caffè michelangiolo

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ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI. MODIGLIANA
CAFFÈ MICHELANGIOLO
R I V I S T A D I D I S C U S S I O N E
fondatore e direttore Mario Graziano Parri
In copertina: Michelangelo Antonioni in una delle sue
ultime immagini.
Quadrimestrale - Anno XII - n. 2 - Maggio-Agosto 2007
Nella testata: ADRIANO CECIONI, Interno di Caffè Michelangiolo, 1865 ca., acquerello, Montecatini, collezione
privata.
Direttore responsabile
Mario Graziano Parri
Direttore editoriale
Natale Graziani
In redazione
Elena Frontaloni, Enrico Gatta, Antonio Imbò
Impaginazione
Marco Anastagi
Amici del Caffè
Luciano Alberti, Giorgio Bárberi Squarotti, Anna Maria Bartolini,
Marino Biondi, Ennio Cavalli, Zeffiro Ciuffoletti, Franco Contorbia, Simona Costa, Maria Antonietta Cruciata, Maurizio Cucchi, Mario Di Napoli, Francesca Dini, Mario Domenichelli,
Angelo Fabrizi, Giulio Ferroni, Franco Ferrucci, Alessandro Fo,
Michele Framonti, Enrico Ghidetti, Emma Giammattei,
Gianni Guastella, Giorgio Luti, Gloria Manghetti, Giancallisto Mazzolini, Michele Miniello, Piero Pacini, Emiliano Panconesi,
Antonio Pane, Maria Carla Papini, Ilaria Parri, Antonio Patuelli,
Ernestina Pellegrini, Anna Maria Piccinini, Eliana Princi, Eugenia Querci, Amedeo Quondam, Federico Roncoroni, Carlo Sisi,
Jole Soldateschi, Antonio Tabucchi, Uta Treder, Carlo Vecce,
Pier Francesco Venier, Daniel Vogelmann, Giorgio Weber
Redazione
50142 Firenze - Via Livorno, 8/32 - Fax 055.7378761
☞ E-mail: [email protected]
Editore e stampatore
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Accademia degli Incamminati
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Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - Firenze
Alla rivista si collabora su invito. Per inderogabili esigenze editoriali, i contributi, redatti in conformità con le “Norme di editing”
richiamate nella rivista, devono essere registrati in formato RTF
(Rich Text Format) e pervenire tramite e-mail: [email protected],
dischetto o CD. In caso diverso, non potranno venire accolti.
Registrato al Tribunale di Firenze n. 4612 del 9 agosto 1996.
ABBONAMENTI, ORDINI, INFORMAZIONI
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3 numeri annuali: Italia e Unione Europea € 22,00
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intestato Polistampa S.n.c. - Firenze
Una copia: € 8,00
Numero arretrato: € 10,00
Il presente fascicolo è stato chiuso in tipografia
il 30 Settembre 2007 con una tiratura di 2.500 copie.
Pubblicazione associata
all’Unione Stampa Periodica Italiana
Caffè Michelangiolo
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TERZA PAGINA
Chi dice donna…
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Il ballo degli Immortali
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BUONE ARTI
Perché l’infinito abbia forma
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di Mario Graziano Parri
di Antonio Imbò
incontro con Andrea Zanzotto
a cura di Paola Ciarlantini
e Guglielma Giuliodori
POESIA
Une colombe une autre
di Eliana Princi
«Daniel Spoerri, non per caso»
di Eliana Princi
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Ingresso ai sommi dell’arte
di Piero Pacini
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Macchiaioli a Roma
nel Chiostro del Bramante
a cura della Redazione
di Silvia Bre
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DECIMA MUSA
Nel fango di Manhattan
di Sandro Melani
Sia fatta l’ombra
di Mario Graziano Parri
«L’Amore non amato»
di Francesca Baldassari
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Beato il mio vicino
di Go̊ran Sonnevi
Le molte stagioni del simbolismo
di Piero Pacini
di Raymond Farina
Från «Oceanen»
ESPOSIZIONI
Biennale, pourquoi faire?
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ARTE E SCIENZA
Le scoperte di un patologo
PROSA
Del piantare chiodi sugli alberi
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BLOC-NOTES
Il tempo che passa, il tempo che c’è
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LETTURE
Charles Maurras e le destre di
Francia, di Danilo Breschi; L’eterno presente, di Monica Venturini;
Alessandro Serpieri, il secondo romanzo: «Dall’altra parte del tempo», di Mario Domenichelli; «Una
goccia nel mare», di Mirella Billi;
Fu vera gloria?, di Leandro Piantini; Un caso letterario, di Elena
Frontaloni; Gli ammaliati, di Milva
Maria Cappellini; «Poi ti raggiungo piano…», di Daniele Santoro;
Ciò che è stato, di Monica Venturini; Un Don Chisciotte padano, di
Federico Lenzi; Il fragile mito del
tempo, di Monica Venturini; Una
lettura della mente, di Giuseppe
Napolitano.
tre racconti brevi di Adrián Bravi
presentati da Elena Frontaloni
un racconto di Mario Graziano Parri
PROFILI
Rien ne va plus
di Sandro Melani
Un film non è un libro
di Bernardo Bertolucci
VETRINA
La corda pazza
di Elisa Zampetta
La forma dei sentimenti
di Elena Frontaloni
POLITICA E FILOSOFIA
Matteucci, maestro liberale
di Danilo Breschi
Il pluralismo possibile
di Nicola Matteucci
di Giorgio Weber
di Bartleby
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Hanno collaborato
MIRELLA BILLI è professore ordinario di Lingua e letteratura inglese all’Università di Viterbo. È autrice di Le strutture narrative nel romanzo di Henry Fielding (Milano 1974),
Virginia Woolf (Firenze 1975), Il vortice fisso, la poesia di
Sylvia Plath (Pisa 1983), Il gotico inglese (Bologna 1986),
Il testo riflesso (Napoli 1993). Ha pubblicato saggi sulla letteratura inglese del Settecento e dell’Ottocento, sul romanzo e il teatro contemporaneo, sulla poesia e narrativa femminile. Per Marsilio ha tradotto e curato La stanza
di Jacob di Virginia Woolf (19992).
SANDRO MELANI è docente di Letteratura inglese all’Università della Tuscia (Viterbo). I suoi studi prevalenti riguardano la letteratura sia britannica sia statunitense dell’Otto e Novecento. Tra le sue pubblicazioni la monografia su D.H. Lawrence (1982), il volume sul fantastico vittoriano (L’eclissi del consueto, 1996), il saggio sulle configurazioni dell’altrove in Ruth Prawer Jhabvala, Kazuo
Ishiguro e Bruce Chatwin (Lontani altrove, 2002) e scritti su Laurence Sterne, Emily Dickinson, Joseph Sheridan
Le Fanu, Christina Rossetti, Bram Stoker, Vernon Lee,
L.P. Hartley, Raymond Chandler, Shashi Tharoor. Vive a
Firenze.
DANILO BRESCHI (Pistoia, 1970), laureato al “Cesare Alfieri” di
Firenze in Storia del pensiero politico, ha poi conseguito
all’Università di Siena il dottorato di ricerca in Teoria e storia
della modernizzazione. Ricercatore di Storia delle istituzioni
politiche all’Università San Pio V di Roma, collabora in qualità di docente con il Centro di studi della Stanford University
in Italia. Ha pubblicato (con Gisella Longo) la biografia di
Camillo Pellizzi. La ricerca delle élites tra politica e sociologia
(1896-1979), 2003. Autore di numerosi saggi e articoli sul
fascismo, ha curato con Franklin H. Adler un numero monografico della rivista newyorkese “Telos” (Special Issue on Italian Fascism, n. 133, Winter 2005). È anche autore di due
libri di poesia: Congiunzione carnale, astrale, relativa (2004,
Finalista Premio Carver 2004) e La cura del tempo (2005).
PIERO PACINI è nato a Tuoro sul Trasimeno nel 1936 e
risiede a Firenze. È autore di studi monografici su Gino
Severini e sulla cultura figurativa tra ’800 e ’900; ha indagato aspetti della civiltà figurativa fiorentina tra il Manierismo e la tarda età barocca. Collaboratore di riviste a diffusione internazionale, è stato redattore di “Antichità
viva”; ha curato mostre di artisti contemporanei in Italia e
all’estero. Tra le ultime pubblicazioni: Le sedi dell’Accademia del Disegno (Firenze 2001) e Galileo Chini pittore e
decoratore (Soncino, CR, 2002).
PAOLA CIARLANTINI, recanatese, diplomata in pianoforte, musica corale e composizione ai conservatori di Firenze e Bologna,
si è laureata in Lettere moderne all’Università di Urbino. Studiosa dell’opera italiana, ha pubblicato quattro volumi e oltre
settanta articoli. Nel Bicentenario Leopardiano, per il Teatro
G.B. Pergolesi di Jesi ha curato tre edizioni critiche di opere, per
l’Accademia degli Incamminati di Modigliana il DVD “Il linguaggio del melodramma e l’identità nazionale italiana”.
Insegnante di materie letterarie nella scuola superiore, ha conseguito la docenza di letteratura poetica e drammatica nei
Conservatori. Ha presentato relazioni a convegni dell’Associazione degli Italianisti. All’Università di Macerata insegna musica per il cinema, supervisore alla SSIS è dottoranda in Italianistica
con una tesi sulla librettistica dell’Ottocento italiano.
ELIANA PRINCI è nata nel 1965 a Palmi. Dopo la laurea in
lettere con indirizzo storico artistico a Firenze, si è specializzata in storia dell’arte contemporanea all’università
di Siena e ha conseguito un master in gestione e comunicazione dei beni culturali con la Scuola Normale di Pisa.
Si è occupata di arte moderna e contemporanea curando
le mostre Vagaggini (1994) e Confronti (1996), ha scritto
saggi per gli artisti Paul Fuchs (1997), Gunter Dollhopf
(1997), Francesco Messina (1997), Federico Busonero
(2000), Giampaolo Babetto (2002), ha curato i volumi
Museo Nazionale d’arte Moderna. Centre Pompidou,
Parigi (2004), Guggenheim, Venezia e New York (2004),
Arte. Il Novecento (2005). Dal 2002 insegna al Liceo
Classico di Pistoia e collabora alla Facoltà di Design e
Arti dello IUAV, Università di Venezia.
MARIO DOMENICHELLI, ordinario di letteratura inglese e letterature
comparate all’Università di Firenze, è presidente dell’Associazione
per gli studi di Teoria e storia comparata delle letterature e
membro del direttivo dell’Association Internationale de Littératures Comparées. Ha pubblicato saggi sul Cinque-Seicento inglese, sulla narrativa della modernità e della postmodernità, sull’antitutopia, sulla figura del gentiluomo e cavaliere; ha curato
edizioni italiane delle Memorie di Martino Scriblero, di Galsworthy, di Dickens, di Conrad, e più di centocinquanta articoli in italiano, inglese e francese, su tematologia, petrarchismo,
drammaturgia inglese tra Cinque e Seicento, modernismo inglese e americano. Del 2007 è il Dizionario dei temi letterari (UTET,
tre volumi) diretto da Domenichelli assieme a Remo Ceserani e
a Pino Fasano. È autore di un poema “seriale” (Il cantare della
Decima Classe, 1991) e di un romanzo (Lugemalé, 2005, finalista al premio Viareggio e vincitore del premio Corrado Alvaro).
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MONICA VENTURINI è nata nel 1977 a Roma dove vive. Si è
laureata nel 2002 in Letteratura Italiana moderna e contemporanea a La Sapienza con una tesi sull’opera poetica
di Jolanda Insana con la professoressa Biancamaria Frabotta. Ha recentemente conseguito il Dottorato di ricerca
in Italianistica, coordinato dal professor Romano Luperini,
presso l’Università di Siena, discutendo una tesi riguardante l’opera di Amelia Rosselli e svolge attività di cultore
della materia presso l’Università degli studi Roma Tre con
la professoressa Simona Costa.
ELENA FRONTALONI è nata a Jesi nel 1980. Si è laureata in
Lettere classiche sotto la guida della professoressa Silvia
Ferretti, con una tesi sui Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Ha recentemente discusso la sua tesi di dottorato in
Italianistica: un’edizione critica di autografi pasoliniani. Si
occupa prevalentemente di letteratura novecentesca, con
particolare attenzione per le sopravvivenze del mito e
per le intersezioni tra parola e immagine nella letteratura italiana e mitteleuropea.
GIORGIO WEBER, già aiuto all’Università di Firenze di Antonio Costa, dal 1968 al 1993 è stato professore ordinario
e direttore dell’Istituto di anatomia e istologia patologica
nell’Università di Siena. Medaglia d’Oro del Presidente
della Repubblica, studioso dell’arteriosclerosi, al suo attivo ha oltre quattrocento pubblicazioni scientifiche. Attualmente coltiva la storia dell’anatomia patologica, pubblicando presso l’Accademia toscana di scienze e lettere
“La Colombaria” studi su Antonio Benivieni, Areteo di
Cappadocia, Antonio Cocchi, Lorenzo Bellini, Giovanni
Targioni Tozzetti.
GUGLIELMA GIULIODORI, di Filottrano (AN), si è laureata in Letteratura italiana presso l’Università di Bologna con una tesi su Alfredo Panzini. Ha conseguito il perfezionamento in Scienze e
storia della letteratura italiana all’Università di Urbino con una
tesi su Italo Calvino e il perfezionamento post-laurea all’Università di Macerata con lo studio Lessico tecnico-scientifico e lingua comune. Dottore di ricerca in Italianistica presso l’Università
di Macerata con la tesi La ‘norma’ di Zanzotto nell’Ipersonetto,
è esperta di didattica. Ha praticato l’insegnamento di materie
letterarie nella scuola media superiore e svolto la funzione di supervisore e docente presso la SSIS dell’Università di Macerata.
È autrice di numerose pubblicazioni in riviste di didattica e di critica letteraria e ha prodotto comunicazioni in congressi nazionali degli italianistiI, raccolte nei relativi Atti.
ELISA ZAMPETTA è nata nel 1984 e vive a Viterbo, dove ha
conseguito la laurea in Lettere Moderne con una tesi su
Graham Swift. Iscritta al corso di laurea specialistica in Filologia Moderna, si dedica agli studi pianistici: frequenta
il decimo anno della classe di pianoforte principale e di
musica da camera presso il Conservatorio “A. Casella” de
L’Aquila; ha partecipato, dal 2005 al 2007, a corsi di didattica pianistica, di metodologia e pratica dell’OrffSchulwerk e a varie Masterclass di Alto Perfezionamento
musicale presso il Conservatorio de L’Aquila e l’“Accademia musicale città di Amatrice”. Svolge attività di accompagnamento al pianoforte.
Caffè Michelangiolo
Terza pagina
CHI DICE DONNA…
di Mario Graziano Parri
P
che su “Famiglia cristiana”; la figlia di miei cariserché mai un professore ordinario di universimi amici a trent’anni suora con lauree in econosità se uomo viene gratificato con un “chiamia e in teologia e sport praticati fin da bambina,
rissimo”, se donna si vede appellare con un
non è visto di buon occhio che tuttora faccia del
generico “signora”? E perché si dice “donna medinuoto e del tennis.
co” e non si usa dire “uomo medico”? E la gag delI preti vestono il clergyman; una religiosa in
le “quote rosa”, che minimizza la presenza femmitailleur, la si è mai vista? Per la Chiesa il corpo
nile in ruoli di rappresentatività e di potere: perché
della donna è “scandalo”: deve essere celato, morle donne non si rivoltano contro questa non parità
tificato, segregato. Per la Società, il corpo della
di competizione?
donna (così sottilmente offensivo, osservava TruUna cardiologa cinquantunenne in una esemman Capote) è stato sempre subalterno all’uomo:
plare lettera al direttore (“Corriere della Sera”,
giovedì 27 settembre 2007, pagina 22) osserva: «Devo confessare padre, fratello, marito, figli. La emancipazione politica, sociale, inche leggere che le federazioni degli Ordini dei medici sono preoc- dividuale della donna non è affatto compiuta; vige tuttora il discocupate dell’eccessivo numero di “donne medico” non solo mi stu- noscimento della sua effettiva importanza nella procreazione e nelpisce, ma mi disgusta». E fra altri interrogativi si chiede: «Perché la gestione della medesima. Una Cécilia che lascia Sarkozy, nel nonoi “donne” ci siamo dovute far visitare per anni e senza fiatare da stro Paese è ancora impensabile. Qui la donna ha difficoltà a esseun ginecologo “uomo” e ci si preoccupa adesso per le delicate im- re: essere “persona”. L’espace d’un matin è durata la eventualità di
plicazioni psicologiche del maschio che deve farsi visitare da un uro- una Anna Finocchiaro al Quirinale, c’era da vedersela con i “padri”
del suo stesso partito; che probalogo “donna”?».
bilmente non è più la “chiesa” del
In varie parti del pianeta ci
Interferenze
tempo di Palmiro e della Nilde i
sono donne che occupano posizioquali dovevano perfino celare la
ni di comando: da Nancy Pelosi a
IL BALLO DEGLI IMMORTALI
loro relazione ritirati nel sottotetto
Yulia Tymoshenko, da Angela
di Botteghe Oscure, ma il suo caMerkel a Condolezza Rice, da BeLe conferenze sui cambiamenti climatici sono all’ordine del
none non pare sia stato revocato.
nazir Bhutto a Hillary Diane
giorno. Pare che il Mediterraneo sia particolarmente a rischio e
Vivere è azione, e una buona
Rodham. Non però nel nostro Paeche l’Italia si stia riscaldando più di ogni altro paese al mondo,
con pericolo di incendi e desertificazione. In questo scenario
parte delle donne lo dimostra ben
se: dei cinquantanove rettori delle
potrebbero scomparire, fra l’altro, alcune piante.
più di tanti uomini. Solo adesso ci
università di stato, cinquantotto
A fine agosto di quest’anno i viareggini hanno attestato il
si accorge della mia femminilità,
sono uomini. La prospettiva di
pericolo della sparizione del lauro, pianta sacra a noi cara, intordice Rosy Bindi. E “femminilità”
una Rosy Bindi a capo dell’esecuno alla quale si è costituita l’identità nazionale. La coscienza unilei la intende non certo alla mativo o di una Anna Finocchiaro
taria, nella nostra penisola, ha cominciato a formarsi con la pubniera del Gioberti secondo cui rialla presidenza della Repubblica
blicazione del capolavoro manzoniano prima ancora che l’audace
siederebbe «in una coscienza infa immediatamente scattare i seconte Camillo di Cavour traducesse in realtà politica il sogno
coata e confusa, che non erompe in
gnali di allarme nelle sedi dei Parmazziniano. Modellando I promessi sposi sul linguaggio toscano
Manzoni suggella, in modo definitivo, quel disegno linguistico
riflessione e non si estrinseca che
titi e nei Sacri Palazzi. Il diritto
comune già concepito da Dante Alighieri.
sotto la forma istintiva del sential voto la donna italiana se lo è viQuel sentimento di intesa culturale è stato dunque la pianta
mento» (Il gesuita moderno,
sto “concedere” solo dal 2 giugno
che nel tempo ha dato più frutti, che ha espresso il meglio di sé in
1847), bensì quale condizione di
1946 (per la Costituente), mentre
un paese demarcato geograficamente, ma diviso dal punto di
indipendenza che non abbisogna
la cultura della sua sistematica
vista politico e segnato da profonde sperequazioni sotto il profilo
del supporto maschile. Che non riesclusione dalla vita pubblica e
economico. Questa estate quella pianta ha subito uno scossone
sponde a padre e marito. Dietro a
dalle grandi decisioni è tuttora in
nella città viareggina. La scissione (trascuriamo la cronaca) di
ogni grand’uomo c’è una grande
vigore. «La donna sarà sempre il
alcuni giurati stava facendo naufragare la settantottesima edizione del “Premio Viareggio” che nasce, vale la pena ricordarlo, da
donna, si usa dire. La donna più
pericolo di tutti i paradisi», sosteun’idea di Leonida Rèpaci, nell’agosto del 1929 sulla spiaggia verpotente non ha che se stessa, dieneva il cattolico Paul Claudel
siliese, nel segno della leggerezza. La prima edizione sarà invero
tro. Sta qui lo scandalo, manda a
(Conversations dans le Loir-etpubblicizzata con un foglio titolato, con alto senso dell’ironia,
monte duemila anni di superstiCher, 1937). Ecco che dei trenta
“Immortali (o giù di lì)”.*
zione. Scuote il sistema. Rovescia
“Dottori della Chiesa”, le Sante
Antonio Imbò
le clausole del gioco, che si vorcon tale titolo sono soltanto due
rebbero permanenti. Per questo
(Caterina da Siena e Teresa d’Avi* Sul numero unico “Immortali (o giù di lì)”, stampato il 16 agosto, le firme
di artisti e letterati annunciano e pubblicizzano, con enfasi ma anche umorismo,
Rosy Bindi difficilmente ce la potrà
la). Papa Wojtyla si era fatto cola nascita del nuovo Premio. Il 18 agosto il ricavato della festa, allestita e chiafare, non è ancora il tempo per
struire una piscina olimpionica in
mata scherzosamente “Il Ballo degli Immortali”, verrà depositato per essere conproclamare: Omnia mutantur, nos
Vaticano, e con gli sci sulle nevi
segnato ai primi vincitori del “Viareggio”.
et mutamur in illis (Lotario I). ■
delle Alpi è comparso più volte anCaffè Michelangiolo
3
Buone arti
Natura, significato, musica della poesia
i temi di un incontro con Andrea Zanzotto
PERCHÉ L’INFINITO ABBIA FORMA
a cura di Paola Ciarlantini e Guglielma Giuliodori
M
acerata. In una sala di Palazzo
Torri si svolge uno degli incontri
del nostro dottorato di Italianistica. Nel tardo pomeriggio la luce del
giorno cala sullo sfondo dei colli di Recanati. Da una parte un gruppo di dottorandi e docenti, dall’altra Andrea Zanzotto. Quel che rende l’esperienza inconsueta, ed eccezionale, per tutti, è il
fatto che il Poeta si trovi fisicamente a
qualche centinaio di chilometri di distanza, a Conegliano Veneto. È una presenza “virtuale”. La sua immagine e la
sua voce ci giungono in videoconferenza,
tra brusii del segnale e alterazioni del
video, che, in un’imperfetta oralità secondaria, talvolta sospendono il viso del
Poeta a noi, o i nostri visi a lui. Nonostante tutto, si forma subito una sorta di
circolo ermeneutico, teso ad indagare la
sostanza stessa della Poesia ed il suo attuale significato. Non c’è alcun argomento concordato. Ciascuno ha la possibilità di ideare ed articolare liberamente
le proprie domande, e di tracciare insieme all’Autore, in tempo reale, un’idea
della Poesia come viaggio esistenziale,
urgenza comunicativa, istanza etica perseguita incessantemente attraverso il suo
specifico strumento, cioè la ricerca linguistica e stilistica. Quasi timoroso, all’inizio, nei confronti del “mezzo” che si
frapponeva tra noi e lui, e poi invece sicuro nell’ascolto delle nostre domande e
nell’elaborazione delle risposte “a distanza” (oggi si direbbe e-learning),
Zanzotto, con una semplicità e umanità
disarmanti (quella del colloquio privato,
tra pochi intimi), ci ha aperto uno spiraglio sul suo pòiein, sul suo Essere-Poeta-Nel-Mondo. Non ho esitazione nel dire
che è stato uno dei momenti più belli
del dottorato di Macerata. Una lezione
indimenticabile, irripetibile e unica, di
umiltà e slancio creativo, che forse può
ben essere condivisa oltre i confini di
quel pomeriggio e di quella aula universitaria.
Carlo Vecce
4
l’oralità. Questo mi richiama la definizione di ritmo fornita da Dessons e Meschonnic, studiosi per i quali il ritmo è
l’organizzazione di ciò che è in movimento nella lingua, basato su una pluralità accentuativa4. Essi gli attribuiscono un primato, la cui significazione
si può chiamare orale. Parlare del ritmo
come organizzazione degli elementi caratteristici – non soltanto la misura degli accenti ma anche gli effetti di “echi”
(piuttosto che “allitterazioni” o altro,
come ritorno di suoni) consonantici e
vocalici – significa parlare di oralità e
viceversa, probabilmente5.
C’è qualcosa che accomuna il suo
pensiero e soprattutto la sua produzione poetica alla concezione di Dessons e
Meschonnic?
Andrea Zanzotto.
1. Alcuni studiosi – come Beltrami1
e Praloran2 – pongono l’accento sul
fatto che, per il ritmo, è un limite fare
riferimento ad elementi esclusivamente metrici, anziché al discorso globale
in versi.
Secondo lei, sulla base della sua attività poetica, da che cosa è dato il ritmo?
È necessario in un primo momento
scrutare le minime unità; a ruota deve
seguire una continua strutturazione di
queste particelle e resta un qualche
dubbio sull’opportunità stessa di quelle unificazioni parziali rivolte ad una
che sia totale, dubbio che esse siano
nella direzione giusta.
2. Nel Piccolo discorso sulla musica3
lei parla del rapporto della poesia con
La mia realizzazione poetica segue
altre strade che non sempre coincidono
o si situano positivamente in relazione
al senso logico. Insomma, può essere
che la dinamica della lirica delle parole non sia ben accordata con la musica
della sintassi. Questo è un problema
che resta comunque aperto. Direi che
molte sono le considerazioni che si possono aprire a questo punto perché anche negli ultimi trenta anni si sono accumulate maree di ricerche, compiute
secondo criteri abbastanza omogenei,
ma che poi potevano anche spaccarsi in
varie direzioni. Direi che manca ancora una possibilità reale di esprimere un
giudizio definitivo sulle particelle musicali della lingua, sulla sua sonorità e
sulla dinamica costruttiva di senso, che
spetta naturalmente in primo luogo alla
singola parola e alla sintassi. E quindi
direi che chi scrive, nel momento in cui
scrive – parlo di poesia, naturalmente,
ma ciò vale anche per la prosa – non
vuole occuparsi minimamente di questo
problema. Soltanto dopo, quando c’è
lo scritto, quando qualcosa è sceso sulla pagina bianca e si ha la visualizzazione di un processo interiore, si può
Caffè Michelangiolo
Buone arti
cominciare a ragionarci sopra. Diremo
che resta sempre da verificare quella
energia primordiale che porta all’espressione e resta sempre un problema
aperto. Consideriamo anche i tempi
dell’organizzazione: grammaticale, sintattica, fonica… Potremmo dire che si
parte da un insieme di forze che sono
autoctone, cioè che si autocreano di
ignoto. Per questo, non credo neanche
possibile arrivare ad un sicuro “ne varietur”. Questo è il percorso come appare a me dall’interno; però non è detto che sia di per sé il percorso giusto, il
percorso vero.
In altri, le cose cambiano. Io non
vedo una poetica generale, ma vedo
piuttosto una poetica particolare per
ogni autore, diciamo pure autori diversi. Non dico neanche poeta perché
non so se lo sarò mai. Spero con queste
osservazioni di aver risposto alla domanda.
gua all’altra, anche in queste criptomusicalità. Naturalmente bisognerebbe
trovare anche questi esempi, ma non
sono in grado di portarne.
È uscito un bel libro della Bocci6 che
vede, per la buona riuscita di una traduzione, la necessità di ripercorrere le
fasi più importanti del vissuto di chi ha
scritto il pezzo di partenza. Dovendo
3. Qual è la sua opinione sulla traduzione di un testo poetico in altra lingua?
Giacomo Leopardi, incisione, Bibliothèque Nationale, Parigi.
momento in momento. L’interesse al significare e a dare un significato è qualche cosa che appare in un secondo momento. E resta sempre forte il dubbio
nel riprendere a mente fredda quello
che è stato scritto in base a questi impulsi ordinari sulla natura dell’espressione poetica.
È sempre possibile ritornare su quello che è stato scritto, per analizzarlo
anche a distanza di molto tempo. In poche parole, arrivata alla scrittura nella
sua ultima fase, l’espressione consente
di ridare qualche cosa, in cui però è
perduto il “primum movens”. Questo
non è un problema. Questo, per me,
nella mia esperienza, è un dato di fatto.
Poi, tende a venire un’ampia raggiera di
identificazioni, di ripercorrimenti, di ricerche tecniche anche, che tendono a
migliorare l’espressione nella sua ultima
fase, che, però, non possiamo mai dire
ultima. Io non mi sono mai accorto che
un’espressione nata così, come un ignoto che vuole apparire, sia corrispondente in maniera sufficiente a questo
Caffè Michelangiolo
Questo è un grosso problema. Ogni
lingua ha la sua musicalità, che si perde nel lavoro di traduzione. Un problema nel problema è il fatto che in uno
stesso testo poetico può talvolta esserci
contrasto tra struttura sintattica e musicalità delle parole.
Ricordo l’“Imitazione” dichiarata
che Leopardi ha tratto da La feuille di
Arnaud. Leopardi creò un’imitazione
del testo francese, ma non ci si può accontentare neanche di questo fatto.
Qualche cosa di verticale riesce a passare, qualche particolare, i timbri, direi.
Ho notato, per esempio, che per i bambini un testo poetico in italiano, nel loro
dialetto e in latino poteva essere un’esperienza del tutto particolare, proprio
collegata al trasferimento da una lin-
Carlo Levi, Ritratto di Eugenio Montale, 1941 ca.,
olio su tela, cm. 61 x 50, Fond. Carlo Levi, Roma.
Giuseppe Ungaretti ritratto nel 1964.
tradurre dal tedesco, bisogna stare a
sentire per lungo tempo i tedeschi, viverci insieme. La Bocci nel suo libro richiede un’immersione totale nel testo
di partenza, nelle sue radici letterarie.
Quindi, serve esplorare le varie situazioni, dalle quali si stabilisce un certo
tipo di scelte nella traduzione. Questo è
un altro fatto importante, una raggiera
che punta verso il testo perché si arrivi
appunto, in qualche maniera, ad una
traduzione che sia satura degli umori
originari e senza tempo.
Comunque, direi che ogni poesia che
nasce deve sempre ritornare all’autore,
alla gran meraviglia che fu il percorso
creativo originale, e questo vale anche
per l’autore del modello. Se l’autore non
prova un senso di sconcerto rispetto a
quello che ha scritto, si può dubitare
che vi siano le premesse per arrivare ad
una vera espressione. Ogni autore sviluppa una linea poetica. Bisogna vedere se il traduttore sia capace o meno di
riscoprire il percorso originario.
Inoltre, può capitare un altro fenomeno da me indicato sotto il titolo di
5
Buone arti
“poetiche lampo”7. Esistono delle “poetiche lampo” che sono immagini chiuse dentro il tessuto dei versi. E a un
certo momento uno si accorge, leggendo, che in due versi c’è la “poetica lampo”, la poetica stessa. O in uno solo dei
versi.
Basterà ricordare Leopardi. In un
componimento, che si trova nelle Operette morali e non nei Canti. Nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, queste cantano un inno, il Coro di
Morti: «Che fummo? Che fu quel punto acerbo che di vita ebbe il nome?». In
questo passo troviamo l’essenza poetica
di Leopardi, quel punto che dicevo.
Quattro parole-cardine: punto, acerbo,
vita, nome.
scritto una serie di poesie tutte ispirate
al concetto di “sera del dì di festa”8 ma
proiettate nel pieno inverno e nei nostri
tempi, con molte fusioni di paesaggi sonori e reali.
6.-7. Relativamente al Novecento,
quale valore poetico deve, a suo avviso, essere assolutamente comunicato
alle giovani generazioni? E la cosiddetta poesia applicata, ad esempio la
poesia per musica, la poesia dei cantautori, ritiene che possa essere considerata poesia a tutti gli effetti? Vorrei
il suo parere, perché su questo tema
c’è un importante dibattito critico in
corso.
Pier Paolo Pasolini.
Relativamente alla prima domanda, direi che vanno ricordati Eugenio
Il paesaggio sonoro ha, a suo avviso, Montale, asso di una poesia specialiun’influenza molto forte su questo ipo- stica, ed Ungaretti, che ha saputo esprimere l’esperienza della guerra. FondaL’elemento grafico ha una forte rile- testo?
mentale è stato il rinnovamento della
vanza. Certe volte ho insistito proprio
sul suggerimento grafico. Io, ad esemDobbiamo pensare alla differenza parola. Tutte le poetiche alla cui base
pio, l’ho ricavato da una serie di m e di tra il paesaggio sonoro e il paesaggio c’è la sincerità hanno cercato di camn, mai tante, e si arriva ad una sequen- reale. Il primo è l’assieme dei suoni mol- biare la realtà. Ogni valore si può conza grafica che genera dei suoni e an- teplici tipici di una certa realtà visiva. testare, ma non si può contestare il vache, indirettamente, dei pensieri. C’è Così in La sera del dì di festa di Leo- lore puro di un “M’illumino d’immenuna specie di forza che riesce ad essere pardi abbiamo un paesaggio sonoro che so” di Giuseppe Ungaretti. Il valore di
espressa. La domanda sembra parta dal però include anche un paesaggio uma- ogni rinnovamento terrestre, fino ai vatesto, in realtà parte da altro, dall’auto- no, è una sintonia. Aggiungo che io ho lori religiosi (si pensi a Rebora) non
re, e poi passa al testo.
manca nella nostra poeL’impulso alla creazione
sia. Non parlo, purtropdell’immagine può avere
po, del presente, perché
anche origini sensibili, a
siamo sommersi dalla repartire dalla vista o altro.
torica del limitato. Ai gioIl fatto che nei nostri climi
vani bisogna comunque
sia frequente la neve sui
accennare al valore che
monti anche in maggio
ha la parola in sé.
porta alla terzina: «Mai
Quanto alla poesia apmancante neve di metà
plicata, sono veri poeti i
maggio | chi vuoi salvare?
cantautori? Tante volte lo
| Chi ti ostini a salvare?».
sono, ma c’è il rischio che
Le già citate consonanti
la parola soccomba alla
riecheggiano qui la serie
musica; e c’è inoltre il
di cime innevate di magproblema della collocaziogio.
ne di questi autori. Paolo
Conte ha avuto il Premio
5. Vorrei affrontare il
Montale per alcuni valori
tema del paesaggio sonopoetici, ma la necessità
ro, perché si collega
che serve alla musica, e
strettamente con il ritmo,
trasforma la canzone in
il suono e la musica di
un oggetto, è problematiun testo poetico. Io, in- Paolo Conte fotografato il 9 aprile 2003 insieme alla italianista Simona Costa, al ca. Per esempio, Fabrizio
fatti, mi sto attualmente tempo preside della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli Studi di Macerata De André crea una specie
attualmente docente a Roma Tre, in occasione della laurea honoris causa in lettere
occupando della poesia emoderne
di scontro sul canto, tra
conferitagli dall’ateneo marchigiano. Al compositore e cantante di Asti
bucolica, da Teocrito in (1937) era stato assegnato nel 1991 il premio Librex-Guggenheim “Eugenio Montale parola e linea melodica.
per la poesia - Sezione versi per la musica”.
poi.
Ma per distinguere i poeti
4. Quale significato ha l’elemento
grafico nella sua poesia?
6
Caffè Michelangiolo
Buone arti
dai cantautori sarebbe soprattutto necessario guardare il loro conto in banca!
La poesia come tale viene sempre più
emarginata, stenta ad essere accettata
dalle case editrici. Questo interesse per
i compositori nasce dall’editoria. Se si
guarda alle tecniche, non è che essi abbiano fatto passi avanti. Fa bene uno ad
andare a cantare a Sanremo, o no? Sì,
perché l’espressione “attraversa” le persone, raggiungendo un pubblico più vasto; tanto meglio se si avvicina alla poesia vera.
89. Qual è il suo ricordo di Pier Paolo Pasolini?
Pasolini lo vedevo stanco, quando
andava a fare le cure a Lignano, o
quando stava a Roma. Amava il mio libro La beltà (1968) e ha avuto la fortuna di non aver visto il degrado che ha
investito posti che erano puri. Ricordo
che la mia ultima conversazione con lui
riguardava l’idea di Pasolini di scrivere
un film su San Paolo, progetto che non
venne realizzato. Lui era entrato in
quella stramberia che era Salò e non
continuò nella sua bella analisi dei valori della vita; il suo occhio si era fatto
disperato. Mi resta il ricordo del suo funerale, e del messaggio straordinario
che padre Davide Turoldo dedicò alla
■
madre.
NOTE
L’intervista è stata rilasciata in video da Andrea Zanzotto (presente presso gli studi di TeleMedia.Net di Conegliano Veneto) il pomeriggio
del 18 maggio 2005 ai dottorandi di ricerca in
Italianistica dell’Università di Macerata, guidati dal Prof. Carlo Vecce e riuniti presso il Dipartimento di Ricerca Linguistica, Letteraria e
Filologica. L’iniziativa era collegata alla manifestazione Viaggio musicale con Andrea Zanzotto (recital interattivo per soprano, pianoforte e voce del Poeta) ideata dal Prof. Paolo Cattelan dell’Università di Venezia e svoltasi al Teatrino Campana di Osimo nella stessa serata,
nell’ambito della programmazione culturale del
Corso di Laurea in Mestieri della Musica e dello Spettacolo. A tale manifestazione, voluta dal
Comune di Osimo (all’epoca sede del citato Corso di laurea) e dall’Università di Macerata, con
il coordinamento di Paola Ciarlantini, hanno
partecipato, esibendosi dal vivo in brani musicali cari al Poeta, il soprano Susanna Armani e
il pianista Michele Bolla. Alla videoconferenza
maceratese ed alla manifestazione osimana erano presenti Paolo Cattelan e Marisa Zanzotto.
Quest’ultima nel corso della serata ha anche
letto al pubblico la poesia del marito Co l’è mort
Caffè Michelangiolo
Andrea Zanzotto.
Andrea Zanzotto, nato il 10 ottobre
1921 a Pieve di Soligo (Treviso) dove risiede da sempre, con Dietro il paesaggio
(1951) ha iniziato la pubblicazione delle
sue opere, con cui ha nutrito, e continua a
farlo, la poesia contemporanea. La sua produzione percorre una ricerca e un’esperienza di oltre un cinquantennio, documentate – per citare alcune tappe – da Vocativo (1957), IX Ecloghe (1962), La Beltà
(1968), Pasque (1973), Il Galateo in Bosco
(1978), Fosfeni (1983), Idioma (1986), Meteo (1996), Sovrimpressioni (2001) e dalla
collaborazione con Federico Fellini, espressa con Filò. Per il Casanova di Fellini, la cui
prima edizione risale al 1976.
I suoi componimenti poetici testimoniano la crisi dell’uomo, dell’io, e i paradossi sociali, rappresentati con grande ricchezza e articolazione di contenuti – che
la Toti, dedicata al soprano concittadino Toti
Dal Monte.
La trascrizione dell’intervista è stata visionata da Andrea Zanzotto, che ha ritenuto di integrare ed approfondire alcune risposte. La versione definitiva risale al settembre 2006. La Giuliodori ha fatto riferimento a parti di essa nella
sua tesi di Dottorato in Italianistica La ‘norma’ di
Zanzotto nell’Ipersonetto, discussa presso l’Università di Macerata il 1° marzo 2006.
1 P.G. BELTRAMI, La metrica italiana, Il Mulino, 4ª ed., Bologna 2002.
2 M. PRALORAN, Metrica e tecnica del verso, in
Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, Cisalpino, Milano 2000, pp. 409-421.
3 A. ZANZOTTO, La lingua dell’infinito. Piccolo discorso sulla musica, intervista a cura di Paolo Cattelan, Pieve di Soligo 6 agosto 2004.
4 G. DESSONS e H. MESCHONNIC, Traité du
rythme. Des vers et des proses, Dunod, Paris
1998, pp. 26, 41 e sgg.
5 Ivi, pp. 101-102.
6 L. BOCCI, Di seconda mano, Milano, Rizzoli 2003.
rivelano sensibilità e competenza in molte
branche della scienza, oltre che profonda
conoscenza della letteratura italiana e straniera – e sperimentazione linguistico-strutturale. Ad essi si accompagnano racconti in
prosa, raccolti in Sull’Altopiano, saggi e
scritti critici, contenuti in gran parte nei
due volumi di Scritti sulla letteratura
(2001), Fantasie di avvicinamento e Aure e
disincanti del Novecento letterario, traduzioni, costituendo insieme una produzione
davvero importante.
Una costante della poetica zanzottiana
è lo strettissimo rapporto con la realtà concreta e l’ininterrotto riferimento al paesaggio, alla sua terra, assunta come simbolo
dei processi di trasformazione, della catena alimentare, ma anche della instabilità e
contraddittorietà, di specchio della condizione umana, dell’individuo e della poesia,
sottoposti ad un continuo processo di disgregazione. La sensibilità del Poeta è tale
da connettere quasi inscindibilmente paesaggio esterno ed interiore, da scavare nel
profondo dell’io e osservare acutamente
l’altro da sé, per l’individuazione delle ferite e delle possibili o improbabili “terapie”, come dimostra il testo di recente pubblicazione (2007) Eterna riabilitazione da
un trauma di cui si ignora la natura.
Testimone attivo e combattivo del degrado
ambientale, Zanzotto ha dato prova anche recentemente del suo impegno civile
per il recupero paesaggistico, o meglio per
la «decrescita felice», con la sua vittoriosa
“battaglia contro il cemento sulla golena
del Soligo”, testimoniata dall’articolo di
Francesco Dal Mas, Parco dell’arte al posto del palasport, in “la tribuna” del 12
aprile 2007.
Guglielma Giuliodori
7 A. ZANZOTTO, Tentativi di esperienza poetica (Poetiche-lampo), «il verri», serie VIII, 1-2,
marzo-giugno 1987, pp. 9-17; poi in Prospezioni e consuntivi, in Le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999, pp. 1309-1319.
8 A. ZANZOTTO, Sere del dì di festa (1-6),
in Sovrimpressioni, Mondadori, Milano 2001,
pp. 21-32.
9 Le domande sono state formulate da: Guglielma Giuliodori (1 e 2); Cristina Contilli (3);
Elena Frontaloni (4); Carlo Vecce (5 e 8); Marcello La Matina (6, tramite Paola Ciarlantini);
Paola Ciarlantini (7).
RINGRAZIAMENTI
Si ringraziano: Franca Piccinini, per la registrazione effettuata a Macerata; Francesco Carbognin, a fianco del Poeta negli studi di Conegliano Veneto; Fabio Curzi e Agostino Regnicoli,
per il collegamento video da Macerata; Paolo Cattelan e Marisa Zanzotto, per la preziosa collaborazione offerta.
7
Poesia
UNE COLOMBE UNE AUTRE
di Raymond Farina
[Raymond Farina, Une colombre une autre, Éditions des Vanneaux, Montreuil-sur-Brèche, dicembre 2006].
8
Caffè Michelangiolo
Poesia
BEATO IL MIO VICINO
di Silvia Bre
B
eato il mio vicino che dalle sue finestre
coglie con gli occhi i fiori che io curo,
i colori che veglio dal buio della casa.
Io penso a togliere le foglie secche
a dare l’acqua ai vasi appena serve,
devo sempre patire quando un giorno
vedo che sono morti eternamente.
Per lui sono soltanto vivi, solo belli,
non ha bisogno di saperne i nomi
per imparare come amarli meglio.
Beato lui, il vicino,
che chiama il mio balcone il suo paesaggio
e che di fronte a sé tra strada e cielo
vede distintamente il mio destino.
[Silvia Bre, Marmo, Einaudi. Premio Viareggio-Rèpaci 2007].
foto di Lucio Trizzino
Caffè Michelangiolo
9
Poesia
Från «OCEANEN»
di Göran Sonnevi
A
lla de fattiga Alla de utslagna jag
inte klarar av att möta Utan
förnedrar dem Förnedrar mig själv
Jag rör mig bara förbi Ansiktet,
T
utti quei poveri Tutti quegli sciagurati
che mi fa senso incontrare Anzi
li umilio Umilio me stesso
Passo solo oltre Il volto,
rösten som söker mig får inget svar
Min kropps tyngd Min själs
tyngd, momentum, i den framforsande
rörelsen på gatan Bland de andra
la voce che mi cerca non ottiene risposta
Il peso del mio corpo Il peso della
mia anima, il suo momentum, nell’impetuoso
via vai della strada Fra gli altri
som passerar Det är inte en enda
gång Det händer åter och åter
Vad är det i mig som skapar denna
che passano E non una volta
soltanto Accade volta dopo volta
Che cos’è in me a creare questa
flykt, denna hårdhet? Jag ville
röra vid dig i kärlek Så rör då
tomheten vid mig Fullkomligt svart
fuga, questa durezza di cuore? Volevo
toccarti in amore E invece
è il vuoto a toccarmi Nero, nero fitto
Stockolm, 2005
[Göran Sonnevi, Variazioni mozartiane e altre poesie, Pagliai, 2006].
