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ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI. MODIGLIANA CAFFÈ MICHELANGIOLO R I V I S T A D I D I S C U S S I O N E fondatore e direttore Mario Graziano Parri In copertina: Michelangelo Antonioni in una delle sue ultime immagini. Quadrimestrale - Anno XII - n. 2 - Maggio-Agosto 2007 Nella testata: ADRIANO CECIONI, Interno di Caffè Michelangiolo, 1865 ca., acquerello, Montecatini, collezione privata. Direttore responsabile Mario Graziano Parri Direttore editoriale Natale Graziani In redazione Elena Frontaloni, Enrico Gatta, Antonio Imbò Impaginazione Marco Anastagi Amici del Caffè Luciano Alberti, Giorgio Bárberi Squarotti, Anna Maria Bartolini, Marino Biondi, Ennio Cavalli, Zeffiro Ciuffoletti, Franco Contorbia, Simona Costa, Maria Antonietta Cruciata, Maurizio Cucchi, Mario Di Napoli, Francesca Dini, Mario Domenichelli, Angelo Fabrizi, Giulio Ferroni, Franco Ferrucci, Alessandro Fo, Michele Framonti, Enrico Ghidetti, Emma Giammattei, Gianni Guastella, Giorgio Luti, Gloria Manghetti, Giancallisto Mazzolini, Michele Miniello, Piero Pacini, Emiliano Panconesi, Antonio Pane, Maria Carla Papini, Ilaria Parri, Antonio Patuelli, Ernestina Pellegrini, Anna Maria Piccinini, Eliana Princi, Eugenia Querci, Amedeo Quondam, Federico Roncoroni, Carlo Sisi, Jole Soldateschi, Antonio Tabucchi, Uta Treder, Carlo Vecce, Pier Francesco Venier, Daniel Vogelmann, Giorgio Weber Redazione 50142 Firenze - Via Livorno, 8/32 - Fax 055.7378761 ☞ E-mail: [email protected] Editore e stampatore Polistampa s.n.c. 50142 Firenze - Via Livorno 8/32 - Tel. 055.737871 Accademia degli Incamminati 47015 Modigliana (Forlì) - Via dei Frati, 19 Tel. 0546.941227 - Fax 0546.940285 Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - Firenze Alla rivista si collabora su invito. Per inderogabili esigenze editoriali, i contributi, redatti in conformità con le “Norme di editing” richiamate nella rivista, devono essere registrati in formato RTF (Rich Text Format) e pervenire tramite e-mail: [email protected], dischetto o CD. In caso diverso, non potranno venire accolti. Registrato al Tribunale di Firenze n. 4612 del 9 agosto 1996. ABBONAMENTI, ORDINI, INFORMAZIONI Mario Miniatelli - Tel. 055.7378813 e-mail: [email protected] 3 numeri annuali: Italia e Unione Europea € 22,00 sul conto corrente postale 25986506 intestato Polistampa S.n.c. - Firenze Una copia: € 8,00 Numero arretrato: € 10,00 Il presente fascicolo è stato chiuso in tipografia il 30 Settembre 2007 con una tiratura di 2.500 copie. Pubblicazione associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Caffè Michelangiolo 03 03 04 8 9 10 11 12 15 18 22 23 26 27 30 TERZA PAGINA Chi dice donna… 31 Il ballo degli Immortali 37 BUONE ARTI Perché l’infinito abbia forma 42 di Mario Graziano Parri di Antonio Imbò incontro con Andrea Zanzotto a cura di Paola Ciarlantini e Guglielma Giuliodori POESIA Une colombe une autre di Eliana Princi «Daniel Spoerri, non per caso» di Eliana Princi 44 Ingresso ai sommi dell’arte di Piero Pacini 46 Macchiaioli a Roma nel Chiostro del Bramante a cura della Redazione di Silvia Bre 47 DECIMA MUSA Nel fango di Manhattan di Sandro Melani Sia fatta l’ombra di Mario Graziano Parri «L’Amore non amato» di Francesca Baldassari 43 Beato il mio vicino di Go̊ran Sonnevi Le molte stagioni del simbolismo di Piero Pacini di Raymond Farina Från «Oceanen» ESPOSIZIONI Biennale, pourquoi faire? 49 ARTE E SCIENZA Le scoperte di un patologo PROSA Del piantare chiodi sugli alberi 53 BLOC-NOTES Il tempo che passa, il tempo che c’è 54 LETTURE Charles Maurras e le destre di Francia, di Danilo Breschi; L’eterno presente, di Monica Venturini; Alessandro Serpieri, il secondo romanzo: «Dall’altra parte del tempo», di Mario Domenichelli; «Una goccia nel mare», di Mirella Billi; Fu vera gloria?, di Leandro Piantini; Un caso letterario, di Elena Frontaloni; Gli ammaliati, di Milva Maria Cappellini; «Poi ti raggiungo piano…», di Daniele Santoro; Ciò che è stato, di Monica Venturini; Un Don Chisciotte padano, di Federico Lenzi; Il fragile mito del tempo, di Monica Venturini; Una lettura della mente, di Giuseppe Napolitano. tre racconti brevi di Adrián Bravi presentati da Elena Frontaloni un racconto di Mario Graziano Parri PROFILI Rien ne va plus di Sandro Melani Un film non è un libro di Bernardo Bertolucci VETRINA La corda pazza di Elisa Zampetta La forma dei sentimenti di Elena Frontaloni POLITICA E FILOSOFIA Matteucci, maestro liberale di Danilo Breschi Il pluralismo possibile di Nicola Matteucci di Giorgio Weber di Bartleby 1 Hanno collaborato MIRELLA BILLI è professore ordinario di Lingua e letteratura inglese all’Università di Viterbo. È autrice di Le strutture narrative nel romanzo di Henry Fielding (Milano 1974), Virginia Woolf (Firenze 1975), Il vortice fisso, la poesia di Sylvia Plath (Pisa 1983), Il gotico inglese (Bologna 1986), Il testo riflesso (Napoli 1993). Ha pubblicato saggi sulla letteratura inglese del Settecento e dell’Ottocento, sul romanzo e il teatro contemporaneo, sulla poesia e narrativa femminile. Per Marsilio ha tradotto e curato La stanza di Jacob di Virginia Woolf (19992). SANDRO MELANI è docente di Letteratura inglese all’Università della Tuscia (Viterbo). I suoi studi prevalenti riguardano la letteratura sia britannica sia statunitense dell’Otto e Novecento. Tra le sue pubblicazioni la monografia su D.H. Lawrence (1982), il volume sul fantastico vittoriano (L’eclissi del consueto, 1996), il saggio sulle configurazioni dell’altrove in Ruth Prawer