caso effettuati, invece, si
assiste a fenomeni un po’ diversi (o, se si preferisce, che hanno assunto una connotazione peculiare) che
meritano di essere approfonditi. Innanzitutto qualche premessa: negli intervistati esiste una certa difficoltà
a definire con precisione quali funzioni siano core e quali non lo siano. Infatti, se per funzioni core business si intendono quelle attività connesse ai settori che generano le più ampie quote-parti di fatturato
e/o redditività del gruppo, allora l’individuazione dei processi strategici è piuttosto semplice ; il discorso si
complica se, invece, si affronta la questione dal punto di vista diacronico, cioè se oltre al fatturato /
redditività attuali si presta attenzione anche ai possibili sviluppi futuri: infatti, oggi, alcuni processi
possono non essere collegati a settori trainanti delle aziende, tuttavia, possono essere comunque oggetto di
grande attenzione e di investimenti perché si prevede che l’ambito nel quale sono inseriti sia soggetto a
sviluppo” 49 .
Si ricorre quindi alla creazione di società di scopo fortemente, quando non
completamente, controllate proprietariamente. In conclusione: “è possibile affermare che in
tutti i contesti analizzati è riscontrabile una sola forma di outsourcing: quella di specialità [Panati G.;
1980]. L’outsourcing di specialità riguarda tutte quelle situazioni in cui il committente non può o non
vuole acquisire i mezzi / le risorse necessari alla produzione del servizio per ragioni di strategia
industriale, oppure, ed in questo caso è possibile parlare di outsourcing di costo, stima che le risorse
produttive di cui dispone non gli permetterebbero di produrre i suddetti servizi in maniera economicamente
efficiente.
Si tratta, tuttavia, di una forma di outsourcing particolare. Infatti, data la strategicità (ma anche la
peculiarità) dei servizi in questione, l’azienda committente necessita di mantenere un ampio controllo su di
essi: quindi, da una parte esternalizza (trasferendo all’esterno dell’“azienda madre” alcuni dei processi
e/o attività), dall’altra verticalizza la catena di sub-fornitura acquisendo quote azionarie o costituendo
delle società ad hoc per la realizzazione delle suddette attività”50 .
Nella sub-fornitura automobilistica il passaggio dal tradizionale alle nuove forme di
outsourcing è avviato da tempo e si trovano già ben due modelli strategici: quello a
piramide con l’azienda che commette e in genere tre livelli di sub-fornitura, con
complessità ed affidabilità diverse, e quello di reti di aziende medio piccole che si
rapportano, da posizioni di forza dovuta alla specializzazione, all’azienda committente.
Nella nostra indagine su Torino 51 su 41 studi di caso aziendali si possono apprezzare i
IPL, op. cit., Mediasfera, L’industria Culturale, pp. 272-273.
IPL, op. cit., Bolognini M., Società di software e servizi di informatica, p.223.
49 IPL, op. cit., Bortolotti F. , Fabbri E., I nuovi assetti delle aziende “public utilities”, p. 411.
50 Ibidem, p. 412.
51 Provincia di Torino e Fondazione “Istituto per il lavoro” (IPL), Posizionamento competitivo e politiche di sviluppo
della componentistica auto nella provincia di Torino, Torino, 2003.
47
48
37
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
diversi gradi e modi di integrazione della catena di sub-fornitura ( i numeri inseriti nei
quadranti sono i numeri d’ordine dei 41 casi osservati:
Figura 10 - Focus strategico e grado di integrazione del fornitore principale
Nella finanza abbiamo fenomeni simili a quelli delle aziende dei servizi pubblici a
rete: si formano unità decentrate monofunzione: i call-center o servizi specializzati di
informatica, ma anche dove hanno un autonomia giuridica sono in realtà divisioni o unità
esterne dell’azienda madre.
Possiamo quindi dire che la nostra indagine conferma la tendenza indicata dalla
letteratura e dalle nostre prime indagini. Tale tendenza ha tempi mediamente e
relativamente lenti e risulta ancora fortemente impastata con la situazione tradizionale.
Dove i nuovi fenomeni appaiono con maggiore chiarezza altrettanto chiara è la possibilità
di identificare l’altro vettore, oltre il costo, che plasma la natura e l’estensione della
esternalizzazione: il posizionamento strategico di mercato, quello che con una formula
abbiamo chiamato l’alternativa tra via alta e via bassa alla competizione internazionale.
6.1
Il lavoro tra deregolamentazione e autonomia
Fiumi di inchiostro si sono sprecati negli ultimi anni, con versioni di destra, cioè
neoliberiste , e di sinistra, cioè neo artigianali, per identificare una tendenza, ancora nelle
38
Il lavoro che cambia
doglie del parto, alla crescita di un settore lavorativo caratterizzato sì dalla precarietà ma
anche dalla presenza di una forte imprenditività che coniuga autonomia, creatività e
responsabilità individuale. Questa nuova realtà preparerebbe la fine del vecchio lavoro
omogeneo, subordinato, passivo, deresponsabilizzato e regolato collettivamente, che
sarebbe il lavoro industriale – con buona pace di larga parte della sociologia e della
psicologia degli ultimi trenta anni –, aprendo la strada ad un nuovo mondo fortemente
individualista, anche per gli aspetti di regolamentazione. La tendenza sarebbe oggi
pienamente dispiegata nei cosiddetti “nuovi lavori”, tipicamente nell’industria culturale e
del software che, come tutti dovrebbero sapere, devono unificarsi. Questi nuovi lavori
diventeranno il modello, se già non lo sono, anche in virtù del fatto che almeno
nell’”occidente” – cioè nei paesi dell’area Ocse – la vecchia industria manifatturiera
starebbe scomparendo, come accadde per l’agricoltura.
Non è compito di queste note di entrare pienamente nel groviglio polemico che tali
“profezie” hanno suscitato; d’altronde il “sapore” delle mie parole lascia chiaramente
intendere il mio scetticismo per questa nuova versione delle “magnifiche sorti e
progressive” dell’umanità.
Stiamo dunque al merito di quanto trovato nei nostri studi di caso; è bene ricordare
che lo studio sull’industria del software è l’approfondimento di un ampio studio già
realizzato in Italia su 41 unità produttive52 , così come quello sulla sub-fornitura
automobilistica 53 .
Partiamo da uno dei settori cruciali: l’industria culturale. Ecco la riflessione di
Mediasfera sugli studi di caso realizzati e, più in generale sulla sua conoscenza del settore.