Traduzione di Bruno Argenziano
10
Caffè Michelangiolo
Poesia
SIA FATTA L’OMBRA
di Mario Graziano Parri
U
n’attesa senza misura nel cerulo
cerchio dell’airone, un esulare
piano e senza suono
in attesa del gemito che chiude
la stagione del giorno e laggiù nello struggere
dell’aprile fra acqua e cielo
una barca è ferma sotto i salici curvi
sul Sile. Ti ho preso la mano
su quel punto che il vespro si fa pura
fiamma e ti ho chiesto se
d’un più vivo sangue ora vivevi
nel nudo candore della morte. E tu
con qualche reticenza le dita
di giglio marino hai ritirato come
si sfilano le ombre dei voli
dai vergini prati, e
un intimo riso è aleggiato.
Piave Vecchia, aprile 2001
[Inedita].
Caffè Michelangiolo
11
Prosa
«Rosetta Posillipo è una di quelle donne che non sorridono mai,
ma sono felici lo stesso»
DEL PIANTARE CHIODI SUGLI ALBERI
tre racconti brevi di Adrián Bravi
presentati da Elena Frontaloni
U
n uomo (età anagrafica volutamente imprecisata) (uno sguardo qualsiasi: maniacale; bassamente furbo o
che racconta la sua manìa di piantare chiodi; una desiderante; esageratamente comune) e riesce a trasforragazza molisana che per vie misteriose trova lavoro mare rimasugli del vivere e distorsioni del vedere in quale, lavorando, invecchia; un marito che fantastica sul non po- cos’altro: un universo sconcertante, pieno di risorse segreter cambiare faccia. Sono i tre soggetti delle pagine di Adrián te. Per fare tutto ciò, riversa sulla carta un mucchietto di
Bravi – madrelingua spagnolo, esordiente in italiano nel saperi, che sono però tra i più rari: un’inesauribile fanta2004 – che si presentano qui di seguito. Niente di male pen- sia; un cinismo tanto sfacciato e candido da far presagire,
sarle fin da subito debitrici dello stratagemma della scrittu- senza dirla, la pietà; molte e diverse tradizioni letterarie;
ra infantile, anche perché dal componimento scolastico ru- una lontananza non quantificabile eppure mai giudicante
bano forse il meglio: la cocciutaggine, le strampalate esat- rispetto alle voci che guadagnano volta volta il centro deltezze, gli improvvisi picchi di rapidità.
la scena. Ultima qualità delle pagine a seguire: un modo di
Davanti al primo testo potrebbe pure venire in mente la trattare le parole che irresistilmente le spiana sullo sfondo
lingua dello Strano caso del cane ucciso a mezzanotte di indefinibile d’un mezzo sorriso. Lo stesso che nonostante i
Mark Haddon. E non è peregrino sospettare che Bravi sia an- poco allegri e insieme non troppo tristi argomenti di queste
dato di tanto in tanto a imparare qualcosa dalla Kristof dei righe andrà a stamparsi, puntuale e inatteso, sul volto di
microracconti (quelli della Vendetta) e di Line, il tempo – una chi legge.
svagatissima quanto crudele pièce teatrale. Dell’autrice nata
E.F.
in Ungheria, decisa a scrivere in un francese «nemico» e ora
chiusasi nel silenzio, ritroveremo le invenzioni derivate da una lotta ai limiti
DEL PIANTARE CHIODI SUGLI ALBERI
dell’autismo con la sintassi e il dizionaon ci posso fare niente, mi è sempre
rio (partita qui stralunata dal fatto che
piaciuto piantare chiodi sui rami
Bravi lavora una lingua pericolosamendegli alberi. Lo faccio dai tempi della
te simile allo spagnolo), e la capacità di
scuola, pianto chiodi in solitudine, senraccontare minuscole tragedie del quoza fretta. Mi piace. Prendo un chiodo
tidiano privandole quasi completamentra le dita, l’appoggio sul legno e poi
te del loro peso specifico senza però snagli do una martellata o due, dipende,
turarle del tutto.
quelle che sono necessarie. Certe volte lo
A guardare queste pagine, insompianto fino in fondo, altre, invece, lo
ma, non si potrà fare a meno d’ammetlascio a metà. Su qualsiasi albero, duro
tere che ci troviamo davanti a un proo molle, spoglio o frondoso, basso o alto,
satore che sa usare mozziconi di realtà
come lo trovo. Non ho preferenze in
per costruire mondi pacatamente fanproposito. E quando pianto i chiodi certastici, evitando di cedere al mero gioco di non farmi vedere, ma se qualcuno,
co combinatorio o alle piatte fatiche
putacaso, mi trova con il martello in
del realismo minuto. Argentino d’orimano in cima a un albero, pazienza.
gine, Bravi si porta così appresso la leNessuno è perfetto a questo mondo. Poi
zione dei grandi sudamericani, da cui
i chiodi rimangono sui rami, arrugginiriceve quei polverizzati allarmi di senAdrián Bravi.
ti, per sempre. Mi piace tanto. Sono
sualità, tenerezza e disperazione che
Nato a San Fernando (Buenos Aichiodi piantati sui rami. Non ne pianto
ad esempio rendono infinitamente dires), Adrián Bravi vive a Recanati.
molti, diciamo una decina al giorno. È
stanti dal mondo, e tuttavia in esso
Il suo primo romanzo, Rio Sauce, esce
più che sufficiente. Cinque per albero,
ambiguamente radicati, alcuni pezzi
nel 1999 a Buenos Aires, per la casa
non di più. C’era un tempo in cui ne
del Bestiario di Julio Cortázar, o di
editrice Paradiso. Esordisce in italiano
piantavo molti. Era il periodo che i miei
Nessuno accendeva le lampade di Felisnel 2004, con Restituiscimi il cappotto
litigavano dalla mattina alla sera, si tiberto Hernández.
(Fernandel, Ravenna). È uscito quest’anno La pelusa (nottetempo, Roma).
ravano i posacenere addosso, spaccaBravi parte da uno sguardo semvano i piatti per terra, oppure si mipre strabico sugli oggetti della realtà
N
12
Caffè Michelangiolo
Prosa
nacciavano con i coltelli della cucina; allora io, che non sop- lenzio. Ma chissà, nessuno può sapere come vanno a finire
porto vedere litigare le persone, li lasciavo discutere da soli, le cose.
salivo sul primo albero che trovavo e ne piantavo quindici o
Per ora, mi alzo al mattino e m’incammino con il mio
venti, di chiodi. In silenzio, così, uno dietro l’altro. Poi mio martello in tasca e una piccola scatola di chiodi verso il bopadre è morto e non ci sono state più liti, allora sono torna- sco (non è proprio un bosco ma io preferisco chiamarlo così).
to a piantarne dieci al giorno. Mia madre, dopo che mio pa- Al mattino ne pianto cinque, la sera altre cinque, dieci in tutdre è morto, era molto triste e la sera, prima di addormen- to, circa. Ci tengo. Non riuscirei a campare senza poter piantarsi, la sentivo che si colpiva con i pugni sul petto o si tira- tare dieci chiodi al giorno. Per il momento non ho altre attiva i capelli. Anche io ero triste dopo che era morto mio pa- vità e sono orgoglioso di non essermi mai colpito un dito. Mai.
dre, ma continuavo lo stesso a piantare dieci chiodi al gior- E mi piace vedere l’ombra dei chiodi distesa lungo il ramo.
no. Li piantavo piano piano, colpendoli
L’ombra di un chiodo è la cosa che mi dà
appena: non riuscivo a schiacciarli fino in
più serenità. Da quando ho iniziato non ho
fondo. Con il tempo ho capito che nella
mai smesso. Neanche il giorno del funeravita si muore tutti e allora sono tornato a
le di mio padre. Quel giorno avrei voluto
piantarli come dio comanda. A volte,
piantarne uno sopra il suo feretro, povero
quando mi sento in pace con me stesso,
babbo, era stato un uomo così buono e
penso che l’ideale sarebbe piantarne uno al
comprensivo nei miei confronti. Sono sigiorno o addirittura nessuno: un colpo di
curo che sarebbe stato felice di imbarcarsi
martello a vuoto. Sarebbe come raggiunverso l’aldilà con un chiodo piantato sul
gere la perfezione: un poema senza parole,
legno della cassa. Mi ricordo che quel gioruna musica senza strumenti che suonano,
no, a un certo punto, come se mi stesse
un martello senza chiodi. Piantare chiodi
leggendo nei pensieri, mia madre mi
sui rami degli alberi rimane tuttavia la
guardò brutto negli occhi e io capii che mio
mia passione. Non serve a niente, lo so,
padre avrebbe dovuto andarsene senza nesma non posso smettere di farlo.
sun chiodo. «Pazienza, saprà farne a
Avevo una compagna a scuola che si
meno», pensai.
era affezionata pure lei a piantare chiodi
Magari un giorno avrò un figlio cui insui rami. Ci arrampicavamo insieme, scesegnare a piantare chiodi sui rami degli alglievamo un ramo, ci guardavamo un po’
beri. In fondo mi spaventa pensare che non
negli occhi e poi piantavamo cinque chioci siano altri piantatori di chiodi al di fuodi a testa. All’inizio lei ne voleva piantare
ri di me. Che oltre ai chiodi arrugginiti, rialtri cinque, tanto le piaceva questa cosa,
masti sugli alberi, potrebbero non essercepoi, piano piano, ha capito che cinque erane di nuovi. Per ora continuo a piantare, e
no più che sufficienti. I primi giorni avevo Adolf von Menzel, Interno, 1847, olio su poi si vedrà.
tela, Monaco, Neue Pinakothek.
paura che si colpisse un dito con il martello. Una volta, mentre cercava di piantarne uno su un ramo abbastanza esile, le ho detto di starci
LA VIDEOTERMINALISTA
attenta col martello: «… potresti farti male». «Nessuno mi
osetta Posillipo è una di quelle donne che non sorridono
deve insegnare niente, pensa ai tuoi chiodi», mi ha detto. Con
mai, ma sono felici lo stesso. Lavora da dieci anni circa
il tempo ho imparato ad avere fiducia in lei. Una sera che i
suoi erano andati a un ballo in maschera siamo andati in nel Municipio di Anfossi e le sue colleghe dicono che è una
camera sua a baciarci sulla bocca. Poco dopo lei si è scoperta donna molto riservata. La mattina, prima d’andare a lavoun seno davanti a me e gliel’ho succhiato. Quel giorno non rare, stende i panni, pulisce il pavimento con un detersivo al
ho resistito alla tentazione, quando lei è andata in bagno io limone che a lei piace molto e quando ritorna a casa passa al
sono rimasto in camera e ho piantato due chiodi sul parquet, supermercato a fare la spesa. Vive da sola, forse mangia
uno sulla finestra e altri due sull’armadio. Erano così belli, poco. I più informati dicono sopra un tavolo piccolo e lucido,
tutti diritti. Lei non mi volle più vedere, e quel giorno capii di preferenza senza tovaglia. Ogni sabato pomeriggio – questo lo sanno tutti – prende un interregionale. Ritorna la doche non potevo limitarmi solo ai rami degli alberi.
Ma non sono mai stato capito, neanche da mia madre, menica notte a Anfossi con l’ultimo treno.
Quindici anni fa abitava in un paese del Molise, in via dei
che mi chiedeva ogni volta di non rovinare i mobili. «Non li
sto mica rovinando», le dicevo. Sua sorella avrebbe voluto Mappi. Finita l’università, s’era inventata di fabbricare purinchiudermi in un istituto, lo so per certo: «come hai fatto pazzetti di pane intrecciato con listelli sottili che poi colorava
a mettere al mondo uno così», diceva. Io non mi facevo in- con lo zucchero sopra. Lei li chiamava “i miei pupazzetti iperfluenzare né dalla mamma né dalla zia, se non potevo pian- bolici”. Una volta terminati dieci o venti pupazzetti li vendeva
tare chiodi sui mobili o sulle finestre, e visto pure che non ai panettieri per addobbare le vetrine, oppure alle amiche di sua
avevamo il parquet, uscivo e mi arrampicavo sugli alberi, madre per decorare la casa. Non c’era compleanno o battesimo
senza dare fastidio a nessuno. So che un giorno smetterò di dove si facessero mancare pupazzetti iperbolici a tavola.
Ad un certo punto s’era fidanzata con Mauro, un ragazpiantare chiodi, che appenderò il mio martello su uno dei
chiodi e guarderò sui rami per cercare i miei chiodi in si- zotto con un paio di baffi neri e una prominente stempiatu-
R
Caffè Michelangiolo
13
Prosa
ra. Mauro s’appuntava un po’ sulle parole, non si può dire
nemmeno che balbettasse, e ad ogni modo ripeteva sempre
che era un uomo stressato. L’altro argomento era farle notare che con i pupazzetti di pane non sarebbero potuti arrivare da nessuna parte:
«Rosetta ascoltami, non possiamo andare avanti così, trovati un lavoro più sicuro. Con questi pupazzetti non faremo
mai niente».
Mauro, a suo modo, aveva ragione. Voleva che la fidanzata facesse valere il suo titolo di studio per insegnare in
qualche scuola del nord, ma soprattutto fu il primo a capire che il suo handicap alla mano destra l’avrebbe avvantaggiata nelle graduatorie per gli impieghi pubblici. Questo
handicap Rosetta l’aveva scoperto un giorno che stava preparando la pasta per i suoi pupazzetti di pane. Si era accorta all’improvviso che le mancava un dito, l’indice della mano
destra per la precisione. Stupita di questo fatto aveva cominciato a contare con la mano sinistra tutte le dita dell’altra e, per la prima volta, aveva costatato che, in effetti, le
mancava un dito.
«Non è possibile» diceva mentre cercava il dito scomparso tra la massa di pane. Quella sera Mauro aveva suonato il
campanello alla solita ora, il terzo dall’alto, via dei Mappi.
Era entrato in cucina e quando l’aveva vista con le lacrime
agli occhi le aveva chiesto cosa le fosse successo.
«Mi è scomparso un dito» diceva lei mentre continuava a
cercarlo.
«Un dito! E come?»
«Non lo so.»
«Come non lo sai?»
«Non lo so. All’improvviso non l’avevo più.»
«E ti fa male?»
«No, ma lo rivoglio. Sono rimasta senza, guarda qua.»
«Ti ho detto che questo lavoro non è per te. Non si può andare avanti con i pupazzetti. Comunque, vedrai che ora senza un dito tutto sarà più facile.»
«E se torna?»
«Cosa?»
«Il dito.»
«Lo facciamo scomparire un’altra volta.»
«Scomparire?»
«Adesso nelle domande potrai scrivere che appartieni alle
graduatorie di preferenza per disabili» diceva Mauro, e ogni
tanto dava una pacca sulla schiena alla sua fidanzata.
Mauro aveva ringraziato due o tre santi imprecisati e se ne
era andato a festeggiare la scomparsa del dito con gli amici al
bar. Il giorno successivo era tornato a casa di Rosetta con dieci domande pronte da spedire ai comuni. Nel frattempo Rosetta continuava a fabbricare pupazzetti di pane sempre più
colorati e iperbolici. Non ci pensava più di tanto a quelle domande spedite da Mauro, ma il giorno che aveva visto il suo
nome al primo posto nella graduatoria di un paese trevigiano, aveva fabbricato molti di pupazzetti da regalare ai futuri suoceri.
Lassù in montagna aveva trascorso i primi dieci anni di lavoro, di fronte a un terminale collegato con l’ufficio anagrafe. Si trovava bene, diceva che aveva conosciuto un’altra ragazza molisana e che ogni tanto mangiavano insieme lo stoccafisso. Si lamentava solo del freddo di montagna e del fatto
14
che i pupazzetti non le venivano più così iperbolici come laggiù in Molise.
Concluso quel decennio aveva ottenuto il trasferimento ad
Anfossi: un comune che si trova a duecento chilometri dal suo
paese natale anziché settecento come quello trevigiano. Mauro, i futuri suoceri e la famiglia Posillipo erano contenti di
questo evento e per festeggiare il trasferimento di Rosetta avevano organizzato, a sua insaputa, un pranzo a base di cotechino. Poi l’avevano tutti accompagnata a prendere il treno.
Qui ad Anfossi sono ormai nove anni che Rosetta lavora
come operatore tecnico videoterminalista e si trova abbastanza bene. Rimpiange ancora i suoi pupazzetti iperbolici,
ma è fiduciosa e spera che entro i prossimi cinque anni la trasferiscano dalle sue parti, laggiù in Molise, accanto a Mauro,
forse dirimpetto alla finestra dei suoceri, sulla parallela di via
dei Mappi. Perché è ora, dice lei ai suoi, di mettere su famiglia.
UNA FACCIA CHE VORREBBE ESSERE UN’ALTRA
N
on è per niente semplice alzarsi di buonora e dire di
fronte allo specchio del bagno: “oggi voglio essere un altro”. Oppure: “oggi voglio uscire e diventare la faccia – per
esempio – del libraio all’angolo della strada, che oltre ai libri
vende pure matite e quaderni”.
Dovrei anzitutto lavarmi il muso, tanto per cominciare a
svegliarmi. Dopo mi farei preparare un caffettino da mia
moglie e, mentre sale l’acqua nella caffettiera, osserverei
com’è il tempo fuori. Poi, naturalmente, farei colazione e, perché no?, inzupperei dentro la tazza di caffè un biscotto al
mais. Prima di partire saluterei mia moglie con un bacio sulla fronte e cercherei di dirle qualcosa di tragico e comprensibile. Una cosa del tipo: “Amore mio, esco per essere un altro,
ma tornerò per essere me stesso, tuo marito di sempre, più me
stesso che mai”; ma ci ripenserei subito e non le direi nulla per
non preoccuparla.
Poi andrei incontro ai saluti del mattino, al “salve” del
giornalaio, al sole già alto, agli odori, alle strade movimentate.
Poi aprirei la porta della libreria guardando di non farmi notare troppo. Il libraio è un tipo scorbutico, poche volte riesce
a risultare simpatico ai suoi clienti. Ma io entrerei lo stesso e
guarderei fisso questo signore mentre comincia a togliersi gli
occhiali. Lui abbandonerebbe la sua lettura, appoggerebbe il
libro che sta leggendo sopra il tavolo e mi direbbe: «Buon
giorno signor Agostino, posso esserle utile in qualcosa?». Tra
un occhio e l’altro io gli noterei subito quello spazio dove magari potrei appuntarmi per iniziare a diventare la sua faccia,
ma non ce la farei di sicuro, perché il libraio ha il monociglio
e quindi troverei quel punto lì in mezzo ricoperto di peletti
scuri. Allora, smarrito, mi verrebbe da chiedergli il prezzo del
primo libro che trovo a portata di mano e lui mi risponderebbe: «Ventotto, in questa edizione». Ma io non troverei
nulla da diventare in quel: «Ventotto, in questa edizione».
Allora mi girerei e dopo un: “Grazie, ci vediamo”, me ne andrei un po’ stranito. Tornato a casa, dovrei aprire la porta del
bagno per guardarmi allo specchio. La mia faccia sarebbe la
stessa di ogni mattina; con una disgrazia in più: quella di do■
ver essere, per tutta la vita, la stessa.
Caffè Michelangiolo
Prosa
IL TEMPO CHE PASSA, IL TEMPO CHE C’È
un racconto di Mario Graziano Parri
Un’arancia sul tavolo
il tuo vestito sul tappeto
e nel mio letto, tu
dolce dono del presente
JACQUES PREVERT, Alicante
A
quest’ora?, e guardò suo marito. Chi può essere, fece
Patricia.
Aspettiamo qualcuno? chiese lui.
Lei aveva udito l’inequivocabile sfrigolio della ghiaia
sotto la pressione delle gomme. Veniva dal retro. Siro vai tu,
disse. Io sto mettendo la teglia in forno. Avranno portato il
pane, aggiunse. Domani è domenica.
Siro girò attorno alla casa. Dove arrivava il vialetto che
viene su tagliando in diagonale il prato di trifogli era ferma
una Golf nera. Il sole stava scomparendo in una vampa rossoviolacea che striava il Trasimeno come la coda iridescente di una cometa. Nell’aria c’era quella luce crepuscolare che
obnubila la vista di chi come lui possiede quel tipo di occhi
eccezionalmente chiari, più del più chiaro pastello di un
bambino. Siro ebbe qualche difficoltà a distinguerli, erano
scesi dall’auto e ora di fronte aveva due sagome accostate.
Una maschile, l’altra… l’altra femminile. Sentì subito l’odore di lei, per niente dolce. Acre ed eccitante tra gli effusi
profumi selvatici del timo e del rosmarino che a cespugli crescevano là attorno con le rose di siepe e gli oleandri.
Abbiano letto l’annuncio stamattina sul “Corriere dell’Umbria”. L’uomo gli stava tendendo la mano. Buonasera… Mi chiamo Matteo. C’era venuta voglia di vederla,
disse. Et nous voilà, intervenne la donna. Io sono Julie. La
voce era trillante, e anche lei si fece avanti a stringergli la
mano. Lui le prese tutte e due nelle sue, un po’ interdetto.
Oh… è che siete in controluce, si scusò. Quasi non vi distinguo… Ecco, io sono Siro. Gli altri due risero. Be’ è
comprensibile, disse Matteo. Piombiamo qui senza preavviso ma abbiamo perso il cellulare. E Julie si strinse nelle
spalle. Coppia si trasferisce e vende accogliente casale in
campagna vista lago eccetera… ci ha incuriosito, continuò
Matteo. Non siamo di qui, ma siccome ci passiamo spesso…
e l’Umbria ci piace, proseguì. Mia moglie è del Midi. Anche
là tutti vivono fuori.
Venite, li invitò Siro. Vi mostro intanto il fuori della nostra casa. Il sole era quasi del tutto scomparso e una pacata ombra con qualche striatura dorata si stava distendendo
sull’acqua laggiù e risaliva il poggio. Oh regard Mathieu,
fece Julie. E prese per mano il marito. La même lumière qu’à
Cessenon-sur-Orb lorsque le soleil se couche. Le ciel se ferme lentement…
Era alta e con lunghi capelli biondi stretti in un fermaglio, il viso un po’ lungo e il naso affilato. Gli occhi di Siro
pian piano avevano ripreso a vedere. Matteo era suppergiù
Caffè Michelangiolo
alto come lui, un poco più rotondo semmai e la faccia piena. I capelli piuttosto lunghi e sul castano chiaro. Come gli
occhi, probabilmente. Sì, disse Siro. È sempre uno spettacolo
sorprendente. La luce stava declinando e gli occhi cominciavano a valutare meglio le linee di lei e di lui. Non ci
aspettavamo una visita così presto, proseguì. A dire il vero
avevamo ben poca fiducia nel quotidiano locale. Mia moglie
aveva in mente qualche giornale di Monaco o di Düsseldorf.
Molti tedeschi della Baviera e della Renania hanno già comprato in questa zona. E con la mano segnò nell’aria un’ampia parabola. Le proprietà non sono recintate, continuò.
Nemmeno la nostra. Vedete?… va giù verso il lago fino a
quella fila di alberi. E indicò a mezzacosta il gruppo di eucalipti. È il confine, tenne a precisare.
Patricia stava venendo verso di loro, camminava a piedi nudi sul bordo d’erba e lo spacco della veste di un bel prugna denso mostrava a tratti lo svelto bagliore della gamba.
Mi chiedevo dov’eri finito, disse. Sono venuti per la casa,
fece lui. Julie e Matteo, aggiunse.
Benvenuti, li salutò lei. Il mio nome è Patricia. Ho appena aperto un grechetto d’Orvieto, ci state? Volentieri, disse Matteo. Je suis d’accord moi aussi, aggiunse Julie.
Negli scartocci di opalina le fiamme delle candele sotto il
portico animavano una luce tenue di perla, Patricia aveva
portato dei crostini spalmati di ciauscolo. Ottimi, fece Matteo. La sua bocca era ampia e morbida, sensuale, e c’era una
vistosa fossetta nel mento. Cos’è? domandò. Spalla, pancetta
e grasso di maiale, spiegò lei. Una specialità dei Monti Sibillini. Per un po’ lui la guardò, quel viso carico di emozione e la nuda gola svettante. Anche lei guardò lui, i capelli dorati come un dattero che gli ricadevano sulla fronte in
un’ampia ciocca e il sorriso sfacciato che dilatava le narici
mobili del naso carnoso. On est si bien ici, intervenne Julie.
Pourquoi la vendez-vous? Siro ha vinto un concorso alla Sapienza a Roma quando non se lo aspettava più, spiegò Patricia. Da ormai vecchio ricercatore di filologia italiana è
passato a essere un giovane promettente ordinario. Già, fece
lui. Mi hanno trasferito alle rotte transcontinentali, scherzò.
Ma ormai per me i tempi a terra si sono ridotti. Stiamo
pensando di avvicinarci, s’intromise Patricia. Sempre nei
pressi di un lago, preferibilmente. Abbiamo visto qualcosa a
Nemi, aggiunse. Borgo medievale e selve: è ciò che cerchiamo. Insieme al silenzio.
Potremmo comprarci una chiatta, disse Siro. Da una
tasca dei pantaloni aveva tirato fuori una pipa ricurva che
faceva pensare a un uncino. Una sorta di casa galleggiante, soggiunse. Caligola ce le aveva piazzate, due grandi
navi che venivano usate per le cerimonie religiose. Oltre
l’anfiteatro e il tempio di Diana, non voleva che si costruisse niente altro lungo quelle rive. Un autentico ecologista, l’imperatore.
15
Prosa
Certo, l’idea è seducente, disse Matteo. Ma non avete
paura di annoiarvi. Risero tutti. Patricia e Matteo si guardarono, lei aveva capelli che scendevano morbidi e sensuali sulla scollatura con quel giro di grani d’ambra e argento.
Scuri come gli occhi grandi e allungati. Quelli bruni di lui
erano occhi da camera da letto, è in tal senso che guardavano una donna. Un invito sottinteso, perché lei sostenne lo
sguardo.
Dicevate che da queste parti ci venite abbastanza spesso, osservò Siro. È per il vostro lavoro? chiese, e si accese la
pipa con lo zippo cavato dall’altra tasca. Ah bien… antiquité, disse Julie. Commerce d’objets anciens. Qualche buon
pezzo qui si riesce ancora a scovarlo, aggiunse Matteo. In
qualche vecchia casa, in certe sacrestie di campagna. Julie
posò il bicchiere sulla tavola. Ancora un po’? fece Patricia.
Oh sì, disse Julie. Très volontiers. Patricia restò con la bottiglia inclinata. Anche lei Matteo? disse. È una delizia, fece
lui. Certo, come tutto qui…
Perché non restate a cena, e Patricia guardò prima Matteo e poi Julie. Potrete così vedere la casa con tutto comodo.
Avec grand plaisir, accettò subito Julie. Oui, con piacere…
Per me va bene, disse Matteo.
La tavola era ingombra di piatti e bicchieri, e un paio di
bottiglie di sagrantino erano a fine. Attorno agli scartocci
di fiamma svolacchiavano sciami di nottue e altri insetti
della sera, alcuni avvampavano con un sottile sfrigolio.
L’aria che saliva dal lago era impregnata dell’odore delle
rose muschiate e del brusio euforico dei grilli. Siro e Patricia erano da una parte del tavolo, di fronte avevano Julie e
Matteo.
Julie, ascolti… Siro levò il braccio come per dare la battuta all’orchestra: I miei baci son lievi, ricordano le efimere
che sfiorano a sera i laghi trasparenti… Fu Julie a proseguire: Et ceux de ton amant creuseront leurs ornières comme des chariots ou des socs déchirants… Matteo riprese, e
guardò fisso Patricia: Ti passeranno sopra con zoccoli spietati come un pesante tiro di buoi o di cavalli… E lei a sua
volta scandì: Per uno dei tuoi sguardi dall’incanto divino son
pronta il velo ad alzare dei piaceri più oscuri… E Julie
concluse: Et je t’endormirai dans un rêve sans fin!
Be’, qui non ci annoiamo…, e Siro accennò a battere le
mani. Patricia sorrise e si appoggiò alla spalla del marito. Un
po’ di rocciata, poi domandò. Vi va?… è una specie di strudel di queste parti: mele, nocciole, noci, pinoli e uvetta… Una
ricetta medievale, aggiunse. Che io ho un po’ rielaborato.
Mia moglie è bravissima a scovarle, intervenne Siro. E ci
scrive sopra dei libri di cucina che riesce perfino a vendere
molto cari.
Sarà certamente squisita, Patricia…, e Matteo tornò a
guardarla. Vado a prendere i piattini, disse lei. Vengo ad aiutarla, si offrì lui e si alzò.
Gli sguardi di Julie e Siro s’incrociarono. Lui la fissa, senza dire niente. Anche lei lo fa, una lunga occhiata senza un
battito di palpebra. Poi si concentra sul bicchiere col lungo
gambo che ha davanti, e con studiata lentezza passa il dito
tutto intorno al bordo. Ne ricava un suono nitido, prolungato. Alza di nuovo la testa e torna a guardarlo… la fronte
sensibile di lui, quel naso risolutamente arcuato.
16
Matteo è di ritorno con i piatti. Non c’è dubbio, annuncia. Anche l’interno è magnifico. Siro si alza. Potete visitare tutto, dice. Prende i piatti dalle mani di Matteo. Grazie,
fa. Credo che una grappa morbida e asciutta sia quello che
ci vuole a questo punto. Dovrei avere dell’eau de vie, non del
Midi però. E allarga le braccia mimando il disappunto.
È solo marc d’Alsace, aggiunge e ride.
Patricia è all’acquaio, ha finito di disporre il dolce sul
vassoio che ha messo sopra il tavolo e la cucina è un po’ in
disordine. Sono venuto a prendere la grappa, dice Siro. Lei
è di spalle. Ah sì, dice. Ma ha il pensiero altrove, e lo dà a
vedere. Raccoglie meccanicamente le posate dal cestello che
è da una parte, allunga un braccio e fa per porgergliele. Ma
apre la mano prima che lui sia abbastanza vicino per prenderle. Al rumore che fanno cadendo si volge ed è quasi sorpresa. Patricia…!, e ora lui le si è avvicinato. Oh scusa, fa
lei e lo guarda disorientata. E dopo un reciproco indugio si
abbracciano. Un veloce abbraccio perché la porta si è aperta, sono entrati i loro ospiti. Ci ha preso freddo, dice Julie.
Je souffre du froid. L’abito blu pervinca liscio e lungo è infatti abbastanza scollato. No, nessun gioiello e non ha neppure l’orologio al polso e i sandali in pelle argento con la
striscia che attraversa il collo del piede hanno un tacco diritto. Che la slanciano. I fianchi s’inclinano sulle gambe
con delle piacevoli curve. Nell’incerta luce là fuori questo insieme di particolari poteva anche sfuggire.
L’aria rinfresca in fretta, dice Patricia. Anche se ormai
siamo si può dire all’estate, aggiunge e va incontro a Matteo.
Una grappa? gli domanda. Si guardano negli occhi. Sì, risponde lui e c’è nel tono un che di carezzevole. Grazie, Patricia. E si spostano nel soggiorno, all’angolo dov’è il carrello
con bottiglie e bicchieri. Siro è al caminetto, ha un ginocchio
a terra e sta per accostare il fiammifero alla carta sotto la
pila di legna. Lo preparo fino dalla mattina, dice a Julie che
gli sta accanto in piedi. Una fiammata, aggiunge lui mentre
si alza. In serate come questa fa ancora un certo piacere.
Posso andare al bagno? lei gli chiede. S’il vous plaît…
Di sopra, lui le risponde.
Si guardano. L’accompagno, aggiunge. Vous me suivez?
Oui, fa lei. Je vous suis.
Patricia e Matteo li osservano andar su per la scala di legno abbastanza stretta e che fa angolo con la parete. E tornano a guardarsi. Matteo ha il bicchiere in mano, lei ha
posato la bottiglia. C’è un sospiro soffocato, e viene dal fondo di lei. Si guardano ancora, come per rilanciarsi uno stesso pensiero.
È qui, dice Siro. E apre la porta. Sono sulla soglia, Julie
gli passa davanti e appena lo sfiora. Resti pure, gli dice. Vous
pouvez rester, si vous voulez…
Sì, dice lui. Certo che lo voglio…
Julie si scioglie con un gesto naturale i capelli, va a mettersi sul bidè. Rivolta verso di lui. Si sfila dalla testa l’abito, sotto non ha niente. Apre il rubinetto che ha dietro e
guarda lui che la sta osservando. Poi si leva da lì, lui prende l’asciugamano. Glielo passa fra le gambe. Grazie, fa lei.
Lui la tocca dove ha appena passato l’asciugamano. Scendiamo, le dice.
Lei gli va dietro. Ha solo i sandali argento con l’alto tacco che scandisce la discesa di scalino in scalino. Il soggiorno
Caffè Michelangiolo
Prosa
è ora rischiarato esclusivamente dal bruciante riflesso del
caminetto. Siro si siede sul bordo di una poltrona, Julie gli si
è accoccolata di fronte. Molto vicina e si sporge su di lui, si
toccano. Gli prende il viso fra le mani e subito trova la sua
bocca. Gli tira su la T-shirt e lui l’asseconda facendosela passare sopra la testa come lei aveva fatto nel bagno col proprio
vestito, e subito tornano a cercarsi e si abbandonano a quella intimità abbagliata dal fuoco e che è un pulsare affannoso di ansimi. Dall’altra parte della stanza, con la schiena alla
parete, Patricia si tiene diritta e ha un piede sul bracciolo del
divano e il ginocchio scoperto piegato in avanti come a offrirlo
alle lingue della fiamma, e la oscura veste alzata e cedevole
sul seno fa l’effetto di un insidioso drappeggio su quella candida carne. Matteo è in ginocchio, nudo. E ha la faccia affondata in lei, nel più intimo di lei. Che tiene la testa leggermente
girata, col mento levato sul bianco collo in tensione e le dita
convulse nei capelli di lui. E sogguarda il marito e l’altra con
un riverbero che resta nella pupilla, in un crescere quasi angoscioso del respiro.
Lui innanzi e lei subito dietro, Matteo e Julie vennero giù
per la scala fra i bruschi scricchiolii del legno. Si erano rivestiti e lui aveva i capelli umidi tirati indietro. Sull’ultimo
gradino si volse e sorrise a Julie. Anche lei si era soffermata, gli appoggiò la mano sulla spalla in un gesto complice e
gli sorrise.
Siro e Patricia li aspettavano. Nel soggiorno le lampade
erano state riaccese e il fuoco ravvivato. Il grosso ceppo aggiunto faceva balenare una fiamma bluastra dalle liquide
movenze. Allora…, disse Matteo. Allora grazie dell’ospitalità.
Non volete finire di cenare? propose Patricia. Il dolce…
Grazie, disse Julie. Nous avons encore beaucoup de route à
faire. E poi non mi piace guidare di notte, intervenne Matteo. Specialmente di sabato.
Patricia dette un’occhiata d’intesa a Siro. Magari sarà per
un’altra volta, disse. Ci dispiace, disse Matteo. Ma noi non
rivediamo mai nessuno.
Sì, fece Siro. Sì, capisco…
Allora, disse Patricia. Buona fortuna…
A vous aussi, disse Julie.
E grazie ancora, ripeté Matteo.
Ça a été tres agreable, aggiunse Julie.
Siro e Matteo si guardarono e fra loro ci fu un rapido abbraccio. E anche Patricia e Julie si abbracciano, poi Matteo
bacia Patricia sulla bocca. Allo stesso modo Siro bacia Julie,
e tutti e due chiudono gli occhi mentre lo fanno. Matteo dà
ancora la mano a Patricia, la sinistra. E lei gliela trattiene,
prima di lasciarla accompagnandola.
Sono già alla porta Matteo e Julie, quando Siro dice: Volevate davvero vedere la casa?
Matteo si volge. Ah sì, risponde. Sì, sì… Cet endroit nous
plait beaucoup, dice Julie. Il posto ci piace, oui… mais tout
ne vas pas toujours comme on le voudrais.
Vi capita spesso? dice Patricia. Voglio dire, questo tipo
d’incontri…
Des fois, dice Julie. Le samedi soir… Ma di rado per
caso, aggiunge Matteo. Come stasera.
Oui, ripete Julie. È stato davvero… davvero molto bello.
Un plaisir.
Caffè Michelangiolo
Fate attenzione alla strada, dice Patrizia. Faites attention…
Il telefono si fece sentire mentre cominciavano il dolce, seduti al tavolo di cucina e con il bicchierino davanti di Marc
d’Alsace Gewurztraminer. Conoscevano Baudelaire, Patricia
aveva appena osservato. Sì… non erano dei banali, aveva detto Matteo.
Patricia andò a rispondere. E quando fece ritorno, annunciò: Anna e Michele si sposano, mi ero dimenticata di dirtelo. Lo sapevo da una settimana, e scosse la testa. I capelli
si ammassarono sul viso, e lei con le due mani insieme se li ricompose ai lati. Mi era passato, aggiunse. Adesso era Carolina, mi chiede di essere la testimone di Anna.
Dovrai farle un grosso regalo, commentò lui. È l’unica figlia che lei e Gianfranco hanno e lui ci stravede. E quando
sarà?
Ad agosto, rispose Patricia. Tornò a sedersi, lui si portò il
boccone alla bocca e un attimo guardò sua moglie. È il loro
turno, disse. Il nostro…, fece poi. Quanto tempo fa è stato?
Anche lei prelevò col cucchiaino un pezzetto di rocciata. I
figli…, sospirò Siro. Forse è stato un male non averne avuti.
Ormai, fra noi… conosciamo tutti i codici d’ingresso. Non c’è
più sorpresa.
Non so, disse lei. È come quel caldo avvolgersi nel vecchio
caro accappatoio… è sempre una confortante sensazione,
soggiunse. Ti ridà fiducia.
Patricia raccolse i due piatti e le posate e li dispose nella
lavastoviglie. Il resto che è rimasto fuori lo metto a posto domattina, disse e prese con sé il bicchierino della grappa. Vado
su in studio, soggiunse. Ho quasi terminato il capitolo sulla
cucina rustica. Devo farci solo qualche aggiunta e poi rivederlo qua e là.
Sì va bene, disse lui mentre riaccostava le sedie alla tavola.
Ah Siro, fece lei. Si era soffermata a metà della scala, e si
era voltata.
Sì, Patricia. Cosa c’è?
Stavo pensando…
Che cosa?
… perché vendere, dopotutto?
Infatti, acconsentì Siro. Possiamo benissimo continuare a
vivere qui. Niente m’impedisce di andare su e giù con Roma.
Faccio solo il semestre, e posso sempre trovare un pied-à-terre e così qualche volta anche tu puoi venirci.
Proprio così, disse Patricia. Sarà anche più bello poi ritornarcene qui.
Nel portico le candele si saranno ormai spente da sé, disse Siro. Vado a vedere, poi faccio quattro passi.
Però mettiti qualcosa, si raccomandò Patricia.
■
È stellato, disse Siro. Ed è uscita anche la luna.
NOTA
Come i precedenti, Compleanno in famiglia e Tutti gli orologi fermi,
usciti su “Caffè Michelangiolo” rispettivamente n. 3, anno X (settembredicembre 2005) e n. 1, anno XII (gennaio-aprile 2007), anche Il tempo che
passa, il tempo che c’è è tratto dalla stessa raccolta ancora inedita. Il racconto
si ispira liberamente al film Peindre ou faire l’amour dei fratelli Arnaud e JeanMarie Larrieu, con Sabine Azéma, Daniel Auteuil, Amira Casar, Sergi López.
17
Profili
La scomparsa di Antonioni e di Bergman
maestri di quell’azzardo chiamato cinema
RIEN NE VA PLUS
di Sandro Melani
I
l 30 luglio di quest’anno, a poche
ore di distanza l’uno dall’altro, sono
scomparsi Ingmar Bergman (Uppsala, 14 luglio 1918) e Michelangelo
Antonioni (Ferrara, 29 settembre
1912), il primo sull’isola di Fårö, il secondo nel suo appartamento romano.
Non so se sul piano astrologico la coincidenza possa nascondere una rilevanza significativa, di qualsiasi genere possa essere, ma certo è che, ora che entrambi, al pari del cavaliere del Settimo
sigillo, hanno perduto la partita a scacchi con la morte, il cinema è stato privato di altri due artefici della sua storia.
E senza timore di offendere nessuno
aggiungerei che, nonostante il discutibile risultato delle sue ultime prove, con
Antonioni il cinema italiano ha detto
addio all’ultimo Maestro che gli fosse
rimasto dopo la morte, in meno veneranda età, di Vittorio De Sica, Luchino
Visconti, Roberto Rossellini e Federico
Fellini. Forse, adesso, sulla scia tracciata dalla suggestione della coincidenza del loro decesso molti cederanno alla
tentazione di cercare di fare il punto, in
via più o meno definitiva, su quanto, al
di là del pessimismo esistenziale che li
contraddistingue, li possa in qualche
modo accomunare, a dispetto della loro
formazione in contesti culturali che si
presentano se non assolutamente inconciliabili di sicuro profondamente
dissimili l’uno dall’altro.
Antonioni, dunque, era adolescente
negli anni del pieno rigurgito nazionalistico dell’Italia provinciale del primo dopoguerra, ma adulto allorché
tanti poterono cominciare ad assaporare e a condividere l’ansia di rinnovamento offerta dalla cultura antifascista e, sul versante specifico della cinematografia, dalla corrente del neorealismo, magari fin dalle sue anticipazioni con i film di Alessandro Blasetti. Allievo a Roma del Centro Sperimentale di Cinematografia, sceneggiatore, tra gli altri, di Un pilota ritorna
18
Michelangelo Antonioni durante le riprese di L’Avventura, con Gabriele Ferretti e Lea Massari.