Jhabvala, Kazuo Ishiguro e Bruce Chatwin (Lontani altrove, 2002) e scritti su Laurence Sterne, Emily Dickinson, Joseph Sheridan Le Fanu, Christina Rossetti, Bram Stoker, Vernon Lee, L.P. Hartley, Raymond Chandler, Shashi Tharoor. Vive a Firenze. DANILO BRESCHI (Pistoia, 1970), laureato al “Cesare Alfieri” di Firenze in Storia del pensiero politico, ha poi conseguito all’Università di Siena il dottorato di ricerca in Teoria e storia della modernizzazione. Ricercatore di Storia delle istituzioni politiche all’Università San Pio V di Roma, collabora in qualità di docente con il Centro di studi della Stanford University in Italia. Ha pubblicato (con Gisella Longo) la biografia di Camillo Pellizzi. La ricerca delle élites tra politica e sociologia (1896-1979), 2003. Autore di numerosi saggi e articoli sul fascismo, ha curato con Franklin H. Adler un numero monografico della rivista newyorkese “Telos” (Special Issue on Italian Fascism, n. 133, Winter 2005). È anche autore di due libri di poesia: Congiunzione carnale, astrale, relativa (2004, Finalista Premio Carver 2004) e La cura del tempo (2005). PIERO PACINI è nato a Tuoro sul Trasimeno nel 1936 e risiede a Firenze. È autore di studi monografici su Gino Severini e sulla cultura figurativa tra ’800 e ’900; ha indagato aspetti della civiltà figurativa fiorentina tra il Manierismo e la tarda età barocca. Collaboratore di riviste a diffusione internazionale, è stato redattore di “Antichità viva”; ha curato mostre di artisti contemporanei in Italia e all’estero. Tra le ultime pubblicazioni: Le sedi dell’Accademia del Disegno (Firenze 2001) e Galileo Chini pittore e decoratore (Soncino, CR, 2002). PAOLA CIARLANTINI, recanatese, diplomata in pianoforte, musica corale e composizione ai conservatori di Firenze e Bologna, si è laureata in Lettere moderne all’Università di Urbino. Studiosa dell’opera italiana, ha pubblicato quattro volumi e oltre settanta articoli. Nel Bicentenario Leopardiano, per il Teatro G.B. Pergolesi di Jesi ha curato tre edizioni critiche di opere, per l’Accademia degli Incamminati di Modigliana il DVD “Il linguaggio del melodramma e l’identità nazionale italiana”. Insegnante di materie letterarie nella scuola superiore, ha conseguito la docenza di letteratura poetica e drammatica nei Conservatori. Ha presentato relazioni a convegni dell’Associazione degli Italianisti. All’Università di Macerata insegna musica per il cinema, supervisore alla SSIS è dottoranda in Italianistica con una tesi sulla librettistica dell’Ottocento italiano. ELIANA PRINCI è nata nel 1965 a Palmi. Dopo la laurea in lettere con indirizzo storico artistico a Firenze, si è specializzata in storia dell’arte contemporanea all’università di Siena e ha conseguito un master in gestione e comunicazione dei beni culturali con la Scuola Normale di Pisa. Si è occupata di arte moderna e contemporanea curando le mostre Vagaggini (1994) e Confronti (1996), ha scritto saggi per gli artisti Paul Fuchs (1997), Gunter Dollhopf (1997), Francesco Messina (1997), Federico Busonero (2000), Giampaolo Babetto (2002), ha curato i volumi Museo Nazionale d’arte Moderna. Centre Pompidou, Parigi (2004), Guggenheim, Venezia e New York (2004), Arte. Il Novecento (2005). Dal 2002 insegna al Liceo Classico di Pistoia e collabora alla Facoltà di Design e Arti dello IUAV, Università di Venezia. MARIO DOMENICHELLI, ordinario di letteratura inglese e letterature comparate all’Università di Firenze, è presidente dell’Associazione per gli studi di Teoria e storia comparata delle letterature e membro del direttivo dell’Association Internationale de Littératures Comparées. Ha pubblicato saggi sul Cinque-Seicento inglese, sulla narrativa della modernità e della postmodernità, sull’antitutopia, sulla figura del gentiluomo e cavaliere; ha curato edizioni italiane delle Memorie di Martino Scriblero, di Galsworthy, di Dickens, di Conrad, e più di centocinquanta articoli in italiano, inglese e francese, su tematologia, petrarchismo, drammaturgia inglese tra Cinque e Seicento, modernismo inglese e americano. Del 2007 è il Dizionario dei temi letterari (UTET, tre volumi) diretto da Domenichelli assieme a Remo Ceserani e a Pino Fasano. È autore di un poema “seriale” (Il cantare della Decima Classe, 1991) e di un romanzo (Lugemalé, 2005, finalista al premio Viareggio e vincitore del premio Corrado Alvaro). 2 MONICA VENTURINI è nata nel 1977 a Roma dove vive. Si è laureata nel 2002 in Letteratura Italiana moderna e contemporanea a La Sapienza con una tesi sull’opera poetica di Jolanda Insana con la professoressa Biancamaria Frabotta. Ha recentemente conseguito il Dottorato di ricerca in Italianistica, coordinato dal professor Romano Luperini, presso l’Università di Siena, discutendo una tesi riguardante l’opera di Amelia Rosselli e svolge attività di cultore della materia presso l’Università degli studi Roma Tre con la professoressa Simona Costa. ELENA FRONTALONI è nata a Jesi nel 1980. Si è laureata in Lettere classiche sotto la guida della professoressa Silvia Ferretti, con una tesi sui Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Ha recentemente discusso la sua tesi di dottorato in Italianistica: un’edizione critica di autografi pasoliniani. Si occupa prevalentemente di letteratura novecentesca, con particolare attenzione per le sopravvivenze del mito e per le intersezioni tra parola e immagine nella letteratura italiana e mitteleuropea. GIORGIO WEBER, già aiuto all’Università di Firenze di Antonio Costa, dal 1968 al 1993 è stato professore ordinario e