Mediasfera inizia con il ricordarci che le previsioni sulla società post-industriale si basavano
su alcuni indicatori ma che “in realtà, l’indicatore più largamente usato del fenomeno è proprio
questo: è definita in generale come post-industriale una società nella quale al declino dell’occupazione
nell’industria corrisponde una forte crescita nei servizi. Questo processo di crescita contiene in sé due
tendenze che possono apparire (dal punto di vista dei valori e delle aspettative) contrastanti, ma che sono
nei fatti strettamente intrecciate: da un lato, la crescita delle attività legate alla produzione ed elaborazione
di simboli e informazioni che vengono a costituire un universo anche economico di rilevanza insospettabile
fino a pochi decenni fa; dall’altro la crescita delle occupazioni precarie, labor intensive soprattutto per
scarsità di investimenti, “servizi” anche nel senso negativo implicito comunque nella radice di questa
parola. Le letture idealizzanti (possiamo dire ideologiche?) del processo di post-industrializzazione,
nettamente prevalenti negli anni Novanta, mettevano in risalto soprattutto il primo aspetto; quelle critiche
rischiano di vedere solo il secondo, e di leggerlo in termini etici più che politici. In realtà, e crediamo che il
nostro stesso studio sul campo evidenzi questo aspetto, la crescita dei lavori “ricchi” dal punto di vista dei
contenuti culturali e la caduta delle garanzie associate da tempo al lavoro impiegatizio e operaio non solo
sono simultanee nel tempo ma finiscono, in particolare proprio nella galassia del lavoro culturale, con il
convergere negli stessi comparti produttivi e nelle stesse figure professionali. Anche perché proprio in questi
comparti l’adesione soggettiva a un’attività vista come altamente soddisfacente sul piano culturale e
identitario può assumere la funzione di compensare le inevitabili frustrazioni dovute non solamente alla
mancanza di garanzie economiche e giuridiche ma anche alla fragilità della stessa collocazione nei processi
produttivi. E per converso, perché in questi comparti economici è possibile raggiungere risultati
culturalmente notevoli anche a partire da risorse e condizioni lavorative che sarebbero del tutto
improduttivi in altri settori, proprio per alcune caratteristiche proprie del “lavoro culturale”:
Bolognini M., Fuggetta A., Garibaldo F. , Le fabbriche invisibili – Struttura, sapere e conflitto nella produzione del
software in Italia, Meta, edizioni, 2002.
53 Provincia di Torino e Fondazione “Istituto per il lavoro” (IPL), op. cit.
52
39
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
• la presenza di una forte componente di volontariato o semi-volontariato;
• il fatto che in questi campi viene se non soppressa quanto meno relativizzata la rigidezza della
distinzione tempo di lavoro/tempo di vita che nell’universo industriale è invece centrale;
• il fatto che in molti ambiti dell’industria culturale la diversa collocazione gerarchica delle persone
invece di dar luogo a contrapposizioni noi/loro come sono tipiche dell’industria o anche degli
apparati burocratici lascia spazio a valori comunque condivisi. La frase di un dipendente di una
delle aziende editoriali da noi esaminate (“le rivendicazioni sindacali le facciamo insieme col
padrone”) non sta a ricordarci solo la comune matrice politico-ideologica, fattore in ogni caso non
trascurabile, ma anche quanto in settori del genere lo spirito di appartenenza possa trascendere
l’oggettiva contrapposizione di interessi” 54.
Tornerò sul punto della soppressione della rigidezza della distinzione tempo di
lavoro/tempo di vita ma seguiamo le valutazioni di Mediasfera: “vedremo, negli studi di caso,
che l’universo dell’outsourcing soprattutto in campo editoriale nasconde in sé realtà di estrema varietà
anche da questo punto di vista, tra cui molte che oggettivamente potrebbero essere accostate a quelle che in
altri settori sono considerate univocamente –e giustamente- segno di una pura e semplice caduta di
garanzie per i lavoratori: lavoratori “autonomi” che lavorano solo per un’azienda, che eseguono mansioni
relativamente routinarie e comunque tali che potrebbero essere svolte all’interno e in condizioni di lavoro
dipendente garantito. Ma anche in questi casi, o almeno in molti di essi, la percezione soggettiva di tale
condizione è differente di quanto accada in molti settori dei servizi: in quanto l’autonomia si presenta
comunque come un tratto caratterizzante delle attività di conoscenza; in quanto in queste attività è forte
la convinzione che si possa lavorare bene solo “finché ci si diverte”, per cui il posto fisso può apparire non
solo e non tanto una certezza rassicurante bensì un rischio di cedimento “impiegatizio”; e in quanto
comunque l’attività svolta è percepita come un servizio professionale, basato su competenze che restano in
ogni caso proprietà di chi le detiene, e affine per molti aspetti a quelle “arti liberali” (dall’avvocato
all’architetto) che tipicamente agiscono in regime di partita IVA individuale e di lavoro autonomo” 55 .
Il gruppo di ricercatori di Mediasfera ci ricorda che “in effetti, proprio il carattere
“professionale” di gran parte delle attività che rientrano nella sfera della produzione culturale è uno degli
elementi di maggiore ambivalenza di quest’area produttiva”56 . Il che ricorderebbe “la “profezia”
enunciata da Talcott Parsons all’inizio degli anni Cinquanta secondo la quale l’evoluzione
del mondo moderno avrebbe portato con sé una crescita dei ruoli professionali a spese
dei modelli più tipicamente industriali del lavoro dipendente.” Ma ci dicono i ricercatori:
“Si tratta però, con poche eccezioni (i giornalisti, in parte i traduttori) di professioni del tutto anomale.
Una professione, infatti, non è definita di norma solo da un assetto di competenze, ma anche
- dalla stabilità dei saperi stessi, oggetto di processi formativi relativamente permanenti nel tempo;
- dall’esistenza di istituzioni associative a cui è affidata sia la difesa degli interessi dei
professionisti sia il controllo della qualità del loro lavoro sulla base di standard autonomamente
stabiliti;
- da un’identità professionale chiara e riconoscibile anche all’esterno.
La nostra ricerca conferma alcune verità che possono del resto apparire ormai relativamente intuitive: se
sono professionisti, i lavoratori culturali di oggi lo sono in modo difforme dalla tradizione. Sono infatti
portatori di professionalità instabili (e rese tali sia dal continuo mutamento tecnologico sia dal vero e
proprio culto dell’innovazione anche organizzativa che attraversa molti comparti produttivi), di
professionalità prive non solo di ordini ma anche di semplici associazioni di categoria, e di standard
riconoscibili, di professionalità che spesso non hanno un nome preciso e che in molti casi (secondo una nota
54
55
56
IPL, op. cit.; Mediasfera, L’industria Culturale , pp. 229-230.
ibidem, p. 231.
ibidem, p. 231.