(1942) di Rossellini – e sceneggiatore
tornerà ad essere con Caccia tragica
(1947) di Giuseppe De Santis e con
Lo sceicco bianco (1952) di Fellini –
dopo essere stato assistente di Marcel
Carné in Les visiteurs du soir (L’amore e il diavolo, 1942), approdò alla re-
gia con due cortometraggi, Gente del
Po (1943-47) e N. U. (1948), seguiti
infine dal suo primo film, Cronaca di
un amore (1950), un noir di ambientazione milanese che faceva già chiaramente avvertire che il suo cinema si
sarebbe progressivamente distaccato
dai moduli neorealistici per entrare in
una dimensione di impianto introspettivo, quella dimensione di cui Il Grido,
analisi della crisi sentimentale ed esistenziale di Aldo (Steve Cochran), un
operaio della Padania che pone fine al
suo calvario interiore gettandosi dalla
torre di una raffineria, sarebbe stata la
conferma definitiva. Bergman, dal canto suo, aveva alle spalle da un lato il
severo retaggio della tradizione protestante, dall’altro la lezione intimistica
del teatro scandinavo, Strindberg in
particolare, e da entrambe le parti gli
giungeva quindi un pressante invito
allo scavo interiore. Sul piano strettamente cinematografico questo bagaglio culturale era inoltre arricchito dalla conoscenza del cinema di Victor Siöström – l’indimenticabile professor
Isak Borg che nel Posto delle fragole è
costretto a fare il rendiconto della sua
esistenza nel momento stesso in cui,
quando è ormai vicino alla morte, si
celebrano i suoi cinquant’anni di attività professionale – e, anche nel suo
caso, l’esperienza del realismo poetico
francese e dell’opera di Carné. Una riconsiderazione complessiva, per quanto rapida, della loro filmografia non
può non condurre alla constatazione
di come al centro dei loro interessi stia
il disagio profondo non tanto di una
specifica classe sociale, nonostante l’attenzione sia spesso focalizzata sulla
borghesia, quanto del singolo individuo, uomini e donne colti nel ferreo
isolamento della loro crisi dei sentimenti e della loro incapacità di rapportarsi all’altro e fotografati con uno
sguardo di insuperata lucidità nel suo
programmatico distacco che, nel caso
Caffè Michelangiolo
Profili
di Antonioni, si rivela capaalla definizione della realtà
ce di rielaborare l’esperienesterna ma del paesaggio inza del documentarista in
teriore dei personaggi, di
funzione di una impietosa
quella loro essenza che poradiografia del mondo intetrebbe anche essere definita
riore del personaggio. Colla loro anima. Probabilmenpisce poi il comune impulso
te non può che essere grigia
a confrontarsi con tecniche
l’anima di una donna ormai
di ripresa diverse: se Bergsprofondata nella nevrosi e
man non disdegna di cinella depressione come Giumentarsi a più riprese con il
liana (Monica Vitti) in Delinguaggio della televisione
serto rosso, ma per Berge di presentare poi sullo
man, come ebbe modo di
schermo versioni ridotte del
dichiarare, il suo colore era
materiale girato per il picil rosso, come se l’anima
colo schermo – ed è il caso Monica Vitti e Marcello Mastroianni in una scena tratta da La Notte, la pellicola fosse una sorta di membradi Scene da un matrimonio firmata da Michelangelo Antonioni nel 1961, che fa parte della tetralogia iniziata na protettiva di un’essenza
e di Fanny e Alexander – con L’avventura (1960) e proseguita con L’eclisse (1962) e Deserto rosso (1964). ancora più delicata e preAntonioni sceglie di trasporziosa.
re sullo schermo L’aquila a due teste di vergine o al più recente passato di SusIn ultima analisi si tratta dunque
Jean Cocteau sperimentando nel Mi- surri e grida e dell’autobiografico di una questione di empatia. Confesso
stero di Oberwald le possibilità offerte Fanny e Alexander. A questo punto per allora che, ferma restando l’ammiradall’uso del colore elettronico. Certo, le ogni cinefilo sarà allora un gioco intri- zione per la profondità dell’indagine e
somiglianze sono a loro volta stretta- gante rovistare nel proprio archivio fil- l’estremo rigore formale della trilogia
mente legate alle divergenze: Antonio- mico per individuare quale opera del dedicata al dubbio esistenziale e relini, a differenza di Bergman, non af- cantore della tragedia dell’alienazione gioso e all’angosciante solitudine delfronta in nessun film problematiche e dell’incomunicabilità e quale tra l’uomo in un mondo in cui Dio si rifiureligiose, che addirittura sembra gli quelle dell’angosciato testimone del si- ta di lasciare un segno chiarificatore e
siano del tutto estranee, mentre Berg- lenzio di Dio possano vantarsi di esse- consolatorio della sua presenza, la triman, a differenza di Antonioni, rivolge re l’epitome della loro visione del mon- logia, cioè, costituita da Come in uno
il suo sguardo non solo alla contempo- do o del loro modo di puntarvi sopra lo specchio – “Perché ora vediamo attraraneità ma anche al cupo Medioevo del sguardo e, subito dopo, l’obiettivo del- verso uno specchio scuro; ma poi faccia
Settimo sigillo e della Fontana della la macchina da presa. È naturalmente a faccia: ora conosco solo in parte; ma
assai probabile che le risposte siano
quanto mai discordi, non foss’altro alla
luce di una prima linea di discriminazione: li rispecchia maggiormente il rigoroso bianco e nero della prima parte della loro filmografia o, per Antonioni, il colore di Deserto rosso, così dimesso nelle sue tonalità grigiastre che
tanto ricordano le tele di Giorgio Morandi, e, per Bergman, quello di Sussurri e grida, con il suo netto e tagliente contrasto tra il rosso delle pareti della casa in cui si consumano l’agonia e la morte di Agnese (Harriet
Andersson), il nero imposto solo dalle
convenienze degli abiti da lutto delle
due sorelle (Ingrid Thulin e Liv Ullmann) e il bianco delle lunghe vesti
femminili delle tre donne che definisce
cromaticamente uno degli ultimi e più
intensi momenti di illusoria felicità
della malata? Che dietro la macchina
da presa ci sia Carlo Di Palma o Sven
Nykvist, si tratta in ogni caso di un
colore reinventato antinaturalistica- Ingmar Bergman fotografato con Bibi Andersson,
Vanessa Redgrave nella parte di Jane, la donna
mente e funzionalizzato quindi non 1975.
misteriosa e sfuggente di Blow-up.
Caffè Michelangiolo
19
Profili
La locandina de Il settimo sigillo (1956). Prima di
diventare il film che avrebbe consacrato nel
mondo la fama di Ingmar Bergman, era un’opera
teatrale intitolata Trämalning (Pittura su legno).
poi conoscerò come anch’io sono conosciuto” (Lettera di san Paolo ai Corinzi, 13: 12) – Luci d’inverno, da molti critici considerato la vetta più alta
raggiunta da Bergman, e Il silenzio, a
Jack Nicholson nel film Professione: reporter, girato da Michelangelo Antonioni nel 1975.
20
suo tempo vittima degli strali della sessuofobica e miope censura italiana, le
mie preferenze vanno ai film con cui,
sul finire degli anni Cinquanta, ho iniziato a conoscere Bergman. Vanno
quindi alla parabola medievale, funebre e vitale, tragica e ridente del Settimo sigillo, con il tormentato cavaliere
dal volto ascetico Antonius Blok (Max
von Sydow) che torna dalle crociate in
compagnia del suo fedele, ateo e irriverente scudiero (Gunnar Biörnstrand)
per perdere sì la partita a scacchi con
la morte ma al tempo stesso vincerla
grazie alla sua capacità di distogliere
l’attenzione dell’avversario dalla fuga
della compagnia degli attori, insieme ai
quali attraversa per un breve momento un paese devastato dalla peste e
sconvolto dal fanatismo religioso dei
flagellanti. Oppure vanno alla fluidità
narrativa di quella sorta di on the road
nel tempo e nello spazio che è Il posto
delle fragole, in cui il realismo degli
incontri del professor Borg – con i tre
giovani in vacanza e alla scoperta delle difficoltà dell’amicizia e dell’amore,
con la coppia travolta dall’asprezza
della loro irreversibile crisi coniugale e
con la vecchia madre rinserrata nel
gelo del suo egoismo e dei suoi sferzanti giudizi – l’espressionismo del macabro sogno premonitore di una morte
sempre più prossima e la poeticità nostalgica del ritorno, condotto sul filo
della memoria, verso un passato che
non può più essere corretto e verso il
vagheggiato posto delle fragole si fondono in una sintesi ammirevole e struggente. Ancor più netta si fa poi per me
la scelta nel caso di Antonioni, di cui
meno apprezzo il tentativo di catturare il genius loci di un luogo in un particolare momento della sua storia, sia
esso quello della swinging London di
Blow up o dell’America contestatrice
di Zabriskie Point degli anni immediatamente successivi alla sommossa studentesca di Berkeley, anche se mi rendo ben conto che lo spirito del luogo
non costituisce certo l’intento centrale
dei due film in questione, le cui ambizioni travalicano i confini naturali del
reportage documentaristico d’autore.
Non amo molto nemmeno l’assunto pirandelliano dell’inafferrabilità della
realtà, implicito nella surreale partita a
tennis senza pallina che conclude
Blow- up proiettando l’ombra del dub-
Fotogramma del film del 1955 Sogni di donna, di
Ingmar Bergman, con Eva Dahlbeck, Harriet Andersson, Gunnar Bjornstrand, Ulf Palme, Inga
Landgré.
bio anche sul delitto di cui il fotografo
di patinate riviste di moda (David
Hemmings) è convinto di essere stato
testimone, o della stessa identità dell’individuo, che in Professione: reporter, quasi a ripetere l’esempio di Mattia
Pascal/Adriano Meis, David Locke
(Jack Nicholson) si reinventa assumendo le vesti del defunto trafficante
d’armi David Robertson fino al tragico
Liv Ullmann. Nata a Tokyo nel 1939, ricevette una
educazione internazionale. Venne scelta da Bergman, incontrato per caso a Stoccolma, per il ruolo
dell’attrica afasica nel film Persona (1966). Ha vissuto
per cinque anni con il regista a cui ha dato una figlia.
Caffè Michelangiolo
Profili
finale filmato in uno dei più celebri
piani sequenza della storia del cinema.
Anche stavolta quello che continua a
imporsi con la stessa forza della rivelazione di allora è l’Antonioni dei primissimi anni Sessanta, l’Antonioni dell’Avventura, primo capitolo della trilogia dell’incomunicabilità seguito dalla Notte e dall’Eclisse (ma per alcuni
bisognerebbe parlare di una tetralogia,
aggiungendovi Deserto rosso). Se Cronaca di un amore può essere considerato a suo modo un noir, L’avventura è
un geniale giallo senza soluzione, orchestrato nei meandri dell’interiorità
di tre esponenti dorati della borghesia
romana. Di Anna (Lea Massari), improvvisamente sparita tra gli scogli
brulli di Lisca Bianca durante una crociera su uno yacht privato, non vi potrà essere più traccia solo perché è stata cancellata dai sentimenti e dall’affettività di Sandro, suo fidanzato ed
esangue architetto senza più idee (Gabriele Ferzetti), e, sebbene con sprazzi
di conflittualità che scaturiscono da un
residuo di eticità, della sua amica Claudia (Monica Vitti). Il loro incontro erotico e sentimentale, immediatamente
successivo alla scomparsa di Anna, non
può portare che allo sconfortante silenzio e alla lunga pausa contemplativa delle ultime immagini, girate sulla
terrazza dell’Hotel san Domenico di
Taormina, quando Sandro e Claudia si
rendono conto che dalle ceneri di Anna,
inghiottita nel vuoto senza lasciare
traccia di sé, non è nato niente e che
anch’essi possono subire la stessa sorte e regalare la propria assenza all’indifferenza di un mondo che non può
più provare nessun sentimento, al massimo un effimero, transitorio e in fondo inutile senso di colpa. Con L’avventura Antonioni imponeva al cinema
non solo italiano una svolta determinante, creando uno stile personalissimo
quanto quello del suo collega svedese,
uno stile che sarebbe stato da lui stesso riproposto con esiti spesso felici,
come nella Notte la lunga passeggiata
solitaria di Lidia (Jeanne Moreau) in
una Milano estiva e semideserta o l’accorato riconoscimento della fine del suo
matrimonio con l’intellettuale Giovanni Pontano (Marcello Mastroianni) nella luce livida di un’alba in Brianza, o
come nell’Eclisse le immagini composte
di sole “cose” che nella loro desolazioCaffè Michelangiolo
Una inquadratura tratta da Il settimo sigillo, firmato da Ingmar Bergman nel 1956: grande affresco medievale, ispirato alle pitture delle chiese e alle saghe popolari, è il manifesto della poetica bergmaniana, fra amore e morte, speranza e angoscia, uomo e Dio.
ne rendono consapevole lo spettatore
della dissoluzione del rapporto sentimentale tra Piero (Alain Delon) e Vittoria (Monica Vitti). Altre volte il cinema di Antonioni sarebbe stato minato
da un eccesso di rarefatto intellettualismo e dalla smaccata letterarietà dei
dialoghi, ma niente avrebbe potuto
sminuire la portata dell’originalità del
suo modo di fare e concepire il cinema.
E ne è una riprova finale lo scoperto
omaggio che oggi gli viene offerto dalla cinematografia orientale con i film di
■
Tsai Ming-liang e Kim Ki-duk.
Una scena tratta da Fanny e Alexander, del 1982, congedo e testamento di Bergman, uomo di cinema, e
compendio di trent’anni di lavoro all’insegna di un altissimo magistero narrativo (ebbe quattro Oscar). Divisa
in cinque capitoli, è la storia della famiglia Ekdahl di Uppsala tra il Natale del 1907 e la primavera del 1909
con una sessantina di personaggi, divisi in quattro gruppi, che passa per tre case e mette a fuoco tre temi
centrali: l’arte (il teatro), la religione, la magia.
21
Profili
UN FILM NON È UN LIBRO
FILMOGRAFIE
Non essendo coinvolto in prima persona, credo di poter serenamente esprimere qualche riflessione provocata dalla recensione di Irene Bignardi su Al di là
delle nuvole. In primo luogo penso sia
stato un errore (di vari critici, non soltanto suo) porsi di fronte al film «en critique». Un’occasione rara per i critici di
prendersi un attimo di vacanza, sospendere l’automaticità professionale del giudizio e dirsi: non si va a vedere Antonioni, oggi, per giudicarlo, ma per assorbire, godere e farsi coinvolgere dal meglio
che ancora riesce a darci un autore fondamentale nella storia del cinema. Già è
un miracolo (lo dico senza facile commozione e pietismo) la vittoria di Michelangelo nella lotta contro l’impedimento fisico, così sapientemente elaborato, che lo ha bloccato per dieci anni.
Lo sforzo pesantissimo di pensare, scrivere, girare, montare e accompagnare il
suo film è bilanciato dalla leggerezza
che fa pensare a Giacometti.
Sarebbe bastato un briciolo di “cinephilie”, di quel sentimento che accomuna tutti quelli che si ricordano che «le
travelling est un affaire de moral» per
capire fin dal primo episodio, anche se il
meno felice, che Antonioni è riuscito con
successo a ricollegarsi al suo periodo più
ispirato e più prolifico, quello che va
dall’Avventura fino a Deserto rosso.
Quasi tentando di chiudere l’ultimo tratto di un cerchio, Antonioni, oggi come
allora, mantiene una misteriosa costante tensione poetica, anche nei momenti
meno riusciti, con il vezzo, oggi come
allora, di seminare qua e là il film di
dialoghi così letterari da suscitare il sorriso. Ai tempi della Notte e dell’Eclisse lo
sceneggiatore non era Tonino Guerra che
dunque non accuserei ingiustamente:
sono parole di Antonioni ed è lui, oggi
come allora, a prendersene la responsabilità. Chi non si ricorda le sghignazzate di Arbasino negli anni Sessanta, mentre la Vitti diceva «mi fanno male i capelli». Ma anche ad Arbasino, così sottile, così immensamente colto, mancava il
dono della “cinephilie”. Un film non è
un libro e le regole di analisi e di valutazione sono altre e diversissime. Vale la
pena di ricordarlo, nella giungla di inutili e fastidiose celebrazioni del centenario, quando arriva Antonioni con un film
pieno di speranza nel mezzo cinematografico.
Bernardo Bertolucci
Michelangelo Antonioni
(6 settembre 1995)
22
1950: Cronaca di un amore
1952: I vinti
1953: L’amore in città (episodio “Tentato suicidio”); La signora senza
camelie
1955: Le amiche
1957: Il grido
1960: L’avventura
1961: La notte
1962: L’eclisse
1964: Deserto rosso; I tre volti (episodio
“Prefazione”)
1966: Blow Up
1970: Zabriskie Point
1974: Professione: reporter
1981: Il mistero di Oberwald
1982: Identificazione di una donna
1995: Al di là delle nuvole
2004: Eros (episodio “Il filo pericoloso
delle cose”)
La locandina del film L’avventura di Michelangelo
Antonioni (sceneggiatura dello stesso regista, con
Elio Bartolini e Tonino Guerra), prima proiezione a
Bologna nel settembre 1960.
David Hemmings nei panni del fotografo alla
moda di Blow-up, l’ermetico film di Antonioni
che coglie l’atmosfera della “Svinging London”.
Ingmar Bergman
1946: Crisi; Piove sul nostro amore
1947: Musica nel buio; La terra del desiderio
1948: Città portuale
1949: Prigione; Sete; Verso la gioia
1950: Ciò non accadrebbe qui; Un’estate d’amore
1952: Donne in attesa; Monica e il desiderio
1953: Una vampata d’amore
1954: Una lezione d’amore
1955: Sogni di donna; Sorrisi di una
notte d’estate
1956: Il settimo sigillo
1957: Il posto delle fragole
1958: Alle soglie della vita; Il volto
1959: La fontana della vergine
1960: L’occhio del diavolo
1961: Come in uno specchio
1963: Luci d’inverno; Il silenzio
1964: A proposito di tutte queste… signore
1966: Persona
1968: L’ora del lupo; La vergogna
1969: Passione; Il rito (film tv)
1971: L’adultera
1972: Sussurri e grida
1973: Scene da un matrimonio
1974: Il flauto magico
1976: L’immagine allo specchio
1977: L’uovo del serpente
1978: Sinfonia d’autunno
1980: Un mondo di marionette
1982: Fanny e Alexander
1983: Dopo la prova (film tv)
1986: Il segno (film tv)
1997: Vanità e affanni
2000: Il creatore di immagini (film tv)
2003: Sarabanda (film tv)
Caffè Michelangiolo
Vetrina
Su Graham Swift, narratore di spicco nel panorama contemporaneo inglese,
ritornando al suo The Light of Day (La luce del giorno)
LA CORDA PAZZA
di Elisa Zampetta
I
nsieme a Ian McEwan e Kazuo Ishiguro, Graham Swift è uno degli autori britannici contemporanei più
noti e importanti. La sua fama risale al
1983 col romanzo storico di ampia riflessione postmoderna Waterland (insignito del Guardian Fiction Award e
del Winifred Holtby Memorial Prize e
uscito in Italia presso Garzanti, Il paese dell’acqua), ed è stata definitivamente sancita nel 1996 con il riconoscimento più prestigioso per un romanziere inglese, l’assegnazione del Booker
Prize per Last Orders (versione italiana
Feltrinelli, Ultimo giro), nonostante le
polemiche scaturite per una vicenda
troppo simile a quella narrata da William Faulkner in As I Lay Dying (versione italiana Adelphi, Mentre morivo).
Di Swift è da poco apparso l’ultimo
lavoro, Tomorrow, incentrato sulle riflessioni notturne di una madre che
giace insonne accanto al marito, perché
deve rivelare il giorno dopo – il domani del titolo – ai suoi due figli gemelli
qualcosa del passato familiare che potrebbe cambiare completamente il corso delle loro esistenze.
A giudicare dalle prime recensioni,
il romanzo non ha suscitato però reazioni positive in Inghilterra. Si è parlato di “disappunto” (Carol Birch, su
“The Independent”, 27 aprile 2007) e
“delusione” (Adam Mars-Jones su
“The Observer”, 8 aprile 2007), soprattutto se messo a confronto col precedente The Light of Day (La luce del
giorno, Feltrinelli, 2003), che impiegava la stessa tecnica narrativa e poneva gli eventi in una locazione temporale molto simile: qui una sola, intera notte, lì un’unica, intera giornata.
Fra tutti i recensori, il più sarcastico e pungente è stato senz’altro Tim
Martin su “The Independent” del 15
aprile 2007, il quale, con un riferimento assai poco implicito, ha così
concluso la propria recensione: «nonostante le virtù di questo soliloquio notCaffè Michelangiolo
Graham Swift.
Graham Swift è nato a Londra nel
1949. Ha studiato letteratura alla Cambridge University e alla York University. Tradotto in più di venti lingue, è
considerato uno dei maggioriautori inglesi viventi. Ha vinto numerosi premi,
tra cui il Guardian Fiction Award e il
Premio Grinzane Cavour per Il paese
dell’acqua (Garzanti 1986), il Prix du
Meilleur Livre Étranger per Per sempre
(Einaudi 1995) e il Booker Prize 1996
per Ultimo giro (Feltrinelli 1999), da
cui è stato tratto il film di Fred Schepisi L’ultimo bicchiere. È stato pubblicato
in Italia anche Via da questo mondo
(Garzanti 1990). Dopo sette anni di silenzio è uscito The Light of Day, in edizione italiana presso Feltrinelli nella traduzione di Vincenzo Mantovani (2003).
Tomorrow è il suo ultimo lavoro, non
ancora apparso in Italia.
turno, ci si sente sollevati quando fuori si vede riapparire la luce del giorno».
Torniamo dunque a La luce del
giorno e al suo scenario estremamente
mutevole, nel quale si rincorrono immagini di episodi presenti e passati,
reali e ipotetici della vita di un detecti-
ve privato espulso dal corpo di polizia
per una falsa accusa di corruzione,
George Webb, il quale, trascinato nel
flusso dell’esistere cui non riesce a dare
un senso, si trova improvvisamente
coinvolto non solo in un’indagine investigativa commissionatagli da Sarah
Nash, donna affascinante e misteriosa, ma anche e soprattutto in un rapporto di amore totale.
Sarah, avendo saputo che la ragazza croata con la quale suo marito Bob
intrattiene una relazione sentimentale
sta per tornare al proprio paese d’origine, ha incaricato George di accertare
che l’uomo non fugga con la giovane.
Il detective controlla che i due amanti
si lascino, ma, quando Bob ritorna a
casa, Sarah, resasi conto di averlo perso sentimentalmente, spinta da un
istinto irrefrenabile, lo uccide. Webb, a
distanza di due anni dall’accaduto, seduto su una panchina in attesa di far
visita alla donna che ama, rinchiusa in
carcere, ricostruisce, in un susseguirsi
di flashback della memoria, gli eventi
che hanno cambiato la sua vita.
In sessantasette brevi capitoli, costituiti ciascuno da paragrafi ruvidi,
scarni, instabili, in cui si succedono
con ritmo incalzante frasi brevi, brevissime, dialoghi sintetici, concisi e talora disorientanti, Swift foggia un’originale struttura a mosaico dalla quale
traspare e nella quale si fonde lo spirito dubbioso del protagonista-narratore. Da un delitto noto, destreggiandosi con abilità tra sentimenti e quotidianità, Swift fa scaturire suspense, in
un progredire asciutto e contemporaneamente intenso, con una prosa efficace e decisa, consumata in un continuo presente. Il linguaggio è denso, essenziale e, seppure costellato di interiezioni, riesce a tessere una trama intrecciata con un disegno ipotetico, a
creare inalterabili percorsi dell’immaginazione. Più volte, si delinea tra le righe del romanzo una sorta di flusso di
23
Vetrina
coscienza, pervaso da un continuo interrogarsi, in uno scorrere di sensazioni e associazioni mentali. E la frase diviene spezzata, talora ellittica del verbo, difficilmente interpretabile da chi
non cerchi di condividere il vissuto dei
personaggi.
Si intuisce, sotteso allo stile di
Swift, un paziente lavoro, quasi artigianale, un metodo di ideazione che,
citando le parole di Italo Calvino, non
si realizza «per folgorazione improvvisa, ma […] di regola vuol dire una paziente ricerca del “mot juste”, della
frase in cui ogni parola è insostituibile,
dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di significati»1.
Attraverso acrobatiche fantasie, avvincenti situazioni, contraccolpi di intere vite, rallentamenti improvvisi, il
tempo del raccontare si dilata all’interno di intime retrospezioni e, come in
uno scritto della reminiscenza, esso non
individua una sequenza cronologica
ma si sposta avanti e indietro, tra
realtà e congettura, teso a collegare il
passato del protagonista con quello di
persone a lui vicine. Così le figure di
Rachel, l’ex moglie, di Helen, figlia ribelle, di Rita, la segretaria, di altri che
hanno condiviso il vivere di George
emergono da un passato ancora coinvolgente. E proprio l’intreccio di più
vite e la compresenza di piani temporali diversi fanno sì che uno spazio ristretto di tempo, una sola giornata
– analogamente a quanto accade, ad
esempio, nei romanzi Mrs. Dalloway
di Virginia Woolf o nell’Ulisse di Joyce – pervada un intero romanzo, dilatandosi attraverso la coscienza del protagonista, per il quale la riscoperta del
proprio passato non è solo un’ossessione, ma un’urgenza di vita. Nonostante
la labilità delle cose e delle persone,
qualcosa dura: l’interiorità individuale
serba una traccia indelebile di tutte le
esperienze, liete o dolorose, attraverso
le quali la vita trascorre.
Lo stesso bisogno di Swift di creare,
per il suo romanzo, un’ambientazione
geograficamente individuabile, l’ufficio
nella Broadway di Wimbledon, la casa
in Fulham Road, il parco a Chislehurst
Common, il cimitero a Putney Vale,
l’aeroporto di Heathrow, le strade metropolitane, Worple Road, St Mary’s
Road, Wimbledon Parkside, sembra voler soddisfare una necessità di certezze
24
reali alle quali ancorare le incertezze
dei personaggi.
La mancanza di attendibilità, di
una concezione della realtà ben definita e chiara porta a riconoscere che l’esistere è un continuo mutare, maturare, creare nuovamente se stessi e, serbando integralmente l’intero passato,
trovarsi, non potendo vivere più vite, a
La copertina di La luce del giorno (The Light of
Day), pubblicata in Italia da Feltrinelli (prima edizione ne “I Narratori” ottobre 2003) nella traduzione di Vincenzo Mantovani.
operare delle “scelte”. L’autore conduce i propri personaggi ad agire in base
a queste intuizioni che alle volte non
nascono dalla ragione, ma da un connettersi di eventi. Verrebbe da domandarsi: sono forse frutto del caso? La
fatalità svolge un suo ruolo? L’uomo è
completamente libero nel vagliare le
alternative che gli si offrono?
«Come succede? Come si compie la
nostra scelta? Qualcuno entra nella nostra vita, e non possiamo più vivere
senza di lui o senza di lei. […] Come se
fossimo solo la metà di noi stessi e non
l’avessimo mai saputo»2.
È un groviglio insolubile. Libero arbitrio e casualità: i due opposti che si
annodano, mentre si frappongono l’uno all’altro. Come si può essere liberi di
agire in un mondo casualmente determinato? In cosa consiste la responsa-
bilità morale? Per Swift, come per gran
parte della filosofia contemporanea,
non esiste più l’identificazione tra determinismo e ineluttabilità e indeterminismo ed eluttabilità. Questa alternativa viene superata ampliando l’idea
soggettiva di libertà, che scaturisce non
solo dalla razionalità, dalla coscienza
morale, ma, inglobando emozioni, passioni, disposizioni naturali dell’individuo, anche dall’interazione con il mondo sociale. L’insicurezza e problematicità della vita dell’uomo, il quale continuamente si trova di fronte all’enigma delle possibilità da prediligere e
realizzare, nasce dalla ricerca incessante di una realtà stabile, sicura, luminosa, quella realtà cui anche George
aspira.
Egli, in tutto il romanzo, combatte
con la propria coscienza per cercare,
prima di tutto dentro di sé, una verità
che continua a sfuggirgli, per trovare,
rimuginando sul passato, la vera origine delle azioni. E sembra lo faccia con
una ossessione scientifica, attraverso
l’analisi approfondita e minuziosa delle circostanze e dei loro attori: «Ogni
momento, ogni indizio. Riviverlo. […]
Cercando di trovare il punto dove la sequenza avrebbe potuto essere diversa,
dove avrebbe potuto prendere un’altra
direzione» (p. 169).
Solo alla fine lo scrupoloso detective capirà che non è possibile dare una
spiegazione a tutto, ma che occorre accettare le ambivalenze della vita; e
l’antieroe, dubbioso, insicuro, incapace di definire la sua stessa identità si
trasforma nell’eroe romantico: l’amore
per Sarah, sorto in lui visceralmente, vi
si radica così a fondo da fargli scoprire una nuova dimensione dell’esistere
fatta di dedizione, di attesa, di speranza. La tensione del narrare, che ha il
suo punto culminante, la Spannung,
nel momento dell’omicidio, si scioglie
nella ritrovata serenità di George: «Esiste una vita, comunque, che non sia
per metà fatta di attese? Costellata di
detenzioni? “Vale la pena di aspettare”» (p. 115).
In fondo i personaggi de La luce
del giorno potrebbero tranquillamente
essere attori, con quel loro entrare e
uscire dalla scena dei ricordi, col loro
pensare e poi ripensare, con l’intreccio
scambievole di vite, con l’indugiare
nella riflessione sulla complessità delCaffè Michelangiolo
Vetrina
l’esistere, con la doppiezza dei comportamenti. Tutti cercano qualcosa, apparentemente al di fuori di se stessi,
per esorcizzare una condizione di solitudine interiore, quella stessa che accomuna entrambi i protagonisti: l’uno, George, allontanato dal lavoro e
dalla famiglia, l’altra, Sarah, tradita
dal marito, vivono nell’inquietudine
che nasce dal proprio isolamento.
A questa situazione si contrappone l’attesa della luce del giorno, costantemente intesa nella tradizione letteraria come esempio di sopravvivenza, rinascita alla vita. L’incontro tra i due,
irrompendo improvvisamente nei loro
destini, diviene occasione di speranza,
ipotesi consolatoria. Il buio dell’esistenza viene illuminato dalla scoperta
di un senso da dare a essa.
«Siamo cacciatori, ecco quello che
siamo, sempre all’inseguimento, alla
ricerca della cosa che manca, la parte
mancante della nostra vita» (p. 115).
Pensiero questo che conduce l’autore
non al senso di negatività e annientamento dell’essere, ma all’ottimismo di
una ritrovata serenità, emersa dolorosamente e con difficoltà dallo scandagliare continuo nell’intimo della coscienza, smarrita di fronte alle incomprensibili casualità del vivere. E se l’amore è così potente da far mutare l’animo umano e volgerlo al bene, la forza lacerante di una passione non ricambiata può essere travolgente e condurre persino all’omicidio. È questa
l’altra faccia dell’amore: Sarah giunge
a uccidere chi ama, quasi senza accorgersene, vinta da un istinto irrazionale
che poi la lascia tramortita e incredula.
Una volta Sarah aveva detto: «Mi spiego, George? Amare significa essere
pronti a perdere, no? Significa non
avere, non tenere. Significa anteporre
la felicità di un’altra persona alla tua.
Non è così che dovrebbe essere? Dunque, se l’altra persona prende una strada diversa, cosa ci puoi fare?» (p. 77).
E allora, perché questo delitto? Neanche George riesce a capire: «Non la conoscevo abbastanza per sapere cos’era
capace di fare. Eppure sì, lo sapevo,
girai il volante, voltai la macchina. Non
la conoscevo, come non si conosceva
lei. Non è avere o tenere: e non è neanche sapere» (p. 234).
È il prevalere dell’irrazionale, la
perdita di controllo che, scatenando le
Caffè Michelangiolo
pulsioni sotterranee dell’inconscio, conduce Sarah a un’azione così aberrante.
Nello stesso individuo si ha, per citare
Nietzsche, quella coincidentia oppositorum, in cui si sintetizzano dialetticamente razionale e irrazionale, apollineo e dionisiaco: l’apollineo tipico del
senso della misura, della bellezza, dei
modi eleganti, della sensibilità di Sa-
La copertina di Tomorrow, il più recente romanzo
di Graham Swift da poco uscito in Inghilterra.
rah, il dionisiaco che balza fuori nel
gesto folle di lei, conducendola all’eccesso. C’è soltanto l’illusione di un io
unitario: il conflitto intimo rende l’uomo terreno di scontro tra istanze coscienti e inconsce. Accade che, nel suo
precario equilibrio, quest’io congiunto
si frantumi e l’individuo perda la sua
coerenza. Lo scrivano Campa, protagonista de Il berretto a sonagli di Pirandello, esprime con immagini concrete, corporee tutto ciò: «Deve sapere
che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa […] La seria, la civile,
la pazza. Soprattutto, dovendo vivere
in società ci serve la civile; per cui sta
qua, in mezzo alla fronte […] Ma può
venire il momento che le acque si intorbidino. E allora… allora io cerco,
prima, di girare qua la corda seria, per
chiarire, rimettere le cose a posto, dare
le mie ragioni […] Che se poi non mi
riesce in nessun modo, sferro, signora,
la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so quello che faccio!» (I.IV).
Se, quindi, l’uomo è dominato da
questi due impulsi vitali in continua
antitesi, la verità della vita e della creazione artistica risiede nel loro coesistere, perché l’uno è necessario e allo stesso tempo bisognoso dell’altro. Lo scatenarsi della forza distruttiva di Sarah,
nel passaggio tra la morte e il dolore,
mette a nudo la parte sconosciuta di
lei, rendendola protagonista della tragedia. Quell’impeto devastatore si placa, poi, quando riesce a ritrovare se
stessa, attraverso l’amore di George.
«La verità è che ci incontriamo, ci
separiamo, andiamo per la nostra strada. Non esistono leggi, non esistono regole. Non siamo qui per seguirci a vicenda, per proteggerci scambievolmente la vita» (p. 60). Ma il senso del
vivere è in quegli incontri, in quel rapportarsi agli altri e tramite loro a se
stessi, anche se un fondo oscuro e inconfessato nell’animo, spesso, non permette all’uomo di relazionarsi consapevolmente. «Quale chimera è, dunque, l’uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizione, quale prodigio? […] Chi
sbroglierà questo garbuglio?»3. Parole
di un antico filosofo che esprimono
quale meraviglioso viluppo inestricabile sia la natura umana.
Conclusa la concitata e tormentosa
narrazione della propria storia, Webb,
ritrovata l’identità personale e la dignità di “piccolo-grande uomo”, immagina che Sarah possa tornare libera,
da lui, in un giorno di novembre azzurro, immobile e smagliante: «Quando sarò là, quando aspetterò, col batticuore, col fiato che mi forma nuvolette davanti agli occhi, quando lei tornerà indietro, quando uscirà finalmente nella limpida luce del giorno»
(p. 262).
■
NOTE
1 I. CALVINO, Lezioni americane, Mondadori,
Milano, 1993, pp. 55-56.
2 G. SWIFT, La luce del giorno, Feltrinelli,
Milano, 2003, p. 86. D’ora in poi ogni citazione
è intesa da questa edizione.
3 PASCAL, Pensieri, in Antologia filosofica a
cura di Alberto Moscato, La Scuola, Brescia,
1967, p. 171.
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Vetrina
In edizione italiana il secondo romanzo di Sándor Márai, scritto nel ’34
LA FORMA DEI SENTIMENTI
di Elena Frontaloni
P
er la prima volta in libreria nella
traduzione italiana di Laura Sgarioto, L’isola usciva nel 1934,
dalla penna di un Sándor Márai trentaquattrenne e già prossimo a dare alle
stampe quello smagato affresco d’epoca
in forma d’autobiografia che sono le
Confessioni di un borghese (19341935). Qui, Márai si decideva per una
testarda fedeltà alla scuola della
«ragione»; metteva a ferro e a fuoco
mentiti entusiasmi e visibili cancrene
ideologiche della vecchia Europa a un
passo dalla Seconda Guerra Mondiale.
Riconosceva, dentro tutte le sue scritture, il rovello unico d’una domanda
sul «segreto della vita», illuminato in
seguito non da una trafila ordinata di
parole, da una qualsiasi risposta “verbale”, ma dal fugace e irripetibile incontro con uno sconosciuto essere femminile, «in territorio straniero».
C’è da dire che nessuno di questi
saperi sarebbe probabilmente entrato
così pacatamente nelle Confessioni
senza la precedente stesura d’un libro
come Isola, dove si dipanano e, in
fondo, si esorcizzano i rischi connessi a
ogni ricerca d’«appagamento» e di
senso condotta al di fuori sia delle difficili strettoie della «ragione», sia dei più
vieti o perversi cascami della morale
corrente. Critico ambiguamente affine a
Sándor Márai di quest’ultima è senz’altro il protagonista dell’Isola, Victor Henrik Askenasi: maldestro professore di
lingue anatoliche che, sulla spinta di
una serie di coincidenze solo apparentemente banali e di poco definite insoddisfazioni, si mette in cerca d’una risposta sul “segreto” cui si accennava sopra.
Abbandona dunque una moglie perfetta, s’istalla a casa di una sensuale
ballerina, si disamora pure di lei (ma
solo provvisoriamente) e finisce così per
trovarsi solo, immalinconito, balbettante e incapace di leggere alcunché se
non giornali e riviste di bassa lega. Da
parenti e amici verrà dunque la prevedibile proposta di gettarsi alle spalle
l’intera vicenda con un viaggio in un
luogo ritenuto adatto ai nervi infranti
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d’un professore: un posto sperduto e
«silenzioso» della patria delle lettere, la
Grecia. Ma Askenasi non si dà per vinto;
forse è ancora possibile, per lui, «cambiare il costume di scena», attingere alla
linfa pulsante della vita, togliersi di
dosso il grigiume di un’esistenza già
decisa e sbugiardare una volta per tutte
le parole troppo semplici («amore»,
«divorzio», «donna») con cui è vizio
umano tentar costantemente di definire
sentimenti e fatti ineffabili. E anziché
proseguire verso la meta prescelta,
Askenasi, partito da Parigi, si ferma a
Dubrovnik (Ragusa, negli anni Trenta):
repubblica marinara talmente selvatica
e invitta da voler dare in passato filo da
torcere alla potente e raffinata Venezia;
luogo che infine lo appaga proprio perché privo «di letteratura», essendo la
culla d’una lingua indocile alla prosa e
alla poesia, fatta tutta di puntute consonanti.
Da questa Ragusa-Dubrovnik intensamente mediterranea, invasa da non
troppo irreali presentimenti di morte,
prende avvio il romanzo. Con una panoramica sull’ormai decaduto Hotel
Argentina, dove una combriccola di borghesi non più ricchi e non più colti come
un tempo si stanca in chiacchiere sul
caldo, la trasvolata del Polo Nord, la
spaventosa supremazia tecnologica raggiunta dalla Germania. Solo, in disparte,
c’è appunto Askenasi, che entra nel
romanzo quasi di soppiatto, per poi
occupare il centro della storia, narrando
i suoi trascorsi e il suo presente fino agli
esiti ultimi e meno prevedibili: quando il
desiderio d’attingere al mistero della vita
tramite una domanda rivolta prima alle
carni d’una donna, e poi direttamente
alla realtà, si risolve in un gesto di violenza gratuita e immemore, in uno sperdimento dentro la fisicità accecante d’un
mercato e, alla fine, in un velenoso
monologo gridato contro il muto specchio del cielo.
Messo nelle stesse ambasce del
Casanova reinventato da Márai nella
Recita di Bolzano (1940), il professor
Askenasi soccombe dunque proprio
dove il triste e volatile libertino vince.
Giacomo, come Askenasi, interromperà
difatti il suo viaggio perché avvertito
da molti segni di dover rispondere a un
incontro col destino, con l’apparizione
dell’Unica, dello spettro del femminino
che incarna fuggevolmente il «segreto».
Ma da questo incontro non uscirà folle
né disincantato; troverà invece conferma del suo compito di «uomo», di
viandante «apolide e infelice»: sapere
l’attimo in cui si potrebbe dispiegare la
pienezza dei sensi e della mente e, poi,
continuare a vivere, consapevole dell’impossibilità d’ogni facile riscatto o
prosecuzione di quell’attimo fuggevole
e, molto spesso, mancato.
Un libro necessario sulla strada di
robusta tristezza e sottilissima ironia
ch’è traguardo dei migliori affondi di
Márai sull’universo della passione, dunque, quest’Isola. E, nondimeno, un
memorabile pezzo di bravura: per lo
stile che mano a mano va a internarsi
nei pensieri del protagonista senza
smettere di presentarli con la riserva
della distanza; per la costruzione fatta
di pannelli solo apparentemente staccati
l’uno dall’altro, e che poi, a volume
chiuso, si ricompongono in un’unica
amalgama nella mente del lettore.
Infine, per il modo già esemplare con
cui Márai dà tono e forma a indimenticabili personaggi femminili, con rarefatti e traslucidi sfioramenti. Tratteggiando i silenzi della moglie di Askenasi. Alludendo alle bizze, alle disarmanti ingenuità e ai tradimenti dell’amante Elitz. Riuscendo a insufflare
aria persino nei torridi locali dell’Hotel
Argentina, quando s’appresta a descrivere con due giri di frase i capelli, le
movenze dell’estrema e disgraziata
«sconosciuta» che forse, con un’impercettibile modulazione del tono di voce,
ha invitato il professore a raggiungerla
in camera per un breve rendez-vous. ■
In filigrana, la copertina de L’isola di Sándor Márai, il
secondo romanzo dello scrittore ungherese, uscito
nella Biblioteca Adelphi dopo La sorella, pubblicato
l’anno scorso.
Caffè Michelangiolo
Politica e filosofia
Una lezione dell’intellettuale bolognese: pluralismo e multiculturalismo, falsi sinonimi
MATTEUCCI, MAESTRO LIBERALE
di Danilo Breschi
I
l’azionismo troppo spesso irrigidito dall 9 ottobre del 2006, all’età di otla retorica dell’antifascismo e da uno
tant’anni, ci ha lasciato Nicola Matsguardo pregiudizialmente rancoroso e
teucci, uno dei più profondi conosfiduciato nei confronti della società
scitori del liberalismo europeo e noritaliana e dei suoi cittadini, tutto vizi e
damericano. Prolifico animatore culpoche, pochissime, quasi nulle virtù.
turale, è stato nel 1951 tra i fondatori
Il modo migliore per commemorare
della rivista “il Mulino” di Bologna,
degnamente uno studioso appassionanonché dell’omonima casa editrice tre
to e scrupoloso come Matteucci è rianni dopo, nel 1954. Insieme a Mario
portarne un brano per diverse ragioni
Delle Piane, Luigi Firpo e Salvo Maestremamente significativo. Si tratta,
stellone ha fondato nel 1968 la rivista
anzitutto, di un testo che testimonia la
“Il Pensiero politico”; mentre nel 1987
centralità che il tema del pluralismo
ha dato vita alla rivista “Filosofia poaveva nell’opera dell’intellettuale bolitica”, della quale è stato anche diretlognese. Matteucci mostrava nel 1996
tore. A lungo professore ordinario di
di aver ben chiaro dove si annidasse il
Storia delle dottrine politiche e di Firischio di una sua declinazione errata,
losofia morale presso l’ateneo bolodi una degenerazione e perversione
gnese, egli è stato il punto di riferidella sua natura e significato: in quel
mento di tanti giovani in seguito affermulticulturalismo, di cui tanto si parmatisi come studiosi a livello nazionaNicola Matteucci ritratto a trentasei anni. A venlava da alcuni anni oltreoceano e che
le e internazionale.
ticinque era tra i fondatori de “il Mulino”.
sempre più ha invaso il dibattito filoAbbiamo a che fare con «uno dei
pochi veri grandi maestri che il libera- va presenza intellettuale, sarebbe sta- sofico-politico europeo dell’ultimo
lismo italiano abbia avuto nella secon- ta ancora più impaludata nel confor- quarto di secolo.
Pluralismo e multiculturalismo non
da metà del XX secolo», secondo il mismo delle mode ideologiche postgiudizio di Angelo Panebianco (“Cor- 1945, dal marxismo in tutte le sue pos- sono affatto sinonimi, questo Matteucriere della Sera”, 9 dicembre 2006). sibili declinazioni novecentesche al- ci teneva a precisare nelle pagine conclusive di una voce scritta
Ma non solo, Matteucci è
sul Pluralismo per l’Enciclostato anche un “liberale scopedia delle scienze sociali.
modo”, per citare il titolo di
L’anno dopo lo scritto venne
una recente trasmissione deripubblicato nella nuova
dicata al Nostro e andata in
edizione di un suo libro orionda su Radio3 Rai grazie
ginariamente uscito nel
alla cura di Massimo Teodo1993, ovvero Lo Stato mori. Ne è poi uscito un voluderno2. Se pluralismo è l’acme che raccoglie interessancettazione del nuovo e del
ti interviste ad amici e illudiverso all’interno di un
stri studiosi conoscitori delconfronto pacifico o di leale
l’opera di Matteucci, da
(e legale) concorrenza, ciò
Luigi Pedrazzi a Gianfranco
non significa che ogni noPasquino, da Luigi Compavità e ogni diversità possano
gna a Tiziano Bonazzi, da
essere incamerate e gestite
Edmondo Berselli a Roberto
all’interno della logica della
Pertici1.
convivenza politica liberalAnche a noi preme ricordarlo per non dimenticare il
democratica. Non a caso si
prezioso contributo fornito 1959: il giorno del matrimonio con gli ami de “il Mulino”, Federico Mancini, parla di “convivenza” e non
ad una cultura politica ita- Pier Luigi Contessi, Antonio Santucci, Fabio Luca Cavazza, Luigi Pedrazzi, di mera compresenza, non
di una inevitabile condiviliana che, senza la sua atti- Marino Bosinelli e Vittorio Volterra.