direttore dell’Istituto di anatomia e istologia patologica nell’Università di Siena. Medaglia d’Oro del Presidente della Repubblica, studioso dell’arteriosclerosi, al suo attivo ha oltre quattrocento pubblicazioni scientifiche. Attualmente coltiva la storia dell’anatomia patologica, pubblicando presso l’Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria” studi su Antonio Benivieni, Areteo di Cappadocia, Antonio Cocchi, Lorenzo Bellini, Giovanni Targioni Tozzetti. GUGLIELMA GIULIODORI, di Filottrano (AN), si è laureata in Letteratura italiana presso l’Università di Bologna con una tesi su Alfredo Panzini. Ha conseguito il perfezionamento in Scienze e storia della letteratura italiana all’Università di Urbino con una tesi su Italo Calvino e il perfezionamento post-laurea all’Università di Macerata con lo studio Lessico tecnico-scientifico e lingua comune. Dottore di ricerca in Italianistica presso l’Università di Macerata con la tesi La ‘norma’ di Zanzotto nell’Ipersonetto, è esperta di didattica. Ha praticato l’insegnamento di materie letterarie nella scuola media superiore e svolto la funzione di supervisore e docente presso la SSIS dell’Università di Macerata. È autrice di numerose pubblicazioni in riviste di didattica e di critica letteraria e ha prodotto comunicazioni in congressi nazionali degli italianistiI, raccolte nei relativi Atti. ELISA ZAMPETTA è nata nel 1984 e vive a Viterbo, dove ha conseguito la laurea in Lettere Moderne con una tesi su Graham Swift. Iscritta al corso di laurea specialistica in Filologia Moderna, si dedica agli studi pianistici: frequenta il decimo anno della classe di pianoforte principale e di musica da camera presso il Conservatorio “A. Casella” de L’Aquila; ha partecipato, dal 2005 al 2007, a corsi di didattica pianistica, di metodologia e pratica dell’OrffSchulwerk e a varie Masterclass di Alto Perfezionamento musicale presso il Conservatorio de L’Aquila e l’“Accademia musicale città di Amatrice”. Svolge attività di accompagnamento al pianoforte. Caffè Michelangiolo Terza pagina CHI DICE DONNA… di Mario Graziano Parri P che su “Famiglia cristiana”; la figlia di miei cariserché mai un professore ordinario di universimi amici a trent’anni suora con lauree in econosità se uomo viene gratificato con un “chiamia e in teologia e sport praticati fin da bambina, rissimo”, se donna si vede appellare con un non è visto di buon occhio che tuttora faccia del generico “signora”? E perché si dice “donna medinuoto e del tennis. co” e non si usa dire “uomo medico”? E la gag delI preti vestono il clergyman; una religiosa in le “quote rosa”, che minimizza la presenza femmitailleur, la si è mai vista? Per la Chiesa il corpo nile in ruoli di rappresentatività e di potere: perché della donna è “scandalo”: deve essere celato, morle donne non si rivoltano contro questa non parità tificato, segregato. Per la Società, il corpo della di competizione? donna (così sottilmente offensivo, osservava TruUna cardiologa cinquantunenne in una esemman Capote) è stato sempre subalterno all’uomo: plare lettera al direttore (“Corriere della Sera”, giovedì 27 settembre 2007, pagina 22) osserva: «Devo confessare padre, fratello, marito, figli. La emancipazione politica, sociale, inche leggere che le federazioni degli Ordini dei medici sono preoc- dividuale della donna non è affatto compiuta; vige tuttora il discocupate dell’eccessivo numero di “donne medico” non solo mi stu- noscimento della sua effettiva importanza nella procreazione e nelpisce, ma mi disgusta». E fra altri interrogativi si chiede: «Perché la gestione della medesima. Una Cécilia che lascia Sarkozy, nel nonoi “donne” ci siamo dovute far visitare per anni e senza fiatare da stro Paese è ancora impensabile. Qui la donna ha difficoltà a esseun ginecologo “uomo” e ci si preoccupa adesso per le delicate im- re: essere “persona”. L’espace d’un matin è durata la eventualità di plicazioni psicologiche del maschio che deve farsi visitare da un uro- una Anna Finocchiaro al Quirinale, c’era da vedersela con i “padri” del suo stesso partito; che probalogo “donna”?». bilmente non è più la “chiesa” del In varie parti del pianeta ci Interferenze tempo di Palmiro e della Nilde i sono donne che occupano posizioquali dovevano perfino celare la ni di comando: da Nancy Pelosi a IL BALLO DEGLI IMMORTALI loro relazione ritirati nel sottotetto Yulia Tymoshenko, da Angela di Botteghe Oscure, ma il suo caMerkel a Condolezza Rice, da BeLe conferenze sui cambiamenti climatici sono all’ordine del none non pare sia stato revocato. nazir Bhutto a Hillary Diane giorno. Pare che il Mediterraneo sia particolarmente a rischio e Vivere è azione, e una buona Rodham. Non però nel nostro Paeche l’Italia si stia riscaldando più di ogni altro paese al mondo, con pericolo di incendi e desertificazione. In questo scenario parte delle donne lo dimostra ben se: dei cinquantanove rettori delle potrebbero scomparire, fra l’altro, alcune piante. più di tanti uomini. Solo adesso ci università di stato, cinquantotto A fine agosto di quest’anno i viareggini hanno attestato il si accorge della mia femminilità, sono uomini. La prospettiva di pericolo della sparizione del lauro, pianta sacra a noi cara, intordice Rosy Bindi. E “femminilità” una Rosy Bindi a capo dell’esecuno alla quale si è costituita l’identità nazionale. La coscienza unilei la intende non certo alla mativo o di una Anna Finocchiaro taria, nella nostra penisola, ha cominciato a formarsi con la pubniera del Gioberti secondo cui rialla presidenza della Repubblica