40
Il lavoro che cambia
battuta) sono “nuove” in quanto occorre almeno un quarto d’ora per spiegare alla propria madre che
lavoro si fa. Questa incerta e contraddittoria collocazione apre in due possibili direzioni, la scelta tra le
quali costituirà probabilmente uno dei grandi problemi politici del prossimo futuro:
- da un lato la tendenza alla formalizzazione delle professioni in discussione, tendenza in parte
prefigurata dallo sviluppo di progetti formativi in materia in molte università;
- dall’altro la tendenza a fissare un nuovo modello di professionalità instabile come aspetto
ineliminabile dell’attuale fase economica.
Nella nostra ricerca si possono leggere segni di entrambi i processi, ma anche e soprattutto segni di una
situazione ancora indeterminata: con costi, anche umani, sicuramente gravi”57 .
Questa lunga citazione introduce bene al problema che emerge per altro nell’altro
settore chiave, cioè quello della produzione del software. In quel caso uno dei partecipanti
ai gruppi di discussione 58 sintetizzò il problema così: stiamo diventando gli operai del III
millennio così come gli artigiani divennero quelli del XIX e XX secolo59 ?
Insomma è innegabile che in questi settori vi sia un rapporto tra investimento
affettivo sul proprio lavoro e lavoro quotidiano che è comparabile solo o con le
professioni liberali – di un tempo, dato che esse stesse stanno industrializzandosi - o con
il lavoro artigianale o semiartigianale degli operai specializzati nella prima metà del XIX
secolo. A questo investimento affettivo deve corrispondere – questo è il punto cruciale –
un effettiva modifica della relazione d’impiego – sotto il profilo qualitativo e di equilibrio
dei poteri - pena il riflusso dell’investimento e la trasformazione delle ambivalenze in
conflitto aperto. Conflitto che può avvenire a due livelli: al confine tra il conflitto interno
all’individuo rispetto alle prestazioni richieste o tra individuo e sistema organizzativo. Nel
primo caso si ha quella che a livello psicologico si chiama pseudo-adattamento60 .
L'adattamento tra essere umano ed ambiente è un processo bilaterale che comporta sia la
determinazione dell'essere umano da parte dell'ambiente che la possibilità da parte
dell'essere umano di intervenire e quindi determinare l'ambiente. Se il processo viene
ridotto all' unilateralità si possono determinare gravi sofferenze che possono portare fino
al fallimento del processo adattivo. La fenomenologia di questo processo di disgregazione
del processo adattivo è molteplice e va dalla fuga/rinuncia alla messa in moto di
meccanismi arcaici di difesa psichica che hanno conseguenze tanto individuali quanto a
livello sociale nella vita dell'impresa, dallo sviluppo di forme di infantilizzazione con
perdite di autonomia e di responsabilità a profondi disturbi delle capacità creative che
comporta una serie di costi per il singolo e per l’organizzazione. Nel caso del fallimento
del processo di adattamento si va dalle “tecniche di sopravvivenza” studiatissime negli
Usa – turn over elevatissimi, conflittualità a livello legale, ecc. – sino al tradizionale conflitto
industriale con o senza sindacato 61 .
Questo è il quadro nei settori per definizione più aperti a queste nuove figure e
problematiche. Nei settori tradizionali vediamo entrare in campo con grande forza la
ibidem, pp. 231-232.
Sulla tecnica dei gruppi di discussione, largamente utilizzata dall’IPL, si veda
http://www.ipielle.emr.it/ita/doc/protocollo_operativo_01.pdf e Rasmussen B. L., Garibaldo F. (editors),
AI&Society, a special issue, forthcoming, on “Action Research in Scandinavian countries and Italy “.
59 Bolognani M., Fuggetta A., Garibaldo F. , op. cit. p. 107 e p. 176.
60 Ribecchi E., Il soggetto di fronte all’innovazione tecnologica, in Fiom/Cgil; Bianchi S., Sacerdoti B., I lavoratori
dentro le innovazioni tecnologiche: uomini, macchine, società, Rosenberg & Sellier, 1985.
61 Garibaldo F., Workplace Innovations: The Making of a Human-Centred Industrial Culture, in Gill K.S. (ed), Human
Machine Symbiosis: The Foundation of Human Centred System Design, Springer, Berlin, 1996, pp. 449 – 452.
57
58
41
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
variabile “istituzionale” del grado di estensione e forza della presenza sindacale e della
contrattazione collettiva.
Nel settore finanziario, come osservano Ponzellini e Franco [2003] a proposito del
confronto tra le due aziende “tradizionali” , grande gruppo assicurativo e grande gruppo
bancario, e le due “nuove”, assicurazione telefonica e banca multicanale, si ha che, per le
prime: “Pur venendo da forme di organizzazione molte gerarchiche e tradizionali, queste aziende – forse
prima che altre aziende finanziarie del tipo che più conosciamo, ovvero di tipo “universale” – stanno
sperimentando alcuni interessanti sviluppi organizzativi: innanzitutto il passaggio da strutture funzionali
a strutture divisionali (per prodotto/fasce di clientela) ma anche qualche tendenza all’alleggerimento della
gerarchia, al decentramento organizzativo, ad una maggiore responsabilizzazione del personale, alla
polivalenza delle mansioni. In queste aziende le caratteristiche degli occupati restano comunque piuttosto
tradizionali: lavoratori a tempo pieno con contratti di lavoro a tempo indeterminato, coperti dalla
contrattazione di settore ed anche da quella aziendale, con buoni salari e benefit, per la stragrande
maggioranza lavoratori “a giornata”dal lunedì al venerdì, con prevalenza di maschi adulti. Il turnover è
contenuto e corrisponde in larghissima misura ai pensionamenti”62 .
Al contrario nelle altre: “In queste due aziende, la ridotta dimensione aziendale e la
composizione degli addetti – la stragrande maggioranza dei quali svolge le stesse mansioni – concorrono a
disegnare strutture più piatte (nell’Azienda B, per esempio, vi sono solo quattro livelli gerarchici). Ma
sono soprattutto le esigenze commerciali – apertura su orari lunghi e durante tutti i giorni della settimana
– e il tipo di tecnologia – piattaforme telefoniche, sistemi di comunicazione multicanale – a condizionare
in modo rigido l’organizzazione del lavoro e per conseguenza in parte anche il mercato del lavoro dei call
center. Non a caso, sia nella Azienda B e che nell’Azienda D troviamo che il lavoro è organizzato su
più turni, che durano fino alle 22 e comprendono spesso anche il sabato e la domenica. È questa specifica
esigenza di copertura di un nastro-orario lungo che presumibilmente ha fatto propendere per assunzioni a
part-time. Ed è infine la domanda di lavoro a part-time che ha prodotto una forza lavoro giovane e ad
elevata femminilizzazione”63 .