Caffè Michelangiolo
27
Politica e filosofia
sione di spazi, magari in
tolleranti, e Matteucci dediuna prossimità così stretta
ca l’intero suo scritto a spieda eccitare l’istinto naturale
gare come il pluralismo euall’aggressività che agita l’aropeo-occidentale sia stato
nimale uomo, secondo le
l’esito di un lungo e travanote osservazioni dell’etologliato percorso snodatosi atgo Konrad Lorenz3.
traverso guerre civili di reliÈ proprio questa prossigione che hanno dilaniato e
mità incontrollata e invasiva
insanguinato il Vecchio Conche, sperimentata sulla protinente per secoli. Un perpria pelle, genera una divercorso infine giunto all’ideasa valutazione del multiculvalore del riconoscimento
turalismo particolarmente
reciproco e incrociato delapprezzato invece da chi sol’altro-diverso-da-me. Un
litamente ne ha un’idea puesito dovuto quasi più all’eramente teorica, o dispone
stenuazione che non all’afdi quelle risorse materiali
fermazione della validità fiche consentono di mantenelosofica di un principio; alre le distanze di sicurezza
l’impossibilità di annientare
dai crescenti insediamenti a
l’altro piuttosto che alla
forte connotazione etnica. Nicola Matteucci con Francesco Cossiga nella pausa di un convegno tenutosi constatazione del suo essere
La frequentazione turistica a Roma su Costituzionalismo e diritti individuali.
in qualche misura portatore
o comunque passeggera e
di un valore aggiunto.
occasionale della comunità radical- sibilità, le altrui pratiche, fino al punI primi cristiani riformati non si dimente altra è cosa ben diversa da un to di negarne ogni possibilità di mani- stinguevano per una particolare tollecontatto obbligato e ininterrotto nel festazione. Non tutte le culture sono ranza nei confronti di chi ritenevano in
tempo, dove la quotidianità rende diferrore. Da parte protestante, non si
ficoltosa la convergenza attiva di intemetteva tanto in discussione l’assoluressi e abitudini difformi persino tra
tezza della verità, ma si contrapponesingoli individui perfettamente omova nuova verità, ossia verità vera, a
loghi per lingua, usi e costumi (ad
vecchia verità, ossia verità falsa. E il
esempio, una coppia di coniugi o connuovo era piuttosto una re-formatio,
viventi della stessa nazionalità), figuuna restituito in pristinum, una rimesrarsi quindi fra gruppi che coltivano
sa in forma, quella pura, quella giusta.
regole di organizzazione interna tra
E allora ecco il secondo merito del
loro molto distanti. Il multiculturalibrano che vi proponiamo. Matteucci,
smo tende spesso a distorcere il signinell’anno di grazia 1996, aveva ben
ficato dell’individualismo, a ridurlo a
chiaro dove stesse la nuova minaccioquel gretto egoismo che dissolve ogni
sa sfida all’idea di tolleranza e a quelsolidarietà interpersonale e che è efla sua evoluzione teorica e pratica che
fettivamente la malattia da cui è affetè il pluralismo. Lo studioso bolognese
to nelle nostre società d’Occidente. Ma
non si limita a segnalare i rischi del
con ciò viene dimenticato quanto l’incosiddetto “revival etnico”, i nuovi nadividualismo “buono”, cioè la valorizzionalismi tribali rigurgitati dalle terzazione dell’individuo, e la libertà siare ferite dei Balcani, ma sottolinea
no, loro sì, sinonimi.
piuttosto quanto l’integralismo islamiBisogna inoltre intendersi sul signico rappresenti «un grave fattore perficato del termine-concetto di cultura,
turbante per un vero pluralismo». Le
che può indicare il patrimonio di idee,
domande fondamentali sul destino del
pregiudizi, usi e costumi di un singolo
pluralismo occidentale erano dunque
individuo oppure di una comunità coegià tutte formulabili più di dieci anni
sa e più o meno chiusa verso l’esterno.
fa, ben prima dell’11 settembre 2001.
C’è cultura e cultura: vi sono usanze e
Fino a che punto possono spingerpratiche sociali compatibili con il ricosi le diversità di giudizi e comportanoscimento dell’altro, perché hanno
menti all’interno di una società aperta?
introiettato il valore della tolleranza o
Quali sono i limiti di inclusione oltre i
qualcosa di analogo; vi sono tradizioni
quali la divaricazione diventa squartache prescrivono comportamenti in- Nicola Matteucci nel suo studio bolognese, foto- mento? E qui si inserisce la citazione
compatibili se non urtanti le altrui sen- grafato nel 1999, a settantatré anni.
del John Rawls di Political Liberalism
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Caffè Michelangiolo
Politica e filosofia
(1993)4, a conferma dell’attenzione
sempre mantenuta da Matteucci verso
le più recenti elaborazioni della filosofia politica internazionale, specialmente angloamericana. Il pluralismo
“ragionevole” del filosofo statunitense
è, ad avviso dell’intellettuale bolognese, l’antitesi del «pluralismo in quanto
tale, il quale ammette dottrine non solo
irrazionali, ma folli e aggressive».
Si tratta insomma dei classici interrogativi su quanta diversità può tollerare una società, la quale piomba facilmente nell’anarchia e nella conflittualità endemica quando smette di conoscere e di apprezzare legami interpersonali che vadano al di là dell’appartenenza etnica e/o dell’identità religiosa. Se religione ed etnia sono una
delle tante componenti della costruzione di ciascuna identità individuale,
esse non possono che apportare ricchezza alle società ospitanti. Se si tratta di matrici esclusive e totalizzanti di
identità, la politica si paralizza e la società civile deperisce fino all’inciviltà.
Pertanto l’integrazione è risorsa per
chi arriva, necessità per chi riceve. Da
entrambe le parti occorre fare opera
educativa. Altrimenti l’immigrato resta
“estraneo”, di qui la xenofobia di chi
non accoglie, di qui lo spirito di rivalsa e l’odio sociale di chi non vuole essere integrato ma solo «rinchiudersi in
ghetti per ricostituire la piccola patria». Perché è questo cui mira la predicazione dell’islamismo radicale e
jihadista; ed è quello che viene agevolato da politiche ispirate ad un multiculturalismo maldestramente maneggiato da politici, amministratori locali
e apprendisti sociologi, ma che in sostanza è solo un “monoculturalismo
plurale”, secondo la felice espressione
formulata da Amartya Sen, Premio
Nobel per l’Economia nel 1998, in un
suo volume recentemente tradotto in
Italia5.
Matteucci dice dunque qualcosa di
più e di diverso rispetto alle classiche
argomentazioni sul tema: non dipende
solo da noi ospitanti il futuro di una
società aperta pluri-etnica; dipende
anche dalla buona volontà di chi è inizialmente ospitato. E da quanta acqua togliamo ai pescicani dell’odio etnico o religioso, come ad esempio
imam estremisti e agenti del terrorismo jihadista. Il multiculturalismo che
Caffè Michelangiolo
Nicola Matteucci.
Nicola Matteucci Armandi Avogli Trotti (questo il suo cognome anagrafico) è
nato a Bologna il 10 gennaio 1926. Dopo
aver studiato al Liceo classico Luigi Galvani, si è laureato nel 1948 alla Facoltà di
Giurisprudenza di Bologna con una testi
su “Il diritto nella Filosofia dello spirito di
Benedetto Croce”, e nel 1950 alla Facoltà
di Lettere e Filosofia con una tesi su “Antonio Gramsci e la Filosofia della prassi”.
Borsista dell’Istituto Italiano per gli
Studi Storici, sotto la direzione di Federico Chabod ha iniziato a studiare il giornalista ginevrino Jacques Mallet-Du Pan
cui ha dedicato un’importante monografia. Ha sviluppato le sue ricerche negli
Stati Uniti sul Fondo Tocqueville alla Yale
si presenta come elogio della comunità di comunità (al plurale) rischia di
trasformare il mosaico inter-etnico in
un puzzle dalle tessere così numerose
da rendere impossibile ogni composizione. Senza un comune denominatore, senza valori ultimi condivisi (tendenzialmente) da tutti, non c’è una
società, quell’unum figlio dell’incontro
dei molti e diversi. “Ex pluribus
unum” è la formula propria del federalismo americano, ma oggi per federazione si intende piuttosto una giustapposizione di elementi esistenziali e
culturali eterogenei che non produce
sintesi, perché questa è vista come violenza del più forte sul più debole, oppure perché questa presupporrebbe
una capacità autocritica da parte della stessa cultura ospitante. Ma autocritica non significa affatto rinnegamento o misconoscimento di senti-
University e in Francia alla Bibliothèque
Nationale. Fondatore nel 1951, insieme
ad altri studiosi, della rivista “il Mulino”,
ne è stato il direttore nei periodi 19591690, 1970-1973, 1984-1990. Dal giugno 1966 al novembre 1969 è stato presidente dell’Istituto Carlo Cattaneo; poi,
presidente dell’Associazione di cultura e
politica il Mulino dal gennaio all’ottobre
del 1969 ed ancora dal 1980 al 1983. Da
sempre è stato membro del comitato direttivo dell’Associazione il Mulino e del
consiglio editoriale della casa editrice.
Dopo la libera docenza in Storia delle
dottrine politiche ha avuto l’incarico di
docento di Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, e dal
1966, da professore ordinario ha insegnato Storia delle dottrine politiche nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di
Bologna. Fino al ’72 ha diretto l’Istituto
storico-politico della Facoltà di Scienze
politiche di cui fu anche preside fino al
’74. Passato alla Facoltà di Lettere e filosofia come ordinario di filosofia morale,
insieme a Mario Delle Piane, Luigi Firpo e
Salvo Mastellone ha fondato, nel 1968, la
rivista “Il Pensiero politico” e nel 1987
ha dato vita alla rivista “Filosofia politica”
di cui è stato direttore. Ha fatto parte del
Comitato direttivo della Enciclopedia delle scienze sociali, ed è stato socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di
Torino e socio effettivo dell’Accademia
delle Scienze dell’Istituto di Bologna.
menti di appartenenza comunque da
difendere quale importante fonte di
significato e di identità individuale e
collettiva. Anche perché qui si tratta
dell’appartenenza ad un insieme di
storie, tradizioni, usi e costumi che
possono ragionevolmente fregiarsi del
titolo di “civiltà”.
E la soluzione è tutt’altro che facile,
non sta dietro l’angolo, perché cristianesimo e islam sono, sì, religioni entrambe monoteiste, ma «troppi secoli di
storia le separano». Non hanno percorso le stesse tappe di dubbi e ripensamenti, lo stesso travaglio come dottrina
e come istituzioni. Giovanni Sartori ha
fra l’altro osservato come l’immigrante
di cultura teocratica ponga problemi
ben diversi, solitamente più seri e più
gravi, rispetto all’immigrante che accetta la separazione tra politica e religione6. C’è poi da comprendere poten29
Politica e filosofia
IL PLURALISMO POSSIBILE1
di Nicola Matteucci
Quanta diversità può sopportare una
società al suo interno? L’ideale è ex pluribus unum; ma cosa succede se quei
“pluribus” diventano divaricanti? Aristotele, contro il monista Socrate (Platone),
aveva chiaramente indicato la necessità
un equilibrio fra unità e pluralità: «È
chiaro che se una polis nel suo processo di
unificazione diventa sempre più una, non
sarà neppure e diventando sempre più
una si ridurrà da polis a famiglia […]:
chi fosse in grado di realizzare una tale
unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe la polis» (Politica, II 1261a, ma
anche 1263b).
Il pluralismo implica sempre un tasso
– più o meno alto – di conflittualità, non ha
come fine la pace sociale, che solo un
regime autoritario può garantire. Nel passato con la libertà religiosa e poi con la
libertà politica – in Europa e in America –
questo equilibrio è stato trovato, ma c’era
– prima – la comune eredità cristiana e
– dopo – la vittoria del liberalismo, che
riteneva naturale l’esistenza di più partiti.
La rivoluzione democratica porterà a compimento questa profonda trasformazione
culturale, che ha inciso sulla mentalità collettiva. Ma nuovi problemi oggi si danno.
Si parla molto di società multi-culturali
e di società multi-etniche, senza accorgersi
che culture ed etnia sono cose diverse, o
meglio, non coincidenti, e senza tenere presente il fatto che l’integralismo islamico
rappresenta un grave fattore perturbante
per un vero pluralismo. Le diverse nazioni
culturalnazionali possono benissimo coesi-
zialità e limiti delle religioni, di qualsiasi religione, in termini di educazione
al ragionamento e predisposizione a
porsi in ascolto dell’altro e delle sue ragioni. Un’attitudine che un laico come
Amartya Sen giudica scarsamente presente, se non completamente assente,
nella religione quando intesa come fede
non meditata. Sono più importanti le
tradizioni culturali o la libertà culturale? Questo l’interrogativo che Sen si
pone nel solco di un liberalismo imparentato con quello elaborato dallo stesso Matteucci.
«Nascere in un particolare background sociale non è di per sé un esercizio di libertà culturale […], non essendo frutto di una scelta», osserva ancora Sen, «al contrario, sarebbe un
esercizio di libertà la decisione di restare saldamente all’interno del sistema tradizionale, se la scelta venisse
30
stere, anzi c’è un vero arricchimento per
tutti quando la partita di dare e avere è
aperta: pensiamo ad esempio alla musica
nera e come essa sia diventata un patrimonio di tutti. Ma le etnie sono società
chiuse, legate ai ricordi del proprio passato e con vincoli di sangue: è la parentela
e non la cittadinanza a tenerle unite.
Con le immigrazioni in Europa o in
America gli immigrati hanno unicamente
la scelta fra l’integrazione nel paese ospite
o rinchiudersi in ghetti per ricostituire la
piccola patria. Il solo segnale dell’uscita
dai ghetti etnici o religiosi può venire solo
dalla sfera privata: il vero indicatore sono
i matrimoni misti. È una sfida aperta,
densa di rischi e di pericoli. Ma non si
può dare per risolto il problema inneggiando – senza alcun realismo – alle
società pluri-etniche o a un facile incontro
fra la religione cristiana e quella islamica,
solo perché sono religioni monoteiste.
Troppi secoli di storia le separano.
Il solo pluralismo possibile è quello
“ragionevole” di Rawls, perché, dove c’è
frattura sui valori ultimi, appare soltanto
una irrazionalità aggressiva. Il pluralismo
può darsi solo all’interno di una cultura
condivisa, che abbia alcuni valori comuni,
soprattutto quello della tolleranza.
NOTA
1 Cfr. N. MATTEUCCI, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, il Mulino, Bologna, 1997, pp.
344-345.
compiuta dopo aver preso in considerazione altre alternative». In conclusione, il ragionamento di Sen è il seguente: «se si vuole il multiculturalismo in nome della libertà culturale risulta difficile pensare che la condizione irrinunciabile possa essere un sostegno inamovibile e incondizionato al
rigido mantenimento della tradizione
culturale ereditata”7.
La coesistenza non è di per sé un
fatto positivo: può significare semplice
compresenza di elementi eterogenei,
oppure contaminazione reciproca nel
pieno rispetto di regole del gioco, che
nel caso europeo e occidentale dovrebbe significare mantenimento delle istituzioni politiche e giuridiche proprie
dello Stato sociale di diritto. Per inciso, non possiamo nasconderci che la
qualifica di “sociale” è sempre più
messa in discussione dalla reiterata im-
missione di cospicue quote di popolazione emigrante in Italia. Per mantenere un alto standard di welfare si potrebbe pensare necessario, ai fini di un
aumento del numero di contribuenti,
un rapido inserimento degli immigrati con il conseguente riconoscimento
della piena cittadinanza civile e politica, ma una tale rapidità renderebbe
quasi inevitabile il consolidamento di
comunità chiuse definite sulla sola
base dell’appartenenza etnica.
La ricerca di una “piccola patria”
che ripristini, sia pure in forma surrogata, usi e costumi – se non luoghi –
dei paesi di origine, da cui si è emigrati
prevalentemente per necessità, genera
quasi automaticamente quelle “società
chiuse” che sono le etnie. Se non si
opera dentro queste ultime prima che
si solidifichino nelle periferie o in quartieri-ghetto delle nostre città, il rischio
è la frantumazione del legame sociale e
la nascita di molteplici enclaves nel
tessuto urbano e provinciale. La cittadinanza che poi concederemo sarà a
quel punto facilmente alterata dalla
parentela, ossia da criteri di regolamentazione interna al gruppo ormai
già consolidatisi ed essenzialmente antitetici al garantismo, cioè alla tutela
dei diritti individuali.
Nelle parole del brano riprodotto
nel riquadro al lato, troviamo tutta la
pacatezza, tutta la determinazione,
tutto l’anticonformismo intellettuale
mai disgiunto dalla lucidità dell’analisi di un “liberale scomodo”. Da rileg■
gere per i tempi che verranno.
NOTE
1 Cfr. M. TEODORI, Nicola Matteucci. Il liberale scomodo, Luiss University Press-Rai Eri,
Roma, 2007.
2 N. MATTEUCCI, Lo Stato moderno. Lessico
e percorsi, il Mulino, Bologna, 1997.
3 Cfr. K. LORENZ, L’aggressività, intr. e postf. di G. Celli, tr. it. di E. Bolla, Il Saggiatore,
Milano, 1994; Id., Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, tr. it. di L. Biocca Marghieri e
L. Fazio Lindner, Adelphi, Milano, 1991.
4 Cfr. J. RAWLS, Liberalismo politico, a c. di
S. Veca, tr. it. di G. Rigamonti, Edizioni di Comunità, Milano, 1994.
5 Cfr. A. SEN, Identità e violenza, tr. it. di
F. Galimberti, Laterza, Roma-Bari, 2006.
6 Cfr. G. SARTORI, Pluralismo multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Nuova edizione aggiornata, Milano, Rizzoli,
2002, p. 117 e sgg.
7 A. SEN, op. cit., p. 160.
Caffè Michelangiolo
Esposizioni
Si è aperta il 10 giugno a Venezia
la cinquantaduesima Mostra di Arti Visive della Biennale dal titolo:
Pensa con i sensi, senti con la mente. L’arte al presente
BIENNALE, POURQUOI FAIRE?
di Eliana Princi
«J
e suis la seule femme de ma
vie, pourquoi faire? Un million
d’âmes à sauver, pourquoi faire? Ma tristesse infinie, pourquoi faire?
Le pavillon africain, pourquoi faire?»
L’installazione di Bili Bidjocka con
cui si apre il padiglione africano reca
dubbi e un senso di vanità delle cose
che rimane sottotraccia come compagno insidioso della visita alla rassegna.
Una biennale che registra primati storici: la prima presenza turca, oltre a quella appunto dell’intero continente africano, la più estesa partecipazione di
rappresentanze straniere, distribuite nei
palazzi veneziani, il primo curatore statunitense, Robert Storr. Uno sforzo organizzativo senza precedenti su cui grava l’interrogativo di Bidjocka: pourquoi
faire?
Cosa vale un nuovo padiglione di
fronte alla ineluttabile diaspora africana? Cosa vale di fronte ai diritti civili
che in quel continente continuano a essere negati? Cosa vale attaccare la guerra, argomento principale delle opere allestite all’Arsenale, quando ogni giorno
si registrano centinaia di vittime a causa dei conflitti sparsi nel mondo?
Puorquoi faire? La cinquantaduesima biennale ci invita a riflettere, a indagare, a ricercare risposte individuali
di fronte alle inquietudini del mondo
e alle nostre inquietudini quotidiane.
Il versante corale, anche se variegato,
della critica che sale dall’Arsenale sfuma in riflessioni personali, sposta l’attenzione sull’atteggiamento privato, sulla condizione dell’individuo ai Giardini.
I conflitti, dagli scenari di guerra, dall’ambito delle nazioni, divengono familiari o più spesso interni, sottili, ma allo
stesso modo devastanti.
La grande mappa degli Stati Uniti,
costellata dei ritratti a matita dei cittadini statunitensi morti in Iraq di Emily
Prince si presenta come una inedita cartina geopolitica di quella terra, mostra
un paesaggio spettrale quanto freddaCaffè Michelangiolo
mente analitico. Dall’America dell’Arsenale, una sorta di convitato di pietra
su cui sono puntate molte delle riflessioni degli artisti, ci spostiamo ai Giardini, al dramma individuale di Sophie
Calle che nel suo video ci introduce al
capezzale della madre nei suoi ultimi
momenti di vita. L’analisi della morte
– del resto ogni morte è individuale, anche se comune a altre vittime nel caso
delle guerre – e in generale la riflessione sull’esistenza, sono i temi ricorrenti
di questa biennale.
Tanto più insidioso, doloroso, è l’interrogativo posto dall’artista africano
Bidjocka, tanto più tenace, ostinato è
l’invito a indagare che propone Robert
Storr. Pensa con i sensi, senti con la
mente è il titolo composito elaborato
Robert Storr, direttore della 52a Esposizione Internazionale d’Arte, (Photo: Giorgio Zucchiatti,
Courtesy: Fondazione La Biennale di Venezia).
Robert Storr, cinquantasette anni,
statunitense, è stato senior curator del
Dipartimento di pittura e scultura del
Museum of Modern Art di New York
dal 1990 al 2002, attualmente è rettore della Yale School of Art di New York.
dal curatore che ha chiesto agli artisti, e
chiede oggi al visitatore, una riflessione
ampia, profonda sull’esistenza.
Una riflessione che appare oltretutto ineludibile, in tempi in cui la dimensione del dubbio sembra essere l’unica
certezza a nostra disposizione.
«Mostre come questa non sono fatte
per chi ritiene l’incertezza un incubo.
E di fatto coloro per i quali il dubbio,
l’interrogazione e l’inesausto mettersi
in discussione sono eccezionali o insostenibili dovrebbero risparmiarsi il disorientamento e il disagio di una situazione che richiede proprio quel tipo di
spirito e di forma mentis. Inoltre guardare l’arte contemporanea, riflettere su
di essa richiede appetito e tolleranza
per cose che possono risultare irritanti
tanto – o di più – di quanto non soddisfino il gusto. Dopo tutto il gusto è per
definizione conservatore e si forma solo
ex post»1.
Il criterio del gusto è opinabile per
eccellenza e di nuovo si imbatte nel quesito, questa volta sintetizzato nel gigantesco, ironico, punto interrogativo che
l’artista giapponese Hiroharu Mori ha
sospeso sul suo pallone aerostatico fluttuante nell’aria delle Corderie.
Alle Corderie però c’è poco da fare
ironia. La visita scorre nella lunghissima navata del percorso in un calvario
pressoché ininterrotto di immagini di
morte e di guerra. Annunciato da chi la
guerra l’aveva acclamata come “igiene
del mondo” – l’acutissimo video di Luca
Buvoli che elabora miti e forme del Futurismo – si sfila davanti alle opere visitando luoghi e persone, protagonisti
dei conflitti recenti o ancora in corso.
Nel settantesimo centenario della
nascita di Guernica Storr compone la
sua critica agli attuali “costruttori di
macerie”, secondo i versi celebri di Paul
Eluard dedicati proprio alla città basca, mettendo insieme un percorso dolente e sconcertante che declina la guerra in tutte le lingue del mondo.
31
Esposizioni
Performance di inaugurazione alla Biennale (8 giugno 2007), foto Eliana Princi.
Veduta dei Giardini verso il Padiglione Italia alla Biennale, foto Eliana Princi.
Dal 2003 Jenny Holzer realizza
«L’arte tutto questo non lo può fergrandi pannelli a olio su lino in cui demare – scrive ancora il curatore in canuncia gli effetti delle premonizioni di
talogo – ma è in grado di farci vedere i
Gaines: gigantografie dei documenti dedanni possibili e di indurci a riflettere su
segretati del Dipartimento di Stato amequel che ci aspetta se rinunciamo a ferricano e del Pentagono relativi ai primare l’opera di quanti vogliono digionieri militari in Medio Oriente e a
struggere la società e la cultura»2.
I testi dello spagnolo Ignasi Aballí,
Guantanamo, in cui sono trascritti
lunghe liste nere di titoli tratti dai quo– spesso oscurati dai segni neri della
tidiani, di cui conservano anche il cacensura – i verbali degli interrogatori e le
rattere tipografico, scandiscono numeri,
autopsie delle vittime nelle mani dei miquantità che divengono agghiaccianti
litari americani.
quando si riferiscono ai muertos e ai Óscar Muñoz, Proyecto para un Memorial, 2003Più sottili, leggere, evanescenti sono le
desaparecidos, mentre Tomer Ganihar 2005, Video proiezione a cinque canali, 7’ a ripe- visioni pure dolenti dell’algerino Adel Abfotografa le bambole a grandezza natu- tizione senza suono, Courtesy Galería Alcuadrado, dessemed e del colombiano Óscar Muñoz.
rale, ferite e sfigurate, usate per eserci- Bogotá, Colombia.
Il primo traccia con il neon, posto sopra
zi di pronto soccorso negli ospedali
le porte del Padiglione Italia e dell’Arseisraeliani.
linea, un modellino sospeso a un’asta nale, la scritta Exil su cui, se non si pasComposta, immota, rarefatta è la di metallo che colpisce il grattacielo. sa distrattamente, si riflette che di “esiBeirut di Gabriele Basilico ridotta in Un’opera perfino irritante, se non se ne lio” e non di “uscita” si tratta: un pasmacerie monumentali, senza alcuna conoscesse la data e dunque la fulmi- saggio indicato da una luce fredda e bapresenza d’uomo, una composizione nante premonizione.
luginante, un varco fragile verso l’ignoto
quasi astratta di dolore sordo
per molte popolazioni.
e lacerante, mentre sguaiaMuñoz presenta un Proto, ancorché gratuito, è il viyecto para un Memorial, una
deo di Paolo Canevari Bounproiezione simultanea di cincing Skull, girato nell’ex
que video in cui si assiste a
quartier generale dell’eserciuna strana quanto vana strato serbo a Belgrado devastategia del ricordo: una mano
to dalle bombe, in cui si asdipinge incessantemente risiste al gioco spietato di un
tratti di desaparecidos, la
ragazzo che calcia ritmicapittura è fatta d’acqua e il
mente un teschio.
supporto é la pietra; appena
Airplanecrashclock delil pennello traccia i segni sull’americano Charles Gaines
la superficie questi si assorè un lavoro del 1997, un plabono progressivamente e il
stico piuttosto grande di alvolto evapora, si volatilizza
cuni isolati di Manhattan,
riducendosi a poco a poco a
con l’inconfondibile skyline Yinka Shonibare, How to blow up two heads at once, 2006. Installazione, contorni sfigurati, erosi, a
su cui si abbatte con un mec- 175 x 245 x 122cm. Courtesy Sindika Dokolo African collection of contem- macchie indistinte e poi più a
canismo a tempo un aereo di porary art, foto Eliana Princi.
niente.
32
Caffè Michelangiolo
Esposizioni
Felix Gonzalez-Torres, Untitled (Public Opinion),
1991, Caramelle cilindriche e nere alla liquirizia individualmente avvolte nel cellophane, rifornimento continuo, dimensioni complessive variabili a seconda dell’installazione, Peso idale: 317,5,
Solomon R. Guggenheim Museum, New York,
Veduta dell’installazione, foto Eliana Princi.
Altri volti, in questo caso rigidi, urlanti, stampati su fogli d’alluminio,
sono appesi al tragico Maypole da
Irena Jůzová, Collection – Series, 2007, veduta della
parte centrale dell’installazione, foto Eliana Princi.
Caffè Michelangiolo
Nancy Spero, la cui antica protesta contro la politica americana in Vietnam ha
mutato la sola destinazione geografica
per l’Iraq.
Decine di altri volti – giovani, rugosi di anziani, infantili o semplicemente
adulti – si alternano nelle multiproiezioni dell’artista cinese Yang Zhenzhong.
Ciascuno recita, grida, sussurra in dieci
lingue diverse la stessa frase, «I will die»:
«Quando chiedo alle persone di dire la
frase “Io morirò” davanti alla mia videocamera – spiega l’artista – tutte sanno che le sto riprendendo. La maggior
parte recita come in una performance, si
preoccupa del proprio aspetto. Davanti
alla camera, la gente mente sempre, ma
‘Io morirò’ è la verità. Mi interessava
l’espressione del volto prima e dopo che
la persona aveva detto “Io morirò”»3.
Le voci diverse che si avvicendano sulle file di monitor in sequenza costituiscono un tragico quanto ironico memento mori che accompagna il visitatore all’uscita delle Corderie.
Più meditativi, frastagliati, ma non
per questo meno acuti, laceranti, sono i
racconti dei conflitti interiori o dei rapporti interpersonali: Sophie Whettnall
oppone nel suo video il corpo fragile ma
tenacemente eretto di una giovane donna, immobile contro gli assalti simulati
di un boxeur che la sfiora, la schiva con
una violenza inaudita, a ondate di attacchi incessanti. La donna rimane impassibile, un’esile forma verticale contro
le onde dinamiche del movimento che si
scaglia contro di lei, a assorbire i colpi
degli scontri quotidiani nei rapporti di
coppia.
Alla dimensione del conflitto, ma interno, risponde un altro corpo fragile,
apparentemente di cera candida. È il
calco del corpo della stessa artista, rappresentante le repubbliche Ceca e Slovacchia ai Giardini, Irena Jůzová. Il calco è in realtà in lukoprene, un materiale industriale che stride con l’aspetto di
morbida modellazione scultorea della figura, nella tradizione di Auguste Rodin
e Medardo Rosso. L’intero padiglione risulta del resto assolutamente spiazzante;
siamo immersi in un’atmosfera lattiginosa e rarefatta, la luce abbacinante che
piove dall’alto annulla i profili delle cose
e non permette di capire dove ci troviamo: un algido laboratorio hi-tech, una
raffinata boutique di lusso, sale avveniristiche di un inedito museo anatomico.
Felix Gonzalez-Torres, Untitled, Stampa offset su
carta, copie illimitate, 17,8 cm di altezza ideale x
114,9 x 97,8. Walker Art Center, Minneapolis,
Veduta dell’installazione, foto Eliana Princi.
Il corpo traslucido dell’artista è sospeso all’interno di un cilindro di plexiglas, ancorato in una struttura di me-
Nancy Spero, Maypole/Take No Prisoners, 2007,
Impronte su alluminio, nastro, catena e palo in alluminio, 9 x 9 x 10.5 m, © Nancy Spero, fotografia Eliana Princi.
33
Esposizioni
Kendell Geers, 7 deadly sins, 2006, Istallazione con neon, dimensioni variabili, Courtesy Sindika Dokolo African collection of contemporary art.
Sophie Calle, Take Care of yourself Philosophe, 2007, Lavoro fatto di 106 fotografie, testi, film, Courtesy : Galerie Emmanuel Perrotin, Paris; Arndt & Partner, Berlin; Paula Cooper Gallery, New York; Gallery Koyanagi, Tokyo.
tallo cromato, ma il corpo è vuoto, e
alla lettera. Ho chiesto a 107 donne,
mal chiuso, la pelle si sovrappone a falscelte in base al loro mestiere, di interde e mostra evidenti segni di sutura nel
pretare questa lettera da un’angolazionastro di raso candido che intesse a
ne professionale. Analizzarla, comtratti la superficie. Altri calchi del cormentarla, recitarla, danzarla, cantarla.
po – i seni, le mani, i piedi – sono moEsaurirla. Capire al posto mio. Ristrati in bacheche di vetro, disposti in
spondere per me»4.
raffinatissime scatole e carta velina: ogL’artista sciorina la propria vicenda
getti preziosi, sconcertanti ex-voto,
personale, si offre ai commenti di quancomposizioni simili a confezioni di rare
te lei stessa ha chiamato – una crimiprelibatezze dolciarie. Quanto più il
nologa, scrittrici di ambiti diversi, una
corpo è sezionato, violato – la testa delfilologa, una fisica, una giocatrice di
la figura è divelta brutalmente – esposto Minnette Vári, Alien, 1998, video digitale, 52’’, scacchi, una veggente, un’attrice, una
all’avidità dello sguardo del visitatore, Courtesy Sindika Dokolo African collection of con- prestigiatrice, una maestra elementare e
tanto più è etereo, iridato dalla luce che temporary art.
molte altre ancora – e si offre anche ai
imperla le forme, allo stesso tempo fravisitatori in un gioco sottile di svelagile e inattingibile.
cenda privata: «Ho ricevuto una mail mento e celamento, giacché non mostra
Ancora di corpo violato parla Tracey di rottura. Non ho saputo rispondere. effettivamente il testo della mail riceEmin dal padiglione inglese che è stata Come se non fosse indirizzata a me. vuta, né fornisce la propria versione dei
chiamata a rappresentare. Forme che Terminava con le parole: Abbia cura fatti. Mentre racconta un fatto del tutattingono nuovamente alla tradizione di sé. Ho preso la raccomandazione to privato l’artista si nega – non compare neppure nelle fotografie
della storia dell’arte, la Sedelle proprie interlocutrici
cessione e l’Espressionismo
presenti in mostra – e rende
viennese, e ne conservano il
tutte plausibili le diverse inconnubio di nevrosi e erotiterpretazioni della lettera
smo che, calato nella complessa storia personale delesposte all’interno del padiglione sotto forme diverse:
l’artista, diventa una cinica
disegno, video, fotografie, teesposizione delle proprie ferite private.
sti, dipinti, tessuti.
La Francia offre un nuoUn gioco di rimandi, di
identificazioni infinite che fivo privato femminile e allo
stesso tempo lancia un apnisce per investire il visitapello pubblico nel titolo stestore che da osservatore si trova spiato, atteso al varco delso del padiglione: Prenez
l’invito che Sophie Calle gli
soin de vous. Abbia cura di
sé. L’artista Sophie Calle lo Sophie Whettnall, Shadow Boxing, proiezione video, 3min, 2004, Courtesy rivolge: «Prenez soin de
vous».
fa esponendo la propria vi- of the artist.
34
Caffè Michelangiolo
Esposizioni
Monika Sosnowska, 1:1, installazione, 2006, © Monika Sosnowska, foto Eliana Princi.
La dimensione esistenziale prosegue
nel padiglione americano – il più poetico e allo stesso tempo il più intensamente emotivo – dedicato all’artista di
origine cubana Felix Gonzalez-Torres,
morto nel 1996 a trentanove anni. Una
dimensione che lascia smarriti per i se-
Ignasi Aballí, Llistats (Morts I), 1997-2003, Stampa digitale su carta fotografica, 150 x 105 cm.,
Courtesy Elba Benítez Gallery, Madrid.
Caffè Michelangiolo
gni esili con cui si esprime: fili di lampadine accese, un tappeto di caramelle
di liquirizia, una stampa che copre l’intera parete di una stanza vuota, in cui si
scorge un cielo sconfinato dove vola un
unico uccello, appena percettibile.
L’artista si manifesta quasi per sottrazione, nel vuoto, nel volo, nell’incerta luminosità di luci accese di giorno, e
allo stesso tempo fa dono di sé nelle pile
di stampe che ciascun visitatore può
portar via, come avviene anche per l’installazione di caramelle – il loro peso
equivale alla somma del peso dell’artista
e di quello del suo compagno, morto di
AIDS – reintegrate continuamente dal
personale del padiglione.
Gesti che appaiono perfino predatori a pensare ai corpi metaforici dei due
uomini che vengono erosi, smangiucchiati, violati, ma che alimentano insieme il senso di una presenza costante, oltre la morte dell’artista, e la natura del
dono che lui stesso ha concepito. Un
dono che è anche condivisione di responsabilità, ciascuno di noi reca il peso
del corpo dell’altro, l’artista regala stampe che mostrano vuote cornici mortuarie
o tratti di mare scuro e agitato.
Doni, metafore, presenze evanescenti e meditative che fanno della roccaforte dei padiglioni presenti a Venezia,
il cuore pulsante della più acuta critica
anti-americana.
La mostra reca in ogni caso suggestive declinazioni poetiche: le sequenze luminose di lampadine rimanda al tendaggio di perline dorate voluto da Robert
Storr all’interno del Padiglione Italia,
una cascata di sfere leggere che frullano
lievi al passaggio del visitatore, mentre
compongono e scompongono geometrie
diverse. L’aspetto formale è fortemente
sotteso a ciascun’opera di Gonzalez-Torres, che concepisce i propri messaggi in
precisi equilibri di forme e colori.
Fuori dai padiglioni istituzionali, nel
solco della tradizione ai Giardini, si dispiega la “giovane” Africa5, nel nuovo
padiglione alle Artiglierie dell’Arsenale.
«Io vi auguro di sentire, come me,
l’emozione profonda di essere visti. Perché il bianco ha goduto per tremila anni
del privilegio di vedere senza che lo vedessero. […] L’uomo bianco, bianco
perché era uomo, bianco come il giorno,
bianco come la verità, bianco come la
virtù, illuminava la creazione come una
torcia e rivelava l’essenza segreta e bian-
Bili Bidjocka, L’écriture infinie #3, installazione,
dimensioni variabili, courtesy Sindika Dokolo African collection of contemporary art, foto Massimiliano Vannucci.
ca degli esseri»: in questo modo il curatore del padiglione, Simon Njami introduce la mostra, citando un passo dal-
Nalini Malani, Talking About Akka, 2007, Pittura
rovesciata su acrilico, 185 x 100 cm, parte sinistra
di un trittico, Courtesy of the artist.
35
Esposizioni
l’Orfeo negro di Jean-Paul
che ci scrutano con
Sartre6.
espressioni indefinibili;
L’emozione di essere visti
quindi si volgono e lentasi percepisce densa anche
mente tornano sui loro
nella scelta di esporre non
passi, sprofondando di
una selezione di artisti, ma
nuovo nell’oscurità. Una
una collezione privata, quelintensa opera sacrale di
la di Sindika Dokolo, che inBill Viola che fin dai suoi
clude nomi storici e non
primi lavori ha riflettuto
africani come Andy Warhol
sulla morte e sulla vita, e
o Jean-Michel Basquiat,
sul concetto di passaggio.
mentre altri artisti come
Un’opera che suggella
Chéri Samba, El Anatsui e
i contenuti della cinquanOdili Donald Odita, comtaduesima biennale venepaiono nella mostra di Storr
ziana e invita nuovamene non qui.
te a riflettere, con i sensi e
L’Africa sbarca a Venezia
la mente, sui contenuti
con forza e una compiuta
della nostra esistenza. ■
eleganza formale. Le immagini che si susseguono nel pa- Gabriele Basilico, Beirut 1991, 9 fotografie, stampa fotografica, Courtesy del- NOTE
diglione parlano appunto di l’artista e Studio Guenzani, Milano.
1 R. STORR, Pensa con i senun continente giovane – un
si – Senti con la mente. L’arte al
continente in senso lato perchè molti deSofisticate e perfettamente bilanciate presente, in Pensa con i sensi – Senti con la mengli artisti in mostra risiedono altrove – sono le stampe digitali di Ndilo Mutima, te. L’arte al presente, catalogo della mostra, Marpieno di idee: lo dicono i video, le instal- mentre crudele quanto fulminante è l’in- silio,2 Venezia, 2007, s.p.
R. STORR, Ivi, s.p.
lazioni, i dipinti, le sculture, le fotografie, stallazione di Yinka Shonibare How to
3 Y. ZHENZHONG, Ivi, p. 378.
4 S. CALLE, Prenez soin de vous, Actes-Sud,
le cifre espressive di Kendell Geers che, blow up two heads at once, 2006, che
oltre a una gigantesca parete ironica- dispone effettivamente due soldati, vestiti Paris, s.d. [2007], s.p.
5 S. NJAMI, Check List-Luanda Pop. Padigliomente partita in forme bianche e nere, con i consueti tessuti a batik riferiti a un
ne
Africano
in Pensa con i sensi – Senti con la
propone una installazione con luce di generico quanto improbabile stile colomente. L’arte al presente. Partecipazioni nazionaWood che esalta i colori chiari (i denti, le nialista, che si sparano a vicenda.
li. Eventi collaterali, Marsilio, Venezia, 2007, p. 5.
6 J.-P. SARTRE, Orfeo negro in Che cos’è la letunghie, i vestiti, gli oggetti) e rende più
Alien, il video di Minette Vari, conscure le altre parti, con il risultato che densa l’intera teoria dell’evoluzionismo teratura?, Milano, Il Saggiatore, 1966, p. 377,
dentro la stanza anche la pelle dei bian- in un video che modula immagini ana- citato da Simon Njami in Check List-Luanda Pop
cit., p. 2.
chi diventa nera.
morfiche che sembrano sgusciare l’una
dall’altra.
Oltre i confini dell’Arsenale, nella
chiesa rinascimentale di San Gallo, altre
videoproiezioni raccontano nuove nascite e evoluzioni: si tratta della sequenza proposta da Bill Viola in Ocean
without a shore. Il posto delle pale d’altare è occupato da tre grandi monitor
rettangolari, un trittico serrato per la
piccola chiesa con pianta a croce greca,
in cui si assiste a un lento viaggio di
uomini e donne che avanzano verso di
noi, avvolti in una brumosa oscurità.
Maggiore è la vicinanza a quella che si
intuisce come una soglia – quasi una
fitta coltre d’acqua – maggiore è la definizione che le figure acquistano: il passaggio verso di noi è fatale, scolpisce le
forme con un getto fortissimo che sembra di gesso, le figure acquistano totale
definizione e colore, mentre un rombo
Murray, The New World, 2006, Olio su
assordante accompagna il loro passag- Elizabeth
Dan Perjovschi, White Chalk Dark Issues, 2003,
tela su legno, 245.1 x 200.7 x 4.4 cm. Photo Ellen
gio. Davanti a noi sono uomini e donne Labenski, Courtesy PaceWildenstein, New York.
disegno in gesso su muro, dettaglio dell'istallazione
nel Padiglione Italia, foto Massimilano Vannucci.
appena nati o appena tornati in vita © Elizabeth Murray.
36
Caffè Michelangiolo
Esposizioni
Il simbolo come antidoto all’indirizzo naturalista e al materialismo.
Un progressivo incontro tra esperienze tecniche, rivelazioni poetiche ed eventi musicali.
Il sogno dei Rosacroce e dei Preraffaelliti. La riscoperta del mito e dell’identità nazionale
LE MOLTE STAGIONI DEL SIMBOLISMO
di Piero Pacini
L
e frequenti esposizioni, dedicate agli indirizzi figurativi maturati tra l’ultimo quarto dell’Ottocento e gli inizi del Novecento,
sono giustificate dalla progressiva riscoperta di quelle esperienze isolate,
ma consequenziali che per lungo tempo sono state considerate con sospetto
dalla cultura ufficiale, ancorata alle
certezze del “finito” o della ‘bella forma’. Da tempo è stato appurato che,
dopo la pubblicazione dell’Après-midi
d’un faune di Mallarmè (1876) e di A
rebours di Huysmans (1884), la scena
culturale europea non era più la stessa: nonostante la concreta esperienza
di Émile Zola e le precise indicazioni
dei fratelli Goncourt, l’indirizzo naturalista di buona parte d’Europa è “alle
corde” e, pertanto, sempre più legittime appaiono le “evasioni” e le sperimentazioni di quei letterati che sono
più o meno coinvolti nel vasto e, per
certi versi, sfuggente filone del decadentismo. Mallarmè, ad esempio, ricorre ai simboli per chiudere la sfera
dei sogni e per rendere l’assoluto;
Huysmans si apparta in una squisita
clausura di artificiosi manufatti e di
coltivate sensazioni per eludere la banalità del quotidiano, anche se talvolta è consapevole di incorrere in nuovi
turbamenti psichici. Rilevante è poi la
schiera dei ‘nipotini’ di questi letterati, che non mancano di influire sulle sorti delle arti figurative (l’influsso
o i riflessi della poetica di Mallarmè si
estendono a tanta cultura letteraria e
figurativa posteriore, dal Futurismo
al Dadaismo, fino alla “Poesia Visiva”
dei nostri giorni). Su questa variegata
e, sotto certi aspetti, sfuggente vicenda si sono espressi da oltre mezzo secolo gli osservatori storici del fenomeno simbolista, da Joséphin Péladan a
Maurice Denis a Odilon Redon; ulteriori acquisizioni sono venute dagli
studiosi impegnati ad inquadrare l’esuberante produzione figurativa fin de
Caffè Michelangiolo
La copertina del catalogo edito da Ferrara Arte,
Il Simbolismo. Da Moreau a Gauguin a Klimt, a
cura di Geneviève Lacambre.
siècle (da Jean Read a John Rewald),
mentre da noi fanno ancora testo il
catalogo della storica rassegna torinese Il sacro e il profano nell’arte dei
simbolisti, i saggi di Renato Barilli e
quelli di Anna Maria Damigella.
Una nuova generazione di studiosi
sempre più agguerriti ha riversato le
sue conclusioni critiche e proposto
nuovi stimolanti correlazioni nella nutrita mostra sul Simbolismo, tenuta al
Palazzo dei Diamanti di Ferrara e alla
Galleria d’Arte Moderna di Roma tra
il febbraio ed il settembre dell’anno
in corso. L’esposizione, curata da Geneviève Lacambre, si avvale della collaborazione di Luisa Capodieci e di
Dominique Lobstein, oltre che dei
puntuali saggi firmati da Robert
Upstone, da Anna Maria Damigella e
da Barbara Guidi.
La varietà degli studi – accentrati
sull’esplorazione di precise aree culturali e supportati da personali scelte
bibliografiche – già di per se stessa
prospetta un’indagine non convenzionale sugli apporti forniti da un movimento figurativo non facilmente circoscrivibile, e sull’entità dei sotterranei influssi in un clima culturale aperto alle novità, ma anche denso di occasioni a volte sottovalutate ed altre
decisamente enfatizzate dalla mania
della scoperta a tutti i costi e da un
nazionalismo male inteso. Ancora una
volta si riscopre che, come nella letteratura, l’area figurativa simbolista
continua ad apparire incerta in quanto alle intuizioni personali si sommano
echi formali di diversa estrazione ed
esiti tecnici alquanto dissimili tra loro,
ma sempre intesi a superare la asettiche parvenze del naturalismo sostenuto dalla cultura ufficiale o dallo
sfruttamento pubblicitario del plainair impressionista.
La Lacambre, ad esempio, ricorda
come alla sua prima apparizione su
“l’Art Moderne” e su “Le Figaro”, il
termine “symbolisme” sia stato giustificato con il ricorso al positivismo francese ed ai principi filosofici di Kant e
Fichte; ma di pari passo precisa come,
già dal settembre 1886, il poeta
Verhaeren si era posto il problema della legittimità di un “simbolismo plastico” nel quale si poteva includere l’opera di Gustave Moreau, di Odilon Redon e di Fernand Khnopff. La prudenza di questa proposta aveva la sua
ragione di essere in quando di lì a poco
questo termine sarà applicato con varia convinzione e con varie argomentazioni critiche ad opere maturate nella sfere preraffaellita, spiritualista,
ideista, sintetista, secessionista e perfino futurista (come rileva Georges-Albert Aurier sul “Mercure de France”
del marzo 1891, le sottili disquisizioni
degli osservatori più assidui fanno la
fortuna del suffisso “ista”).