blicazione del capolavoro manzoniano prima ancora che l’audace siederebbe «in una coscienza infa immediatamente scattare i seconte Camillo di Cavour traducesse in realtà politica il sogno coata e confusa, che non erompe in gnali di allarme nelle sedi dei Parmazziniano. Modellando I promessi sposi sul linguaggio toscano Manzoni suggella, in modo definitivo, quel disegno linguistico riflessione e non si estrinseca che titi e nei Sacri Palazzi. Il diritto comune già concepito da Dante Alighieri. sotto la forma istintiva del sential voto la donna italiana se lo è viQuel sentimento di intesa culturale è stato dunque la pianta mento» (Il gesuita moderno, sto “concedere” solo dal 2 giugno che nel tempo ha dato più frutti, che ha espresso il meglio di sé in 1847), bensì quale condizione di 1946 (per la Costituente), mentre un paese demarcato geograficamente, ma diviso dal punto di indipendenza che non abbisogna la cultura della sua sistematica vista politico e segnato da profonde sperequazioni sotto il profilo del supporto maschile. Che non riesclusione dalla vita pubblica e economico. Questa estate quella pianta ha subito uno scossone sponde a padre e marito. Dietro a dalle grandi decisioni è tuttora in nella città viareggina. La scissione (trascuriamo la cronaca) di ogni grand’uomo c’è una grande vigore. «La donna sarà sempre il alcuni giurati stava facendo naufragare la settantottesima edizione del “Premio Viareggio” che nasce, vale la pena ricordarlo, da donna, si usa dire. La donna più pericolo di tutti i paradisi», sosteun’idea di Leonida Rèpaci, nell’agosto del 1929 sulla spiaggia verpotente non ha che se stessa, dieneva il cattolico Paul Claudel siliese, nel segno della leggerezza. La prima edizione sarà invero tro. Sta qui lo scandalo, manda a (Conversations dans le Loir-etpubblicizzata con un foglio titolato, con alto senso dell’ironia, monte duemila anni di superstiCher, 1937). Ecco che dei trenta “Immortali (o giù di lì)”.* zione. Scuote il sistema. Rovescia “Dottori della Chiesa”, le Sante Antonio Imbò le clausole del gioco, che si vorcon tale titolo sono soltanto due rebbero permanenti. Per questo (Caterina da Siena e Teresa d’Avi* Sul numero unico “Immortali (o giù di lì)”, stampato il 16 agosto, le firme di artisti e letterati annunciano e pubblicizzano, con enfasi ma anche umorismo, Rosy Bindi difficilmente ce la potrà la). Papa Wojtyla si era fatto cola nascita del nuovo Premio. Il 18 agosto il ricavato della festa, allestita e chiafare, non è ancora il tempo per struire una piscina olimpionica in mata scherzosamente “Il Ballo degli Immortali”, verrà depositato per essere conproclamare: Omnia mutantur, nos Vaticano, e con gli sci sulle nevi segnato ai primi vincitori del “Viareggio”. et mutamur in illis (Lotario I). ■ delle Alpi è comparso più volte anCaffè Michelangiolo 3 Buone arti Natura, significato, musica della poesia i temi di un incontro con Andrea Zanzotto PERCHÉ L’INFINITO ABBIA FORMA a cura di Paola Ciarlantini e Guglielma Giuliodori M acerata. In una sala di Palazzo Torri si svolge uno degli incontri del nostro dottorato di Italianistica. Nel tardo pomeriggio la luce del giorno cala sullo sfondo dei colli di Recanati. Da una parte un gruppo di dottorandi e docenti, dall’altra Andrea Zanzotto. Quel che rende l’esperienza inconsueta, ed eccezionale, per tutti, è il fatto che il Poeta si trovi fisicamente a qualche centinaio di chilometri di distanza, a Conegliano Veneto. È una presenza “virtuale”. La sua immagine e la sua voce ci giungono in videoconferenza, tra brusii del segnale e alterazioni del video, che, in un’imperfetta oralità secondaria, talvolta sospendono il viso del Poeta a noi, o i nostri visi a lui. Nonostante tutto, si forma subito una sorta di circolo ermeneutico, teso ad indagare la sostanza stessa della Poesia ed il suo attuale significato. Non c’è alcun argomento concordato. Ciascuno ha la possibilità di ideare ed articolare liberamente le proprie domande, e di tracciare insieme all’Autore, in tempo reale, un’idea della Poesia come viaggio esistenziale, urgenza comunicativa, istanza etica perseguita incessantemente attraverso il suo specifico strumento, cioè la ricerca linguistica e stilistica. Quasi timoroso, all’inizio, nei confronti del “mezzo” che si frapponeva tra noi e lui, e poi invece sicuro nell’ascolto delle nostre domande e nell’elaborazione delle risposte “a distanza” (oggi si direbbe e-learning), Zanzotto, con una semplicità e umanità disarmanti (quella del colloquio privato, tra pochi intimi), ci ha aperto uno spiraglio sul suo pòiein, sul suo Essere-Poeta-Nel-Mondo. Non ho esitazione nel dire che è stato uno dei momenti più belli del dottorato di Macerata. Una lezione indimenticabile, irripetibile e unica, di umiltà e slancio creativo, che forse può ben essere condivisa oltre i confini di quel pomeriggio e di quella aula universitaria. Carlo Vecce 4 l’oralità. Questo mi richiama la definizione di ritmo fornita da Dessons e Meschonnic, studiosi per i quali il ritmo è l’organizzazione di ciò che è in movimento nella lingua, basato su una pluralità accentuativa4. Essi gli attribuiscono un primato, la cui significazione si può chiamare orale. Parlare del ritmo come organizzazione degli elementi caratteristici – non soltanto la misura degli accenti ma anche gli effetti di “echi” (piuttosto che “allitterazioni” o altro, come ritorno di suoni) consonantici e vocalici – significa parlare di oralità e viceversa, probabilmente5. C’è qualcosa che accomuna il suo pensiero e soprattutto la sua produzione poetica alla concezione di Dessons e Meschonnic? Andrea Zanzotto. 