Ciò che appare molto interessante è il fatto che: “ Non abbiamo notato significative
differenze nel sistema di relazioni industriali, comunque non tali da far supporre una tendenza alla
“polarizzazione” dei mercati del lavoro di questi due segmenti. La prima evidenza in questo senso viene
dall’uguale livello di job-security che caratterizza i due mercati: sono infatti ugualmente diffusi i rapporti
di lavoro a tempo indeterminato. Si tratta manifestamente di una scelta aziendale, probabilmente mirata
a rendere stabili rapporti di lavoro che – nell’esperienza generale dei call center – tendono ad essere
caratterizzati da alti livelli di turnover. La seconda viene dalla applicazione dei Ccnl di settore in
entrambe le aziende “innovative”, esito di una importante lotta fatta in passato dai sindacati bancariassicurativi per allargare l’area di competenza del Ccnl anche al di fuori dall’ambito tradizionale del
settore. E anche dalla presenza – non così scontata nelle aziende nuove entranti – di rappresentanti
sindacali aziendali, che dà conto di una buona capacità di controllo del sindacato sull’insieme del mercato
del lavoro del settore. Come si è detto all’inizio, la strategia dei sindacati del settore è stata quella di
contrastare la polarizzazione del mercato del lavoro tra insider e outsider, anche a costo di qualche
sacrificio per i “vecchi” occupati (come si vede dalla dinamica salariale del settore che, da alcuni anni,
mostra segni di cedimento). Se si vuole però individuare l’elemento che potrebbe in seguito generare forme
di maggiore segmentazione del mercato del lavoro, bisogna porre attenzione alla struttura retributiva: nei
call center, anche se i livelli salariali non sono così diversi da quelli delle aziende tradizionali, si osserva
una differenziazione molti accentuata a livello interindividuale” 64 .
IPL, Terzo rapporto annuale, Ponzellini A.M., Franco M. T., Il settore finanziario, p. 457.
ibidem. p. 457.
64 Ibidem.
62
63
42
Il lavoro che cambia
Vi è quindi un ruolo importante dei vincoli derivanti dalla presenza del sindacato e
dalle scelte di “politiche” che svolge. Relativamente alle Relazioni Industriali è innegabile
che:
“Nonostante il controllo sindacale e la stabilità dell’impiego siano diffusi in entrambi i tipi di
aziende, non c’è dubbio che complessivamente la qualità del lavoro che abbiamo registrato nelle aziende
che operano attraverso call center sia differente. Infatti, nonostante il processo di cambiamento in corso –
da aziende di grandi dimensioni ed “universali” ad aziende più flessibili e specializzate per segmenti di
mercato – nelle aziende tradizionali i lavoratori continuano a godere di qualità del lavoro piuttosto
buona. Se è vero che il maggiore coinvolgimento e responsabilizzazione che derivano dai nuovi approcci
manageriali alla gestione delle risorse producono in alcuni casi uno stress maggiore sui dipendenti, è anche
vero che generano contemporaneamente margini più ampi di autonomia nel lavoro. Nelle aziende che
operano su canali alternativi, invece, sono evidenti un carico di lavoro ed uno stress maggiori, orari più
difficili e rigidi, salari un po’ più bassi e più elevata competizione salariale, minori opportunità di
carriera, maggiore controllo della produttività e dei comportamenti lavorativi (anche se il clima è
considerato mediamente buono)” 65 .
Nei settori industriali tradizionali troviamo un modello chiaramente basato sulla
segmentazione della forza lavoro – che sia tutta interna o distribuita sulla rete o filiera
produttiva poco importa sotto questo profilo analitico – come ad esempio in edilizia
dove: “Un fenomeno d’interesse è l’addensamento degli inquadramenti professionali sui livelli medio-alti
per il personale dipendente delle aziende che hanno sviluppato la produzione cercando di mantenere un
ruolo di agente principale nella catena di valore. Questo suggerisce che, nel settore, qualità e professionalità
sono requisiti delle prestazioni che hanno importanza strategica e costituiscono una risorsa scarsa sul
mercato. I lavoratori specializzati sono molto richiesti perché la loro disponibilità per un lavoro alle
dipendenze è ridotta viste le opportunità che il mercato rende per operare autonomamente. E’ frequente che
lavoratori di questo tipo escano dalle aziende da cui dipendono per creare piccole società collegate. Le tre
figure strategiche in edilizia sono il muratore, il tecnico di cantiere e il conduttore di macchine operatrici
(gruista, macchine con pala, etc.). La difficoltà di reperibilità di queste due ultime figure soprattutto è tale
che si parla di “calcio-mercato”: le imprese, in alcune aree del Nord Italia, arrivano a pagare anche 8-9
milioni mensili di vecchie lire per queste figure, che non sono facilmente riproducibili” 66 .
Mentre, simmetricamente si ha che: “La diffusa presenza di piccole imprese subfornitrici è la
reale risorsa economica per le caratteristiche proprie di ampia flessibilità nei rapporti di lavoro, capacità
organizzativa ed alti tassi dinamici di crescita. Nelle aziende sub fornitrici la durata media dei rapporti
di lavoro è molto bassa, circa tre anni, ed i contratti a termine sono utilizzati con più frequenza a
differenza dei contratti atipici (ad es. collaborazioni coordinate e continuative, part-time, etc.) che risultano
essere diffusi in tutti i tipi di aziende soprattutto per esigenze di professionalità specifiche. Nella catena
delle forniture, queste imprese costituiscono l’anello debole, dove si riscontra più facilmente l’irregolare
impiego di lavoro: prestazioni lavorative senza contratto e garanzie previdenziali ed assicurative, orari di
lavoro stressanti, lavoratori extra-comunitari clandestini occupati con trattamenti economici iniqui in
condizioni lavorative precarie. Il settore è considerato uno di quelli ad alto rischio elusivo delle tutele
normative e contrattuali del lavoro.”67
Nel settore meccanico il meccanismo è lo stesso ma la segmentazione viene
distribuita lungo la catena di sub-fornitura/esternalizzazione, con differenziali salariali che
possono raggiungere anche il 50% e condizioni complessive di lavoro coerenti con questo
tipo di segmentazione che talvolta porta a vere e proprie polarizzazioni, dato che ad un
Ibidem, p. 461.
IPL, op. cit., Ceccherelli P., op. cit., p. 112.
67 Ibidem, p. 113.
65
66
43
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
certo punto vi è un salto, una vera e propria cesura tra il livello precedente e quello
successivo.