A più di un secolo dalla proposta di
Verhaeren – nonostante gli apporti do37
Esposizioni
cumentari e le equilibrate letture estetiche – il Simbolismo pittorico non è
collocabile in una precisa area geografica e temporale in quanto nella
maggior parte dei casi questa tendenza figurativa non trova giustificazione
in precisi programmi estetici, anche
se trova rispondenze nelle invenzioni
letterarie più audaci del momento
(Mallarmè, Huysmans, lo stesso Rodenbach); si dà per scontato che si affida soprattutto alla sensibilità e all’immaginazione dei singoli operatori.
Nell’ultimo ventennio dell’800 e agli
inizi del ’900 il Simbolismo allunga i
suoi tentacoli un po’ ovunque e tenta,
con esiti variamente consistenti, anche l’immaginazione di artisti alimentati di cultura classica ed orientati dal
naturalismo; ne consegue una pittura
a volte sostenuta da preziosismi e da
raffinatezza tecnica, altre volte sbrigliata al limite della stravaganza ed
in ogni caso tesa a superare il risaputo o le banalità del naturalismo.
Dominique Labstein, che firma il
saggio su Joséphin Péladan, ricorda
gli stadi conoscitivi attraverso i quali
questo esteta acceso ed esaltato arriva
ad individuare le principali cause della decadenza dell’arte nell’accoglimento incondizionato del realismo e
Gustave Moreau, L’apparizione, 1876 c,. Parigi,
Louvre (prestito Musée d’Orsay).
38
Fernand Khnopff, I lock my door upon myself
(part.), 1891. Monaco, Neue Pinakothek.
del materialismo. Péladan – che già
prima della fine degli anni Ottanta si
fregia del titolo di Sâr (Son Altesse
Royale) – attraverso varie esperienze
letterarie o teosofiche, diventa uno dei
punti di riferimento degli adepti al
Salone dei Rosacroce e il promotore
acceso delle organizzazione che ad
esso fanno capo, quali l’Ordine della
Rosacroce del Tempio e, più tardi,
quello del Tempio e del Graal. Il “manifesto” del 1891 invita a ripristinare
il culto dell’ideale con la “tradizione”
come fondamento e la “bellezza”
come mezzo, proclama la necessità «di
distruggere il realismo, riformare il
gusto latino e creare una scuola d’arte idealista»; in altre parole, sono bandite la pittura di storia, quella prosaica, la pittura patriottica o militare,
le rappresentazioni di vita pubblica e
privata; riabilita, viceversa, la dottrina cattolica e i temi pittorici italiani
da Margaritone ad Andrea Sacchi, le
teogonie orientali, le allegorie espressive o decorative, il «nudo sublimato,
del genere di Primaticcio e di Correggio», «gli studi d’espressione alla Leonardo o alla Michelangelo». Alla sterile retorica del materialismo si oppone, pertanto, la nuova retorica dell’idealismo, ma, nonostante la labilità
di questi enunciati, su “Le Figaro”
del 2 settembre 1891, Péladan annuncia l’adesione di oltre ottanta ar-
tisti tra i quali figurano Puvis de Chavannes, Odilon Redon, Khnopff, Astruc
e il compositore Erik Satie; lo stesso
dà per certe le adesioni di Burne-Jones, di Watt e di altri cinque preraffaelliti inglesi, oltre di quelle dei tedeschi Lenbach e Böcklin. Queste
adesioni sono progressivamente disattese nei cinque Saloni successivi, ma è
un dato di fatto che nei Salons organizzati dal Sâr si riversa una vera legione di «fate, arcangeli, muse, angeli, vergini, martiri, divinità di tutte le
religioni, misteri e sogni». Con diversa convinzione e con diversi esiti, i
Rosacroce rivelano al pubblico che
esistono altre vie dell’immaginazione
da esplorare oltre a quelle codificate
dai pittori di storia e dai cantori della vita borghese; oggi si dà per certo
che, senza l’acceso proselitismo di Péladan, il simbolismo si sarebbe diffuso più faticosamente in Francia e nei
paesi limitrofi.
Il saggio di Luisa Capodieci ribadisce – talvolta con informazioni di
prima mano – che non tutte le attese
dei Rosacroce sono deluse: vuoi per
esperienza personale o vuoi perché
suggestionati dalle parole infiammate
del pirotecnico Sâr, alcuni artisti attuano il sogno di riallacciarsi a certo
Jean Delville, L’amore delle anime, 1900. Bruxelles, Musée d’Ixelles.
Caffè Michelangiolo
Esposizioni
“nudo sublimato” del Rinascimento
in opere di vario spessore, se ne ha
conferma in dipinti come La scuola
di Platone di Jean Delville, Il poeta e
la sirena di Gustave Moreau, Eros di
Armand Point ed anche nelle creazioni androgine di Lucien Lèvy-Dhurmer, che citano liberamente Leonardo,
Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1864-70.
Londra, Tate Gallery.
Michelangelo e Raffaello, vale a dire
“il triangolo prodigioso” del sublime.
Queste invenzioni – realizzate con finezza tecnica e quasi in una ipnotica
contemplazione dei capolavori dei
Maestri elettivi – non inaugurano alcun itinerario artistico originale, ma,
già per la decisa dissociazione dalla
pittura storica e dal realismo pittorico,
trovano consensi da parte di Hyppolite Taine e dello stesso Paul Valéry per
il quale il nome di Leonardo è già sinonimo del “potere dello spirito”.
Nonostante la calorosa ammirazione dei Rosacroce per i Preraffaelliti
inglesi, non tutti gli artisti invitati da
Péladan compaiono nei Salons da lui
organizzati: alcuni prendono le distanze da queste esposizioni (BurneJones, ricorda con ironia “uno strano
opuscolo dal tono pomposo”), altri si
limitano ad inviare qualche fotografia
delle loro opere; ma di lì a poco diversi preraffaelliti fanno la loro comparsa nelle esposizioni della “Libre Esthétique”, che segnano un ulteriore tramCaffè Michelangiolo
polino di lancio per la pittura simbolista. Da rimarcare, in queste esposizioni, la presenza di artisti come Puvis
de Chavannes, Jan Toorop, Odilon Redon, Maurice Denis e James Ensor; il
critico Roger Marx pone l’accento sulla “lotta per un’espressione spirituale”
e “contro il materialismo”.
Si constata, comunque, che una
greve malinconia, se non un malessere latente alle contemplazioni e alle
evocazioni estatiche, pesano sulle opere di Edward Burne-Jones, di Dante
Gabriel Rossetti, di George Frederick
Watts e di altri preraffaelliti di minor
spessore: scoperta è la volontà di formulare un’alternativa al materialismo
vittoriano e ad un’estetica convenzionale che ha fatto il suo tempo; ma è
altrettanto evidente che dall’opera di
questi artisti si dipartono molte delle
ebbrezze e degli stordimenti, nonché
delle atmosfere allucinatorie che alimentano le giornate del decadente Des
Esseintes di Huysmans. Ancora una
volta – sottolinea Robert Upstone – il
“simbolo” costituisce una risposta di
artisti insofferenti a regole stabilite a
priori e desiderosi di spaziare nei cieli più aperti della sensibilità interiore:
ed è proprio per questo desiderio di
purezza e di assoluto che le creazioni
dei preraffaelliti si impongono all’attenzione dei centri culturali di tutta
l’Europa.
In una rapida, ma lucida sintesi,
Barbara Guidi conferma che, ad una
certa data, Simbolismo, Idealismo e
Preraffaellismo s’intrecciano nelle mostre delle Secessioni organizzate a Monaco, Vienna e Berlino tra il 1892 e il
1898.
Nella Germania guglielmina le novità della rivoluzione estetica operata
dagli impressionisti penetrano lentamente, e la maggior parte degli operatori artistici seguita ad essere intrappolata tra le nozioni del naturalismo e dell’idealismo; ma, ad un dato
momento, una schiera di giovani artisti reagisce senza mezzi termini ai criteri organizzativi delle giurie “politicizzate” reclamando «la più ampia autonomia possibile», ed ecco che si fa
strada uno stile allegorico-decorativo
in linea con la pittura di Böcklin e con
la filosofia di Nietzsche.
La personale concezione della
composizione e l’uso antinaturalistico
del colore avvicinano L’ora blu di Max
Klinger (1890) alle più nuove creazioni della pittura francese inaugurando l’esplorazione dei più «remoti
regni della creazione fantastica» e – si
aggiunge – del subconscio. Negli anni
della maggior diffusione del naturalismo Franz von Stuck espone (1889)
Edward Burne-Jones, Merlino ingannato da Morgana, 1874. Nat. Museums Liverpool.
Il guardiano del Paradiso dal contenuto chiaramente simbolista e, in corsa col tempo, avvia quel filone di pittura più cupa i cui soggetti allegoricosimbolici sono sostanziati da un erotismo sempre più manifesto, da una forma che sottolinea – e, ad un tempo,
esorcizza – le angosce e le paure del
tempo. Questa pittura scandalizza i
benpensanti, ma, viceversa, impone
l’artista ad un pubblico meno conformista, consapevole delle nuove realtà e
difficoltà della società in cui vive.
Il passo da Von Stuck a Böcklin e a
Klimt è breve – tutta la loro opera
sembra voler «destare meraviglia o far
rabbrividire» – ma si precisa in un
breve giro di anni per il personale procedimento tecnico e per la progressiva
conquista di un originale mondo figurativo in cui sono calate molte attese e
39
Esposizioni
Ferdinand Hodler, La notte, 1890. Berna, Kunstmuseum.
molte sollecitazioni del tempo. Böcklin, Klimt, Ludwig von Hofmann ed
altri sono avvantaggiati dal possesso
di una cultura letteraria e filosofica
propriamente germaniche: i turbamenti ancestrali della Grecia preclassica – derivati dalle riletture di Nietzsche e dai temi di Wagner – conferiscono alle evocazioni mitologiche una
sostanza decisamente attuale: la sirena della Calma del mare di Böcklin è
inquietante come le femmine fatali di
Von Stuck; l’atmosfera del Bosco sacro e delle diverse redazioni dell’Isola
dei morti è irrespirabile e decisamente funebre. La stessa corrusca e demoniaca Pallade Atena di Klimt – assurta, dal 1898, ad emblema delle Secessioni – costituisce una ripresa ed
un potenziamento di un’invenzione di
Von Stuck: diviene, secondo il pensiero di Nietzsche, «il vessillo di un recupero ancor più radicato e vitalistico
della classicità, che in realtà nasconde
più sottese pulsioni di morte» (cat.,
p. 73). Le implicazioni con il simbolismo europeo riprendono il sopravvento in opere come Le tre età della donna (1905) – in cui riaffiora l’opposizione Eros-Thanatos della lunga tradizione iconografica – e, più chiaramente, nei pannelli del Fregio di
Beethoven del 1902, una parafrasi
dell’Inno alla gioia di Schiller, tradotta in “pura magia visiva” (L. Hevesi,
1902) grazie ad una intelligente riflessione sulla linea scattante di Toorop e su quella più ricercata di Beardlsey, e grazie anche ad un empatetico
incontro con le possibilità decorative
dell’oro dei mosaici bizantini.
Questa creazione risulta ancor più
sorprendente se si osserva la diversa
ripresa del filone iconografico tradi40
zionale in L’eletto che lo svizzero Ferdinand Hodler esegue tra il 1893 e il
1894: una personale elaborazione del
ritmo insito nella teoria del “parallelismo” potenzia una semplificazione en
progress ed approda a un personale
stile ieratico, decisamente in linea con
il gusto decorativo fin-de-siècle.
La penetrazione delle proposte
simboliste nell’area italiana – sottolinea il conciso, ma denso saggio di
Anna Maria Damigella – si scontra invece con la complessità delle informazioni che gli artisti ricevono intorno
alle nuove poetiche idealistiche; e, dati
i forti richiami della tradizione, nonché il livello economico e sociale della
nazione, si estrinseca con maggiore
prudenza, secondo precise qualità di
adattamento, e questo nonostante la
Gustav Klimt, Il fregio di Beethoven (part.), 1902.
Vienna, Osterreichischte Galerie Belvedere.
lenta, ma progressiva divulgazione
della convergenza pittura-musica dell’estetica wagneriana, e la ripresa del
misticismo figurativo incoraggiato dalla rapida diffusione delle religioni
orientali e dei principi teosofici.
Notevole è comunque l’adesione al
simbolo anche da parte dei simbolisti
italiani: decisamente coraggiosa è la
risposta di Segantini, artista fedele
allo studio del vero, ed operoso in un
rapporto diretto e costante con la natura. Un sottile fil rouge sembra legare le sue Cattive madri e l’Angelo della vita alle tipologie delle donne preraffaellite e secessioniste, anche se il
risultato ultimo rimane indissolubilmente legato ad una esperienza personale e le percezioni sono ricomposte da
una singolare sensibilità percettiva.
Su un diverso piano creativo si
pone invece l’opera di Gaetano Previati che, perseguendo una stretta connessione tra l’immaginazione dell’artista e la tecnica più idonea ad esprimerla, esprime l’eterno conflitto tra il
bene e il male, il cammino degli umani attraverso la ciclicità del tempo in
un ordine cosmico e, in particolare, la
concezione wagneriana della redenzione, secondo la quale l’uomo riconquista la luce partendo dalle tenebre.
Su tali convinzioni matura un’opera
che, già nel 1891, appare all’Aurier
come espressione di un’arte «a un
tempo soggettiva, sintetica, simbolista e ideista». Di ben altra opinione
sembra essere, invece, Pellizza che
mette la sapienza tecnica al servizio
della conoscenza del “vero”: vero di
memoria e vero trasfigurato da fenomeni luminosi peculiari, di forte afflato poetico. Riflettendo su queste
esperienze figurative, il Cena intravede una lunga vita nel simbolo in quanto, da quando il mondo è mondo, sono
mutate solo le parvenze esteriori delle
cose, mentre «l’idea dell’amore, della
lotta umana […] e della inutilità dello sforzo umano sono ingenite in noi;
non hanno mutato dal tempo che gli
antichi le espressero per mezzo di simboli». Ed ecco pertanto che anche
Leonardo Bistolfi fissa nella Sfinge
sentimenti senza tempo, legati all’idea
della morte e al mistero insondabile
dell’aldilà; mentre G. Aristide Sartorio, pur informato delle atmosfere corrusche di Von Stuck e di Böcklin, conCaffè Michelangiolo
Esposizioni
tinua a professare una fede assoluta “Trittico” di Pavia, alle illustrazioni ripiegamenti in varie esposizioni annegli esempi della classicità e attenua riversate sulle riviste “Fiammetta” e tologiche, non ultima delle quali quelin direzione vitalistica la caducità del- “Riviera Ligure”, ma anche nella la allestita alla Galleria d’Arte Moderle cose e gli smarrimenti privilegiati Commedia edita dagli Alinari). Un na di Roma, dove è stata presentato il
dai simbolisti. Sulla strada indicata analogo innamoramento del simbolo dipinto Le Frodi, un’opera che più di
da Rossetti e da Burne-Jones, anche si riscontra anche nel ricco immagi- altre lascia intendere una rara comuAdolfo de Carolis sembra essere con- nario di Galileo Chini, in vari mo- nione d’intenti con i protagonisti del
vinto che si possano recuperare «le menti della sua attività, nell’impatto Simbolismo ufficiale.
idealità del nostro Rinascimento» e con gli eventi traumatici della storia o
È ovvio che ogni movimento artiquelle degli idealisti belgi;
stico si colloca entro precisi
nell’opera si propone di vitermini cronologici, ma è
sualizzare l’eterno conflitto
anche notorio che, quando
“tra slancio combattivo e
una tendenza pittorica od
sentimento della sconfitta,
un certo gusto si precisano
tra ascesa e caduta, attraal di fuori di un preciso prozione e rifiuto” (cat., p. 59),
gramma secondo apporti
ma con una vena di ottimipersonali e con libertà di
smo che non si riscontra nei
azione, i suoi effetti vanno
simbolisti d’oltralpe e – si
ricercati anche al di fuori
aggiunge- con recuperi fordel cosiddetto “momento
mali più o meno sentiti e tastorico”: è stato, ad esemlora anche condizionati da
pio, appurato che anche i
una scoperta retorica pafuturisti – e Boccioni in pritriottica.
mis – hanno ricevuto più di
Nel pieno della stagione
un impulso da una pittura
dannunziana e del maggior
alquanto eterogenea, fatta
accoglimento delle immerdi incontri eterogenei e di
sioni simboliste di Roden- Giulio Aristide Sartorio, La Gorgone e gli eroi, 1895-99. Roma, Gall. Naz. esperienze tecniche anche
bach, i simboli fanno la loro d’Arte Moderna
avventurose, ma sempre ricomparsa in percorsi stilivolte a salvaguardare la listici alquanto dissimili tra loro e se- al momento delle prove più dolorose. bertà espressiva dell’artista, il suo vicondo parvenze più o meno camuffa- Fabio Benzi e lo scrivente hanno avu- tale bisogno di esprimere le sotterrate. Tra il Lido d’Albaro e la Versilia to modo di sottolineare la ragione di nee attese del tempo e le sensazioni
Nomellini, ad esempio, deduce da essere di questi ‘incontri’ o di questi che sono fonte di esaltazione, ma anBöcklin e dagli artisti di Villa Romana
che di assillanti interrogativi e di trela voce possente e le furie dell’elemori antichi come il mondo.
mento marino, ma ha anche sentore
In questo senso, con il termine di
della rinascita del mito nell’area gerSimbolismo si è indicato e si contimanica. In ogni caso, la spettacolarità
nuerà ad indicare una stagione cultudi certe sue “marine” è spesso riconrale densa di incontri e di proposte fiducibile più ad un afflato panteistico
gurative non necessariamente consemolto diffuso nell’aria del tempo e ad
quenziali, sulla quale lo storico deluna instancabile adesione ad ogni sorl’arte ha fatto un discreto ordine, ma
ta di evento visivo piuttosto che alla
sulla quale persistono ancora molti involontà di rivelare agli altri le forze
terrogativi ed eventi rimasti nell’omoscure che regolano il destino dell’uobra o svisati da un’ottica strettamente
mo e che agiscono indipendentemente
personale. La bella mostra, che Maria
dalle sue attese. Anche senza raggiunVittoria Marini Clarelli ha ospitato alla
gere la coerenza espressiva delle opeGalleria Nazionale d’Arte Moderna di
re di Segantini e di Previati, molti alRoma, arriva a confermare la validità
tri artisti toscani si soffermano sul
di antiche e – secondo vecchi censori –
“simbolo” per una breve stagione o
rischiose acquisizioni, ed insieme ha
tornano a riconsiderarlo in momenti
offerto l’occasione per proporre al
critici della loro esistenza: a titolo
pubblico una più equilibrata lettura
esemplificativo, si richiama l’attenziodi una stagione culturale di fondane sull’impatto che il Simbolismo ha
mentale importanza per la nascita del
sullo scultore e pittore Giorgio Kie- Giovanni Segantini, Il castigo delle lussuriose gusto moderno e per il superamento
nerk negli anni a cavallo tra Ottocen- (part.), 1891. Liverpool, The Walker Art Gallery, dei pregiudizi estetici e delle barriere
■
to e Novecento (si pensi, oltre al noto National Museum.
culturali.
Caffè Michelangiolo
41
Esposizioni
Nel monastero di Santa Maria degli Angeli (oggi seminario arcivescovile di Firenze)
la mostra dedicata a Maria Maddalena de’ Pazzi nel quarto centenario della morte
«L’AMORE NON AMATO»
di Francesca Baldassari
A
quattrocento anni dalla morte, Maria Maddalena de’ Pazzi (15661607) è protagonista di una piccola ma istruttiva mostra nei locali del Seminario arcivescovile di Firenze, già sede
dell’antico monastero di Santa Maria degli Angeli, che fu testimone della sua silenziosa vita claustrale, segnata da una
straordinaria avventura mistica. Qui ancora oggi si trovano le reliquie più importanti della santa: il pozzo, il refettorio, la
cella e la cappella dove si sono svolte le sue
ripetute estasi, nonché la lapide che indica il luogo della sua sepoltura. Nel primo
chiostro del monastero è, inoltre, ancora
visibile la sua bella statua marmorea di
Antonio Montauti (1726), restaurata in
occasione della presente esposizione.
La mostra, curata da Piero Pacini e illustrata dal bel catalogo di Mauro Pagliai (Polistampa), presenta un significativo nucleo di opere d’arte rimaste nascoste a lungo nell’ambito conventuale
del monastero delle carmelitane di Careggi ed altre poco note, per lo più appartenenti a collezioni private, che illuminano sull’evoluzione della sua rappresentazione, da umile carmelitana a mistica appassionata.
Al pittore fiorentino Francesco Curradi, che professò una particolare devozione per Maria Maddalena anche in seguito alle guarigioni miracolose di alcuni
parenti, spettano una quantità infinita di
testimonianze artistiche, a partire dalla
celebre Vita della Santa madre, datata
1610, composta da ottantasette disegni a
matita rossa in cui sono fissati i momenti salienti della sua vicenda terrena e dei
miracoli post mortem. L’assenza di questi
disegni in mostra, per ragioni di conservazione, è compensata da una serie esaustiva di opere di Curradi e della sua bottega, tra cui si segnalano il Paradiso e la
tela ottagonale dove Maria Maddalena è
ritratta in preghiera con gli occhi rivolti
verso l’alto, in occasione della sua beatificazione (1626). Con queste opere inizia
il processo di umanizzazione della santa,
il cui sguardo non è più austero e severo,
42
La copertina del catalogo edito da Pagliai Polistampa, Maria Maddalena de’ Pazzi. Santa dell’Amore non amato, a cura di Piero Pacini.
come nelle testimonianze più antiche dedicate dal pittore alla santa, ma esprime
un senso di adorazione improntato ad
una serenità maggiore.
La mostra mette in evidenza, inoltre,
l’importanza dei Barberini, la famiglia di
Papa Urbano VIII, per le celebrazioni di
Maria Maddalena. Nel 1637 Donna Costanza Barberini, cognata del Papa, in segno di riconoscenza al monastero che accolse le giovani figlie Camilla e Clarice, inviò alle Carmelitane, trasferitesi nel frattempo nel grande monastero di Borgo
Pinti, regali preziosi, tra cui una serie di
quadri dedicati alla santa. In mostra sono
presenti le due grandi lunette superstiti:
Cristo dona alla Beata Maria Maddalena
la corona di spine, alla presenza della
Madonna e dei santi Angelo carmelitano
e Caterina da Siena di Andrea Sacchi e lo
Sposalizio mistico della Beata alla presenza dei Santi Agostino e Caterina da
Siena di Andrea Camassei. Entrambe le
opere sono caratterizzate da un senso di
umanità comunicativa, lontane dalle auto
flagellazioni e dalle mortificazioni delle
prime immagini curradiane.
Nel 1669, in occasione della santificazione di Maria Maddalena, fu allestito
un teatro sacro nello spazio reale della
Cappella Maggiore, ancora più spettacolare di quello della Beatificazione, di cui
purtroppo sono sopravvissuti solo i progetti grafici forniti da Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano. A questo
punto il visitatore, per completare la conoscenza delle opere dedicate a Maria
Maddalena, dovrebbe spostarsi nella
chiesa di Borgo Pinti ed ammirare la volta con gli affreschi di Chiavistelli e Gori,
la fascia sottostante decorata con dieci
tele eseguite da vari pittori, sotto la guida
del Volterrano, la straordinaria cappella
reliquario di Ciro Ferri (1674-1685) con
bassorilievi dell’allievo prediletto Carlo
Marcellini, nonché le straordinarie tele
della cappella maggiore, affrescata da
Pier Dandini, ad opera di Luca Giordano
dove la santa è mostrata in tutto il suo ardore mistico.
Una delle opere più interessanti della
mostra, che compare anche nella copertina del catalogo, è Sant’Agostino che
scrive sul cuore di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi. Il bel dipinto spetta, a mio
avviso, a Giovanni Camillo Sagrestani di
cui costituisce forse la prima opera. La
dipendenza dal tardo Simone Pignoni è
talmente palese nella Vergine in alto e nel
volto di Sant’Agostino, da pensare che
Sagrestani l’abbia eseguito quando ancora frequentava la bottega dello stesso Pignoni, verosimilmente negli anni ottantanovanta. Lo stesso soggetto dipinto da
Sagrestani nel 1702, conservato nella
chiesa di San Frediano al Cestello, mostra
l’avvenuta assimilazione della pittura
chiara di Alessandro Gheradini, di Sebastiano Ricci e di Luca Giordano che furono i maestri fondamentali per lo sviluppo del suo stile originale e ricco di
conseguenze per la pittura locale. L’influenza della pittura francese portò Sagrestani ad adottare una pittura sempre
più chiara e leziosa, lontana dalle prime
opere ancora legate all’ambiente fiorenti■
no tardo-barocco.
Caffè Michelangiolo
Esposizioni
Al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci a Prato
«DANIEL SPOERRI, NON PER CASO»
di Eliana Princi
I
l timbro rotondo, riprodotto nella paquello interno, la natura dell’oggetto,
gina iniziale del catalogo della mostra
giacché subisce uno slittamento di signidi Daniel Spoerri a Prato avverte: «atficato, una deviazione di senso che sottotention oeuvre d’art», dunque il lettore
pone il visitatore a continui interrogativi
può supporre che ciascuna parte del voe sollecitazioni.
lume, dalla biografia dell’artista a termiL’opera dell’artista è dunque rivolta a
ne del libro, alle introduzioni istituzionadisorientare i sensi e il senso comune: i
li, risponda al marchio imposto e risulti –
quadri sono trappole concettuali, gli asperché sigillata in modo perentorio dalla
semblaggi sono Détrompe-l’oeil, perfino
volontà dell’artista – essa stessa opera
la stanza della pensione in cui l’artista è
d’arte.
vissuto è riprodotta in bilico, nella giganL’autore, con la sua aura che sfida
tesca installazione di bronzo realizzata
ogni arbitrio, trasforma il piombo della
nel parco di sculture a Seggiano o fotocarta del catalogo e gli interventi diversi
grafata in frammenti, secondo la scomche vi sono stampati, nell’oro dell’arte; lo
posizione cubista del 1961.
stesso ignoto lettore che consulti per caso
La mostra, curata da Marco Bazzini e
il libro, si trova coinvolto in un compliStefano Pezzato, riassume le tappe sacato gioco di rimandi: da lettore a spetlienti della copiosa carriera artistica di
tatore dell’opera che ha tra le mani, e da
Spoerri, dai primi Tableaux-piège, alla
spettatore perfino a piedistallo dell’opera- Daniel Spoerri, Attention chien mechant, 1962, Catena genetica del mercato delle pulci
détrompe-l’oeil, assemblaggio su tela, Milano,
libro che sta sorreggendo e sfogliando.
(2002), una sorta di fregio neo-rinascicollezione Peruz.
Del resto l’assemblage scelto come
mentale, allestito con una perfetta strateimmagine della mostra presenta un’ul- criticare fin dai suoi primi dipinti cubisti gia curatoriale a cui ha partecipato lo
teriore manipolazione percettiva: un ri- e che Marcel Duchamp aveva totalmen- stesso autore, che funziona come un luntratto infantile di fine Ottocento, un bebé te rifiutato come condizione fuorviante, go e suggestivo racconto autobiografico:
in camicina di pizzo, accomodato in pol- torna ad essere analizzata come atto il- un diario visivo delle passioni, delle matrona, dal cui volto pende una vera mu- lusorio.
nie, degli incontri casuali con gli oggetti
seruola, rafforzata dal titolo: Attention:
L’intero lavoro di Spoerri agisce tra – gli interlocutori di una vita – ma anche
Chien méchant.
inganno e disinganno, tra ciò che sembra le ossessioni, gli interessi, i gusti.
Il bebé è un cane mordace, il catalo- e ciò che potrebbe essere: gran parte dei
L’ultima stanza della mostra è dedigo della mostra è un’opera d’arte: atten- suoi assemblages propongono immagini cata agli Idoli di Prilwittz (2005-2006),
to visitatore, sembra ammonire Spoerri, precofezionate (autentici readymades) bronzi che conservano i canali di scolo
il senso delle cose è nascosto e soprattut- piatte, bidimensionali, sui cui l’artista in- della fase di fusione e intrappolano come
to non è mai diretto, pronto sulla via terviene incollando oggetti svariati; si mo- in perfide gabbie, figure umane, animali
maestra.
dificano così le condizioni spaziali del- e oggetti: i titoli ne acuiscono ulteriorBisogna prestare appunto attenzione, l’immagine, l’aspetto esterno, ma anche mente lo straniamento e combinano, tra
affinare lo sguardo interno, piuttovista e significato un cortocircuito
sto che fare un semplice esercizio
aspramente ironico, come accade
della vista: in tal senso si pone la sein Ragazzo cinghiale con aratro
rie di opere che riflettono sull’atto
(2005), Tamburo cappello macchidel vedere, dagli Autoportraits aux
na da scrivere, Capra ermafrodita
lunettes, 1963, in cui gli occhi sono
o ancora Ragazza cefalopede col
più oscurati che protetti, al rilievo
piede d’elefante.
dipinto di rosa Ça crève les yeux
Il catalogo propone, per la prique c’est Rose in cui le forbici accema volta in italiano, la traduzione
cano la vista di Rose (1966), pasdegli scritti dell’artista dalla fine
sando attraverso Voir la paille dans
degli anni Cinquanta a oggi, sugl’oeil du voisin et pas la poutre
gestivamente montati con le immadans le sien (1964).
gini in sezioni autonome, e altra
La vista, la visione retinica che Daniel Spoerri, Camera dell’Hotel Carcassonne, 1959-1965, ver- preziosa documentazione come inPablo Picasso aveva cominciato a sione II, Giardino di.
terviste e fotografie dell’artista. ■
Caffè Michelangiolo
43
Esposizioni
Il “Maestro del Bigallo” entra agli Uffizi. Un percorso essenziale nel panorama variegato
della pittura toscana del Duecento. Maria: da “Théotokos” e da “Sedes Sapientiae”
a Madre universale. Scientificismo e buon senso nel restauro delle opere d’arte
INGRESSO AI SOMMI DELL’ARTE
di Piero Pacini
L’
acquisizione, da parte degli Uffizi, della Madonna con Bambino in trono e due angeli del
cosidetto Maestro del Bigallo – auspicata da Antonio Paolucci e portata a
buon fine da Cristina Acidini e da Antonio Natali – esige un’adeguata pubblicizzazione in quanto quest’opera viene a precisare ulteriormente un capitolo della pittura del Duecento e ripropone, in termini di esperienza intellettuale e secondo il buon senso estetico, il
problema spinoso e di difficile pacificazione dei metodi d’intervento sulle
opere che portano i segni del tempo,
dall’usura agli “aggiornamenti” più o
meno invasivi.
Una volta tanto, queste novità sono
state affidate non ad una di quelle pubblicazioni sesquipedali che lusingano
la vanità dello storico d’arte e dell’acquirente facoltoso, ma ad un agile volumetto – realizzato con il consueto livello grafico da Polistampa di Mauro
Pagliai – e curato da Angelo Tartuferi,
un sicuro conoscitore dei Primitivi (gli
Maestro del Bigallo, Madonna col Bambino in
trono e due angeli, Galleria degli Uffizi. Particolare della Madonna e del Bambino.
44
La copertina del volumetto edito da Polistampa,
maggio 2007: Il Maestro del Bigallo e la pittura
della prima metà del Duecento agli Uffizi, a cura
di Angelo Tartuferi.
addetti ai lavori reputano già “classici”
testi come La pittura a Firenze nel
Duecento del 1990 e L’arte a Firenze
nell’età di Dante del 2004).
Nell’introduzione alla pubblicazione
sul Maestro del Bigallo, Antonio Natali sottolinea i criteri adottati per inserire il nuovo acquisto nella sala progettata sulla metà degli anni Cinquanta
da Gardella, Michelucci e Scarpa per
accogliere i capisaldi dell’arte occidentale (Cimabue, Duccio e Giotto) e, in
«una sequenza di vuoti e pieni liricamente scanditi», le opere di quei pittori che hanno avviato un nuovo corso
dell’arte sacra.
L’inserimento della tavola del Maestro del Bigallo e della Madonna di Casale in uno spazio considerato uno dei
punti d’arrivo della museologia moderna, poteva incrinare l’equilibrio
espositivo a cui erano pervenuti gli architetti ricordati, ma la soluzione adot-
tata risulta ugualmente meditata e valorizza ulteriormente la Sala dei Primitivi.
Ecco pertanto che, in virtù di queste
importanti acquisizioni, il quadro della pittura toscana del Duecento si arricchisce di due presenze che hanno
avuto un ruolo non secondario nella
graduale conquista del “naturale” o, se
vogliamo, nel passaggio dal “greco al
volgare” di vasariana memoria.
Angelo Tartuferi ripropone, con una
chiara esposizione di confronti e di
stringenti relazioni culturali, la figura
del poco noto Maestro del Bigallo: analizza le peculiarità stilistiche delle poche opere sicuramente autografe, ma
tiene conto anche di quelle che gli sono
attribuite con argomentazioni degne di
considerazione; di pari passo, ricostruisce la mobile trama figurativa del
tempo – variegata di convergenze, di
echi o di suggestioni formali – in cui
operano personalità indiscusse, ma dal
percorso ancora problematico, come il
Maestro del Crocifisso n. 434, Coppo di
Maestro del Bigallo, Madonna col Bambino in
trono e due santi (completamente ridipinta), FIrenze, Conservatorio delle Montalve a Villa La Quiete.
Particolare della Madonna e del Bambino.
Caffè Michelangiolo
Esposizioni
Marcovaldo, Bonaventura Berlinghiero ed altri. La nuova presenza
artistica appare tutt’altro che ordinaria, in quanto rimette in discussione i consolidati schemi della tradizione figurativa in sintonia con le attese del tempo e con
un rinnovato approccio alla immagini della Fede.
Il Crocifisso dipinto della Galleria Nazionale d’Arte Antica di
Palazzo Barberini, ad esempio,
s’impone per quella rasserenata
conquista del motivo che, in anticipo sulle più energiche invenzioni
di Cimabue, trova esempi nella
scultura lignea toscana del primo
Duecento (tra i tanti, quello, altissimo, della sperduta chiesa di San
Gersolé, oggi al Museo d’Arte Sacra di Certaldo), ma che trova ulteriori e stimolanti esempi nelle
croci dipinte, diffuse tra Pisa e
Lucca.
Ma è soprattutto nella produzione
delle immagini di Maria – intesa
come “Theotokos” e come “Sedes Sa-
Maestro del Bigallo, Madonna col Bambino in
trono e due angeli, Firenze, Galleria degli Uffizi.
Caffè Michelangiolo
tone e, in tempi più vicini a noi, lo
stesso Gino Severini ha riconsiderato con grande interesse in quanto vi riscopriva tanta di quella sapienza costruttiva alla quale gli artisti del suo tempo si erano avvicinati mediante l’applicazione alla
pittura delle regole geometriche e la
riflessione sulle teorie scientifiche
della luce e del colore.
L’itinerario attraverso la pittura del Duecento – che Angelo Tartuferi ha precisato sui dati acquisiti in indagini progressive e consequenziali – ripropone con autorevolezza anche il problema del
restauro delle opere d’arte, che in
questi ultimi anni – vuoi per eccesso di zelo o per un malinteso
criterio di “scientificità” – ha motivato sterili e, talora, anche poco
civili discussioni tra gli addetti ai
Maestro del Crocifisso n. 434 (e Pittore del XVII secolo),
Crocifisso dipinto, Firenze, Villa La Quiete,
Conservatorio delle Montalve.
pientiae” – che si avverte l’effetto della
diffusione delle più antiche litanie mariane, ovvero la chiara intenzione di
infondere nella sacralità delle immagini
di estrazione bizantina caratteri e modi
di essere più accessibili o più vicini al
“naturale”. La Madonna del Maestro
del Bigallo, esposta oggi nell’area riservata ai Sommi dell’arte, si presenta con
un’espressione ancora concentrata, ma
non rimanda più alle icone bizantine: la
rotondità del volto e la semplicità del
gesto arrivano invece ad evocare una
sana donna del popolo (Giotto valorizzerà ulteriormente quest’impressione di
semplicità e di maternità); gli occhi «lievemente in tralice» – annota Cristina
Acidini – «ci fissano serissimi, vigili e
un po’ curiosi» (si richiama l’attenzione
del lettore sulla pregnanza di quest’ ultima indicazione). Lo stesso Bambino
– inteso ancora come “Dominus” e, con
minor convinzione, come “Dominatur” –
costituisce una buona indicazione per il
più vigoroso pargolo di Giotto, di sano
ceppo contadino. L’icona in questione
risulta ulteriormente comunicante per i
siglati modi plastici fortemente allusivi e
potenzialmente “dinamici”, potenziati
da un decorativismo che, sulla fine del
Duecento, ha sedotto l’aretino Margari-
Pittore toscano, Madonna col Bambino in trono e
Annunciazione, Firenze, Galleria degli Uffizi.
45
Esposizioni
lavori. Partendo dal principio che un’opera d’arte non può essere confrontata
con un’altra se non se ne conosce la
“pelle” – ovvero le superfici cromatiche
liberate dallo sporco e dagli “aggiornamenti” più o meno invasivi – Tartuferi segue con passione le tappe dei restauri e, solo a conclusione degli interventi, le sue ipotesi si tramutano in certezze. La recente pulitura del Crocifisso dipinto di Tereglio (Lucca), ad esempio, gli ha permesso di avvicinare questo testo al Maestro del Crocifisso n.
434 degli Uffizi, mentre la pulitura della Madonna con Bambino e due Santi
del Museo d’Arte Sacra di Certaldo gli
ha rivelato i modi pittorici del Maestro
del Bigallo. Date questi apporti, oggi
egli auspica la pulitura di opere fortemente ridipinte come la Madonna con
il Bambino in trono e due angeli del
Conservatorio delle Montalve e la Madonna col Bambino del monastero di
Rosano, come della stessa Madonna del
Bordone di Coppo di Marcovaldo in
Santa Maria dei Servi a Siena. Tartuferi affronta il «problema spinoso delle
ridipinture più o meno “ravvicinate”
dei dipinti duecenteschi» senza timore
di apparire isolato o controcorrente: ritiene che «il mantenimento aprioristico
di ogni qualsivoglia riipintura, persino
di quelle molto antiche, non sia da ritenere dogmaticamente la strada più
giusta da seguire». Per questa convinzione, reputa che si debba ancora intervenire nel Crocifisso dipinto del Conservatorio delle Montalve, opera ascritta con certezza al Maestro del Crocifisso n. 434 agli Uffizi, ma nelle tabelle
totalmente ridipinta da un anonimo
pittore del XVII secolo. I paladini della “storicizzazione” dei mutamenti del
gusto continuano a trovare legittimi gli
aggiornamenti seicenteschi; ma, già in
un primo impatto con l’opera, l’osservatore riceve impressioni contraddittorie ed ambigue: le figure laterali non
rendono giustizia allo strazio delle immagini primitive; il Padre Eterno con la
Colomba dello Spirito Santo, la Maddalena e gli angeli dele tabelle terminali
immettono nella rappresentazione del
Crocifisso un anacronistico spirito controriformistico. Pertanto la proposta di
Tartuferi si prospetta più che doverosa
non solo per la dissonanza stilistica dell’aggiornamento seicentesco, ma soprattutto per il fatto che le radiografie
46
MACCHIAIOLI A ROMA
nel Chiostro del Bramante
(11 ottobre 2007-3 febbraio 2008)
La mostra curata da Francesca Dini, che
già l’aveva presentata a Torino alla Fondazione Palazzo Bricherasio, è ulteriormente
arricchita per l’edizione romana di splendidi capolavori quali La scolarina di Giovanni Fattori, Il rio a Riomaggiore di Telemaco
Signorini esposto per la prima volta, Carro
e bovi nella Maremma toscana di Giuseppe
Abbati. La rassegna propone un itinerario di
oltre cento opere, articolato in otto sezioni,
volto a studiare l’originale e rigoroso rapporto dei Macchiaioli con “i princìpi del
vero”, ossia con quella realtà naturale che
già Emilio Cecchi individuò come l’approdo
poetico del movimento toscano.
I Macchiaioli rappresentano il più straordinario evento pittorico italiano dell’Ottocento e una delle più originali avanguardie
nell’Europa della seconda metà del secolo.
Soltanto in tempi recenti gli studi sono venuti riscoprendo la complessità ideologica e
culturale sottesa alla vicenda della “macchia”, per cui essa appare finalmente non
come un fenomeno occasionale bensì il riflesso di una civiltà con i suoi valori ideali e
civili, le sue aspettative di libertà e di giustizia sociale, le sue predilezioni culturali.
Edito da Silvana, il catalogo a cura di
Francesca Dini che è anche presente con un
proprio scritto intitolato Poesia dei Macchiaioli, si avvale delle schede critiche di
Silvestra Bietoletti e Rossella Campana e offre un panorama dell’epoca dei Macchiaioli,
grazie ai contributi di Zeffiro Ciuffoletti
(Il patriottismo melanconico e sofferto dei
Macchiaioli), di Luciano Alberti (I macchiaioli e la musica), di Silvio Balloni (Telemaco Signorini, i macchiaioli e gli ambienti letterari del tempo).
La Redazione
hanno attestato che «la pittura ducentesca sottostante è conservata per la
maggior parte e presenta interessanti
variazioni iconografiche […] non solo
nel tabellone principale, ma anche in
quelli laterali». Finalmente una voce
chiara nel campo del recupero delle
opere d’arte, in cui si scontrano opinioni sostenute da argomenti più o
meno solidi, ma anche interessi settari
destinati a creare nuovi centri di potere nel settore che tutela le opere d’arte,
e in un momento in cui, in nome delle
scientificità operativa, si tende ad omologare l’unicità delle varie espressioni
figurative.
La diatriba tra gli interventi conservativi e gli interventi stilistici, tra il
criterio “purista” e quello “imitativo”
ha superato i limiti di un corretto confronto dialettico: da tempo dilga la
moda delle “toppe” bianche che ostacolano la comprensione dell’unità compositiva dell’opera e, in certi casi, ne
vanificano la funzione didattica in
quanto la presentano agli spettatori
come disiecta membra sopra un tavolo
anatomico (per esemplificare questa situazione, si richiama alla memoria del
lettore la situazione attuale degli affreschi di Giotto a Santa Croce e della
stesssa Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi). Contrariamente ad alcuni storici dell’arte che
sbandierano il problema del restauro
con colpi di scena o con conclusioni intransigenti, Tartuferi porta avanti il dibattito sul restauro in termini civili e
con argomentazione riprovate sul contatto quotidiano coi testi pittorici e sulle indagini tecniche (se na più di una
conferma nelle motivazioni serene che
oppone a certe ipotesi critiche di C.L.
Ragghianti, di A. Caleca, di L. Bellosi e
dello stesso M. Boskovits); ma, purtroppo, certe prese di posizione tardano a fare marcia indietro o ad imboccare la via del “buon senso”, in quanto l’acribia e le conclusioni critiche si
appigliano sempre più frequentemente
ad argomentazioni fumose e a preconcetti che distolgono l’osservatore dalla
comprensione della funzione primaria
delle opere d’arte, dalla loro qualità di
“segno” e di “Biblia pauperum”, nonchè dai criteri di visibilità studiati dagli artisti del passato per inserire le immagini della Fede in determinate at■
mosfere ambientali.