1. Alcuni studiosi – come Beltrami1 e Praloran2 – pongono l’accento sul fatto che, per il ritmo, è un limite fare riferimento ad elementi esclusivamente metrici, anziché al discorso globale in versi. Secondo lei, sulla base della sua attività poetica, da che cosa è dato il ritmo? È necessario in un primo momento scrutare le minime unità; a ruota deve seguire una continua strutturazione di queste particelle e resta un qualche dubbio sull’opportunità stessa di quelle unificazioni parziali rivolte ad una che sia totale, dubbio che esse siano nella direzione giusta. 2. Nel Piccolo discorso sulla musica3 lei parla del rapporto della poesia con La mia realizzazione poetica segue altre strade che non sempre coincidono o si situano positivamente in relazione al senso logico. Insomma, può essere che la dinamica della lirica delle parole non sia ben accordata con la musica della sintassi. Questo è un problema che resta comunque aperto. Direi che molte sono le considerazioni che si possono aprire a questo punto perché anche negli ultimi trenta anni si sono accumulate maree di ricerche, compiute secondo criteri abbastanza omogenei, ma che poi potevano anche spaccarsi in varie direzioni. Direi che manca ancora una possibilità reale di esprimere un giudizio definitivo sulle particelle musicali della lingua, sulla sua sonorità e sulla dinamica costruttiva di senso, che spetta naturalmente in primo luogo alla singola parola e alla sintassi. E quindi direi che chi scrive, nel momento in cui scrive – parlo di poesia, naturalmente, ma ciò vale anche per la prosa – non vuole occuparsi minimamente di questo problema. Soltanto dopo, quando c’è lo scritto, quando qualcosa è sceso sulla pagina bianca e si ha la visualizzazione di un processo interiore, si può Caffè Michelangiolo Buone arti cominciare a ragionarci sopra. Diremo che resta sempre da verificare quella energia primordiale che porta all’espressione e resta sempre un problema aperto. Consideriamo anche i tempi dell’organizzazione: grammaticale, sintattica, fonica… Potremmo dire che si parte da un insieme di forze che sono autoctone, cioè che si autocreano di ignoto. Per questo, non credo neanche possibile arrivare ad un sicuro “ne varietur”. Questo è il percorso come appare a me dall’interno; però non è detto che sia di per sé il percorso giusto, il percorso vero. In altri, le cose cambiano. Io non vedo una poetica generale, ma vedo piuttosto una poetica particolare per ogni autore, diciamo pure autori diversi. Non dico neanche poeta perché non so se lo sarò mai. Spero con queste osservazioni di aver risposto alla domanda. gua all’altra, anche in queste criptomusicalità. Naturalmente bisognerebbe trovare anche questi esempi, ma non sono in grado di portarne. È uscito un bel libro della Bocci6 che vede, per la buona riuscita di una traduzione, la necessità di ripercorrere le fasi più importanti del vissuto di chi ha scritto il pezzo di partenza. Dovendo 3. Qual è la sua opinione sulla traduzione di un testo poetico in altra lingua? Giacomo Leopardi, incisione, Bibliothèque Nationale, Parigi. momento in momento. L’interesse al significare e a dare un significato è qualche cosa che appare in un secondo momento. E resta sempre forte il dubbio nel riprendere a mente fredda quello che è stato scritto in base a questi impulsi ordinari sulla natura dell’espressione poetica. È sempre possibile ritornare su quello che è stato scritto, per analizzarlo anche a distanza di molto tempo. In poche parole, arrivata alla scrittura nella sua ultima fase, l’espressione consente di ridare qualche cosa, in cui però è perduto il “primum movens”. Questo non è un problema. Questo, per me, nella mia esperienza, è un dato di fatto. Poi, tende a venire un’ampia raggiera di identificazioni, di ripercorrimenti, di ricerche tecniche anche, che tendono a migliorare l’espressione nella sua ultima fase, che, però, non possiamo mai dire ultima. Io non mi sono mai accorto che un’espressione nata così, come un ignoto che vuole apparire, sia corrispondente in maniera sufficiente a questo Caffè Michelangiolo Questo è un grosso problema. Ogni lingua ha la sua musicalità, che si perde nel lavoro di traduzione. Un problema nel problema è il fatto che in uno stesso testo poetico può talvolta esserci contrasto tra struttura sintattica e musicalità delle parole. Ricordo l’“Imitazione” dichiarata che Leopardi ha tratto da La feuille di Arnaud. Leopardi creò un’imitazione del testo francese, ma non ci si può accontentare neanche di questo fatto. Qualche cosa di verticale riesce a passare, qualche particolare, i timbri, direi. Ho notato, per esempio, che per i bambini un testo poetico in italiano, nel loro dialetto e in latino poteva essere un’esperienza del tutto particolare, proprio collegata al trasferimento da una lin- Carlo Levi, Ritratto di Eugenio Montale, 1941 ca., olio su tela, cm. 61 x 50, Fond. Carlo Levi, Roma. Giuseppe Ungaretti ritratto nel 1964. tradurre dal tedesco, bisogna stare a sentire per lungo tempo i tedeschi, viverci insieme. La Bocci nel suo libro richiede un’immersione totale nel testo di partenza, nelle sue radici letterarie. Quindi, serve esplorare le varie situazioni, dalle quali si stabilisce un certo tipo di scelte nella traduzione. Questo è un altro fatto importante, una raggiera che punta verso il testo perché si arrivi appunto, in qualche maniera, ad una traduzione che sia satura degli umori originari e senza tempo. Comunque, direi che ogni poesia che nasce deve sempre