Nelle aziende erogatrici di servizi pubblici a rete la situazione, pur diverse sotto il
profilo delle relazioni industriali, si ha che:” In tutte le imprese del campione, infine, lo svolgimento
del lavoro viene definito dagli interpellati “stressante”: la flessibilità richiesta dalla tipologia di alcune
funzioni (per esempio, il pronto intervento) o dalla personalizzazione dell’offerta di servizi alle istanze del
cliente (che in certi momenti implica dei picchi produttivi notevoli ) viene – almeno in parte – affrontata
ricorrendo allo straordinario, che si configura come un fenomeno regolare. La scarsa intercambiabilità tra i
lavoratori fa sì che, in caso di assenze, possano esservi vistose interruzioni nella produzione, aggravate dal
fatto che – in molti contesti – i dipendenti non dispongono dell’autonomia decisionale necessaria per
prendere provvedimenti (quest’ultimo è un problema avvertito soprattutto in due aziende). Tuttavia i
problemi più macroscopici sono denunciati dai dipendenti di una terza azienda dove il luogo di lavoro è
caratterizzato da un costante sottodimensionamento dell’organico; l’assenteismo è alto a causa di seri
livelli di stress, mentre lo straordinario è una prassi comune, soggetta ad una vera e propria
programmazione. In tale contesto è difficilissimo esercitare i diritti alle assenze obbligatorie o definite per
contratto (malattie, permessi parentali, permessi sindacali, vacanze, etc.), la maggioranza dei dipendenti
tende a rinunciare ai propri diritti. L’ampio ricorso allo straordinario, la scarsa intercambiabilità dei
lavoratori, ma anche l’impossibilità per i dipendenti di fruire dei diritti che comportano l’assenza dal
luogo di lavoro costituiscono degli indicatori (indiretti) di più o meno gravi lacune organizzative che per le
aziende si traducono in diseconomie – a volte – anche vistose”68 .
La qualità della vita lavorativa quindi appare fortemente differenziata tra i settori
analizzati e, in molti casi, all’interno degli stessi settori in relazione alle politiche di
posizionamento competitivo. È di grande interesse valutare anche le grandi diversità nel
sistema di Relazioni industriali, a partire dal dato elementare della sua presenza o assenza.
Si può dire che vi sia una sistematica differenza, dal punto di vista del lavoro, nel trovarsi
a lavorare in aziende che innovano con forza i prodotti e puntano ad un posizionamento
nella fascia medio alta o alta del mercato? Si e no .
No perché, in primo luogo, vi è il fenomeno della segmentazione lungo la catena del
valore specifica di quel processo produttivo o servizio. Insomma l’azienda madre che
occupa le posizioni più alte sul mercato effettivamente in genere ritaglia, per una fetta
selezionata del lavoro, una posizione migliore; ma a questo corrisponde funzionalmente
una filiera o rete che si muove, di norma, cioè in assenza di specifiche rivendicazioni
sindacali e/o di politiche pubbliche, secondo un gradiente negativo proporzionale al
posto occupato nella catena del valore. Meno convincente appare la valutazione negativa
basata sulla generica qualifica di innovazione di prodotto; la distinzione infatti dovrebbe
essere doppia: innovazione di prodotto e spostamento verso l’alto nel posizionamento di
mercato.
Si, se si considera il modo con il quale le aziende metabolizzano il vincolo dato dalla
presenza di una forte iniziativa sindacale, forte perché alto il grado di adesione o forte per
forme di sindacalismo militante; in entrambe i casi le aziende tentano la segmentazione di
cui sopra e se questa viene regolata allora palesemente l’intervento si sposta
privilegiatamene sulle strutture e sui prodotti.
Si può quindi sinteticamente delineare una rappresentazione parallela della
riarticolazione della divisione del lavoro e del mercato del lavoro.
La nuova divisione del lavoro si basa su lunghe filiere produttive che fanno capo ad
una o più , ma poche, aziende capofila – i cosiddetti Oem – che data l’estrema
68
IPL, op. cit., Bortolotti F., Fabbri E., op. cit., p. 417.
44
Il lavoro che cambia
concentrazione controllano una quota amplissima dello specifico mercato. Il concetto di
filiera non implica una gerarchia lineare ma una situazione più ramificata, si hanno cioè sia
dipendenze lineari che rapporti trasversali, in altre parole si alternano rapporti gerarchici e
collaborazioni orizzontali quasi – paritetiche. Se si considerano tali filiere dal punto di
vista del valore vi è una chiara distribuzione asimmetrica di esso, frutto del processo di
concentrazione. Da un punto di vista funzionale fanno parte della filiera anche le attività
economiche di confine tra legalità, sommersione e piena illegalità.
Dall’altro lato il mercato del lavoro può essere rappresentato specularmente come
una lunga catena di segmenti con due poli estremi ed un tenue collegamento intermedio. I
diversi segmenti rispecchiano i diversi pesi dei nodi della catena del valore o se si
preferisce della filiera. I due poli estremi rappresentano, da un lato al minoranza dei
lavoratori, interna alle aziende Oem ed a quelle di primo livello o a forte specializzazione
della filiera, che viene considerata un investimento funzionale e godono generalmente di
condizioni complessive superiori alla media. Si discende poi, a salti, sino al polo inferiore
che transita tra la zona legale in condizioni largamente inferiori alla media, sino alla piena
illegalità. La condizione di lavoro grigio e nera non rappresenta più, da un punto di vista
funzionale, solo una patologia ma è pienamente compresa nella catena del valore.
6.2
Domanda di lavoro, autonomia e competenza professionale
La relativa autonomia della domanda dalla offerta di lavoro e la sua sovradeterminazione dalle esigenze del mercato e della produzione è già stata argomentata
all’inizio di questo saggio. Una serie di studi hanno introdotto un crescente scetticismo sul
rapporto tra formazione per “la società della conoscenza” e successo occupazionale,
almeno in termini qualitativi. 69
Le ultime statistiche dell’Ocse 70 non mostrano per l’italia nessun significativo effetto
della istruzione universitaria rispetto a quella secondaria superiore nel diminuire il tasso di
disoccupazione. È una conferma indiretta di una strutturale debolezza della qualità della
domanda di lavoro.
Infatti mentre vi è una domanda di lavoratori ad alta qualificazione e formazione per
alcuni settori dell’economia è del tutto irrealistico pensare che l’attività economica
complessiva si modellerà su tali requisiti. Restano e resteranno ben presenti settori di
attività, anche in una economia che abbia come motore la conoscenza, attività per le quali
sono richieste competenze più vicini al mondo manifatturiero tradizionale 71 . Il rischio
quindi è che la dominanza del modello di formazione specifico di un settore dell’industria
determini effetti del tutto imprevisti sul piano generale. Tali effetti possono essere vari, il
primo è la diminuzione socialmente pericolosa di un interesse alla domanda di lavori
tradizionali, infatti, come notava a suo tempo Minsky72 per gli Usa, nessuna strategia per
la piena occupazione che voglia evitare discriminazioni classiste può esistere senza una
Crouch C. 2005, “Skill Formation Systems’, in Ackroyd S., Batt R., Thompson P., Tolbert P. (eds.), The Oxford
Handbook of Work and Organization, Oxford UK: Oxford; Bonora C., Garibaldo F. ( a cura di), I saperi del lavoro,
Maggioli, 2005.