Caffè Michelangiolo
Decima Musa
Per i settant’anni di Dustin Hoffman (Los Angeles, 8 agosto 1937)
e alla presenza di Jon Voight, riproposto alla Festa Internazionale del Cinema a Roma
in ottobre il cult movie di John Richard Schlesinger che lanciò definitivamente i due attori
NEL FANGO DI MANHATTAN
di Sandro Melani
Q
uando approdò sull’altra sponda
dell’oceano per realizzare Un
uomo da marciapiede (Midnight
Cowboy, 1969), adattando l’omonimo
romanzo di James Leo Herlihy che probabilmente sarebbe stato altrimenti destinato a un rapido oblio, John Schlesinger (1926-2003), dopo un tirocinio costituito da esperienze documentaristiche
culminate in Terminus (1961), si era già
assicurato una discreta fama di regista
eclettico, in grado di passare, e con notevole disinvoltura, da lungometraggi più
o meno strettamente legati al clima culturale degli Angry Young Men e del Free
Cinema britannico ad accurate trasposizioni di opere letterarie. Aveva infatti al
suo attivo da una parte Una maniera
d’amare (A Kind of Loving, 1962), Billy
il bugiardo (Billy Liar, 1965) e l’allora
sopravvalutato Darling (1965), che aveva valso l’Oscar a Julie Christie, e dall’altra il fedele ma un po’ inerte adattamento di un romanzo di Thomas Hardy,
Via dalla pazza folla (Far from the Madding Crowd, 1967). L’esperienza maturata ai margini del Free Cinema del Karel Reisz di Sabato sera, domenica mattina (Saturday Night and Sunday Morning, 1960), del Tony Richardson di Sapore di miele (A Taste of Honey, 1961) e
del Lindsay Anderson di Io sono un campione (This Sporting Life, 1963), quel
“Kitchen Sink Cinema” proteso a rivolgere l’attenzione agli strati sociali troppo
spesso ignorati dalle produzioni ufficiali, lo aveva reso il regista ideale per dipingere un ritratto di New York e dell’America che sfuggisse, come ormai imponeva la tendenza anti-hollywoodiana
della New Wave cinematografica, ai frusti stereotipi del cinema più convenzionale. Erano gli anni in cui l’immagine ottimistica ed edulcorata degli Stati Uniti
veniva sistematicamente frantumata da
una serie di pellicole tese a rivelarne,
senza peraltro rinunciare a un’appassionata dichiarazione d’amore, un volto nascosto. La dissacrazione poteva con SolCaffè Michelangiolo
Dustin Hoffman e Jon Voight in un fotogramma
famoso tratto da Un uomo da marciapiede, il film
di John Richard Schlesinger del 1969.
dato blu di Ralph Nelson (Soldier Blue,
1970) ribaltare la versione ufficiale delle lotte tra bianchi e pellerossa ed equiparare senza possibilità di equivoci lo
sterminio degli indigeni alla guerra nel
Vietnam, oppure con Easy Rider di Dennis Hopper (1969) puntare il riflettore
sulla violenza e sull’intolleranza della società e con altrettanta inequivocabilità
alludere nel tragico finale agli assassini di
John e Robert Kennedy e di Martin
Luther King, o ancora, per portare un ultimo esempio, con Cinque pezzi facili di
Bob Rafelson (Five Easy Pieces, 1970)
scavare nel profondo ma vitale disagio
interiore di quanti non potevano rinunciare allo sviluppo di una coscienza critica, rivelandosi così incapaci di accettare una serie di valori preconfezionati e
ormai sclerotizzati.
Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, Un uomo da marciapiede è diventato un cult movie, anche se la forza d’urto che esso ebbe alla sua prima uscita si
è senza dubbio attenuata, sorpassata da
maggiori audacie rappresentative, e la
violenza emotiva del suo impatto lascia
quindi trasparire con sempre maggiore
evidenza i limiti e, più che altro, le astuzie di un’operazione che finiva per farsi
riassorbire nel meccanismo dello star system nel momento stesso in cui sembrava prenderne le distanze. Ne erano già allora una spia abbastanza eloquente le interpretazioni di Jon Voight nel ruolo di
Joe Buck e di Dustin Hoffman in quello
di Enrico “Ratso” Rizzo (Rico nella versione italiana, che così rinuncia, forse per
un soprassalto di orgoglio nazionalistico, all’allusione ai topi di fogna contenuta nel soprannome), il primo un insoddisfatto lavapiatti ma aitante all American
boy che nella sua sprovveduta ingenuità
si trasferisce dal Texas a New York con
l’intenzione di intraprendere una strepitosa e remunerativa carriera come stallone per ricche signore deluse dalle prestazioni sessuali dei loro consorti o amanti, il secondo un claudicante imbroglione
e reietto italo-americano, figlio di uno
sciuscià che fino alla morte ha inalato
l’odore della cera da scarpe nei meandri
della metropolitana: interpretazioni
esemplari, certo, ma forse fin troppo degne dei collaudati insegnamenti dell’Actor’s Studio newyorkese di Lee Strasberg.
Ne furono poi un’ulteriore spia gli Oscar
che gli vennero assegnati nonostante che
la censura americana lo avesse contrassegnato con la X riservata alle pellicole
pornografiche (miglior film, migliore regia e migliore sceneggiatura a Waldo
Salt) o le nominations che ricevette (Dustin Hoffman, Jon Voight e Sylvia Miles
nel ruolo della prostituta Cass da cui Joe
Buck, forse convinto che dal suo stesso
cognome si possano sprigionare magici
influssi in grado di fargli piovere in grembo le verdi banconote, non riceve il compenso sperato e a cui deve anzi scucire
parte dei suoi risparmi). E l’elenco delle
pecche del film potrebbe continuare: è
troppo insistito nella sua dimensione il47
Decima Musa
lustrativa e documentaristica il festino a
base di alcol, droghe e musiche e luci
psichedeliche in cui Joe e Ratso si mescolano alle creature di Andy Warhol, da
Viva a Paul Morrissey, e appare sovrimposta la poeticità che dovrebbe scaturire
dalla nascita dell’amicizia dei due diseredati nel corso della loro forzata convivenza nel fatiscente edificio in cui cercano riparo dalle inclemenze dell’inverno di
New York, con quella tosse continua dell’italo-americano che stuzzica inevitabilmente il ricordo delle tisiche eroine del
melodramma nostrano, come a suo tempo notarono Tullio Kezich e Alberto Moravia, citando l’uno la Mimì pucciniana e
l’altro la Violetta verdiana. Sono scivoloni kitsch nel patetico, come lo è la morte
di Ratso in una pozza di fetida urina proprio quando il greyhound su cui sono saliti muovendo alla ricerca di un’impossibile guarigione per l’uno e di un’ardua rigenerazione morale per l’altro si sta avvicinando a Miami. È il momento in cui
i risvolti melodrammatici della vicenda
rischiano di far precipitare il film nel
grottesco, ma subito dopo l’intelligenza di
Schlesinger riprende il controllo della situazione, cosicché, nel momento in cui si
dovrebbe definitivamente configurare
come una sorta di agognata terra promessa in cui piantare di nuovo le radici,
Miami viene spogliata di qualsiasi mistificazione dalle ultime immagini, dedicate ora al volto livido di Ratso e allo sguardo impaurito di Joe, ora alle anziane signore che dimenticano all’istante la tragedia a cui hanno appena assistito per ritoccarsi ancora una volta il trucco, ora ai
segni di una sfacciata opulenza urbana
che per i due diseredati può solo riflettersi
nei vetri del finestrino per poi lentamente oscurarsi e lasciare spazio ai bianchi titoli di coda su fondo nero.
A dispetto dei suoi difetti e in virtù dei
sui pregi, il film continua intanto a sedurre lo spettatore e a imporsi su di lui
con una suggestione innegabile, forse
sprigionata dall’amarezza perfettamente
riassunta dal titolo originale, in cui midnight smentisce, minandola alla base, l’eroica e integra robustezza del termine
cowboy, che di per sé rimanda istantaneamente a un mito di virilità ben più
prepotente di quello offerto dal semplice
man. Joe Buck non è certo un cowboy
professionista, anche se di un cowboy
come John Wayne assume o cerca di assumere l’abbigliamento – dal giaccone di
48
pelle con le frange alla valigia di pelle di
mucca, probabilmente finta, e agli stivali scuri con i ghirigori in cui sarà costretto a versare un po’ di profumo per nasconderne il puzzo – e magari l’andatura
spavalda di chi crede di potersi sempre
reggere bene sui talloni. In compenso Joe
si ritiene un magnifico stallone. Quello
Jonathan Voight (Yonkers, Stato di New York, 1938)
in una scena di Enemy of the State, 1998, regia di
Tony Scott. Dopo essere stato uno dei belli della new
wave americana anni settanta, con Runaway Train
del 1985 anticiperà la sua seconda stagione artistica
di personaggi negativi ma di massiccia vigoria.
che non sa, però, è di essere in realtà un
Ercole senza piedistallo, costretto a prostituirsi sulla Quarantaduesima strada
con giovani impacciati gay che non possono nemmeno rispettare l’accordo economico pattuito e che finiscono per suscitare la sua compassione o con non più
giovani omosessuali della middle class,
tormentati dai sensi di colpa, a cui deve
estorcere il compenso concordato ricorrendo a una violenza che essi sono costretti a subire affinché il loro segreto
possa conservarsi tale. Con Shirley poi,
l’unica sua cliente danarosa, interpretata
da Brenda Vaccaro, come hustler Joe è un
vero fallimento: colpa dell’alimentazione
sommaria che lo ha sostentato a New
York e magari delle sostanze assunte al
festino psichedelico oppure di un’insicurezza sulla propria identità sessuale a cui
sembra alludere la violenza di gruppo a
cui è stato sottoposto al tempo della sua
relazione adolescenziale con la ragazza,
Annie la pazza, le cui adoranti parole
continuano a riecheggiargli nella mente?
Ancor prima che appaiano i titoli di testa,
il film si apre con una sequenza straordinaria: sullo schermo bianco di uno squallido drive in texano rimbomba il frastuono di alcuni colpi di fucile e degli zoccoli dei cavalli, poi la macchina da presa si
allontana per inquadrare uno spazio vuoto e desolato in cui campeggiano sullo
sfondo le attrezzature di un parco giochi, tra cui un cavallino a dondolo cavalcato da un bambino, forse lo stesso Joe,
che da adulto, dei cowboy del mito americano sarà soltanto una sorta di scoronamento parodico. Nel suo passato non vi
è che il ricordo di una serie di dolorosi e
traumatici abbandoni, dalla madre che,
in quanto frutto indesiderato di chissà
quale amplesso, lo lascia bambino alle
cure della disinvolta nonna Sally e dei
suoi non più giovani cavalieri di estrazione rurale alla squilibrata Annie, sottrattagli dalla polizia dopo il suo definitivo crollo nervoso, abbandoni reiterati poi
dalla scomparsa della nonna durante il
servizio militare e, infine, dalla morte di
Ratso, quel trapasso inglorioso che non è
assolutamente possibile esorcizzare. Del
passato, o meglio, delle svanite presenze
di questo passato, continuano a riecheggiare le voci delle persone che ha incontrato, quelle che lo hanno lasciato e quelle da cui si è volutamente staccato allorché ha dato inizio all’inutile inseguimento dell’effimero sogno americano, che
Ratso condensa nell’immagine di una
spiaggia assolata su cui trascorrono in
ozio i loro ultimi anni di vita e di pacchiani piaceri fitte schiere di anziane signore impellicciate e cariche di gioielli,
moderne garguglie delle quali Ratso, in
un immacolato abito bianco, è il ricercato e coccolato beniamino. Sono voci lontane che si perdono in spazi enormi, ora
assolutamente deserti ora gremiti di corpi rigorosamente anonimi, quasi senza
volto e senza espressione, distese urbane
o extraurbane solcate da strade su cui
nessuno ti può soccorrere perché non c’è
nessuno che lo possa fare o nessuno che
abbia l’intenzione di farlo. Sul greyhound
che lo porta a New York o su quello che lo
conduce a Miami Joe Buck scivola verso
una meta illusoria sulle strade di un’America indifferente che non chiede e non
concede nessuna forma di perdono e gli
offre soltanto la dimensione di una inde■
siderata solitudine.
Caffè Michelangiolo
Arte e Scienza
Sorprendenti quadri di patologia nelle Metamorfosi di Ovidio
LE SCOPERTE DI UN PATOLOGO
di Giorgio Weber
… lor vanità che par persona
Inf. VI 36
L
a prima volta che l’ho visto, il
Marsia scuoiato, è stato sfogliando
il catalogo delle opere di Tiziano,
esposte al Prado nel 2003, in una memorabile mostra. Il quadro, di incredibile espressività, è pressoché inaccessibile
giacché si trova a Kromeric, nella Repubblica Cèca.
L’ho ritrovato, quel satiro dal cui sangue avrà origine il fiume Marsia, nelle
mani del figlio di Latona, nei versi delle
Metamorfosi di Ovidio (Libro VI, vv. 388395), ove a lui, per la funesta gara col
flauto, «la pelle», dice il poeta, «viene
strappata da tutto il corpo»: ed ecco che
Ovidio si incanta a guardarli quei muscoli
«che restano alla scoperto, con le vene
pulsanti e brillano non più protetti dalla
cute» e conclude che a Marsia «glieli potresti contare i visceri che palpitano».
Mosso da queste immagini, ho principiato a scorrere, con attenzione di patologo, il folto bosco delle Metamorfosi di
Ovidio incontrando qua e là quadri nascosti di vere e proprie malattie che mi
sono giunti inaspettati. Così è stato per
l’incontro con l’affascinante ninfa Cìane
siciliana, addolorata e per il ratto di Proserpina e perché la sua fonte è disprezzata. Ella «portò in silenzio dentro di
sé quella ferita e si distrusse in lacrime».
E, continua e insiste Ovidio, «Avresti visto le sue membra ammollirsi, le ossa
flettersi (ossa pati flexus), le unghie perdere durezza […] e tutta lei svanire in
gelida acqua».
S’erano veduti dunque i visceri palpitanti del satiro Marsia durante lo
scuoiamento; ora si vedono della ninfa
Cìane le ossa flettersi, le unghie perdere
di durezza: e come non pensare per lei a
una intensa decalcificazione, se non a un
vero e proprio morbo di Paget, o ad una
osteogenesi imperfetta o, più facilmente,
a una forma di rachitide?
A contrasto, ecco Niobe, la figlia di
Tantalo, moglie del re di Tebe, fiera dei
Caffè Michelangiolo
Apollo e Dafne, nella stupenda scultura di Gian
Lorenzo Bernini della Galleria Borghese a Roma:
sono evidenti l’allungarsi dei piedi della Ninfa in
radici, il mutarsi delle sue chiome in fronde d’alloro, come nel Libro I delle Metamorfosi di Ovidio.
suoi dodici figli: che Apollo e Diana, nati
dalla gelosa Latona, ad uno ad uno, per
ordine della madre, le uccidono, tutti
quanti. E Niobe (Libro VI, vv. 248-315)
la vediamo come serrarsi e bloccarsi in
una rigidità totale del corpo e farsi muta,
finché diviene pietra.
È ovviamente una metamorfosi, rapida (com’è tutto in Ovidio, nota Italo
Calvino), ma per me patologo questa rigidità potrebbe anche esprimere aspetti
di un morbo di Parkinson avanzato o di
un morbo di Alzheimer in fase terminale, allorquando il paziente diviene tutto
rigido e muto (per riprendere le parole
del grande Atlante neurologico del Netter
(CIBA).
Dopo questi primi incontri, pressoché casuali, con inattesi (e finora non
considerati) quadri di malattia, celati
sotto le fantastiche metamorfosi del poeta, ho intrapreso un esame più metodico, pur negli ovvii limiti di una simile indagine, dell’intero testo del poema di
Ovidio con intenti di esplorazione patologica.
Ed ho anzitutto constatato come non
sempre ci si trovi di fronte a feroci attività punitive di divinità giacché alle volte sono gli dei stessi a patire malattie improvvise, affatto imprevedibili per loro
nonché per lo stupefatto patologo esploratore della selva ovidiana.
Ci accorgiamo così come alla notizia
che la bella Corònide, da lui amata, (Libro II, vv. 600-603) giace con un giovane dell’Emònia, accada al dio Febo stesso qualcosa di fulmineo: al dio innamorato infatti cade l’alloro dal capo ed egli
perde la vista, gli cade di mano l’archetto e impallidisce il volto. Per me patologo qui si narra inconsapevolmente, sotto
veste di metamorfosi, lo svolgersi di
un’amaurosi totale transitoria nel quadro
di un vero e proprio attacco ischemico
cerebrale transitorio (un TIA come oggi si
dice). E infatti il dio, poco dopo, a vendetta, terminato l’attacco, può colpire a
morte l’infedele amata e a lei «col sangue
si disperse la vita, fredda morte invase il
suo corpo, svuotato dell’anima».
Qualcosa di similmente transitorio
(pur senza la cecità) accadde a Cèrere
(Libro V, vv. 509-510) quando «rimase
a lungo come paralizzata» (Stupuit ceu
saxea voces adtonitaeque diu similis fuit)
a causa del dolore per l’avvenuto rapimento della figlia, Proserpina. Poi il tremendo stordimento (gravis amentia dice
Ovidio) passò.
E si ricordi come già nell’Iliade sia
proprio Ecuba a perdere la luce degli occhi quando vede il figlio Ettore morto,
trascinato via dagli Achei (Canto XXII,
v. 466).
Analoga, anche se meno patetica
(ma non transitoria), è la cecità di Fetonte (Libro II, vv. 180-181) quando,
preso dal terrore di ciò che ha fatto, «un
velo di tenebra gli calò sugli occhi» ed
49
Arte e Scienza
egli perde del tutto la capacità di dirigere i focosi cavalli del carro paterno e
tutto finisce e crolla fino al fulmine di
Giove, che descriverà poi Michelangelo
stesso. E quindi piangono le sorelle, le
Elìadi, in lutto per la morte che ha colto lui, il fratello Fetonte (Libro II, vv.
350-360). E la maggiore d’età, Faetusa,
si accorge a un tratto che le si sono irrigiditi i piedi. Accorrerebbe subito verso
di lei la “candida” sorella Lamezie ma
anch’essa viene trattenuta dal muoversi
per via di una “radice” che le trattiene il
piede e non può muoversi neppure la
terza sorella cui adesso un ceppo serra il
corpo e, mentre con le mani crede di
strapparsi i capelli, questi sono ora fronde d’albero. Questi tragici impedimenti
possono esprimere, mi sembra, una serie
di paralisi, forse forme di poliomielite. Il
tutto ci appare qui addirittura quasi
come un’epidemia familiare della paralisi stessa.
Analoghe le sventure che accadono a
Drìope (Libro IX, vv. 350-355) figlia di
Eurito, re di Eucalia, quando «i piedi le
rimasero inchiodati mettendo radici […]
una corteccia le serra gli inguini, fa per
strapparsi i capelli ma si trova le mani
piene di foglie». È divenuta anch’essa
una pianta, di giuggiolo; le Elìadi invece
erano divenute pioppi. E così è quindi
per Mirra (Libro X, vv. 490-494) e per le
donne di Tracia che hanno ucciso Orfeo
(Libro XI, vv. 71-84). Qualcosa dunque,
come è accaduto anche a Dafne nel Libro
I (vv. 548-552), inseguita da Apollo innamorato, alla quale «il piede resta inchiodato da pigre radici» mentre il petto
vien cinto da una fibra sottile: Dafne è
divenuta alloro, come ci narra poi il Bernini nella statua stupenda.
Ma non si avverte qui il peso, altrove
a me palese, di una malattia, nella estrema levità innamorata dei versi di Ovidio.
Il fatto che accade è lo stesso che accade
alle Elìadi o a Drìope. Ma la poesia, qui
altissima, quasi annulla la realtà della
malattia forse perché, come dice Niels
Bohr, «è ciò che circonda la parola che le
dà significato».
Lucrezio ha ragione di dire (Lucrezio
II, vv. 700-706, trad. Enzio Cetrangolo):
Nemmeno è da credere che tutte
le specie di atomi
si possano insieme legare con altre
specie qualsiasi: ché allora vedresti
dovunque sorgere mostri […]
50
nascere rami fronzuti da corpi viventi
stirpi terrestri mischiarsi a stirpi marine
[…]
Ma Ovidio, impavido, quei rami li
vede nascere dal corpo delle Elìadi, di
Drìope e di Dafne e vedremo appresso
come addirittura egli ci mostri anche il
trasformarsi del pescatore Glauco, inna-
uccise, Cadmo «cade bocconi sul petto»,
le gambe «si fondono insieme»: divengono cioè ingovernabili (Libro IV, vv. 579590); «in pectus cadit pronus» dice il
poeta ed al patologo appare davanti agli
occhi un’apoplessia da emorragia cerebrale con paraplegia bilaterale, che progressivamente si estende agli arti superiori. E qui Ovidio tocca vertici di pietà e
di umana poesia. Cadmo infatti tende le
braccia «finché gli restano» e chiede alla
moglie di prendergli una mano «finché è
una mano, finché il serpente non mi invade tutto […]» e le parole quindi si
spengono «in un sibilo» e la moglie grida (v. 591):
Cadme mane […] his exue monstris
Cadme quid hoc? Ubi pes?
Lo scheletro nell’Osteogenesis imperfecta e le
ossa che si flettono nel rachitismo, come nella
Ninfa Cìane dal Libro V di Ovidio (da Pathologische
Anatomie di Ludwig Aschoff, Jena, 1913).
morato di Scilla, in un essere acquatico,
simile a una sirena.
Accanto a queste, si colloca la storia,
per noi anch’essa da leggere nell’ambito
della patologia neuropatologica, del fondatore di Tebe, il mitico re Cadmo. Egli,
prostrato dal dolore per le sciagure occorsegli e come frastornato per i prodigi
che ha veduto, lascia la città, peregrino,
insieme con la moglie e con lei discorre
delle sventure degli anni trascorsi. E a un
tratto, mentre rievoca il serpente che egli
«Cadmo rimani, non andartene, Cadmo cosa accade, dov’è il tuo piede?»
chiede, e per le sue parole ci sembra di
essere all’improvviso con Amleto quando
si appresta la seppellitura di Ofelia e lui
ha intanto in mano il teschio di Yorick e
si domanda dove sono ora le labbra del
buffone che baciavano lui da bambino.
Il dramma di Cadmo si attenua infine
con il divenire anch’ella, la moglie, serpente, a lui abbracciata.
Complessi e ben singolari ci compaiono adesso dinanzi, nel Libro II (vv.
820-832), gli accadimenti che colpiscono la famiglia di Cècrope, il primo e mitico re di Atene (per metà uomo e per
metà serpente). Infatti un giorno lo
sguardo di Mercurio cadde sulla ieratica
processione (quella stessa che troveremo
scolpita nei fregi del Partenone) di regali e caste fanciulle, che portavano alla
rocca di Pallade, su canestri inghirlandati poggiati sul capo, puri e santi arredi. Il figlio di Giove subitamente si invaghisce della più bella, Erse. Ma quand’egli la cerca nella reggia, la sorella Aglàuro lo respinge dalla casa. Suscita così la
collera di Minerva, che scatena addosso
alla povera Aglàuro la stessa Invidia, rimossa dalla sua tana, ove essa si ciba di
vipere. Aglàuro adesso è morsa da un
dolore occulto e, dice Ovidio, spasimando ella di giorno e di notte, si logora a
poco a poco, come ghiaccio che sia esposto a un sole incerto. E finalmente la figlia di Cècrope diviene rigida e rimane
immota: «[…] le parti che si piegano
quando ci sediamo sono prese da torbida
pesantezza, non si muovono più […] le
Caffè Michelangiolo
Arte e Scienza
giunture delle ginocchia sono irrigidite,
un freddo si spande fino alla punta delle dita, le vene impallidiscono. Essa non
tenta nemmeno di parlare, c’è come una
pietra che le serra il collo, la bocca si è
indurita […]. È una statua esangue, seduta.». «Nec conata loqui est, nec […]
vocis habebat iter: saxum iam colla tenebat, oraque duruerat […]» (vv. 829831) e, aggiunge il poeta, per di più diviene nera. E come non prospettare noi
qui, per Aglàuro, una forma di “reumatismo (artrite reumatoide) anchilosante” con quella cardiopatia reumatoide,
così spesso ad esso concomitante, per cui
si sviluppa l’intensa cianosi da scompenso di cuore che la rende “nera”?
Anche al di fuori da questi complicati quadri ci incontriamo nel poema in
altri impressionanti eventi morbosi come
l’ittero verdinico, ben drammatico, che
invade subitamente il povero Ciparisso
(Libro X, vv. 136-139) che diviene cipresso: (in viridem verti coeperunt membra colorem): e la notizia è enunciata
con tanta estrema semplicità da sembrare cosa ovvia.
Per le attinenze botanico-farmacologiche, seppure al confine con la magia, appare mirabile la trasformazione
del pescatore Glauco che, innamorato di
Scilla, osa respingere l’infuriata Circe,
ma poi, portando alla bocca erbe di un
prato da nessuno mai calpestato, si accorge di essere divenuto un pesce, un
dio marino, con le gambe «fuse insieme
in forma di pesce pinnuto» (Libro XIII,
vv. 944-964). Per me patologo è stata
una sorpresa insolita davvero questo
avvenimento anche perché esso si verifica, nella metamorfosi di Ovidio, in un
essere adulto anziché nell’utero materno ove la scienza medica ben sa che poteva essersi in realtà verificato; e ben
curiosamente, giacché anche il sesso è
coinvolto nella malformazione, ed invece è di sesso maschile la figura che vediamo in Glauco. Un’immagine come
di sirena maschile è peraltro raffigurata anche nell’ Ortus sanitatis, noto libro
di Storia naturale, pubblicato a Magonza nel 1491 da Jacob Meydenbach e
riportato da Lorraine Daston e Katharine Park nel loro Wonders of Nature
(1998 a New York). Asessuate sono poi
le Sirene (1927) nei gessi di Libero Andreotti.
Dobbiamo a Cesare Taruffi, il famoso anatomo-patologo dell’800 di BoloCaffè Michelangiolo
gna, alla sua magistrale e monumentale
Storia della Teratologia (8 volumi, pubblicata nel 1894) la conoscenza della casistica cinquecentesca (da Nicola Rocheus, a Ulisse Aldovrandi, anch’egli bolognese). È il Taruffi a ricordare qui i
cinquantacinque casi di “simpodia” osservati allora (egli stesso poté vederne
tre casi nella sua città). Fu poi usato per
Il Marsia scuoiato nel dipinto di Tiziano, che riprende il racconto dalle Metamorfosi di Ovidio (Libro IV).
questi mostri il termine di “sirenomeli” o
di “simmeli”.
A questo esempio, eccezionale, di patologia malformativa degnamente si affianca, nelle Metamorfosi, la fusione di
Salmàcide ed Ermafrodito (Libro IV, vv.
283-388) in un solo individuo, bisessuale come nella statua famosa agli Uffizi.
A fronte di questi avvenimenti che si
collocano nella patologia teratologica si
incontrano nel poema anche esempi di
patologia della vecchiaia come quando si
dice della nutrice di Mirra che allunga le
mani, tremolanti per l’età (Libro X, vv.
414-416): tremulasque manus annisque
metuque. E ancora è vecchiaia, anche se
diversa, quella, illustre, della Sibilla cumana (Libro XIV, vv. 144-149) in cui
l’età si prospetta estrema, fino alla cachessia senile, giacché ella non può morire ancora per chissà quanti anni e sa
bene che la lunga esistenza la renderà
piccola, il corpo consunto si ridurrà a un
peso minimo. E queste cose ella dice a
Enea, mentre con lui risale dalle profondità dell’Ade.
Eliot cita il Satyricon là dove quei
ragazzi di Cuma chiedono alla decrepita
Sibilla attrappita nell’ampolla: «Sibilla
cosa vuoi?», e lei risponde: «Desidero
morire» (et cum illi pueri dicerent: Sãbulla tã yàleiw; respondebat illa: Ïpoyaneçn yàlv). Citazione che Mario Graziano Parri riprenderà in Codice occidentale (1983), alla poesia XIV: «come Sibilla
al fanciullo oltraggioso | non potrò che
vaticinare | fammi morire».
Il tremolio della vecchiaia si ritroverà
poi nel celebre discorso di Pitagora (Libro XV, vv. 212-213) ove ha «tremulo il
passo l’inverno, senile, raggrinzito, spoglio dei suoi capelli e, se un pochi ne ha,
è canuto». E diviene tremulo per la vecchiaia il passo di Giunone (Libro III, vv.
275-277) che si fa canuta e rugosa
quando si traveste per recarsi alle case di
Sémele. Se la vecchiaia rassecca dunque
il corpo tremulo, il corpo può essere preda di cachessia anche per fame. Struggente la vediamo, questa perdita di se
stessi, del proprio corpo, consunto dalla
cachessia (come sarà la Maddalena di
Donatello, tanti secoli dopo), tutta soffusa di tenerezza e pietà nella ninfa Eco,
vanamente innamorata di Narciso, che
non prende più cibo finché di lei resta
soltanto la voce (Libro III, vv. 393-401).
E ancora la cachessia, ora atroce, si fa
estrema nella personificazione della
Fame del Libro VIII. Irto il crine, sotto la
pelle scabra, risecchita; si distinguono in
trasparenza i muscoli, al posto del ventre
c’è soltanto lo spazio per esso, il torace è
come sospeso, sorretto dalla colonna delle vertebre. Quando poi essa attacca
l’empio Erisìctone, egli diviene preda di
una fame inesauribile, una bulimia feroce, inarrestabile, per cui distrugge tutti i
suoi beni per acquistare cibo, vende più
volte la figlia, infine divora se stesso. E ci
sembra quasi di essere con Dante in
qualche girone dell’Inferno, tanta è la
forza di queste narrazioni in versi del
poeta antico. Ma in Ovidio, (Libro XV,
vv. 234-236), vediamo ancora che piange la Tindàride Elena, quando scorge
nello specchio le rughe senili «oh tempo
divoratore e tu invidiosa vecchiaia», ella
grida, «fate ogni cosa morire, rosa dai
denti dell’età, di morte lenta» (del duro
dente degli anni parlerà poi anche Leonardo).
Accanto a queste tristi anche se placide, e pressoché rassegnate, immagini di
patologia della vecchiaia, ecco scoppiare
il quadro della follia, con Atamante e la
moglie di lui, Ino, figlia di Cadmo, rea di
aver allevato Bacco e pertanto odiata da
51
Arte e Scienza
Giunone. Ed è Giunone stessa (Libro IV,
vv. 495-510) che le scatena addosso una
Furia (andando di persona a chiamarla),
la tremenda Tisìfone. Essa getta loro addosso due serpenti cui non occorre neppure morderle le due vittime: basta infatti il loro fetido alito (graves animas)
ché essi impazziscono («solo la mente
avvertì il terribile assalto») ma, come se
ciò non bastasse, ecco Tisìfone versar
loro sul petto un tremendo filtro magico
(che a noi par uno di quelli del Macbeth) e con esso li sconvolge fin nel
profondo del cuore (praecordiaque intima movet dice, al v. 507, Ovidio), e si
scatena adesso l’orrenda furia di Atamante che vuole uccidere la moglie Ino,
che adesso gli sembra una leonessa, e le
strappa uno dei figli che fracassa poi
contro una pietra, mentre ella fugge con
l’altro figlioletto e sta per gettarsi con
questi in mare da un’alta rupe.
adesso un corno di cervo che era appeso a un alto pino e la cima forcuta del
corno caccia negli occhi di Grine e glieli cava. Gli occhi in parte restano attaccati alla punta del corno, in parte colano giù nella barba e penzolano misti col
sangue (vv. 268-270). E ora Reto fa saltare con un tizzone semibruciato le suture del cranio a Carasso e le ossa gli si
I
A
bbiamo più volte notato segni di
umana pietà affioranti nelle Metamorfosi di Ovidio. Ma esistono interi e
lunghi brani del poema, come quello
delle stragi di Perseo o come l’orrenda
scena della regina Ecuba prigioniera del
re Polimèstore, quando ella «come una
leonessa» cui han portato via un cucciolo ancora lattante si avvicina con un
inganno al re e «gli caccia le dita nei
perfidi occhi […] gli strappa il bulbo
dall’orbita e vi tuffa dentro le mani e
continua a scavare nel posto degli occhi
che non ci sono più» (libro XIII, vv. 550564) o, infine, come nella Centauromachia con i Lapiti (Libro XII, vv. 210541) ove la crudele serie delle scene di
violenza ha momenti di atroce pesantezza, nella minuziosa descrizione, che
ricordano da vicino quelli dell’Iliade nel
Canto della Battaglia presso le Navi.
Comincia la lotta atroce, con il vaso
«irto di figure in rilievo» che Eràsito
scaglia in faccia a Teseo e questi «vomitando grumi di sangue con cervello e
vino» (pariter cerebrumque merumque,
dice il v. 238) stramazza al suolo e «scalcia sul terreno inzuppato» (è la “madida harena” del v. 235). Ora è la volta
del Làpita Celadonte cui il viso “sfracellato” è “irriconoscibile”: Exiluere
oculi, disiectisque ossibus oris acta retro
naris medioque est fixa palato, e gli occhi schizzano via e il naso andò dentro
fino al palato (vv. 252-253) e la battaglia orrida continua. Essàdio prende
52
mi viene alla mente e che mi balena da
un breve passo della Recherche di Marcel Proust. Esso potrebbe trarre remota
connessione proprio con il peculiarissimo parto di Mirra divenuta albero, nel
tronco del quale si formano crepe da cui
nasce il bellissimo Adone. Mi è parso
qui quasi d’essere, con Proust, presso a
quei campanili di Martinville che Proust appunto ricorda rompersi nella superficie dov’è soleggiata ed è, come se
fosse celato dalla loro scorza, qualcosa
che è pronto adesso ad apparire. Mi son
domandato se anche Proust, come secoli prima fece nella Commedia Dante,
non abbia tratto da Ovidio «schegge di
immagini e di parole», come dice Vittorio Sermonti nel suo Commento al XIII
canto dell’Inferno.
Un simpode o sirenomelo: l’effige è quella di una
sirena al maschile e con le vesti: in qualche modo
simile al Glauco di Ovidio (Libro XIII). Siamo sulla
copertina di un Ortus sanitatis, pubblicato nel
1491 a Magonza da Jacob Maydenbeck (da Wonders and the Ordei of Nature, di Lorraine Daston
e Katharine Park, New York, 1998).
infossano nel cervello, ridotto a poltiglia (vv. 288-295). Infine, Dicti rovinando giù per un dirupo spezza un olmo
che viene ad essere rivestito i suoi visceri (vv. 339-340) e Peleo caccia a Dòrilo la spada nel ventre e questi li strascina a terra i propri visceri e, pestandoli, li rompe e vi si impiglia e crolla
sul ventre ormai vuoto (vv. 386-391).
Sarà poi Feòcome a fracassare il cranio di Téctafo e attraverso la bocca, le
narici, gli occhi e le orecchie, il cervello
spiaccicato cola «come fa il latte rappreso attraverso un graticcio», dice Ovidio (vv. 434-439). E sembra di assistere a scene di film di Quentin Tarantino.
Mi si consenta infine un singolare
(anche se forse astruso) riferimento che
n conclusione, ogni disciplina vede,
guarda, misura secondo se stessa
(come osserva Ilya Prigogyne) e, come
dice Niels Bohr, la ricchezza della realtà
straripa da ogni linguaggio particolare:
non ci stupisce quindi se, diversamente
da Ovidio, che le vede mutare in un attimo sotto i suoi occhi di artista le forme
delle persone, lo scienziato Charles
Darwin veda un giorno mutate, pur nel
lento correre dei secoli, le forme di tartarughe e di uccelli alle Galàpagos. Dopo
tutto, ognuno di noi ha visto diventare
nere le farfalle in prossimità di grandi
miniere di carbone, quasi come accade al
corvo di Ovidio che diviene nero, da candido che era, nel Libro II delle Metamorfosi, o come accade per il nevo del
volto di Gilberte, che ha cambiato di posto nel Temps retrouvé.
Ecco dunque che, sia pure con tempi
diversi, le immagini delle cose vengono a
cambiare, sono “fuggitive” (come direbbe Proust appunto); “Cuncta fluunt”
dirà Pitagora nel Libro XV al v. 178.
E infine perché non ricordarla allora qui anche la “patomorfosi” per cui la
forma di molte malattie, immota per
millenni e simile a quelle che abbiamo
ora visto già osservate dal poeta Ovidio,
ci appare oggi cambiata sotto il potente urto delle terapie, finalmente conquistate dalla Scienza medica nel XX
secolo?
■
NOTA
Le ampie citazioni da Ovidio sono tratte dall’edizione Einaudi delle Metamorfosi (19942).
Caffè Michelangiolo
DI NECESSITÀ, GRANDEUR…
Q
uando Charles-André-Joseph-Marie de Gaulle sulla Citroën Pallas
nera attraversava gli Champs Elysées
e Parigi, le strade tutto intorno venivano chiuse e un cordone di gendarmi
schierato ai due lati dell’intero percorso. Ma si sa, Lui era la Francia: n’estil pas vrai?, e il “rango della Francia”
caro appunto all’Uomo di Lilla, il suo
rango nel Pianeta, esigeva questo atto
di deferenza verso Colui che dopo i Re
e dopo Napoleone il destino chiamava
a incarnarne la secolare grandeur, «le
cui basi furono sempre Dio, la Chiesa,
la Nobiltà» (Karl Ferdinand Werner,
Naissance de le noblesse. L’essor des
élites politique en Europe, 1998). Probabilmente è il motivo per cui i francesi sono convinti di aver vinto anche
le guerre che hanno perduto. All’opposto degli italiani che soffrono permanentemente della sindrome di Custoza e Caporetto. Le quali furono solo
due battaglie perse, come ci hanno poi
detto la scienza militare e la storia (per
Caporetto si veda: Adriano Alberti,
1923; Paolo Gaspari, 2007); sconfitta,
e ambedue le volte, fu la nostra diplomazia, ma su questo si sorvola.
Gli Champs Elysées, Nicolas Sarkozy li ha attraversati a piedi il 16
maggio scorso. Poi sono entrati in scena i cavalleggeri della Gard Répubblicaine, i cannoni alla tomba
di Napoléon, i picchetti all’Arc du
Triomphe, la Marseillaise, i fiori
alle statue di de Gaulle e Clemenceau, la glorification del diciassettenne communiste Guy
Môquet, un caduto della Résistance che d’ora in poi sarà ricordato ogni anno al primo giorno di scuola nei licei. Ecco, un
misto di royalisme e di tradizione,
di omaggio ai valori della Republique e di preannuncio di réformes. E
secondo i dettami della “comunicazione”, per cui poco c’è da nascondere e quasi tutto va mostrato: sotto questo segno si è svolta la disinvolta sfilata lungo la guida rossa che conduce
alle trecentosessantacinque stanze dell’Eliseo. Era guidata dalla disinvolta
Cécilia, vestita Prada, che con la destra tiene per la mano il decenne Louis
nato dal matrimonio con Nicolas e che
intorno alle spalle ha il braccio protettivo del ventenne Jean, l’altro figlio
Caffè Michelangiolo
BLOC-NOTES
di Bartleby
Un disinvolto scatto sulla spiaggia di Bordeaux di
Cécilia Maria Sara Isabel Giganer-Albeniz e del
consorte Nicolas Sarkozy de Nagy-Bocsada, ventitreesimo presidente della Repubblica francese.
di Sarkozy frutto dell’unione con la
prima moglie Marie-Dominique Culioli; con la sinistra, Cécilia stringe la
mano di sua figlia Judith la quale tiene a sua volta quella della sorella
Jeanne-Marie, ambedue frutto del primo matrimonio con l’animatore televisivo Jacques Martin. Alla sinistra di
quest’ultima, il ventiduenne Pierre,
l’altro figlio di Sarkozy e di Marie-Dominique. Il completo scuro del nuovo
Presidente era stato confezionato da
Armani. Con l’imperatore dei Fran-
cesi ha in comune la statura: uno e
sessantacinque (Jacques Chirac è alto
uno e novantadue). Napoleone proveniva da una famiglia livornese i cui
titoli di nobiltà erano stati riconosciuti nel 1757dal granduca di Toscana
Francesco Stefano di Lorena, Nicolas
Sarkozy de Nagy-Bocsada viene da
una famiglia iscritta al Gotha di Ungheria. Il primo lasciò cadere il dittongo nel cognome nel 1796, il secondo ha messo da parte il predicato nobiliare. L’esordio di Sarkozy ha visto
l’offerta degli affari esteri al fondatore di Médecins sans Frontères ed ex
ministro socialista Bernard Kuochner.
A quello stesso incarico, Bonaparte all’indomani del 18 brumaio aveva
chiamato Charles-Maurice principe di
Talleyrand-Périgord e vescovo di Autun che la Convenzione aveva messo
sotto accusa dopo la scoperta di un
carteggio con Luigi XVI. C’è una certa
logica nella matita dei caricaturistes
d’Oltralpe, il ventritreesimo Président
è stato raffigurato sui giornali umoristici nel Bonaparte del David che passa le Alpi in sella allo scalpitante cavallo bianco. A differenza di noi che la
politica estera la facciamo con il piede
in casa, la Francia ha sempre avuto
l’occhio ben alto sopra i propri confini. La Gloire, certainement!... ma tenendo anche conto che il francese medio, come hanno sempre fatto notare i Flaubert e i Balzac, i Camus
e le George Sand, mantiene saldo
un fondo d’animo épicier (cioè,
bottegaio) che valuta con realismo il dare e l’avere. Probabilmente è per questi due aspetti che
Oltralpe i treni vanno à toute vitesse e da noi impiegano anche
undici ore per coprire quattrocentosessanta chilometri (tanto è
durato il viaggio dell’inviato di
“Repubblica”, Attilio Bolzoni, da
Trapani a Modica).
Ecco perché il presidente della Repubblica francese può permettersi il
giorno del trionfo di andarsene a piedi
sugli Champs Elysées mentre i minisri
della Repubblica italiana sono costretti a viaggiare sugli aerei blu di Stato
oppure sulle corsie di emergenza dell’Autosole per assistere a un Gran Premio o a una festa di partito. E perché
da noi un duello come quello fra
Sarkozy e la Royal è (e sarà sempre)
■
impensabile.
53
LETTURE
Casorati, Ragazza che legge.
di Danilo Breschi, Mirella Billi, Milva Maria Cappellini,
Mario Domenichelli, Elena Frontaloni, Federico Lenzi,
Giuseppe Napolitano, Leandro Piantini,
Daniele Santoro, Monica Venturini
CHARLES MAURRAS
E LE DESTRE DI FRANCIA
C
ome ogni buon libro di saggistica,
anche quello che Domenico Fisichella ha dedicato allo studio del pensiero
politico di Charles Maurras offre molto
più di quanto si possa intuire dal titolo.
La scelta del personaggio, sotto molti
aspetti cruciale nella storia politica di
Francia, consente infatti all’autore di affrontare la più ampia tematica della cultura politica controrivoluzionaria che
nella nazione transalpina ha ovviamente
il suo luogo di origine e di maggiore sviluppo. Noto è poi come correnti storiografiche più recenti abbiano ravvisato
proprio in quell’ambiente politico-culturale la prima matrice del pensiero rivoluzionario-conservatore novecentesco e
persino dell’ideologia fascista. Estremamente cauto su quest’ultimo punto, Fisichella preferisce concentrarsi sul concetto di destra contestualizzandone genesi e
contenuti, secondo un approccio insieme storico e analitico.
Dicevamo del ruolo “cruciale” del
pensiero e dell’opera di Maurras. Egli è
in effetti l’autore che forse più di altri
può aiutare lo studioso a cogliere la dimensione plurale della destra francese,
collocandosi «alla convergenza dilemmatica tra molte destre». Si è soliti infatti
riflettere e discutere a proposito della
travagliata storia delle sinistre, molteplici e tra loro confliggenti, spesso generatesi da scissioni interne secondo un costante e periodico processo di scavalcamento “a sinistra”, in nome di una rivoluzione che si pretende “presa più sul
serio” di quanto abbiano fino a quel momento fatto gli altri compagni, rinnegati proprio a causa di questa presunta moderazione. Un’analoga pluralità polemica e rissosa caratterizza la storia delle
destra europea, e in Francia molto più
che altrove. Il volume si apre così con
una rapida ma efficace rassegna delle
varie destre transalpine che si sono succedute nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento, senza esser mai riuscite a
fondersi insieme, se non per un breve
54
momento attorno ai primi anni Trenta in
virtù dell’attrazione esercitata dal fascismo italiano e dal desiderio di emularlo.
Quanto accadde a Vichy, secondo molti
studiosi, apparterrebbe invece alla sfera
della contingenza e della costrizione imposta da eventi bellici, piuttosto che ad
una logica di convergenza ed amalgama
ideologica o di volontaria aggregazione
politico-elettorale.
Le destre che si manifestarono in
Francia dopo la Rivoluzione del 1789
risentirono del disorientamento di una
monarchia scossa nelle sue fondamenta
di legittimità ed effettività, e costituirono altrettanti tentativi di risposta alla
ricerca di un’identità monarchica perduta o alterata. Il primo grande filone
della destra francese fu l’oltranzismo
monarchico (ultra-royalisme, o ultracisme) che a sua volta germinò quasi subito il legittimismo. Il passaggio fu nel segno dell’ammorbidimento di alcune intransigenze, dal momento che la Restaurazione non fu, non poté, essere
completa e un residuo parlamentaristico
permase. Il successo che arrise agli ultraroyalistes nelle prime elezioni dell’agosto
Fragonard, Ragazza che legge.