ritornare all’autore, alla gran meraviglia che fu il percorso creativo originale, e questo vale anche per l’autore del modello. Se l’autore non prova un senso di sconcerto rispetto a quello che ha scritto, si può dubitare che vi siano le premesse per arrivare ad una vera espressione. Ogni autore sviluppa una linea poetica. Bisogna vedere se il traduttore sia capace o meno di riscoprire il percorso originario. Inoltre, può capitare un altro fenomeno da me indicato sotto il titolo di 5 Buone arti “poetiche lampo”7. Esistono delle “poetiche lampo” che sono immagini chiuse dentro il tessuto dei versi. E a un certo momento uno si accorge, leggendo, che in due versi c’è la “poetica lampo”, la poetica stessa. O in uno solo dei versi. Basterà ricordare Leopardi. In un componimento, che si trova nelle Operette morali e non nei Canti. Nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, queste cantano un inno, il Coro di Morti: «Che fummo? Che fu quel punto acerbo che di vita ebbe il nome?». In questo passo troviamo l’essenza poetica di Leopardi, quel punto che dicevo. Quattro parole-cardine: punto, acerbo, vita, nome. scritto una serie di poesie tutte ispirate al concetto di “sera del dì di festa”8 ma proiettate nel pieno inverno e nei nostri tempi, con molte fusioni di paesaggi sonori e reali. 6.-7. Relativamente al Novecento, quale valore poetico deve, a suo avviso, essere assolutamente comunicato alle giovani generazioni? E la cosiddetta poesia applicata, ad esempio la poesia per musica, la poesia dei cantautori, ritiene che possa essere considerata poesia a tutti gli effetti? Vorrei il suo parere, perché su questo tema c’è un importante dibattito critico in corso. Pier Paolo Pasolini. Relativamente alla prima domanda, direi che vanno ricordati Eugenio Il paesaggio sonoro ha, a suo avviso, Montale, asso di una poesia specialiun’influenza molto forte su questo ipo- stica, ed Ungaretti, che ha saputo esprimere l’esperienza della guerra. FondaL’elemento grafico ha una forte rile- testo? mentale è stato il rinnovamento della vanza. Certe volte ho insistito proprio sul suggerimento grafico. Io, ad esemDobbiamo pensare alla differenza parola. Tutte le poetiche alla cui base pio, l’ho ricavato da una serie di m e di tra il paesaggio sonoro e il paesaggio c’è la sincerità hanno cercato di camn, mai tante, e si arriva ad una sequen- reale. Il primo è l’assieme dei suoni mol- biare la realtà. Ogni valore si può conza grafica che genera dei suoni e an- teplici tipici di una certa realtà visiva. testare, ma non si può contestare il vache, indirettamente, dei pensieri. C’è Così in La sera del dì di festa di Leo- lore puro di un “M’illumino d’immenuna specie di forza che riesce ad essere pardi abbiamo un paesaggio sonoro che so” di Giuseppe Ungaretti. Il valore di espressa. La domanda sembra parta dal però include anche un paesaggio uma- ogni rinnovamento terrestre, fino ai vatesto, in realtà parte da altro, dall’auto- no, è una sintonia. Aggiungo che io ho lori religiosi (si pensi a Rebora) non re, e poi passa al testo. manca nella nostra poeL’impulso alla creazione sia. Non parlo, purtropdell’immagine può avere po, del presente, perché anche origini sensibili, a siamo sommersi dalla repartire dalla vista o altro. torica del limitato. Ai gioIl fatto che nei nostri climi vani bisogna comunque sia frequente la neve sui accennare al valore che monti anche in maggio ha la parola in sé. porta alla terzina: «Mai Quanto alla poesia apmancante neve di metà plicata, sono veri poeti i maggio | chi vuoi salvare? cantautori? Tante volte lo | Chi ti ostini a salvare?». sono, ma c’è il rischio che Le già citate consonanti la parola soccomba alla riecheggiano qui la serie musica; e c’è inoltre il di cime innevate di magproblema della collocaziogio. ne di questi autori. Paolo Conte ha avuto il Premio 5. Vorrei affrontare il Montale per alcuni valori tema del paesaggio sonopoetici, ma la necessità ro, perché si collega che serve alla musica, e strettamente con il ritmo, trasforma la canzone in il suono e la musica di un oggetto, è problematiun testo poetico. Io, in- Paolo Conte fotografato il 9 aprile 2003 insieme alla italianista Simona Costa, al ca. Per esempio, Fabrizio fatti, mi sto attualmente tempo preside della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli Studi di Macerata De André crea una specie attualmente docente a Roma Tre, in occasione della laurea honoris causa in lettere occupando della poesia emoderne di scontro sul canto, tra conferitagli dall’ateneo marchigiano. Al compositore e cantante di Asti bucolica, da Teocrito in (1937) era stato assegnato nel 1991 il premio Librex-Guggenheim “Eugenio Montale parola e linea melodica. per la poesia - Sezione versi per la musica”. poi. Ma per distinguere i poeti 4. Quale significato ha l’elemento grafico nella sua poesia? 