70 ISBN 978-92-64-04632-0, Statistical annex: OECD Employment Outlook © OECD 2008.
71 Si leggano le risultanze del progetto, finanziato dalla commissione, il cui acronimo è Pilot:
http://www.pilot-project.org/
72 Minsky HP (1973), The strategy of economic policy and income distribution., Ann Am Acad Polit Soc Sci 409:92–
101.
69
45
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
adeguata domanda di lavori tradizionali, domanda la cui creazione e il cui
dimensionamento vanno amministrati. In secondo luogo si determina una sproporzione,
nei settori tradizionali tra titolo formale di studio richiesto e contenuto del lavoro,
sproporzione che oltre a creare forme di crescente disagio sociale alimenta una sorta di
inflazione da titolo di studio i cui effetti macro-sociali si vedono già negli Usa dove per la
prima volta dal dopoguerra si interrompe il rapporto virtuoso tra titolo di studio,
occupazione e reddito.
Vi è poi un insufficiente investimento diffuso sulla formazione dei lavoratori, un
investimento che è necessario e deve essere articolato su tutta la gamma della domanda di
lavoro, non solo l’high tech e le nuove professioni. L’insufficienza dell’investimento attuale
è particolarmente rilevante per gli occupati; tra le tante indagini si può citare quella
appena conclusa della Fiom: solo il 17,4% di chi ha risposto, cioè il 94,4% di quasi
100.000 lavoratori e lavoratrici ha sperimentato corsi pagati dall’azienda dove lavorano.
La maggioranza assoluta di chi ha frequentato un corso – che sono quasi 16.000
lavoratori – non ha mai avuto più di 16 ore di formazione e ben il 39,3% mai più di 8 ore.
Sul piano micro analitico uno strumento di progettazione usato dai tecnici della
produzione rende ancora più chiaro ed evidente il punto analitico.
Figura 11
I progettisti fanno una distinzione chiara tra le produzioni nelle quali si ha un’alta
specializzazione, che nel loro linguaggio ha un significato molto ristretto poiché significa
che quel lavoratore potrebbe fare il lavoro “ad occhi chiusi”, e quei lavori a bassa
specializzazione, cioè lavori che richiedono una minore o maggiore elasticità ed
adattabilità delle conoscenze ed abilità acquisite. Nel primo caso in genere si ha un’alta
organizzazione del posto di lavoro, cioè attrezzature dedicate, viceversa nell’altro caso.
Secondo uno stereotipo diffuso dovremmo essere sempre di più nel caso della bassa
specializzazione, cioè di lavori a più alto contenuto di plasticità e quindi di “intelligenza”,
46
Il lavoro che cambia
in realtà si tratta di situazioni non generalizzabili ma specifiche di certi segmenti
produttivi. Nella letteratura quindi si distinguono le organizzazioni innovative perché si
muoverebbero nella direzione di promuovere queste qualità plastiche del lavoro73 . Si
ritiene anche che il tipo di attività prevalente svolta in una specifica realtà aziendale
selezioni dei modelli di domanda di competenze ad essa coerenti.
In una indagine compiuta a Torino su 41 aziende della sub-fornitura automobilistica,
il gruppo di ricerca ha elaborato un modello di lettura sul tipo di domanda di autonomia e
competenza professionale richiesta da queste aziende. Uno dei risultati ottenuti è la
relativa indipendenza dei modelli adottati dalla attività, prevale chiaramente la cultura
aziendale.
L’indagine è stata costruita attorno ad alcuni variabili elaborate, a suo tempo dai
sindacati svedesi74 , e poi inseriti in un quadro concettuale da me costruito utilizzando le
conoscenze disponibili in letteratura.
La prima variabile della precedente indagine svedese riguarda le possibilità di auto
organizzare e programmare il proprio lavoro; essa è la media di 4 criteri. Per ognuno di
essi si possono realizzare 5 valori che in ordine crescente da 1 a 5, vanno da un grado di
autonomia professionale nulla ad una di piena autonomia, nell’ambito delle politiche
aziendali. È bene precisare che parliamo dell’autonomia professionale formalmente
delegata, ben sapendo che ormai nessuno dubita del fatto che tra questa e quella
effettivamente usata vi sia uno scarto sistematico e che non esiste un livello di fatto ad
autonomia professionale nulla. La ragione per la quale ci siamo posizionati sul livello
formale deriva dal fatto che la valutazione comparativa di un’organizzazione rispetto ad
un qualsiasi riferimento di misura deve considerare il livello formale delegato.
A questi quattro criteri gli svedesi accoppiavano una seconda variabile chiamata
“condizioni di esercizio”: essa è la media di altri 4 criteri, che misurano la disponibilità ed
adeguatezza della dotazione software e il grado di adeguatezza degli organici, intendendo in
questo caso misurare se le prestazioni previste avvengono in condizioni di tale ristrettezza
degli organici da non consentire agevolmente di affrontare variazioni quantitative e
qualitative della prestazione.
Abbiamo così la possibilità di una rappresentazione classica a due variabili che ci
permette di caratterizzare dei profili e di rappresentarli anche graficamente dividendo il
piano secondo aree ben caratterizzate. I profili/aree sono:
1) passività; cioè un’organizzazione che immagina di poter fare a meno di ogni iniziativa
da parte del lavoratore che non sia la pura esecuzione di routine;
2) subordinazione;l’esistenza quindi di forme di adattamento operativo ad istruzioni
precise;
3) autonomia funzionale; l’autonomia si esercita nell’ambito di macro regole;
4) identificazione dei problemi; cioè la capacità di uscire dalle routine analizzandole
criticamente e ridefinendole;
5) analisi strategica dei problemi; la capacità cioè di potere identificare problemi e
proporre soluzioni che hanno un impatto sull’organizzazione che va oltre alla
prestazione specifica.
Garibaldo F., Hauß I., Mendibil, J., Un modello di riferimento per l’eccellenza nella gestione dell’innovazione, in
Garibaldo F., Grandi A., Forme organizzative a rete per la competitività delle PMI, Timeo Editore, Bologna, ISBN
978-88-86891-80-6, dicembre 2007, pp. 27 – 67.