1815 della Camera della monarchia restaurata di Luigi XVIII (ben 350 deputati su 392 seggi da attribuire) fu motivo
di lento ma irreversibile attaccamento, o
quanto meno di crescente attenzione,
verso i meccanismi e le opportunità dell’azione parlamentare. Tra 1816 e 1820
il regime parlamentare penetrò così gradualmente nei costumi politici nazionali, destra legittimista compresa. Questa si
costruì attorno al concetto di “ordine
naturale” contrapposto a quello di rivoluzione, perché il primo era sinonimo di
stabilità mentre il secondo foriero di disordine e anarchia. In questo ordine naturale rientravano il cattolicesimo, talora innervato di aspirazioni gallicane, le
istituzioni temprate e collaudate dalla
durata storica, a partire dalla monarchia, e quindi la famiglia, cellula fondamentale della società e prima istituzione
capace di garantire stabilità e prosperità. Forte l’avversione del movimento
legittimista nei confronti del centralismo
statale, in quanto eredità del periodo rivoluzionario.
Le alterne fortune dell’istituto monarchico francese post-rivoluzionario determinarono la nascita dell’orleanismo,
movimento sorto dalla cosiddetta Rivoluzione di Luglio e dal conseguente avvicendamento tra i Borbone e il ramo cadetto degli Orléans. Peculiarità dell’orleanismo, debitore in ciò dell’elaborazione dei dottrinari costituzionali dell’età
della Restaurazione, è il sostegno ad un
sistema stabilmente incardinato sull’equilibrio fra due istituzioni: monarchia e
parlamento. «Il re non è più l’unto del Signore ma il primo magistrato dello Stato», e il parlamento è il luogo deputato
alla composizione dei conflitti tra i gruppi sociali e le opposte tesi politiche, secondo il principio-guida del juste milieu.
Fisichella sottolinea a ragione le forti analogie fra l’orleanismo e il gruppo dei cosiddetti monarchiens all’Assemblea Nazionale nell’estate del 1789. Comune è il
disegno di mantenere l’istituto monarchico attraverso l’innesto di una costituzione di tipo inglese, in modo da prevenire modifiche più radicali grazie ad
Caffè Michelangiolo
Letture
un’affermazione costituzionale del primato regio all’interno di un regime di
equilibrio fra poteri di diversa composizione sociale e legittimazione politica. Fisichella definisce perciò l’orleanismo una
«destra liberale, destra moderata, sollecita della libertà politica», che aveva nella grossa borghesia della proprietà fondiaria e immobiliare il proprio gruppo
sociale di riferimento.
Il crollo della monarchia orleanista e
l’avvento di una repubblica democratica,
la seconda in Francia dal 1789, presto fagocitata dal plebiscitarismo autoritario
di Luigi Napoleone Bonaparte, genera
un’altra destra che va ad affiancarsi alle
precedenti: il bonapartismo, appunto.
L’esito catastrofico del Secondo Impero e
l’avvento della Terza Repubblica scompagina il quadro politico e culturale, e le
destre orfane dell’istituto monarchico faticano a dialogare con un bonapartismo
che evoca riferimenti egualitari e democratizzanti, come il plebiscito e il suffragio universale. Il nazionalismo, nato a sinistra come patriottismo rivoluzionario,
diventa a fine Ottocento il collante di
queste destre, ma sempre in modo parziale e temporaneo. Ed è proprio in questo contesto politico e culturale di arretramento e difficoltà delle destre che
Maurras inserisce la propria riflessione.
È proprio all’interno di «due grandi crisi», quella delle destre e quella della Terza Repubblica, che Maurras muove la
sua ricerca politica e istituzionale volta a
scongiurare una decadenza della Francia
che a lui pare ad uno stadio avanzato ma
ancora arrestabile. L’orrore della morte
dei popoli e delle civiltà è infatti la molla
che spinge lo scrittore provenzale a cercare realtà imperiture e le trova nella famiglia, nei corpi intermedi e nella nazione. Convinto altresì che non si diano costumi senza istituzioni, Maurras pone
particolare attenzione alle forme di governo della cosa pubblica ed è su questa
base che fonda la sua opzione a favore
della monarchia.
L’istituto regio è il più affine al modello e alla struttura della famiglia, e
come il padre pensa e provvede al bene
di tutti i suoi cari così fa il re. Famiglia e
monarchia sono istituzioni capaci di filtrare al meglio le passioni umane, di ridurre l’incidenza dell’interesse particolare e di favorire massimamente il bene
generale. La non elettività, sostituita dal
criterio ereditario, rende il sovrano meno
Caffè Michelangiolo
vulnerabile agli umori mutevoli e alle
ambizioni sfrenate delle fazioni in lotta,
la cui azione semmai stempera in nome
del mantenimento di una famiglia, la dinastia, la cui dignità corrisponde a quella della nazione governata. Le pagine
con cui Maurras argomenta non solo la
sua preferenza ma l’affermazione di una
oggettiva superiorità della monarchia
ereditaria rispetto alla repubblica democratica non paiono, a dire il vero, convincenti. Dopo averle lette non trova ad
esempio confutazione una vecchia obiezione come quella di Benjamin Constant,
secondo cui «l’ereditarietà ci presenta
soltanto una successione di governanti
allevati nel potere, e l’esperienza è quasi superflua per indicarci il risultato di
due elementi quali il caso e l’adulazione»1. Fisichella interviene in soccorso,
talvolta mescolando le tesi maurrassiane
con i propri convincimenti, ma resta
l’impressione di una comparazione condotta fra entità non omogenee: da un
lato, la monarchia quale modello idealtipico, in cui la storia fa eccezione e le cui
caratteristiche sono frutto di deduzione;
dall’altro lato, una democrazia repubblicana tutta descritta sulla base della
sua fenomenologia, spesso rilevata nei
suoi casi patologici, come la tarda Terza
Repubblica francese, o nelle gravi disfunzioni odierne che minacciano le democrazie occidentali di derive oligarchiche e tecnocratiche. Maggiormente persuasive sono invece le distinzioni operate dal Fisichella scienziato della politica
a sostegno della tesi secondo cui il regime
politico auspicato da Maurras può essere definito un «autoritarismo attenuato», un sistema autoritario «retto a monarchia temperata». Sebbene l’autore
precisi che l’intento del libro sia discutere di «teorie politiche e di impostazioni
storiografiche», sarebbe stato comunque
interessante e fruttuoso per la stessa
comprensione delle idee maurrassiane
coniugare teoria e storia, narrare e analizzare come e perché, con la seconda
guerra mondiale, lo scrittore provenzale
pervenne «a scelte contingenti antitetiche
rispetto ai convincimenti dottrinali» (il
corsivo è mio). Anche perché una tale
diversione rispetto alle teorie politiche
fin lì professate potrebbe far dubitare
della consistenza delle medesime. A
meno che da una disamina più storica e
meno filologica dell’opera di Maurras
non emergano elementi ulteriori e diver-
genti rispetto ai molti già colti da Fisichella.
Danilo Breschi
NOTA
1 B. CONSTANT, Principi applicabili a tutte le
forme di governo, tr. e introduzione a cura di S. De
Luca, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro),
2007, p. 66.
Domenico Fisichella
La democrazia contro la realtà.
Il pensiero politico di Charles Maurras,
Carocci, Roma, 2006
pp. 188. € 13,80
L’ETERNO PRESENTE
N
ulla può essere pronunciato nel momento del passaggio cruciale di un
uomo sospeso tra la vita e la morte. L’opera di Paolo Ruffilli smentisce con forza
questa convinzione, dal momento che è
dedicata proprio alla soglia per eccellenza, allo sciogliersi dei legami fisici e sentimentali esistenti, al momento in cui le
forze abbandonano il corpo dopo tanto
dibattersi e lottare, le voci del passato e
del presente s’annebbiano e si confondono in una nuova dimensione temporale
indefinibile e tutto viene attratto a sé dal
potere funereo dell’estremo passo.
Paolo Ruffilli, nato nel 1949, è autore di alcune raccolte poetiche, tra cui ricordiamo Piccola colazione (1987), che
ha vinto l’American Poetry Prize, Diario
di Normandia (1990) vincitore del Premio Montale, Camera oscura (1992) e
Nuvole (1995). Ha, inoltre, pubblicato
una versione della Vita di Ippolito Nievo
(1991) e Vita, amori e meraviglie di Carlo Goldoni (1992). È curatore di un’edizione delle Operette morali di Leopardi,
della traduzione foscoliana del Viaggio
sentimentale di Sterne, delle Confessioni
d’un italiano di Nievo e ha tradotto autori
come Gibran e Tagore, i Metafisici inglesi e la Regola celeste del Tao.
La gioia e il lutto. Passione e morte
per Aids affronta due dei tabù più grandi della nostra società, in grado di annientare ogni assoluto e dare scandalo: la
morte “giovane” e la malattia del secolo.
55
Letture
Fanno parte della raccolta, vero e proprio
percorso di un io morente, testi scritti dal
1987 al 2000 e organizzati in una compatta struttura poematica che segue, passo dopo passo, l’allontanamento progressivo dalla vita, da diversi punti di vista e
sfiorando più generi, dal “compianto” o
“lamentatio” al diario.
Fin dal titolo ossimorico, che potremmo definire “ungarettiano”, emerge l’intento profondo della poesia di Ruffilli:
indagare un momento centrale della vita
umana, senza evitare le contraddizioni
che questo comporta, i sentimenti contrastanti e in antitesi che la vita e, ancora di più la vita in punto di morte, scatenano. In copertina, la riproduzione di un
particolare della Pietà di Giovanni Bellini fornisce un’eloquente immagine del
sentimento straziante e, allo stesso tempo,
così carico di vita che accompagna il distacco. Il requiem si alterna e confonde
alla lode alla vita e, paradossalmente,
rappresenta di essa, una profonda esaltazione.
Come dichiara Mengaldo, nella Prefazione, quest’opera, «diario privato e
(tragicamente) amicale»1, segna la fase
della maturità raggiunta e affronta, sublimandolo, il rapporto tra la natura tragica del tema e la semplicità del dettato,
attraverso un linguaggio che si tiene equidistante sia dalla tentazione dell’eterno
sia da quella del concreto quotidiano.
Il corsivo viene utilizzato come pausa di
riflessione, l’alternanza di versi brevi e
di misura più ampia crea un ritmo inquieto, senza continuità, l’uso della rima
“di appoggio” contribuisce a questo effetto antimelodico, che combina ragione
e reazione, speculazione e lirismo, collocando l’esperienza di Ruffilli lungo quella linea di “poesia di pensiero” della nostra tradizione, che ha in Leopardi e in
Gozzano i due grandi esponenti.
Le parole di Ezra Pound introducono
l’opera, dedicata ai “figli del mondo” e individuano nell’amore l’unica eredità possibile, l’unica minima resistenza contro la
perdita e il lutto, contro «l’accendersi e | lo
spegnersi | (per caso?) della vita»2. Corporalità e spiritualità si fondono nelle voci,
di volta in volta dialoganti o monologanti, di madre, figlio o amico, che fissano le
tappe di questa comune via crucis di cui
solo l’epilogo è certo. Il tempo abbandona
lentamente il passato, rinuncia al futuro,
per farsi presente intermittente, lampo incerto, «piede | incespicante | scivolato sul
56
2 P. RUFFILLI, La gioia e il lutto, cit., p. 17,
vv. 1-3.
3 P. RUFFILLI, op. cit., p. 56, vv. 1-8 e 19-25.
Paolo Ruffilli
La gioia e il lutto.
Passione e morte per Aids
Prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo
Marsilio, Venezia, 2006 (I edizione 2001)
pp. 86. € 10,50
Alessandro Serpieri,
il secondo romanzo
DALL’ALTRA PARTE DEL TEMPO
S
niente». La preghiera diventa esplicita
con il proseguire del rito di separazione
che precede il morire:
O Dio nascosto
ma forse non lontano
agognato e inseguito
senza essere stanato,
o Dio segreto
del cuore e della mente
che tutto vede e sente,
decifra e ricompone,
[…] tu,
scandalo del mondo,
allunga la tua mano
e reggilo nel suo precipitare,
portalo di là
oltre il fosso grigio
del nostro disamore3.
La convinzione che resti di noi la miglior parte, l’amore, «un grande | fiume di
energia» e che esista, qualsiasi possa essere la sua forma o il suo stato, un’altra
realtà, anima il poema, che da canto in
morte si fa, in modo inequivocabile nella
sua conclusione, poema in onore e difesa
della vita.
Monica Venturini
NOTE
1 P.V. MENGALDO, Prefazione in Ruffilli Paolo,
La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids, Marsilio, Venezia, 2001, (terza edizione nel 2006), p. 6.
pesso capita nel Modernismo che la
scrittura torni al mito omerico. Ulisse
è il titolo del capolavoro di Joyce; con un
tempo bloccato sull’isola di Circe inizia
Hugh Selwyn Mauberley di Pound; con la
nekya, il descensus ad inferos inizia il
grande poema seriale di Pound, i Cantos.
Eliot richiama Ulisse anche in Terra desolata, ma soprattutto in quel verso «Old
Men should be explorers» dei Four Quartets. L’Odissea diviene una metafora per
la scrittura stessa, l’avventura della scrittura come interrogazione della memoria,
del passato, delle tombe nella memoria, e
nella scrittura tornano le morte voci come
schegge di passato alle quali si tratta di
dare senso e coesione, forma e senso di
racconto alla vita vissuta. Mare scritto, il
secondo romanzo di Alessandro Serpieri
– a distanza di trent’anni l’altro romanzo
“marino”, Mostri agli Alisei (Bompiani
1977) – inizia con la rievocazione dell’arcano canto dei morti nel poema omerico (XI), in cerca di risposte sul passato,
riguardato dal presente, verso il futuro.
Serpieri certamente ricorda quello che
scrive, con qualche eco pascoliana, il Pasolini de “Il luzoùr” (La Meglio Gioventù
) che così traduciamo dal friulano del
poeta: «Giova più ciò che si smemora, di
quel che si ricorda: | meglio spezzare la
corda| che mi lega a una terra morta e insieme nuova. | meglio questa vita nuova e
morta | il breve inverno che vivo | mentre
a Casarsa l’inverno eterno riluce nel cortile […] | Laggiù i miei cari mort i| portano in cuore e sulla lingua la luce del piccolo paese che vive fuori dalla vita | nelCaffè Michelangiolo
Letture
la vita di chi vi è già vissuto. | per altro
destino, io muto, sto qui a parlare | loro
che non san che parlare | sono laggiù,
lontani, muti nel chiarore». Michele Zandonà, la voce narrante di Mare Scritto,
incontra i suoi morti in un “limpido pomeriggio d’inverno” in una radura tra
alberi dalle foglie ingiallite. In quella radura del ricordo, in quel chiarore così
trovato, giungono le morte voci del passato, le voci segregate nella memoria, a
cui la scrittura deve ridare suono e accento.
Scrittura autobiografica, persino romanzo di formazione, per certi versi, se
non fosse che la scrittura stessa ne fa un
romanzo lirico; questa scrittura liriconarrativa si struttura a partire da un
mito, quello di Ulisse, e si chiude su un
mito, quello del tempo rovesciato nel
mito di Medea che ridona la gioventù a
Esone; la storia in chiave di automitobiografia si fa tuttavia nel compenetrarsi di tempo personale e tempo della storia, attraverso il tempo del mito che è
esattamente quella radura, che circoscrive lo spazio in cui vengono ad affollarsi le
voci del passato. Weinrich nella sua analisi del mito di Ulisse in Letteratura, arte
e critica dell’oblio (il Mulino, 1999) vede
tutto il percorso dell’eroe come teso tra
necessità del ricordo che spinge al ritorno ed esigenze dell’oblio che spingono
verso l’alto mare, verso la metamorfosi
marina su cui si chiude il romanzo – certo lo Shakespeare della Tempesta, e l’Eliot della Terra desolata di cui Serpieri si
è a lungo e memorabilmente occupato
nel suo mestiere di anglista. Queste due
linee di tensione, la memoria e l’oblio,
appaiono chiare nel romanzo di Serpieri,
nella sua scrittura tesa al ritorno, al
“tempo perduto”, certo e, nello stesso
momento, ritmata su una volontà di nuove infinite partenze, di molteplici rinascite a partire da un altro mito in chiave,
quello di Er, dalla repubblica di Platone,
in cui le anime dei trapassati vengono
chiamate a scegliere il daimon che deciderà della loro prossima vita dopo però
aver attraversato il Lete, il fiume dell’oblio che tutto smemora (Davanti alla
scelta) per una nuova partenza. Le ombre richiamate così, già in chiave, alla
fine del primo capitolo (All’Ade) divengono non più figure del ricordo e del ritorno, ma figure dell’oblio. «Ombre spiavano da dietro a barriere di vetro che
impedivano contatti. Ombre buie in galCaffè Michelangiolo
lerie di ricordi. Dicendo addio, avevano
girato via con vele nere, al centro di un
mare di piombo, nella luce verticale dell’assenza. Dall’altra parte del tempo».
Le presenze femminili, tutte con le
maschere del mito, Calipso, Circe, Nausicaa, Penelope lontana, alla fine si risolvono in Medea e in quel ritorno che è il
tempo capovolto della scrittura, il tempo
di Esone, a cui la magia di Medea restituisce ciò che il tempo ha divorato, sicché
Esone è, nell’interpretazione di Serpieri,
l’approdo sconosciuto, il “vero giovane
amante” che deve a Medea il suo stesso
rinnovato sangue. In Mare scritto, il ritorno al tempo perduto nella memoria,
tutti i ricordi delle amicizie, degli affetti,
degli amori dunque si articolano all’interno del mito, e il mito è quella polifonica radura a cui giungono e divengono riconoscibili le voci del passato. E la scrittura di questo romanzo a metà tra parola lirica e necessità narrativa trova accenti strani, bizzarri, incantati, di vera e
forte poesia. Una scrittura senza direzione che non sia quella del fluttuare infinito del mare: «Tracce, Scie. Cammini.
Mare scritto. Riscritto da altri venti. Sparpagliamento di immagini. Immagini
adunche sulle ciglia abbagliate dal sole,
immagini laterali in fuga sulla terra dimenticata, immagini aperte come fiori
innamorati, immagini chiuse su piccoli
delitti, immagini spente ai lati della strada, immagini accese nello specchio dove
muoiono e rinascono le immagini. Rotazioni di cerchi ed elissi, stagioni, giri di
luna e di sole, galassie sgranchite nei vortici. Dovunque curvature di venti e correnti a formare ciottoli tondi, rotolati verso la costa concava della morte». Non
troviamo migliore descrizione del metodo,
del verso, della qualità della scrittura di
questo romanzo di Serpieri, tra l’andare e
il tornare, tra il ritrovarsi e lo sperdersi,
tra il darsi forma e il disciogliersi d’ogni
forma in immagini d’acqua, creature
d’acqua, in perenne metamorfosi marina,
ogni forma cancellata e mutata dalla marea, ma in quel mutare che nessuno veramente può decifrare, sta una «testimonianza felice… forse l’unica risposta sensata che fosse mai partita dalla terra incontro ai brividi irrisolti delle stelle». Un
“trovar chiuso”, certo, che nel celarsi trova la magia del tempo capovolto, e il brivido delle stelle. Vale davvero la pena di
leggerlo.
Mario Domenichelli
UNA GOCCIA NEL MARE
S
ottende tutto il romanzo Mare Scritto
– in cui tracce autobiografiche vengono ricostruite e ricomposte in una biografia che comprende il racconto di altre
vite e altre vicende – la metafora marina,
nel cui ininterrotto e misterioso fluire tutto si origina, si muove, passa e infine si
disperde, lasciando comunque un segno
indelebile di ciò che la compone e che ne
fa parte. Come ne Le onde di Virginia
Woolf, nel romanzo di Serpieri – che, pur
nella sua diversità dall’opera delle scrittrice inglese, ne condivide non solo l’impianto metaforico, ma il senso di una ciclicità che accomuna l’uomo e il cosmo –
la vita individuale viene associata alla
singola onda, che fluisce e defluisce, si
forma e si disfa, per poi ricomporsi e ricostituirsi in altre nello scorrere e nell’infinito movimento delle acque marine, la
cui origine si perde, così come la sua – apparente – dissoluzione, nel tempo.
L’incipit del romanzo si apre significativamente con una citazione dall’Odissea, la prima opera in cui si fondono la
metafora marina con quella della vita
umana come viaggio, iniziato in un momento e in un luogo imprevedibile e inesorabilmente diretto verso il mondo delle tenebre:
E quando al mare fummo giunti,
la nave per prima cosa spingevamo nel
mare divino, e albero e vele alzavamo
57
Letture
sulla nave nera […] Per un giorni intero, a vele spiegate, corremmo sul
mare. Tramontò il sole […], l’ombra
giungeva ai confini di Oceano […] fino
all’Ade, dove dimorano, privi della parola, i fantasmi degli uomini morti.
La citazione colta – una delle moltissime contenute nel libro, ma che l’autore,.
finissimo docente e critico letterario oltre
che già romanziere, riesce nel non facile
compito di mantenere prive di qualsiasi
pedanteria, al contrario rivitalizzando e
rinnovando il senso delle opere cui fa riferimento – si lega alla coscienza centrale del romanzo, che risponde al nome di
Michele Zandonà, alternativamente narratore in prima persona o onnisciente, e
commentatore distaccato, in un alternarsi molteplice e fluido che anche a livello
enunciativo si rivela coerente con la basilare metafora marina che sottende, come
si è detto, tutto il romanzo. Ancora come
in Woolf, questa coscienza centrale corrisponde a quella di uno scrittore (che testimonia e fissa con la parola, da artista,
ciò che resterebbe labile, sconosciuto o
dimenticato), ma non dell’autore stesso;
infatti, anche se in vari momenti Michele Zandonà rimanda a chi scrive, e a vicende e figure della sua vita personale,
mai si identifica con lui, e anzi, evitando
un fastidioso e sterile autobiografismo,
ne fa un personaggio staccato, con una
sua personalità distinta, il cui percorso
esistenziale si articola nel romanzo indipendentemente dal proprio. Tale percorso del personaggio è scandito in vari “movimenti” e fasi, contrassegnati da intitolazioni precise, quali “Crescendo”, “Cercando”, “Approdi e ritorni” – tutti, come
si vede, coerenti con l’idea del movimento, del trascorrere, e del fluire.
Le memorie legate all’infanzia, della
nonna, della madre, della sua nascita, dei
primi giorni di vita, sono tutte legate al
mare, fonte di vita, all’origine e nell’approdo definitivo:
Sua madre l’aveva poi amata
moltissimo. Era come il mare lieve e
verde o azzurro dell’infanzia, il mare
dove lo avevano immerso tante volte
fino al petto la stessa estate sulla cui
soglia gli era capitato di nascere.
Mare fresco, mare caldo, mare salato
negli spruzzi che certamente erano
saliti alle sue labbra facendogli assaporare un altro liquido, più antico,
più universale e non meno vitale di
quello che gli giungeva da diverse
58
[…] fonti. Forse il mare fu per lui la
vita stessa […]
Cosi come il mare «ha tante voci, ma
non le usa sempre in maniera polifonica»,
anche gli umani, nelle loro differenze,
nelle varie fasi della loro vita e dei loro
umori, parlano con voci diverse. Accanto
a lui, si muovono – fluiscono – le persone
e le immagini dei nonni, delle zie (delizioso il ritratto della zia Bettina, perennemente impegnata, nell’oscurità della
sua abitazione chiusa al resto del mondo,
a rovistare e scartabellare le vecchie e
nuove carte delle tante cause che ha intentato contro tutti i possibili enti pubblici
e privati della sua città), del fratello afflitto da strabismo, delle cugine, del maestro, dei compagni di scuola. E già nell’infanzia, è la scrittura – allora su un
quaderno a quadretti – ad allontanare
l’amarezza delle delusioni, il senso di colpa, il disagio, le paure, l’angoscia della
precarietà, l’incognita inquietante del
caso, che già si affacciano nella sua vita,
e che saranno superate soltanto nella fase
più adulta e matura, quella in cui iniziano la riflessione e la ricerca – di se stesso
e del mondo.
L’incanto dell’infanzia (le vacanze
trascorse al mare, l’incontro con “la signora”, i giochi) e i turbamenti dell’adolescenza (le prime schermaglie amorose,
l’evidenziarsi della propria mascolinità, la
scoperta del sesso), vengono ricordati e
registrati sullo sfondo della guerra e delle sue tragedie, che restano, per il bambino e per il ragazzo, inevitabilmente lontani: la Storia ancora non entra, se non
episodicamente, nella coscienza e nella
percezione del mondo, ed è soltanto con il
passare del tempo che si ampliano gradualmente nell’incontro con altri paesi e
altre culture – dal viaggio a Londra all’esperienza americana – quando ancora
sono la storia personale, e una visione individuale, a prevalere.
Nella sezione intitolata “Cercando”
abilmente si ricostruisce il passaggio a
un livello di consapevolezza più ampio, e
le esperienze personali vengono gradualmente inserite, fatte defluire fino a fondersi nella onnicomprensività del flusso
vitale; la citazione dei significati di
“mare” nel corso del tempo trasporta la
concretezza dell’esperienza individuale
– a livello enunciativo contrassegnata dal
passaggio dalla prima alla terza persona –
in una prospettiva più ampia, si dilata
nella vastità di spazi e tempi e si apre
alla complessità delle culture, che tutte
convergono sulla centralità del mare nella vita della natura e dell’umanità:
Un giorno, Michele si mise a consultare dizionari e testi antichi alla ricerca di almeno qualcuno dei segreti
di quel mare, che più di una volta e
forse da sempre, gli era apparso come
lo spazio figurato del tempo – e come
il suo specchio: da intendere del tempo e, in qualche modo, della sua stessa mente che soprattutto nei dormiveglia sembrava mareggiargli dentro.
E se prima dei Greci e dei Romani il
mare, come viene rilevato, designa acque ferme, o un abisso tenebroso, nel corso del tempo si fa «luogo della prova, di
esperimenti e ricongiungimenti, di dei favorevoli o sfavorevoli, di ninfe e di sirene,
di mostri in agguato sotto o sopra le acque su rotte felici-infelici», ma soprattutto rimanda alla fecondità e alla vitalità, e all’erotismo di Venere, la dea nata
dalle onde, che Omero rappresenta anche
in altre figure, Calipso, Circe, Nausicaa, e
nella lontana Penelope, le donne che accompagnano il viaggio di Ulisse su un
mare multiforme, dalle mille definizioni,
che si ripete da sempre «in una folla maestosa di onde». Lo scrittore stesso si perde nel flusso, nella sua vastità, nei suoi infiniti aspetti:
Tracce. Scie. Cammini. Mare scritto. Riscritto da altri venti. Sparpagliamento di immagini. Immagini
adunche sulle cime abbagliate dal
sole, immagini laterali in fuga sulla
terra dimenticata, immagini aperte
come fiori innamorati, immagini chiuse su piccoli delitti, immagini spente
sui lati della strada, immagini accese
nello specchio dove muoiono e rinascono le immagini. Rotazioni di cerchi
ed ellissi, stagioni, giri di luna e di
sole, galassie sgranchite nei vortici.
Dovunque curvature di venti e correnti a formare ciottoli tondi, rotolati
verso la costa concava della morte.
[…]
Spiaggia di piccoli ciottoli bianchi,
qua e là sporchi di catrame. Riva di
mare smeraldo. Poi striscia di verde
pallido e poco più in là intenso. Quindi blu oltremarino in fuga verso l’orizzonte separato in lontananza da un’altra banda di verde quasi d’erba. In
fondo, linea scura di orizzonte netto a
crudele nell’alta luce del sole. In pun-
Caffè Michelangiolo
Letture
ti lontani, due barche a vela, spicchi
bianchi accidentali. Basse sul mare due
nuvolette dai contorni accesi. Nel caleidoscopio, pezzettini a strisce di carta colorata, rotolati chissà come nella
capsula trasparente del mattino per
assestarsi in un unico panorama.
Questi due passi descrittivi, come
molti altri di notevole suggestione estetica, in successione anche nel testo, ne confermano l’ineccepibile strutturazione formale, coerente con il senso, basata sul
contrappunto tra una visione cosmica del
mare, come forza, movimento, flusso, incessante e inarrestabile vitalità, e la visione individuale, di luoghi e momenti
determinati, precisi, legati all’esperienza
personale, che comunque tutti in quel
fluire rifluiscono e defluiscono (si vedano,
a conferma, anche i sintagmi finali dei
due passi, evidenziati graficamente).
Il senso di perdita, di smarrimento
(come è detto suggestivamente, “nel gomitolo delle forme”), che inevitabilmente coglie l’autore-narratore-protagonista,
ribadito nel sogno che egli racconta, e
nelle sue considerazioni sulle forme che
mutano, e su tutte le cose «che sono e
che non sono nell’eterno cambiamento»,
ma anche sul «non-essere che è nell’essere e questo è il divenire», si stempera nel
lucido ricorso alla conoscenza fornita dalle culture conosciute attraverso i viaggi,
quelli compiuti con la sola lettura dei
grandi testi filosofici e religiosi, e lo studio
di opere del passato e più vicine all’autore (si vedano gli echi da T.S.Eliot, ad
esempio, del quale Serpieri è straordinario studioso e interprete), e quelli reali
nei luoghi visitati nella maturità, quando
forse soltanto è possibile la riflessione sui
sistemi con cui l’uomo ha cercato di arginare il terrore del caos, di ritrovare e di ricostruire, nel flusso eterno, un disegno
armonico e coerente sotteso al tutto o al
tutto immanente, che ne giustifichi l’esistenza e le dia un senso.
I viaggi, infatti, narrati – scritti – dal
protagonista-narratore all’interno dei vari
sistemi culturali, su cui si sofferma interrogandosi in una sua incessante ricerca di senso, coincidono o comunque si
accompagnano con quelli concreti in luoghi familiari o remoti, in un affascinante
vagare, di cui il lettore diventa compagno
e confidente. Da questi viaggi in luoghi,
tempi e dimensioni disparate, scaturiscono considerazioni sull’apparente – per
Caffè Michelangiolo
l’autore – casualità della vita individuale
e una profonda riflessione sulla vita stessa del tutto, che comprende il passato e il
presente. Il messaggio trasmesso dai luoghi, dalle credenze, dalle filosofie, dall’antichità ai nostri giorni e nei luoghi
più diversi, sembra suggerire che è saggio
e positivo abbandonarsi al flusso, come al
divenire continuo rappresentato dal mare,
che tutto trasporta con sé in un incessante mutare e rinnovarsi.
La conclusione del romanzo, che
coincide con la maturità della coscienza
centrale del romanzo e ne annuncia anche la vecchiaia e dunque la fine inevitabile, il finale disperdersi dell’onda, ma
per comporne o far parte immediatamente di un’altra, e dunque per rinnovarsi, si intitola significativamente “Ouverture”, ovvero “inizio”, “primo tempo” di un’opera, appunto sinfonia di voci,
fluire di suoni, e ancora una volta conferma la ciclicità di un disegno, la continuità di un percorso, insieme umano e cosmico, anch’esso iniziato con una “fine”
(“All’Ade” è il titolo del capitolo iniziale)
che tale non è, o è comunque anche principio e origine.
Autobiografia, racconto, considerazione filosofica, visione esistenziale si
amalgamano anche nel finale in questo
romanzo profondo e complesso, però avvincente e persino accattivante a livello
narrativo, nel quale felicemente si incontrano e si fondono, in un linguaggio ricco
e raffinato, liricità e realismo, e i toni di
una problematica, ma serena consapevolezza della vita.
Mirella Billi
Alessandro Serpieri
Mare scritto
Manni editore
San Cesario di Lecce, 2007
pp. 216. € 15,00
FU VERA GLORIA?
H
a tutti i requisiti per farsi notare
questo Non muore nessuno di Sergio
Claudio Perroni. Non si potrà dire
– come per tanta narrativa italiana – che
ricalca formule usate e abusate. L’autore è già un personaggio di spicco nella
nostra letteratura, e forse da lui – famoso editor e traduttore di romanzi di culto come Piattaforma di Houellebecq –
non ci si poteva aspettare nulla di meno
intrigante.
Perroni ha messo insieme un romanzo di genere particolare, combinando insieme generi, trame, modalità stilistiche le
più diverse, in un caleidoscopio di trovate di calcolata e sofisticata abilità.
La trama, se di trama si può parlare
per queste brevi narrazioni che mutano
continuamente punto di vista, ruota intorno alla figura di R.T. Fex, scrittore di
successo, che muore forse suicida nel
momento culminante della sua carriera.
Chi ne racconta le gesta sono le sue segretarie che hanno raccolto le sue memorie in ventisei ore di registrazione. A parlare di lui sono amici e conoscenti, le donne che lo hanno amato – fu un vero dongiovanni –, gente famosa e persone comuni. Gli editori hanno inoltre deciso di
interpolare al materiale già predisposto
da Fex anche brani delle sue opere inedite. Quel che ne risulta è il ritratto sfaccettato di una personalità eccentrica, un esibizionista inafferrabile, un camaleonte
della scrittura, un narcisista della più bell’acqua. Vengono evocati momenti salienti
della sua breve vita, i suoi tic, le sue manie, le mille stranezze e stravaganze che lo
hanno reso famoso: a volte nonsense e
bagattelle surreali e insignificanti, a volte
invenzioni che fecero sensazione come
quella di «farsi le seghe» in modo originale (la «pippa al trotto»), oppure la sua
idea di «cronometrare il niente» o la ricerca che per anni lo appassionò di trovare la «sesta vocale» dell’alfabeto. Non
mancano momenti più elevati, “filosofici”, come la passione che Fex ebbe per «la
materia ridisegnata dai contatti», per quei
luoghi che recano i segni del tempo, come
per esempio le scalinate consunte dei vecchi palazzi di giustizia.
Insomma il singolare libro di Perroni
è fatto di un materiale eterogeneo che
mira a costruire una personalità d’eccezione, presa tra il sublime della genialità
e l’idiozia di fatterelli palesemente assurdi, più adatti ad un cabarettista che a
uno scrittore serio. A lettura finita resta
l’interrogativo: chi fu veramente Fex? Un
genio o un innocuo e magari patetico
guitto? Qualcuno a tale riguardo ha fatto il nome di Pirandello ed evocato il
tema dell’identità inafferrabile della persona, ma non credo che sia questa la pi59
Letture
sta giusta. Perroni gioca sempre e il movente ludico è a mio parere la molla principale di tutte le sue invenzioni narrative,
egli gioca e si diverte mettendo in opera le
astuzie e le risorse della sua sterminata
cultura ed erudizione letteraria. A volte
usa un tono algido che può ricordare il
“calore di fiamma lontana” del Foscolo
sterniano e didimeo. Certi momenti di
finta innocenza e reale leggerezza ricordano il primissimo Zavattini, quello delle invenzioni angeliche e surreali di Parliamo tanto di me, la fantasia aerea e
stralunata dei primi libri dello scrittore di
Luzzara che non hanno avuto, in una
letteratura seriosa e retorica come la nostra, la fortuna che meritavano.
A un certo punto di Non muore nessuno si parla della fantascienza e «degli
schemi narrativi troppo rozzi» con cui in
genere è scritta. Perroni rifugge con orrore proprio da tali stereotipi e ha imboccato la strada postmoderna del riuso
e della manipolazione di materiali eterogenei. Egli “fa il verso” a esempi capitali del romanzo moderno, a Calvino, a
Yehoshua (di cui ripete il dialogo monodirezionale, cioè privo delle parole di uno
dei dialoganti) e comunque fa sfoggio di
una non comune abilità mimetica e parodistica. Tuttavia, tra il serio e il faceto,
l’alter ego di Perroni, lo scrittore Fex,
mira in alto, ai personaggi della grande
narrativa, destinati all’immortalità: «Perché nei libri non muore mai nessuno: se
un personaggio che ami muore, per resuscitarlo ti basta tornare indietro di un
paio di pagine – e sai che lo ritroverai
vivo…Vivo e identico, visto che i personaggi non mettono rughe».
In questo campionario di bizzarrie e
di giochi di prestigio, forse le cose più
gustose a mio parere sono quelle in cui
non ci sono sofisticazioni intellettuali ma
si fa il verso al barbiere o al cameriere romano, o alla ragazza che voleva andare a
letto con Fex. Perroni ha molte frecce al
proprio arco e le usa tutte creando un affascinante pastiche che però a volte pecca di eccessiva disinvoltura. A pezzi di
autentica poesia si affiancano “goliardate” meno incisive. L’opera prima di Perroni ha lanciato un vero scrittore. Resta
da chiedersi se sarà in grado di cimentarsi
in opere più impegnative che ne limitino
e ne disciplinino al meglio le capacità affabulatorie.
Leandro Piantini
60
UN CASO LETTERARIO
G
Sergio Claudio Perroni
Non muore nessuno
Bompiani, Milano, 2007
pp. 218. € 15,00
Sergio Claudio Perroni.
iù la piazza non c’e nessuno è stato
per ben due volte un caso letterario.
Lo fu nel 1980, quando uscì per Einaudi come opera d’esordio dell’ottantasettenne Dolores Prato. Poi nel 1997, quando Giorgio Zampa, morta da quindici
anni l’autrice, curò la stampa integrale
del libro per Mondadori. Scopo non secondario della nuova edizione era rendere giustizia ai tagli cui furono sottoposte
le circa mille cartelle consegnate dalla
Prato a Einaudi. E sul banco degli imputati si trovò allora Natalia Ginzburg,
che curò la confezione del volume, scorciandolo ampiamente e andando spesso a
normalizzare lessico e sintassi.
Sull’opportunità dell’operazione di
Zampa, salutata con favore da lettori
esperti e dissimili come Lalla Romano e
Alfredo Giuliani, non occorre forse tornare, se la Prato riesce ancora a parlarci
proprio per via della lingua inclassificabile con cui ha imbastito testi dove tutto
è superfluo e insieme robustamente detto, dunque niente si può tralasciare senza perdita almeno quantitativa di bellezza.
Rispetto a tagli e rimaneggiamenti,
fu lo stesso Zampa a pronunciare un giudizio ripetuto in seguito, con diverse sfumature, da stampa e critica: la Ginzburg
volle pubblicare e amò le intenzioni generali di questo libro arditamente fatto di
tessere quasi accatastate l’una sull’altra,
di anacoluti, idiotismi, costrutti dall’inarcatura dialettale. Solo, provò a riversarlo dentro una dimensione che non gli
apparteneva: quella del romanzo ben fatto, linguisticamente pulito, dotato di una
stranita derivazione ottocentesca. Il tutto
anche sulla spinta di due fattori ineludibili: da una parte il gusto personale (gusto di lettrice e di scrittrice insieme); dall’altra, le esigenze di Einaudi, che non
poteva rischiare su un libro troppo corposo e scritto da un nome per nulla affermato.
S’inserisce a questo incrocio il bel volume pubblicato a giugno da Angela Paparella per Aracne: una ricostruzione della prima vicenda editoriale di Giù la piazza non c’e nessuno attraverso le lettere
spedite e ricevute dalla Prato. Dopo un
primo capitolo dedicato alla biografia
della scrittrice, riletta sulla base dei carteggi e del lavoro di Stefania Severi (L’essenza della solitudine. Vita di Dolores
Caffè Michelangiolo
Letture
Prato, Sovera, Roma 2002; è uscito da
poco un nuovo e documentato volume
della Severi, Voce fuori coro. Carteggi di
una intellettuale del Novecento, il lavoro
editoriale, Ancona 2007), si entra nel vivo
della questione con una panoramica sui
molti contatti epistolari della Prato, che
fruttano oltre duecentocinquanta unità
conservate presso l’Archivio Contemporaneo Bonsanti del Gabinetto Vieusseux e
circa duemila lettere da poco recuperate
e custodite da Ines Ferri e Filippo Ferrari a Roma.
Donna senz’altro stravagante e provvista di una certa grovigliosa impetuosità, la Prato immagazzinò puntigliosamente per tutta la vita le missive scritte e
ricevute. Tra queste, un caso a parte è
costituito da La vera e dettagliata storia
Einaudi, come si legge su una scatola
dove Dolores aveva chiuso il carteggio
con la casa editrice e le centodieci missive scambiate con l’amica Lina Brusa Arese tra il 1977 e il 1981. Corrispondente
dell’autrice fin dagli anni Trenta anche
per questioni legate alla sorella Andreina,
una ragazza con problemi mentali affidata prima alla Prato e poi ricoverata in
una clinica romana, la torinese “Linuccia” era proprietaria dello stabile di via
Biancamano affittato all’Einaudi, e va a
lei addebitata l’idea di proporre il libro
alla casa editrice e il ruolo di tramite
(quando non di imbonitrice) nei rapporti tra quest’ultima e la Prato.
Sintetizzando e stralciando lettere
private e ufficiali, Angela Paparella fa
così riemergere nel secondo capitolo del
suo saggio un affascinante e composito
intreccio di voci, attorno a due fuochi
principali. Da una parte c’è la Prato,
che, preda pure degli acciacchi dell’età,
detta a pagamento il suo libro sulla base
di appunti accumulati nel corso quasi
d’una vita; teme i tagli fin da subito prospettati dal consulente einaudiano Gian
Carlo Roscioni e da Natalia Ginzburg;
scrive all’uno e all’altra per discutere
sul titolo dell’opera e sapere cosa accadrà alle sue pagine; accoglie con autentico tremore la possibilità di essere letta
da Calvino. Dall’altra c’è Lina Brusa
Arese: la quale aiuta l’amica a stendere
la copia da consegnare all’editore; suggerisce modalità di lavoro, titoli e tagli;
la rassicura; commenta e spesso difende
l’operato e i tempi della Einaudi giura
sulla buona fede e l’interesse di lettori e
consulenti.
Caffè Michelangiolo
In appendice al volume, si troverà per
l’appunto il carteggio con le persone della casa editrice: i messaggi dell’elegante e
netto Roscioni, dei molto cortesi Elena
de Angeli e Carlo Carena, di Natalia
Ginzburg (da leggere senz’altro quelli fattivi, intrisi di disponibilità e stima, degli
ultimi mesi del ’79). Quanto alla Prato – e
pur mettendo in conto alcuni veleni sulla Ginzburg, le molte perplessità, il dolore per il libro ferocemente tagliato, la rottura dei rapporti con Einaudi dopo la
pubblicazione – va senza dubbio considerata con attenzione la missiva spedita
al direttore dell’“Espresso” Enzo Golino,
il 16 settembre 1980, in merito a una recensione inesatta e maliziosa al libro,
uscito dopo molti travagli nell’estate di
quell’anno.
La Prato si dichiara stanca d’essere ricordata soprattutto per la sua età, infioretta un po’ la sua biografia e corregge a
ragione alcune stoccate. S’appunta, in
particolare, sul tentativo di mettere «zizzania» tra lei e la Ginzburg, nei confronti della quale il pezzo la definiva «rabbiosa» a causa dei famigerati tagli.
Nelle righe dedicate all’argomento, si
troverà una diplomazia non rintracciabile nelle lettere spedite a Lina Arese e comprensibilmente destinata a ridimensionare la portata degli interventi stilistici dell’editor su un volume di cui si rivendica
comunque la creazione. Ma si avrà pure il
referto sicuro e pacato di una doppia consapevolezza, quella del proprio valore e
dei propri debiti: «alla Ginzburg sono
sempre stata, lo sono e continuerò ad esserlo, gratissima. Con la debolezza e la semicecità che mi ritrovo, quanto tempo
avrei impiegato per tagliare un lavoro
che stampato avrebbe raggiunto le 700
pp. fino a ridurlo alle 300 circa? Forse un
paio d’anni, più verosimilmente avrei
buttato tutto all’aria pur di non continuare quella fatica. Che la Ginzburg si incaricasse di procedere ai tagli al posto
mio fu una benedizione, anche se prevedevo che i suoi tagli non avrebbero coinciso con quelli che avrei fatto io. Ma questo era un guaio previsto e accettato che
non ha intaccato la mia riconoscenza per
l’enorme generosa fatica della signora.
L’unica sofferenza che mi venne dalla
Ginzburg fu quando mi arrivarono le
bozze già corrette da lei. Non erano solo
correzioni, qualche volta erano rimpasti e
io con Fiore [Bruno Fiore, uno dei ragazzi che dattilografò sotto dettatura della Prato il libro, ndr] dovemmo fare l’estenuante fatica di riportare tutto a come
era. Mentre faticavamo non capivo le ragioni che l’avevano mossa a manomettere un po’ qua, un po’ là il testo. Ma poi ho
capito e ho finito per volerle bene anche
per questo. Lei ha sempre amato questo
libro, con quelle manomissioni voleva
renderlo più accessibile. Io salto i verbi
come se qualcuno mi corresse dietro; i
miei passaggi sono ponti levatoi mai abbassati; lei riduceva più intellegibile il
mio modo di scrivere; ma io preferivo tenermi i miei difetti. Avevamo ragione tutte e due».