6 Caffè Michelangiolo Buone arti dai cantautori sarebbe soprattutto necessario guardare il loro conto in banca! La poesia come tale viene sempre più emarginata, stenta ad essere accettata dalle case editrici. Questo interesse per i compositori nasce dall’editoria. Se si guarda alle tecniche, non è che essi abbiano fatto passi avanti. Fa bene uno ad andare a cantare a Sanremo, o no? Sì, perché l’espressione “attraversa” le persone, raggiungendo un pubblico più vasto; tanto meglio se si avvicina alla poesia vera. 89. Qual è il suo ricordo di Pier Paolo Pasolini? Pasolini lo vedevo stanco, quando andava a fare le cure a Lignano, o quando stava a Roma. Amava il mio libro La beltà (1968) e ha avuto la fortuna di non aver visto il degrado che ha investito posti che erano puri. Ricordo che la mia ultima conversazione con lui riguardava l’idea di Pasolini di scrivere un film su San Paolo, progetto che non venne realizzato. Lui era entrato in quella stramberia che era Salò e non continuò nella sua bella analisi dei valori della vita; il suo occhio si era fatto disperato. Mi resta il ricordo del suo funerale, e del messaggio straordinario che padre Davide Turoldo dedicò alla ■ madre. NOTE L’intervista è stata rilasciata in video da Andrea Zanzotto (presente presso gli studi di TeleMedia.Net di Conegliano Veneto) il pomeriggio del 18 maggio 2005 ai dottorandi di ricerca in Italianistica dell’Università di Macerata, guidati dal Prof. Carlo Vecce e riuniti presso il Dipartimento di Ricerca Linguistica, Letteraria e Filologica. L’iniziativa era collegata alla manifestazione Viaggio musicale con Andrea Zanzotto (recital interattivo per soprano, pianoforte e voce del Poeta) ideata dal Prof. Paolo Cattelan dell’Università di Venezia e svoltasi al Teatrino Campana di Osimo nella stessa serata, nell’ambito della programmazione culturale del Corso di Laurea in Mestieri della Musica e dello Spettacolo. A tale manifestazione, voluta dal Comune di Osimo (all’epoca sede del citato Corso di laurea) e dall’Università di Macerata, con il coordinamento di Paola Ciarlantini, hanno partecipato, esibendosi dal vivo in brani musicali cari al Poeta, il soprano Susanna Armani e il pianista Michele Bolla. Alla videoconferenza maceratese ed alla manifestazione osimana erano presenti Paolo Cattelan e Marisa Zanzotto. Quest’ultima nel corso della serata ha anche letto al pubblico la poesia del marito Co l’è mort Caffè Michelangiolo Andrea Zanzotto. Andrea Zanzotto, nato il 10 ottobre 1921 a Pieve di Soligo (Treviso) dove risiede da sempre, con Dietro il paesaggio (1951) ha iniziato la pubblicazione delle sue opere, con cui ha nutrito, e continua a farlo, la poesia contemporanea. La sua produzione percorre una ricerca e un’esperienza di oltre un cinquantennio, documentate – per citare alcune tappe – da Vocativo (1957), IX Ecloghe (1962), La Beltà (1968), Pasque (1973), Il Galateo in Bosco (1978), Fosfeni (1983), Idioma (1986), Meteo (1996), Sovrimpressioni (2001) e dalla collaborazione con Federico Fellini, espressa con Filò. Per il Casanova di Fellini, la cui prima edizione risale al 1976. I suoi componimenti poetici testimoniano la crisi dell’uomo, dell’io, e i paradossi sociali, rappresentati con grande ricchezza e articolazione di contenuti – che la Toti, dedicata al soprano concittadino Toti Dal Monte. La trascrizione dell’intervista è stata visionata da Andrea Zanzotto, che ha ritenuto di integrare ed approfondire alcune risposte. La versione definitiva risale al settembre 2006. La Giuliodori ha fatto riferimento a parti di essa nella sua tesi di Dottorato in Italianistica La ‘norma’ di Zanzotto nell’Ipersonetto, discussa presso l’Università di Macerata il 1° marzo 2006. 1 P.G. BELTRAMI, La metrica italiana, Il Mulino, 4ª ed., Bologna 2002. 2 M. PRALORAN, Metrica e tecnica del verso, in Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, Cisalpino, Milano 2000, pp. 409-421. 3 A. ZANZOTTO, La lingua dell’infinito. Piccolo discorso sulla musica, intervista a cura di Paolo Cattelan, Pieve di Soligo 6 agosto 2004. 4 G. DESSONS e H. MESCHONNIC, Traité du rythme. Des vers et des proses, Dunod, Paris 1998, pp. 26, 41 e sgg. 5 Ivi, pp. 101-102. 6 L. BOCCI, Di seconda mano, Milano, Rizzoli 2003. rivelano sensibilità e competenza in molte branche della scienza, oltre che profonda conoscenza della letteratura italiana e straniera – e sperimentazione linguistico-strutturale. Ad essi si accompagnano racconti in prosa, raccolti in Sull’Altopiano, saggi e scritti critici, contenuti in gran parte nei due volumi di Scritti sulla letteratura (2001), Fantasie di avvicinamento e Aure e disincanti del Novecento letterario, traduzioni, costituendo insieme una produzione davvero importante. Una costante della poetica zanzottiana è lo strettissimo rapporto con la realtà concreta e l’ininterrotto riferimento al paesaggio, alla sua terra, assunta come simbolo dei processi di trasformazione, della catena alimentare, ma anche della instabilità e contraddittorietà, di specchio della condizione umana, dell’individuo e della poesia, sottoposti ad un continuo processo di disgregazione. La sensibilità del Poeta è tale da connettere quasi inscindibilmente paesaggio esterno ed interiore, da scavare nel profondo dell’io e osservare acutamente l’altro da sé, per l’individuazione delle ferite e delle possibili o improbabili “terapie”, come dimostra il testo di recente pubblicazione (2007) Eterna riabilitazione da un trauma di cui si ignora la natura. Testimone attivo e combattivo del degrado ambientale, Zanzotto ha dato prova anche recentemente del suo impegno civile per il recupero paesaggistico, o meglio per la «decrescita felice», con la sua vittoriosa “battaglia contro il cemento sulla golena del Soligo”, testimoniata dall’articolo di Francesco Dal Mas, Parco dell’arte al posto del palasport, in “la tribuna” del 12 aprile 2007. Guglielma Giuliodori 7 A. ZANZOTTO, Tentativi di esperienza poetica (Poetiche-lampo), «il verri», serie VIII, 1-2, marzo-giugno 1987, pp. 9-17; poi in Prospezioni e consuntivi, in Le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999, pp. 1309-1319. 8 A. ZANZOTTO, Sere del dì di festa (1-6), in Sovrimpressioni, Mondadori, Milano 2001, pp. 21-32. 