74 The rewarding work organisation (ReWO) - an evaluation tool for development, a cura di Bergstrom P.O.
73
47
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
È abbastanza trasparente la relazione tra queste definizioni e le elaborazioni sulla
competenza esistenti in letteratura: le “capabilities” di Zollo and Winter 75 , la“competénce” di
Le Boterf76 , ed una varietà di altri contributi come quelli di Meghnagi77 e Newell and
Simon78 . A questi vanno aggiunti quelli di Dewey e Argyris79 . È utile inoltre la
elaborazione sviluppata nel progetto europeo Pilot sulle competenze trasformative.80
Tutti questi approcci insistono non solo sulla stretta relazione tra innovazione e
competenza ma sul fatto che tale relazione è impossibile se non si costruiscono
organizzazioni che consentono il pieno dispiegarsi delle capacità plastiche creative del
lavoro umano sia riferendosi al singolo che al lavoro di gruppo.
In questa nostra indagine che riguardava sia gli operai che gli impiegati i risultati sono
molto modesti.
Infatti seguendo le risposte al questionario fornite dal management abbiamo un’azienda
nell’area dell’autonomia funzionale, 15 pienamente in quella della subordinazione e altre
15 nella stessa area pur marcando un’autonomia bassa ed infine 10 in quelle della
passività. In altri termini abbiamo una distribuzione prevalentemente centrata sulla
subordinazione (30 su 41), al cui interno possiamo distinguere 3 sottogruppi che vanno
da valori estremamente bassi, 11, a quelle centrali, 10, sino a quelle di confine con
l’autonomia funzionale, 9. La distribuzione delle aziende in questi sottogruppi è
indipendente dall’attività, quindi siamo in presenza di scelte aziendali.
Una caratteristica sostenuta da tutta la letteratura è quella della importanza della
costruzione di forme di cooperazione lavorativa quali reale segno di una innovazione
organizzativa.
Sempre nella stessa ricerca abbiamo sviluppato un quadro concettuale per inquadrare
il problema della cooperazione lavorativa e come collegarlo alla elaborazione sulla
autonomia professionale.
L’analisi dell’autonomia professionale richiesta può essere considerata
un’approssimazione alla natura della professionalità richiesta. Per natura intendiamo
l’orientamento cognitivo critico che viene richiesto formalmente, dove l’accento è
sull’avverbio “formalmente”. Le tre modalità cognitive formalmente richieste le abbiamo
classificate su tre livelli:
a. no problem (nessuna problematizzazione richiesta);
b. problem solving (sapere risolvere un problema dato ed impostato);
c. problem setting ( sapere definire ed impostare un problema non già classificato).
Abbiamo poi formalmente distinto il concetto di “gruppo” da quello di “team”.
Per gruppo abbiamo inteso una forma di cooperazione lavorativa tra persone con
compiti lavorativi omogenei e capacità professionali simili, e la cui logica base prevalente
è la flessibilità numerica, cioè il fatto che in assenza di uno il vicino lo possa sostituire.
Con il concetto di team abbiamo messo in evidenza gli aspetti di cooperazione tra
persone con specializzazioni lavorative diverse e ben marcate e con capacità professionali
Zollo M., Winter, Sidney, 1999, From Organizational Routines to Dynamic Capabilities , WP 99-07, The Wharton
School University of Pennsylvania.
76 Le Boterf G., 2002, Développer la compétence des professionnels , Edition d’organisation, Paris.
77 Meghnagi, S., 2005, Il sapere professionale , Feltrinelli, Milano.
78 Newell A., Simon H.A., 1972, Human Problem Solving , Englewood Cliffs, Prentice Hall.
79 http://www.infed.org/thinkers/argyris.htm
80 Schmierl K., Koehler, H.D., Organisational Learning – Knowledge management and training in low tech and medium
low-tech companies, http://www.pilot -project.org/papers/schmierl.pdf
75
48
Il lavoro che cambia
anche molto diverse; in questo caso la logica della cooperazione sta nella necessità di
gestire compiti complessi che richiedono l’integrazione funzionale di attività distinte.
La distinzione è normativa oltre che descrittiva, indica quindi degli idealtipi di
cooperazione lavorativa. Il fatto poi che l’uno si chiami team e l’altro gruppo o viceversa è
puramente convenzionale.
Il gruppo quindi è una modalità di cooperazione orientata alla flessibilità operativa, che
è la modalità più elementare di quella funzionale e che, nella sua forma più semplice,
confina con quella numerica.
Il team è di per se un ipotesi di natura cooperativa in senso proprio, in tal senso
quindi la sua esistenza può essere considerato come una proxy di una scelta a favore di una
flessibilità strutturale, che è la forma più evoluta della flessibilità funzionale o interna.
Il team ha, secondo la nostra concettualizzazione, sei connotazioni possibili che
elenchiamo in ordine qualitativamente crescente:
1. Passività
2. Autonomia operativa
3. Autonomia intrafunzionale
4. Interfunzionalità
5. Piena interfunzionalità
6. Autonomia strategica interfunzionale interna e capacità di relazione autonoma con
l’esterno.
Il gruppo invece:
1. Flessibilità numerica;
2. Rotazione delle mansioni limitata;
3. Rotazione piena (job enrichment);
4. Limitata autoregolazione operativa;
5. Autoregolazione operativa piena (job enlargement).
Dalle risposte fornite dal management delle 41, diciannove sono tradizionali e 22 con
una qualche forma di cooperazione lavorativa formale; quasi la metà delle indagate quindi
ha un assetto tradizionale, una proporzione elevata che è d’altronde del tutto congruente
con i risultati complessivi della ricerca. La seconda cosa da notare è che i team e i gruppi,
quando esistono, sono presenti sia in produzione che tra gli indiretti e nel lavoro di
ufficio; si tratta quindi di scelte strategiche aziendali di natura generale.
Abbiamo poi cercato di classificare i team ed i gruppi rispetto ad una serie di indicatori
interni divisi in due gruppi. Il primo gruppo connota la forma utilizzata in termini di
maggiore o minore autonomia professionale ed operativa. Si parla cioè di una
cooperazione che può essere autonoma, di compromesso o eteronoma nel caso dei team
oppure polivalente, di compromesso o flessibile nel caso dei gruppi. Il secondo indicatore
connota le condizioni esterne, al gruppo o team, che ne condizionano positivamente o
negativamente il funzionamento, in termini di coerenza ed incoerenza. In questo caso si
può avere la coerenza, una situazione di compromesso oppure l’incoerenza.
