Antonio Tabucchi, Piazza d`Italia, Milano, Feltrinelli, 200910
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Antonio Tabucchi, Piazza d`Italia, Milano, Feltrinelli, 200910
Antonio Tabucchi, Piazza d’Italia, Milano, Feltrinelli, 200910, pp. 39-42. 27. Dieci anni per un orologio Nelle lettere, di tutto quello che segue, Garibaldo non disse mai niente: alcune cose, poche, trovò il modo di raccontarle a suo figlio prima di morire. Saint-Malo, con un tetto di nebbia che i velieri foravano coi pennoni; il metallo invernale dell’Atlantico; il siciliano Carmine che si ripentì a metà viaggio e si buttò da poppa per tornare indietro; la folla scura degli emigranti; il porto di Nuova York che li abbracciò di corridoi d’acqua. E quell’immensa nazione, dove tutti erano stranieri. “Ferrovie dell’Ovest,” chiese senza aspettare consenso un collocatore che parlava ancora napoletano. E cominciò il viaggio attraverso un oceano d’erba solcato da pietrificati velieri rossastri. Notti di viaggio su un treno che spruzzava inchiostro come una seppia, con uomini che parevano neri di fumo ma lo erano per natura, biondi vagabondi senza passato, veloci città di legno che confinavano col nulla. Finché sopraggiunse quel cantiere nomade che costruiva la ferrovia per inseguirla. Tutto questo Garibaldo lo raccontò a suo figlio, ma molte altre cose le tacque per mancanza di tempo. Non parlò della lunga marcia, del raduno degli scioperanti, dell’assalto al treno carico di poliziotti, di Lisa dalle lunghe trecce con la quale visse per tre anni senza aver mai capito che lingua parlasse, comunicando con cenni, ammicchi e disegnini. Quei dopocena lunghissimi, in virtù della cena consumata all’imbrunire, di quei tre anni pacati, gli unici della sua lunga lontananza, in cui si era fatto agricoltore: una fattoria con due vacche e dieci pecore e una casa di legno dirimpetto all’orizzonte. Lisa, che passava ore e ore a giuntare pezzetti di stoffe disparate per farne di tutto (coperte, tende, paralumi, tovaglie), ammiccava l’ultima lettera arrivata da Borgo sul mucchietto di lettere vecchie, e chiedeva con gli occhi che Garibaldo gliela leggesse. Garibaldo spiegava il foglio e leggeva per lei parole incomprensibili. E così ogni sera, con la stessa lettera, finché non arrivava una lettera nuova. Una volta Lisa lo accolse sulla porta ridendo. “Io sto bene e così spero sia di te.” Garibaldo ebbe un tuffo al cuore e sentì che diventava pallido. “Hai imparato l’italiano!” Ma Lisa continuò: “Piesse anche l’Esperia manda tanti saluti e queste suole di refe che ha fatto all’uncinetto molto indicate per chi suda nei piedi come te”. E Garibaldo si accorse che era il finale dell’ultima lettera che aveva dovuto leggere per più di sessanta sere, perché c’era stato un disguido postale e una lettera aveva perso il transatlantico. Quando Garibaldo rispondeva scriveva a alta voce per fare compagnia fonica a Lisa. Finiva sempre con la stessa formula, che ormai anche Lisa sapeva a memoria e che voleva dettare, con infantile soddisfazione e la lingua che si rifiutava a fare le ti: “Lasciamo passare un po’ di tempo, perché la cosa è troppo fresca e se torno magari mi arrestano perché chissà se quel bove non mi ha riconosciuto, e ricordami all’Esperia che quando torno ci vado a parlare”. Finché l’Esterina rispose: “La cosa puzza, altro che fresca. Qui nessuno se la ricorda più, e il bove è morto di un accidente. Magari costì in America, con la lingua che parli, il tempo sarà differente. Ma qui sono passati nove anni, e siamo entrati nel decimo. L’Esperia campa di granchi e io mi sono così ritirata che non mi vedo dall’estate passata, perché non arrivo più allo specchio. Di questo passo mi restano pochi centimetri di vita e se ti gingilli ancora un po’ quando torni sarò evaporata del tutto. Allora Garibaldo salutò Lisa, prese i suoi risparmi e salì su un treno. Dopo quattordici giorni entrò dal migliore orologiaio di Boston e comprò il migliore orologio di tutto il negozio, lo assicurò al taschino con una catenella d’acciaio e promise a se stesso che lo avrebbe guardato sempre per il resto della vita. Poi si sedette a un caffè, fece i suoi calcoli e scrisse a sua madre che sarebbe tornato fra settecentotrenta ore. Naturalmente arrivò insieme alla lettera, che aveva viaggiato sullo stesso bastimento.