Elena Frontaloni
Angela Paparella
«Giù la piazza non c’è nessuno»
di Dolores Prato: la vicenda editoriale
attraverso le lettere
Aracne, Roma, 2007
pp. 294. € 16,00
GLI AMMALIATI
N
el poema in terzine dantesche L’asino d’oro, di Niccolò Machiavelli, la
bella Circe, dopo aver ristorato con banchetti e amori l’io-narrante in predicato
di diventare asino, lo accompagna in un
dormitorio-serraglio, dove costui potrà
61
Letture
considerare «tutta la condition» dello stato umano osservando le sembianze animali delle molte vittime degli incantamenti metamorfici. La maga esorta il
perplesso ospite a rivolgere la parola a
un porcello, dichiarandosi graziosamente disposta a restituire l’animale alla sua
«antica forma umana». Il porcello, inaspettatamente, rifiuta con sdegno, ben
argomentando la superiorità dei bruti sull’uomo. Qui il poema si interrompe,
omettendo la trasformazione asinina.
Come Machiavelli, altri poeti e narratori,
lungo i secoli (da Dante e Petrarca a Federico Frezzi, da Giambattista Gelli a
Giordano Bruno, da Pascoli e d’Annunzio
a Ercole Morselli fino a Sandra Petrignani), hanno avvertito il fascino ambiguo di
Circe, signora del cambiamento, della regressione e della rinascita. La fortuna del
mito circeo si spiega anche pensando
come la metamorfosi sia essenza stessa
della poesia: la parola poetica è in sé mutamento anche quando è lapidaria, è
apertura continua e talvolta estrema a
trasformarsi, in se stessa e nella relazione
con le altre parole, con gli altri significati, con gli altri codici. Altrettanto disponibile a mutare – sia pure in altro senso –
è la parola narrativa, che adatta se stessa e si consegna a quella variazione di
condizioni ed eventi che costituisce la fibra del racconto.
Se la metamorfosi interessa la sostanza della poesia come quella del racconto,
a maggior ragione coinvolge il racconto in
poesia (forse il mutamento è l’unico oggetto di racconto a cui la poesia può aspirare), sia esso palesemente e distesamente diegetico, sia invece organizzato in
quadri o lasse narrative, ciascuna delle
quali costituisce una micronarrazione ellittica e allusiva, magari connessa alle altre, come nel modello ovidiano, proprio
dal motivo della trasmutazione. È, quest’ultimo, il caso del volumetto La scuola di Circe, con poesie di Roberto Piumini illustrate da Cecco Mariniello, nel quale si declinano diciannove racconti (più
un prologo) di sparizione e rinnovamento, diciannove incantesimi a opera delle
«sorelle d’attesa», degne allieve di Circe,
«Maga di donne, donna maga, grande |
levatrice dei sensi, scura e dolce | dispensiera, regina, | ammaliatrice» (Prologo).
Le circette glamour (metà fate metà pinup, quindi del tutto stranianti) di Mariniello disegnano una sorridente Spoon
River, in cui la voce di poesia è concessa
62
non ai defunti, bensì a «Circe divina»,
testimone, oltre che garante, dell’efficacia
dei propri insegnamenti: è una voce melodiosa e talvolta ironica di incantatrice a
narrare, sul mare di un’isola «che lieve |
a volte increspa | l’orizzonte, e sparisce, si
rinnova | e fa spazio a leggende, ai raccontari» (Prologo). Forse Circe e le sue
scolare si sono trasferite da Eea a Cipro,
plausibili ospiti di Venere, o forse percorrono a nuoto o in volo il Mediterraneo,
spazio eternamente privilegiato del variare e del raccontare.
Gli ammaliati sono, dal canto loro,
uomini di diversa provenienza e fisionomia, segnati tutti da uno scontento o
inettitudine che li rende vulnerabili e destinati al passaggio di stato: non sono
eroi, costoro, sono piccoli uomini oppressi da convenzioni e ruoli (come il
delicato tenente Newcombe-Lyle, compreso e salvato da Emade, «la più pigra
di noi»), oppure sminuiti da virtù non
possedute, oppure soffocati da talenti
non congeniali o faticosi (quale «l’immensa memoria» di Lafcadio, in Sinoè, o
l’«ossessionata meticolosità» dell’archivista Jêrome Lusselier, in Imalia). Sono
uomini segnati da manchevolezze inequivocabili (tale il brevilineo Hans Snakle, in Melisea) o da qualità che gli altri
frettolosamente intendono come difetti
(così la lentezza di Hi No Dan, in Urana). O sono, ancora, uomini feriti da
universali incomprensioni, come lo scienziato scandinavo dal lungo nome e dalla
inerte «volizione conoscitiva» (Nede).
Ciascuno di loro è in realtà, nella propria
forma umana, una sorta di antomata,
creatura sbozzata e sospesa che aspetta
di sbocciare in essere compiuto. Per ciascuno di loro, la metamorfosi è esaltazione e adempimento del proprio tratto
autentico e fondante, del dato davvero
positivo e creativo, dell’elemento verace
che appartiene all’essenziale e non alla
maschera. Tutti loro fanno dolorosa espe-
rienza della normale disarmonia del
mondo degli uomini: a loro le donne,
maghe misericordiose, propongono soluzioni naturali, per quanto appartenenti
a una logica tutt’affatto diversa. La trasformazione è infatti una grazia che la
bella Circe concede, è un privilegio riconosciuto, un bel dono, un sollievo, un’ospitalità, un’accoglienza sempre appropriata (a volte segretamente appropriata,
altre volte esplicitamente, come in un
dolce contrappasso: così Imalia abbracciò l’arabista Lusselier, «poi lo tradusse |
in servizievole amico»). Talvolta, è l’amor
di simmetria – la dovuta ricomposizione
di un ordine necessario – a determinare
e innescare la conversione, come accade
per i quattro giovani sulla piattaforma,
salvati dalle quattro circi nuotanti e danzanti (Mavè, Coa, Limèle, Sesena), oppure per Stephen ed Edward Tilleul, gemelli scompagnati dalla vita pratica e
ricongiunti da Iniga e Orema, «unico
caso nella casta d’Olimpo | […] perfette
gemelle». In nessun caso la metempsicosi animale (in elefante o bradipo, scimmia o cane o rinoceronte o koala) è sovvertimento, rottura, negazione; è invece
ogni volta armoniosa salvezza e piena
fioritura delle qualità misconosciute dell’uomo (per quanto anche tra le divinità
la perfezione scarseggi, visto che Ezio
Marchi non perde la sua sospettosità paranoica «dopo che Nemile l’ha accompagnato, | requisendolo con fermezza»:
Nemile).
Nel mito, Circe è colei che giunge da
una terra fertile e umida, dalla terra dell’inizio del mondo, feconda di ogni possibilità: qui vive con le sue alunne nel
mare, in cui fermenta la vita. Con le sue
parole, Circe ammaestra le donne e guida gli uomini nel cammino insidioso dell’andare e del trattenere. Ma il suo vero
prodigio è nei sensi: è il profumo di Nicla a sedurre il prete confessore, non avvisato in seminario di come, in materia
di tentazioni, si tratti «principalmente,
prevalentemente | di una questione di
olfatto» (Nicla). Ben addestrate, le maghe annusano (lo fanno, qui, Emade e
Urana) l’eletto-vittima, approfittando
del più antico dei sensi umani, quello
che avvicina all’animale e dunque al numinoso. Non è forse fuori luogo ricordare come la scrittura poetica di Piumini
(che solo un pregiudizio tenace continua, anche dopo le raccolte L’amore morale, L’amore in forma chiusa e Non alCaffè Michelangiolo
Letture
tro dono avrai, a definire poeta «per
bambini») si caratterizzi, prima di tutto,
proprio per la sua virtù sensuale. Il sortilegio carnale delle circi è dunque congeniale ai toni della poesia piuminiana,
come anche ai suoi ritmi, qui modellati
in andamento lungo e narrativo, senza
schema metrico rigido ma con frequenza tuttavia di endecasillabi, novenari e
altre misure canoniche. Senso e conoscenza (Nede, «già sapiente», non chiede «altro rigore che il desiderio») confluiscono docilmente nella parola, detta
e scritta: Dusa sa comporre lettere «di
tale mistero, | di tale avvincente seduzione», da indurre un arabo obeso e
straricco a gettarsi in mare «nella prescritta notte senza luna, | nell’esatto incrocio di perpendicolari». Anche nella
Scuola delle Circi, com’è frequente nell’opera di Piumini, corre sottotraccia
una teoria estetica: nel culto del dettaglio
di Georghios («sosteneva, | sfiorando il
tono mistico, che un corpo, | tutto intero, è l’eccesso, la vertigine, | e che alla
bellezza basta meno»: Pomeide) come
nei sogni di reciproca fecondazione tra
scultura e pittura che conducono Boris
Naktanov a una «quieta pazzia»: «Una
malinconia lo tormentava | dell’impossibile scambio: | e pure, pochi decenni
dopo, | quella sarebbe stata un’invenzione» (Lumene). Il tema della infinitezza e integralità dell’opera d’arte è peculiare in Roberto Piumini (si consideri
per questo almeno la sua più recente
raccolta narrativa, Le opere infinite),
come il connesso motivo della morte: la
speranza di vincere l’ombra è riposta
nell’aspirazione dell’arte all’infinito, e
nello speculare abbandono al potere misterioso della grande donna maga, «mescitrice di canti, di potenti | vini d’amore, amica, scura e dolce | levatrice dei
sensi». La metamorfosi più profonda è,
infine, quella capace di sottrarre alla
morte, rendendola insignificante: così,
l’acrobata da crociera Davide Lini «urtò
con la testa e rimbalzò in mare | stordito, e morituro. | Non per Noma».
Milva Maria Cappellini
«POI TI RAGGIUNGO PIANO…»
S
eguo già da tempo l’operato di Mario
Fresa, autore di due raccolte poetiche
e di vari scritti critici (non ultimo Il grido del vetraio in collaborazione con Tiziano Salari), che, con la presente plaquette La dolce sorte, si rivela in veste di
poeta in prosa.
Invero, l’autore non si discosta da
quelli che sono i temi chiave già presenti nei componimenti in versi. Emerge
piuttosto una continuità di fondo che,
beninteso, non è sintomo di un isterilirsi
della vis creativa, piuttosto è un accreditarla, un confermarla attraverso un genere letterario di altrettanta impegnativa
realizzazione.
Si tratta, nel complesso, di nove prose poetiche che, seppure autonomamente compiute, possono nel loro insieme
costituire i tasselli di una narrazione continua, una sinfonia ripartita in più movimenti. Nove brevissime esplorazioni
nella luce del subconscio ovvero resoconti di sogni, spesso macabri e inquietanti («l’invenzione delle vipere-luci che
assembrano, curiose, il corpo […] il suo
tema è di formiche pietrificate») che rivelano vigore descrittivo e stile nel piegare una materia che scorre fluminale o
si distende pacata («Poi ti raggiungo pia-
no, dietro la sete luminosa delle finestre
accese»).
Novità di queste prose è da ricercare
in una narrazione che si dipana volutamente scompaginata, contorta, che parla il linguaggio astruso, non meno potente, dell’inconscio, in un affastellarsi di
periodi brevi, solo apparentemente buttati au hasard, talora indecifrabili, obbedienti ad un flusso di coscienza che
paga in termini di logica salvo poi riscattarla per forza evocativa (chissà che
proprio in questo non risieda l’intento
dell’autore interessato a suggestionare,
piuttosto che a spiegare, se lo stesso non
esita a ribadire che «il fatto è che vedere non significa capire…»). Ne deriva
uno stile caotico dove la punteggiatura
non s’incarica di conferire ordine al testo, perché essa è continuamente franta,
volutamente interrotta; ugualmente, la
predilezione per una struttura paratattica della sintassi non risulta funzionale,
come ci si aspetterebbe, alla chiarezza
espositiva ma la contraddice per le ragioni di cui sopra a tradurre un complesso mondo psichico («Dunque, mi
siedo. La luce pettina lo sguardo. Allora
sì. Eccome, ho detto: resto in ascolto,
già dolcemente armato. Vedi: nella mia
mano cresce un sorriso basso, tutto piene di richiesta dolorose, fragili, assurde…»).
L’autore, insomma, si colloca nel solco di un genere che, pur nella sua ricchezza di varianti, non manca da sempre di sedurre per la sua brevitas, per la
sua densità in grado di risaltare le qualità musicali della parola, per la dimensione immaginifica; componenti che risultano presenti anche nella prosa poetica di Fresa cui si deve il coraggioso
tentativo di aver voluto realizzare un discorso poetico rispettoso in toto del poème en prose.
Daniele Santoro
Mario Fresa
La dolce sorte
Nuova Frontiera, Salerno, 2005
pp. 16, edizione limitata f.c.
La scuola di Circe
poesie di Roberto Piumini
illustrate da Cecco Mariniello
Edizioni Nuages, Milano, 2006
pp. 64. € 12,50
Caffè Michelangiolo
63
Letture
CIÒ CHE È STATO
S
otto la sabbia è il titolo del secondo
romanzo di Luca Masini, nato a Firenze nel 1971 e già autore del romanzo
giallo Quinto comandamento, pubblicato nel 2005 e di alcuni racconti apparsi in
antologia (Un amico dal buio e Dietro la
porta). Il titolo rappresenta la prima importante indicazione sulla natura dell’opera: “sotto la sabbia” si trova il passato di una famiglia, un tempo personale e collettivo, con il quale il protagonista,
Fabio, non può non fare i conti, soprattutto perché in un momento decisivo della sua vita.
Fabio si trova nella casa di famiglia,
luogo reale (Viale Canova n. 23) e luogo
dell’anima, deciso a venderla al miglior
offerente, ma sembra che la casa non
possa lasciarlo andare prima che il passato, custodito in essa, non sia del tutto
dissotterrato, svelato, attraversato ancora e ancora. Così, attraverso il sovrapporsi di diversi e molteplici piani temporali la storia emerge lentamente nei brevi capitoli, dedicati ognuno ad un personaggio della vita di Fabio. Il fratello più
grande, “Vince”, ragazzo ribelle e vitale,
si rifiuta di seguire la strada scelta per lui
dalla famiglia e viola le tacite regole del
vivere: vuole diventare un dj e, senza freni, intreccia una segreta relazione con la
bella e triste zia Susanna, trascurata e
“tradita” dallo zio Franco, a causa della
sua sfrenata passione per la Fiorentina.
Erika, la ragazza «dagli occhi verde smeraldo e dai lunghi capelli neri» incontrata da bambino a Lido di Camaiore in
una vacanza estiva, appare attraverso gli
occhi di Fabio come una figura sfuggente e sensuale, quasi irreale. Nonno Osvaldo, sopravvissuto alla seconda guerra
mondiale e alla deportazione, ma non
alla morte dell’amata moglie, trova nel
nipote, Fabio, la possibilità dell’ascolto e
come se seguisse una terapia in grado di
scongiurare la morte, racconta e sperimenta il potere della parola, ciò che solo
la comunicazione può salvare, anche se
per poco, dall’oblio del tempo. Francesco
e Paolo, gli amici d’infanzia e i compagni
dei giochi più entusiasmanti – Subbuteo,
il calcio, le prime competizioni – accompagnano Fabio nel suo percorso di crescita. La piccola Giulia Arzilli, l’audace
bambina «bravissima in matematica» e
pronta anche ai «giochi da maschio», i
primi baci con lei, i giochi, gli incontri: i
64
ricordi emergono come da scatole cinesi,
l’uno custodita nell’altro, in un ritmo incessante che all’improvviso rivela anche
squarci di futuro fino a poco prima impensabili. Fabio, dopo il matrimonio con
Giulia, si trova ora ad una svolta.
La vita sembra, nel fluido narrare di
Luca Masini, non avere pause, essere un
difficoltoso percorso ad ostacoli, una strada ricca di curve e soluzioni inaspettate
che non può essere percorsa più di una
volta, se non con la memoria. E la memoria, al contrario, crea altri percorsi,
circolari, che vanno e tornano, e disperatamente si accaniscono con la loro paradossale precisione contro ciò che la sabbia
ricopre e fa scomparire.
Il romanzo di Luca Masini è un partecipato affresco familiare dedicato al
tempo e alla forza dei legami che ci legano anche a distanza o ci allontanano anche se vicini ogni giorno, una sorta di diario che ripercorre e ricostruisce il passato
attraverso il presente e il presente attraverso il passato, nel quale un ruolo determinante hanno gli oggetti che evocano il
ricordo e che si caricano di un valore particolare in rapporto all’evento o alla persona a cui sono associati. Il tempo viene
scomposto e lentamente ricomposto in un
nuovo scenario, quello finale, che in realtà
non rappresenta in nessun modo una conclusione, ma l’immagine di trasformazioni ancora in atto: lo stesso gruppo di un
tempo è di ritorno da una vacanza in Sardegna, ma Fabio ora siede accanto ad
Erika, Paolo e Francesco stanno insieme,
Elisa, la sorella più piccola, ha incontrato Alessio, Vincenzo ha realizzato il suo
sogno e lavora in una radio.
Il romanzo, ambientato in Toscana dal
1978 ai nostri giorni, è da considerarsi al
confine tra diversi generi – il romanzo di
formazione, il diario, l’autobiografia, il
romanzo “alla ricerca del tempo perduto”
– e, attraverso i numerosi e improvvisi
flashback, registra e rielabora molti riferimenti alla storia italiana degli ultimi
trenta anni, dal sequestro di Aldo Moro
alle vicende calcistiche di quel periodo.
Molti sono, inoltre, i temi toccati, allo
scopo di mettere in discussione quel fastidioso ma imperante concetto di normalità,
così diffuso nella maggior parte delle famiglie italiane: gli abusi (quello su Erika
da parte del padre, dal quale nascerà Cristina) i tradimenti (quello di zia Susanna
con il nipote Vincenzo) l’omosessualità
(l’amore tra Paolo e Francesco). Il bisogno
intenso e necessario di guardare in faccia
tutto quello che è stato, senza più rimandare o illudersi o fuggire, è ciò che anima
la scrittura di Luca Masini ed ogni pagina
sembra ribadire questo monito al “faccia
a faccia” con la vita:
La donna tira fuori una brocca in
vetro che appoggia sul tavolo davanti a me.
Riempie due bicchieri me ne porge uno.
«Quando ero piccolo, al mare, mi
divertivo a nascondere le palline dei
ciclisti sotto la sabbia. Una volta finito, chiamavo mio fratello e gli chiedevo di cercarle. Ci impiegava una decina di minuti prima di trovarle tutte.
Ero davvero bravo. Lo siamo tutti…»
[…]
«All’essere umano piace nascondere i problemi, fare finta che non esistano, evitarli…
In modo che la sua vita non subisca violenti scossoni. Lo rende più sereno, invincibile»1.
Monica Venturini
NOTA
1 L. MASINI, Sotto la sabbia, Pavia, I Fiori di
Campo, 2006, p. 57.
Luca Masini
Sotto la sabbia
I Fiori di campo, Pavia, 2006
pp. 168. € 12,00
Caffè Michelangiolo
Letture
UN DON CHISCIOTTE PADANO
Q
uando per le strade di città, alle ore
più inadatte del giorno, si incontrano
e maledicono quelle fumiganti autospazzatrici che esalano cattivi odori e schizzi,
mal si immagina che due di loro siano diventate le protagoniste di un racconto, e
che possano affrontarsi, come in un duello alla Sergio Leone: «incrociandosi e beccandosi invidiose con ugelli spruzzatori e
spazzole rotanti, in scaramucce di bracci
idraulici e pistoni a cannocchiale, protesi e ritirati in affondi di fioretto, nascoste
da nebbie di fumogeni – aviogetti rasoterra di parata in arditissimi disegni del
giro della morte – le spazzatrici ammiraglie del Comune di nuovo si assaggiavano alla cieca a fanali e parafanghi più
sporgenti, sputando vetri e parabole argentate, urtandosi e rigettandosi distanti
fra scintille d’irriducibili avversarie sulla
scena e nella vita, ricomparendo ammaccate, da lati opposti d’autoscontri,
sul proscenio di World’s People Security
Bank fumigata dai petardi, come attori
convergenti nel cono illuminato di un palco d’operetta» (p. 42).
entro i racconti di Rossi carambolano i personaggi più inauditi. Così,
accanto a Vernula Laboris e Colubra Repens Maculata, i due mezzi che puliscono
le strade in cerca di tesori la notte di capodanno, troviamo Canaja e Romualdo
Romito (Rom Rom), due vecchietti arzilli e speculari nella giovanile animosità,
uno nel primo e l’altro nell’ultimo dei
quattro racconti. E poi il gallo Bernardo
Becone, taumaturgo di indubbia efficacia;
spose namibiane nel fiore degli anni;
Giannazzo, aleatorio parrucchiere per signora e a tempo perso mago da strapazzo, in combutta con l’estetista Giannino e
Mariella; una vettura blindata del regime
sovietico, la Zil|Zis 110, che punisce e
segnala alle autorità l’autista e i passeggeri in caso di abbandono dell’abitacolo;
l’equipe di scienziati che studiano il linguaggio dei polli: nel Mare Padanum si
dispiega il teatro del mondo, con impeto
visionario e un ampio ricorso al fantastico. Al centro ci sono ancora loro, Gerbasius e Panfilius, colleghi presso l’archivio
di Stato e intrepidi avventurieri nelle valli del Rosello, vicino Piacenza. I due, che
D
Caffè Michelangiolo
sembrano nati dalla fantasia di Cervantes, illuminano con la loro presenza tutti
e quattro i racconti, e come divi da avanspettacolo inducono spesso al sorriso, raggiungendo talvolta inesplorate vette di
comicità.
Nei racconti di Rossi va in scena un
complesso sistema di contaminazioni, intanto fra i fatti di attualità (influenza
aviaria, truffe agli anziani, matrimoni
combinati) e le storie della provincia italiana più profonda, legata ancora a tradizioni popolari e pratiche stregonesche,
soprattutto di natura gastronomica. Altra
contaminazione incorre a livello di genere. Come ha notato Vela nella postfazione, la narrazione sembra piegarsi alle regole del fumetto, dei cartoni animati: «ma
questo spingere sul pedale di un surreale
spesso incline a inflessioni fumettistiche si
rivela via via sorprendentemente proprio
come il mezzo più adatto a sezionare la
realtà illuminandone in particolare gli
aspetti gratuiti, folli» (p. 155. Lo stesso
Vela è inghiottito dal processo di trasfigurazione del reale, e trasformato nel pacifico filologo dell’ultimo racconto).
In questo alchemico laboratorio di
scrittura, teso continuamente all’associazione di elementi eterogenei, non stupisce
di assistere in ogni racconto ad invasioni
di vario tipo, perché la scrittura stessa
sconfina dai seccori del ragionevole, per
approdare alla meraviglia della visione,
alla freschezza del genio.
Quel baldo padano di Rossi impone
alla scrittura un regime festivo, la stira e la
tende come certi surrealisti francesi, ma
non ne smarrisce mai il senso. Festivo è il
tempo di due racconti su quattro, che si
svolgono la notte di capodanno. Un tempo che subisce improvvise e fulminanti
accelerazioni, come in Rune al pelo: «Gerbasius e Panfilius, alla corsa dei sacchi
per la festa del raccolto, rincorsi dallo
stazzo di mucche e di cavalli incitati dal
guardiano in berbero predone, saltellavano nella notte, coi pantaloni afflosciati in
fondo ai piedi degli inciampi, raccolti e rovesciati sulle groppe, palleggiati da partitelle collegiali, nel rimbalzo attutito fra
pelli brunalpine e manti bardigiani di aerostati a terra. Le bestie, alla vendetta per
formagge e vitelli trafugati nottetempo
nel self-service della Cisa, virtuose del canestro e della rete, di pallavolo e pallamuro, si scambiavano al galoppo i cavalieri nella destrezza tartara d’un circo d’alta scuola, con corna cannoniere, colpi
d’anca e di ginocchia da dive dello stadio
al tripudio della curva» (p. 70). Salvo poi,
quel tempo stesso, ritrarsi in elegiaco rimpianto dell’amore perduto, in struggente
desiderio di Mariella, cinica e sbrigativa
Dulcinea dei Baggini.
Per quanto le quattro storie di Rossi
restino legate alla memoria con un doppio
filo di felicità, smossa dalla tonitruante
immaginazione, il vero miracolo di questi racconti è nascosto nel prodigio della
sintassi, nella fiabesca ricchezza del linguaggio. Un linguaggio catalogatore – di
termini desueti, neologismi, parole straniere – che a partire dalla varietà del lessico riesce a costruire un universo iperdefinito nel dettaglio, ma nello stesso
tempo brulicante di vita.
Lo scrittore Rossi sembra il miracolato reduce di un qualche esiziale diluvio, e
dalla sua isola ci regala pagine di memorabile bellezza: che possa continuare per
altri mille libri, non valeo contare quidem
quam fortiter obstat1.
Federico Lenzi
NOTA
1 F. TEOFILO, Il baldo padano, trad. di Giuseppe Tonna, Imprimitur, Padova, 1998, libro decimo,
p. 126.
Maurizio Rossi
Mare Padanum
Lavieri, Sant’Angelo in Formis, 2006
pp. 160. € 12,50
65
Letture
IL FRAGILE MITO DEL TEMPO
L
uigi Martellini, critico letterario e
poeta, professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo), vive a Fermo nelle Marche e collabora attualmente alla terza pagina de
“L’Osservatore Romano” e alle riviste
“Studium” e “Otto|Novecento”. La sua
formazione è stata fortemente segnata
dall’insegnamento di due grandi personalità del nostro Novecento, Carlo Bo e
Mario Petrucciani, con il quale Luigi
Martellini ha discusso una tesi su Gabriele d’Annunzio, poi pubblicata nel
1975 (Il mare, il mito).
Nell’ambito della sua produzione
critica, ricordiamo i suoi studi su Malaparte (Mursia, Milano 1977), Matacotta (La Nuova Italia, Firenze 1981), la
poesia delle Marche (Forum, Forlì
1982), Pasolini (del quale recentemente ha pubblicato un Ritratto per Laterza (Roma, Bari 2006). Una serie di saggi su altri autori (Petrarca, Monti, Svevo, Cardarelli, Ungaretti, Pavese, Calvino, Primo Levi) è ora raccolta in tre
volumi: Modelli, strutture, simboli, Nel
labirinto delle scritture e in Novecento
segreto.
In ambito poetico, le prime pubblicazioni di Luigi Martellini risalgono
agli anni Settanta: Quasar (Lacaita
Manduria, 1977, con introduzione di
Mario Petrucciani) inserito nella rosa
dei Premi Viareggio e Martina Franca e
risultato vincitore del Tagliacozzo ’77 e
del Milano ’78, Infiniti sassi (Fermo,
Edizioni del Girfalco 1977, con prefazione di Giorgio Caproni), Mistificato
enigma (Sciascia, Caltanisetta-Roma,
1982, con uno scritto di Mario Luzi),
Poseidonis (Edizioni del Girfalco 1986,
Fermo, con una nota critica di Emerico Giachery e infine Eìdola (Marzorati
Milano, 1987, con la prefazione di Carlo Bo).
Selected Poems è il titolo di questa
antologia, pubblicata a New York nel
2006, che raccoglie testi poetici scritti
tra il 1964 e il 1987, tradotti in inglese da Sara De Angelis, laureatasi all’Università degli Studi di Urbino e già
traduttrice di autori come W. Word66
sworth, S.T. Coleridge e di alcuni testi
tratti da Gente di Dublino di J. Joyce e
da La Terra Desolata di T. S. Eliot.
L’introduzione di Vincenzo De Caprio,
professore di Letteratura italiana all’Università degli Studi della Tuscia, ricostruisce in modo accurato le fasi della produzione poetica di Luigi Martellini, la sua formazione e attraverso la
storia della critica relativa alla sua opera, da Carlo Bo a Mario Petrucciani,
da Giorgio Caproni a Mario Luzi. Così
De Caprio definisce la poesia di Luigi
Martellini:
È una poesia scarna e scabra, un
impietoso lavoro di scavo nella coscienza e sotto la coscienza, negli
strati nascosti del subconscio e in
quello dirompente delle folgorazioni
percettive. Il poeta non ha pietà per
se stesso e per gli altri; non ha messaggi da lanciare, certezze, ponti verso il futuro, miti illusori da avvalorare. È l’asciutto ma solidale partecipe di una condizione umana offesa,
dalla quale sono scomparsi ogni
principio immobile di verità e ogni
sicuro punto di riferimento1.
L’unico punto di riferimento è proprio la parola, il suo potere di svelare
la realtà, di trasformare l’io che parla
in “noi”, di rifiutare le molteplici maschere offerte dal vivere quotidiano,
come sottolinea Carlo Bo nell’introdu-
zione del 1987. Tale scavo alla ricerca
del valore essenziale della parola non
può non rimandare all’esperienza di
un grande poeta del Novecento così
importante anche per l’esperienza di
Luigi Martellini, Giuseppe Ungaretti.
E “ungarettiani” possono, senza dubbio, essere definiti i temi trattati: l’assenza e la memoria (Le rughe dei giorni), il paesaggio scabro e roccioso delle Marche e quello marino, descritto
in modo così dettagliato ed emblematico in molti testi tra cui Il nonno pescatore, Il cormorano, Notturni, Ippocampo, Gabbiani, Conchiglie. “Il
mare, il mito”: quasi fossero i due poli
dell’immaginario nel quale affonda il
linguaggio poetico di Luigi Martellini
– non a caso, è questo il titolo del giovanile studio dannunziano – rappresentano i nuclei tematici che determinano l’interna struttura e l’estrema
coesione dell’opera.
Il mito, come in larga parte della
letteratura del Novecento, viene rivisitato e ri-attraversato per assumere un
valore nuovo e dissacrante: non un nostalgico ritorno al passato, non una prova di erudizione ma, al contrario, la
proposta di una inedita prospettiva sul
presente, la verifica di una fuga impossibile e di una feroce assenza, che esattamente coincide con la vita stessa. Ulisse e Giasone, spogliati della loro eroica
forza senza pari e dell’alone favoloso
che da sempre li accompagna, si mostrano umani e fragili di fronte all’enigma insolubile del tempo e del nostro essere o non essere qui. Così in Poseidonis, che chiude la raccolta, si addipana il filo d’Arianna e compare Euridice, «– donna degli Inferi – | clandestina e triste creatura | dietro il pianto di
Orfeo». Le figure mitiche sembrano
identificarsi con il poeta e assumere il
suo stesso disincantato sguardo sul
mondo, quello che Luigi Martellini in
modo così fulminante sintetizza in Epigrafe:
Ho restituito la morte al destino
preferisco la condizione di allora
quando conversavo col mare
raccoglievo pezzetti di vetro
levigati dalla salsedine
inventavo pupazzi d’argilla2.
La vita è un veloce passaggio, noi
fragili eroi incapaci di «risolvere | il miCaffè Michelangiolo
Letture
stero dell’esser comparsa», di rispondere all’unica domanda: «A che vale
dunque?».
Monica Venturini
NOTE
1 V. DE CAPRIO, Introduzione in Martellini
Luigi, Selected Poems. 1964-1987, Gradiva Publications, New York, 2006, p. xvii.
2 L. MARTELLINI, Selected Poems. 1964-1987,
cit., p. 50, vv. 1-6.
Luigi Martellini
Selected Poems. 1964-1987
Translated by Sara De Angelis
Introduction by Vincenzo De Caprio
Gradiva Publications, New York, 2006
pp. 128. $ 20,00
UNA LETTURA DELLA MENTE
«H
o cancellato le date e ho mescolato i brani» (così l’autore de
Il nastro di Möbius nella sua Nota): a
sentir lui, quindi, non c’è percorso in
questo libro di memorie, dichiaratamente memoriale (anche se nel titolo
stesso del libro c’è un tentativo di depistaggio: quel nastro dovrebbe infatti
rappresentare proprio una specie di ripiegamento della memoria su se stessa);
non ci si crede, però, non gli si può credere – e del resto un ingegnere che mescoli i dati in suo possesso sarebbe uno
strano pericoloso ingegnere…
Frammenti di memoria,
di rimpianti.Ricordando,
ne modifico il corso,
riempio i vuoti e taglio,ricompongo. Per farne sinfonie.
Così nel “prologo” del “Disperato
eros”. Musica per camaleonti, verrebbe
da parafrasare, ma ci si deve adattare
alla bacchetta del direttore per gustare
una sinfonia, a meno di non essere il direttore o, meglio, il compositore! Il poeta scandisce tempi e misure: l’ascoltatore, il lettore si adegua o non segue.
Questo Nastro di Möbius è dunque
un viaggio sinfonico nelle memorie delCaffè Michelangiolo
l’autore. Il quale torna addirittura indietro più ancora di quanto ha fatto
nel suo libro d’esordio Magia, decima
musa, rispolverando – è davvero il caso
di dirlo – i panni sporchi nell’armadio
dell’adolescenza, e raccontando, come
sfogliando un vecchio album, le foto
più significative della sua formazione
esistenziale. La freschezza del ricordo è
nella stessa tramatura dei versi, quasi
di giovinetto pronto (e inesperto) a cogliere assaporare la vita, a impadronirsi (magari!) di un momento vitale –
oraziana suggestione in quel «taceva e
sorrideva. | Ma non ebbi il coraggio | di
toccarla.»
Ascoltiamo quindi questi sfoghi del
cuore con la benevolenza che merita
l’onestà di mettersi a nudo – e l’età
chiede ulteriore venia: qui non c’è più il
ragazzo che si esibisce ma l’uomo consapevole che non può giocare a rimpiattino con la coscienza. Il foscoliano
velo protettivo qui serve a proteggere
dai famelici e impietosi sguardi del
tempo l’innocenza di una lontana adolescenza, una primigenia età dell’oro
mai dimenticata, anzi avvertita come
unica età vera (dell’istinto e della ratio)
e per questo desiderata ancora e sentita in qualche modo presenza viva.
Le composizioni dedicate agli affetti familiari e ai sentimenti più nobili
come l’amicizia fanno un po’ contrasto
con la sezione erotica del libro, e dan-
no insieme la misura dell’uomo, che sa
di sé e vuole dirsi intero. Nella personale “nota” introduttiva, peraltro, l’autore scriveva di aver «compreso che
mentre tentavo di fissare sulla carta,
per riviverli poi, quei sentimenti, li alimentavo, li rendevo estremi, conducendoli fino al parossismo», e – in tutta modestia – concludeva: «Chiedo perdono alla Poesia». La consapevolezza
dell’uomo è anche dell’artista, mentre
cerca esiti probanti e sa di avere non
pochi debiti con la sorte e con l’arte.
L’omaggio più o meno dichiarato a
Lorca e Ungaretti, apertamente citati,
sembra fondersi in un dettato caldo e
asciutto insieme, anche se una messe
così abbondante di testi (ottanta, in un
anno e mezzo appena) andava forse un
po’ sfrondata.
Dopo aver ricordato le tappe formative della sua vita, le storie e storielle dei sensi, l’impegno duro del lavoro e il bene dei familiari, dopo aver
ripercorso l’esistenza come su un atlante, è inevitabile il bisogno di un porto
sereno, di un approdo amico – ma Ulisse è proprio il simbolo del viaggio che
non ha mai termine, e del viaggiatore
che non si stanca di ripartire. Non invecchia il “fanciullo” in noi, ma troppo
spesso diventa un “vecchio-bambino”,
inadatto a questo mondo nel quale è
entrato con difficoltà, che ha vissuto
soltanto a modo suo – e in definitiva si
sente vivo soltanto nella scrittura di sé
(espediente tipico e, non c’è nemmeno
bisogno di esplicitarlo, autoreferenziale di chiunque abbia un cattivo rapporto con la propria crescita, di chi abbia finito per credere solo alle figure
della mente per paura di sottostare alle
istanza del cuore).
L’ansia del dire è diventata evidentemente una specie di ultima frontiera, OK Corral o Fortezza Bastiani,
un posto della mente in cui credere
che la mente almeno sia lontana dalla
“senescenza” (che anch’essa poi – direbbe Svevo – è solo una malattia della mente).
Giuseppe Napolitano
Nando Pierluisi
Il nastro di Möbius
Polistampa, Firenze, 2007
pp. 128. € 10,00
■
67
NORME DI EDITING
per i collaboratori di “Caffè Michelangiolo”
Citazione di testo = G.W.F. Hegel, Scienza
della logica, tr. di A. Moni, Laterza, Roma-Bari, 1972, vol. II, p. 115.
Citazione di saggio = R. Bloch, La religione etrusca, in H-C. Puech (a c. di), Storia delle religioni, Laterza, Roma-Bari,
1976, vol. I, tomo II, pp. 499-531.
Citazione di articolo apparso in una rivista = P. Ruminelli, Alberto Caracciolo:
un pensatore moderno del religioso, in
“il cannocchiale”, vol. 3/1991, pp. 15-37.
Citazione di capitolo o paragrafo di una
monografia = cfr. il cap. VI La nevrosi dei
bambini, in M. Klein, La psicoanalisi dei
bambini, tr. it. di G. Todeschini e C. Carminati, a c. di L. Zaccaria Gairinger, Martinelli, Firenze, 1970.
Rimando a testo citato = G.W.F. Hegel,
Scienza …, cit., pp. 118-120.
Rimando a testo o luogo appena citato =
Ivi, p. 12.
Citazione di versi nel testo = … come ad
es. nei versi «Sovente in queste rive / (spazio) che, desolate, a bruno / veste il flutto indurato, e par che ondeggi, / seggo la
notte;…» in cui il poeta ritrae…
Citazione col rientro = … come nell’es.
Sovente in queste rive
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par…
Citazione nel testo con virgolette a caporale = … dunque, come ricorda Bianco,
«lo stesso Habermas aveva fatto valere contro Gadamer la scoperta psicoanalitica di
un livello paleo-simbolico» e se ne forniscono prove incontrovertibili nel saggio…
Discorso diretto introdotto = Lui si impose: «Tutto deve svolgersi così!». (segno
di interpunzione all’esterno)
Discorso diretto non introdotto = «Tutto
questo doveva pure accadere.» (segno di
interpunzione all’interno)
Discorso diretto nella citazione = Così
prosegue l’evangelista (versetto 39):
«Alcuni farisei tra la folla gli dissero:
“Maestro, rimprovera i tuoi discepoli”.
Ma egli rispose: “Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”».
Citazione nella citazione = Klossowski
ricorda che prima di Nietzsche «Kierkegaard, per il quale la musica non esprime
che l’immediato nella sua immediatezza,
osserva che il linguaggio ha inglobato in
se stesso la riflessione: “perché esso non
può esprimere l’immediato”».
Evidenziazione di termini e frasi mediante inglesi doppie = … gli uomini
“speciali” vivono sempre altre dimensioni …
Titoli di opere nel testo = Fra le composizioni della maturità, La ginestra è quella
che …
Le parentesi indicanti soppressione di
testo nel corso di una citazione o intervento del traduttore, sono quadre
= … come sembra […] così avviene per …
Indicazioni degli anni nel testo =
1956-’57; ’56-’57; anni ’50; il ’900.
Altezza dell’esponente delle nota = ad
apice come nell’es. … fino alla luna13.
Esponente della nota = precede il segno di
interpunzione.
L’inizio del capoverso è rientrato.
Congiunzioni causali, modali, temporali,
etc., hanno sempre l’accento acuto =
poiché, allorché, perché, …
I termini stranieri nel testo ed in citazioni vanno scritti in corsivo.
I titoli di capitoli e paragrafi hanno il
rientro di cm 0,5. Lo stesso vale per
capitoli e paragrafi indicati con il solo numero e senza titolo.
Le note vanno numerate e inserite alla fine del testo.
L’apostrofo è segnato con un inglese
semplice = ’
Il carattere utilizzato per i testi:
Bauer Bodoni nel corpo 10
a cura di = a c. di
aforisma/i = af./aff.
Autori vari = AA.VV.
capitolo/i = cap./capp.
confronta = cfr.
eccetera = etc.
E maiuscola con accento = È.
frammento/i = fr./frr.
introduzione di = intr. di
nota/e = n./nn.
pagina/e = p./pp.
pagina 10 e seguenti = p. 10 e sgg.
postfazione di = postf. di
prefazione di = pref. di
traduzione italiana di = tr. it. di
verso/i = v./vv.
volume/i = vol./voll.
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ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
DI ARTI LETTERE SCIENZE
FONDATA NEL
1660
MODIGLIANA
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
DI MODIGLIANA
NOTIZIE STORICHE
L’Accademia degli Incamminati venne fondata nel 1660 dal letterato Bartolomeo Campi col
nome di Accademia dei Pastori del Marzeno e con sede in Modigliana, città della Romagna
appenninica allora compresa nel Granducato di Toscana. Entrata in crisi dopo il 1720, fu ricostituita il 27 ottobre 1755 ad iniziativa dello storico Gabriele Sacchini, che le impose la denominazione attuale e le diede nuove norme statutarie.
Con rescritto 24 aprile 1795 del Granduca di Toscana Ferdinando I, confermato poi da Leopoldo II il 17 agosto 1825, l’istituzione ottenne la «sovrana protezione» assumendo il titolo di
Imperiale e Reale Accademia degli Incamminati. Successivamente, per la ribellione patriottico-risorgimentale degli Incamminati, con risoluzione granducale 19 agosto 1857, resa esecutiva in data 24 agosto, venne imposta la sospensione dell’attività accademica.
Ritiratosi da Firenze Leopoldo II, il subentrato Governo Provvisorio della Toscana, per
«debito di giustizia», il 13 dicembre 1859 riabilitò l’antica Accademia «al libero esercizio dei
suoi diritti e delle sue funzioni» e, dopo l’avvento del Regno d’Italia, come da nota 18 luglio
1861 della Delegazione del Governo di Modigliana, essa assunse la denominazione di Regia
Accademia degli Incamminati.
Nel 1925, precluso il libero esercizio alle associazioni culturali non appartenenti al partito fascista, l’Accademia dovette cessare l’attività. Questa riprese nel 1946 ad avvenuta proclamazione della Repubblica Italiana.
Nel 1961 fu eletto Presidente il dott. Gilberto Bernabei, alto dirigente ministeriale, poi Consigliere di Stato e Sindaco di Modigliana. Questi assunse importanti iniziative fra cui quella
di chiamare nell’Accademia eminenti personalità della letteratura, delle scienze, delle arti, delle istituzioni, dell’imprenditoria e del lavoro. L’attività degli Incamminati ricevette così un notevole impulso, accentuatosi ulteriormente con l’On. Pier Ferdinando Casini, Presidente effettivo dal 1990 al 1997, e oggi Presidente d’Onore, e con l’Avv. Natale Graziani, Presidente in carica dal 1997.
Organo ufficiale dell’Accademia è “Caffè Michelangiolo”, rivista di discussione edita in
Firenze con periodicità quadrimestrale, fondata e diretta da Mario Graziano Parri.
FINI E COMPITI ISTITUZIONALI
L’Accademia degli Incamminati, di Arti Lettere Scienze, sorta nel 1660 e munita di personalità giuridica (D.P.R. 27 luglio 1970 n. 753), ha lo scopo di promuovere e diffondere le
conoscenze umanistiche e scientifiche nel quadro dell’universalità e unità della cultura; di
studiare e dibattere i temi nazionali, dell’Europa, dei doveri e dei diritti dei cittadini; di svolgere nei territori della Romagna e della Toscana fiorentina – fascia appenninica in particolare
– attività di studio, ricerca e valorizzazione della storia e della civiltà dei luoghi.
Premio Nazionale
Finalista
CORRADO ALVARO 2006
PREMIO VIAREGGIO 2005
Opera Prima
Opera Prima
MARIO DOMENICHELLI,
anglista e comparatista, docente all’Università
di Firenze, esordisce come romanziere.
Ambientata nella Somalia del 1989, poco prima
che la caduta di Siad Barre trascinasse il paese
nel caos del tribalismo, è la storia densa e
avvincente di Tomas, un bizzarro e elusivo
professore che nell’ambito della Cooperazione
italiana insegna nell’Università di Magadiscio.
E con lui, di una generazione e di un mondo
crudelmente ingannati.
MARIO SICA,
già ambasciatore d’Italia a Windhoek,
a Mogadiscio, a Vienna e al Cairo, saggista
e pubblicista, esordisce come romanziere.
L’eroina è la celebre Pia,
«quella fatta da Siena e disfatta dalla
Maremma» come scrive Franco Cardini nella
prefazione, protagonista di una storia di sangue
e passione che incalza il lettore
con un ritmo da film o da fiction televisiva.
11,6 x 21 cm., 272 pagine, € 14,00
11,6 x 21 cm., 216 pagine, € 12,00
@ Polistampa s.n.c. - Via Livorno 8/32 - 50142 Firenze - Tel. 055.737871 - Fax 055.7378761
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