Relativamente alla autonomia si è volutamente estesa l’area connotata come “di
compromesso” sia nel caso dei team che dei gruppi in modo da rendere più marcati i
posizionamenti più alti e più bassi. Nella fascia più bassa abbiamo un caso, secondo il
management per i team in produzione, e nessuno nella fascia alta per entrambe. Per i gruppi
si ha, per il management, una maggiore presenza nella fascia bassa e nessuno nella alta per
entrambe.
I team della fascia bassa sono puramente diretti dall’esterno con nessuna autonomia
sostanziale, insomma più una struttura di coordinamento per la gerarchia che una
49
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
modalità di cooperazione lavorativa. Viceversa quelli della fascia alta sono quelli che
realizzano, in tutti gli aspetti, una forma effettiva, sia pure funzionale, di autonomia non
solamente operativa. Prevalgono in modo evidente le soluzioni di compromesso che si
distribuiscono sostanzialmente in tre sottogruppi, uno effettivamente centrale, di puro
compromesso, e gli altri due più spostati verso uno dei due estremi. Da notare che anche
in questo caso l’analisi della specializzazione produttiva non è predittiva del
posizionamento aziendale. Si tratta cioè di una scelta strategica, insomma di una cultura
aziendale.
Analoga situazione per i gruppi. In questo caso quello della fascia bassa è uno
strumento di pura flessibilità numerica tra compiti lavorativi molto “poveri”. Viceversa
quello della fascia alta realizza degli elementi di polivalenza significativi presupponendo
forme estese di rotazione. In questo caso, a differenza dei team, vi è un numero
significativo di aziende nella fascia bassa ed un gruppo altrettanto significativo che è di
confine tra la fascia di compromesso e quella bassa. Si può dire insomma che vi è una
propensione verso forme di pura flessibilità numerica.
Se si guarda alla coerenza l’aspetto dominante è quello di un trend prevalente verso il
basso; una situazione insomma nella quale le condizioni esterne non sostengono
adeguatamente le forme organizzative scelte.
Si può inoltre tentare una sintesi tra autonomia e coerenza.
Si è elaborata una tassonomia basata sui sei profili operativi per i team:
i.
passività;
ii.
autonomia operativa;
iii.
autonomia intrafunzionale; cioè quei team che sono stati progettati per gestire,
all’interno di una funzione aziendale, compiti un tempo gestiti separatamente;
iv.
interfunzionalità; cioè quei team costruiti per affrontare il classico problema
aziendale dell’integrazione o, al livello più elementare, di coordinamento di
attività afferenti a funzioni aziendali diverse;
v.
piena interfunzionalità; si ha quando ci si propone un’integrazione tra funzioni
come funzionamento ordinario largamente autogestito dai partecipanti, che
rispondono in termini di risultato;
vi.
autonomia strategica interfunzionale interna e capacità di relazione autonoma
con l’esterno; è il caso classico dell’integrazione strategica tra aziende diverse che
puntano al co-design.
Di questi 6 profili, teoricamente possibili e riscontrati nelle ricerche internazionali, 2
sono vuoti: il grosso delle aziende da noi analizzate si posiziona su 1 solo profilo, quello
intermedio denominato “interfunzionalità”,e una manciata di esse sui restanti tre. Questo
risultato connota i team esistenti come strutture organizzative nate dalla necessità di
garantire coerenza ai comportamenti aziendali introducendo momenti di coordinamento
operativo che, in alcune di esse, iniziano a presentarsi nella modalità della vera e propria
integrazione.
Per quanto concerne i gruppi è stata fatta un’elaborazione analoga. In questo caso la
tassonomia si basa su cinque profili:
i.
flessibilità numerica;
ii.
rotazione delle mansioni limitata;
iii.
rotazione piena (job enlargement);
iv.
limitata autoregolazione operativa;
v.
autoregolazione operativa piena (job enrichment);
50
Il lavoro che cambia
Di questi 5 profili, teoricamente possibili e riscontrati nelle ricerche internazionali, 3
sono vuoti; il grosso delle aziende si posiziona su 1, quello denominato rotazione piena o job
enlargement,; mentre una manciata si posiziona sulla flessibilità numerica pura. Il criterio
interpretativo è molto chiaro ed evidente: le aziende utilizzano i gruppi sostanzialmente
come elemento di manovra di flessibilità strutturata senza nulla concedere sul piano del
controllo puntuale delle prestazioni.
Possiamo inoltre ritornare sul tema della professionalità in termini sia di autonomia
che di cooperazione. La domanda delle imprese è chiaramente tesa prevalentemente alle
modalità cognitive del “no problem” o del “problem solving” in un contesto di modalità
cooperativa “di compromesso”. È
del tutto evidente che il grado di professionalità
considerato dalle imprese sufficiente è tale che rende del tutto problematico un
riaggiustamento verso l’alto.
Ancora peggio per i gruppi dove esiste solo la modalità cognitiva del “no problem” in
un contesto di modalità cooperativa nel quale l’eteronomia ha un peso rilevante. È bene
infatti ricordare che la natura diversa del modello di cooperazione richiesto nei gruppi
quando la loro attività si spostasse nella fascia alta del job enrichment non si correla con un
così basso grado di richiesta di capacità professionale.
In termini più generali è del tutto evidente che il punto più debole, caratteristica
questa generale di tutte le aziende intervistate, è il basso grado di autonomia e
responsabilità formalmente delegate ad un gruppo di lavoratori o lavoratrici.
Si tratta di una indagine limitata e datata ma nessuna delle recenti indagini di cui
disponiamo, anche se non ve ne sono di nuove con lo stesso livello di approfondimento,
ci autorizza a considerare tali risultati marginali o privi di ogni rappresentatività, almeno
nel settore industriale.
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Hanno assicurato una collaborazione tecnica, scientifica ed organizzativa:
Roberto Carloni (Camera dei Deputati)
Simona Montagnino (Cnel)
Alessandra Righi (Istat)
Hanno inoltre fornito un contributo originale e inedito:
Alboni, F., Camillo, F., Tassinari, G., Il dualismo del mercato del lavoro e la transizione da lavoro
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Anastasia, B., Maurizio D., Dopo la prima occupazione: note su dieci anni di “carriera” (1998
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Bardi, A., Processi di trasformazione regionale e ridefinizione della fisionomia della struttura produttiva
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Cagliano, R., Caniato, F., Micelotta, E., Spina, G., Alternative Approaches To The Use Of
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Giarandoni, A., I cambiamenti professionali: dalla fatica all'impegno, 2008.
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Roccella, M., Lavoro subordinato e lavoro autonomo: le tendenze in Europa e in Italia, 2008.
Tutti i contributi sono reperibili sul sito del Cnel: www.cnel.it
Le opinioni espresse nei contributi rimangono di esclusiva responsabilità degli autori.
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