9 Le domande sono state formulate da: Guglielma Giuliodori (1 e 2); Cristina Contilli (3); Elena Frontaloni (4); Carlo Vecce (5 e 8); Marcello La Matina (6, tramite Paola Ciarlantini); Paola Ciarlantini (7). RINGRAZIAMENTI Si ringraziano: Franca Piccinini, per la registrazione effettuata a Macerata; Francesco Carbognin, a fianco del Poeta negli studi di Conegliano Veneto; Fabio Curzi e Agostino Regnicoli, per il collegamento video da Macerata; Paolo Cattelan e Marisa Zanzotto, per la preziosa collaborazione offerta. 7 Poesia UNE COLOMBE UNE AUTRE di Raymond Farina [Raymond Farina, Une colombre une autre, Éditions des Vanneaux, Montreuil-sur-Brèche, dicembre 2006]. 8 Caffè Michelangiolo Poesia BEATO IL MIO VICINO di Silvia Bre B eato il mio vicino che dalle sue finestre coglie con gli occhi i fiori che io curo, i colori che veglio dal buio della casa. Io penso a togliere le foglie secche a dare l’acqua ai vasi appena serve, devo sempre patire quando un giorno vedo che sono morti eternamente. Per lui sono soltanto vivi, solo belli, non ha bisogno di saperne i nomi per imparare come amarli meglio. Beato lui, il vicino, che chiama il mio balcone il suo paesaggio e che di fronte a sé tra strada e cielo vede distintamente il mio destino. [Silvia Bre, Marmo, Einaudi. Premio Viareggio-Rèpaci 2007]. foto di Lucio Trizzino Caffè Michelangiolo 9 Poesia Från «OCEANEN» di Göran Sonnevi A lla de fattiga Alla de utslagna jag inte klarar av att möta Utan förnedrar dem Förnedrar mig själv Jag rör mig bara förbi Ansiktet, T utti quei poveri Tutti quegli sciagurati che mi fa senso incontrare Anzi li umilio Umilio me stesso Passo solo oltre Il volto, rösten som söker mig får inget svar Min kropps tyngd Min själs tyngd, momentum, i den framforsande rörelsen på gatan Bland de andra la voce che mi cerca non ottiene risposta Il peso del mio corpo Il peso della mia anima, il suo momentum, nell’impetuoso via vai della strada Fra gli altri som passerar Det är inte en enda gång Det händer åter och åter Vad är det i mig som skapar denna che passano E non una volta soltanto Accade volta dopo volta Che cos’è in me a creare questa flykt, denna hårdhet? Jag ville röra vid dig i kärlek Så rör då tomheten vid mig Fullkomligt svart fuga, questa durezza di cuore? Volevo toccarti in amore E invece è il vuoto a toccarmi Nero, nero fitto Stockolm, 2005 [Göran Sonnevi, Variazioni mozartiane e altre poesie, Pagliai, 2006]. Traduzione di Bruno Argenziano 10 Caffè Michelangiolo Poesia SIA FATTA L’OMBRA di Mario Graziano Parri U n’attesa senza misura nel cerulo cerchio dell’airone, un esulare piano e senza suono in attesa del gemito che chiude la stagione del giorno e laggiù nello struggere dell’aprile fra acqua e cielo una barca è ferma sotto i salici curvi sul Sile. Ti ho preso la mano su quel punto che il vespro si fa pura fiamma e ti ho chiesto se d’un più vivo sangue ora vivevi nel nudo candore della morte. E tu con qualche reticenza le dita di giglio marino hai ritirato come si sfilano le ombre dei voli dai vergini prati, e un intimo riso è aleggiato. Piave Vecchia, aprile 2001 [Inedita]. Caffè Michelangiolo 11 Prosa «Rosetta Posillipo è una di quelle donne che non sorridono mai, ma sono felici lo stesso» DEL PIANTARE CHIODI SUGLI ALBERI tre racconti brevi di Adrián Bravi presentati da Elena Frontaloni U n uomo (età anagrafica volutamente imprecisata) (uno sguardo qualsiasi: maniacale; bassamente furbo o che racconta la sua manìa di piantare chiodi; una desiderante; esageratamente comune) e riesce a trasforragazza molisana che per vie misteriose trova lavoro mare rimasugli del vivere e distorsioni del vedere in quale, lavorando, invecchia; un marito che fantastica sul non po- cos’altro: un universo sconcertante, pieno di risorse segreter cambiare faccia. Sono i tre soggetti delle pagine di Adrián te. Per fare tutto ciò, riversa sulla carta un mucchietto di Bravi – madrelingua spagnolo, esordiente in italiano nel saperi, che sono però tra i più rari: un’inesauribile fanta2004 – che si presentano qui di seguito. Niente di male pen- sia; un cinismo tanto sfacciato e candido da far presagire, sarle fin da subito debitrici dello stratagemma della scrittu- senza dirla, la pietà; molte e diverse tradizioni letterarie; ra infantile, anche perché dal componimento scolastico ru- una lontananza non quantificabile eppure mai giudicante bano forse il meglio: la cocciutaggine, le strampalate esat- rispetto alle voci che guadagnano volta volta il centro deltezze, gli improvvisi picchi di rapidità. la scena. Ultima qualità delle pagine a seguire: un modo di Davanti al primo testo potrebbe pure venire in mente la trattare le parole che irresistilmente le spiana sullo sfondo lingua dello Strano caso del cane ucciso a mezzanotte di indefinibile d’un mezzo sorriso. Lo stesso che nonostante i Mark Haddon. E non è peregrino sospettare che Bravi sia an- poco allegri e insieme non troppo tristi argomenti di queste dato di tanto in tanto a imparare qualcosa dalla Kristof dei righe andrà a stamparsi, puntuale e inatteso, sul volto di microracconti (quelli della Vendetta) e di Line, il tempo – una chi legge. svagatissima quanto crudele pièce teatrale. Dell’autrice nata E.F. in Ungheria, decisa a scrivere in un francese «nemico» e ora chiusasi nel silenzio, ritroveremo le invenzioni derivate da una lotta ai limiti DEL PIANTARE CHIODI SUGLI ALBERI dell’autismo con la sintassi e il dizionaon ci posso fare niente, mi è sempre rio (partita qui stralunata dal fatto che piaciuto piantare chiodi sui rami Bravi lavora una lingua pericolosamendegli alberi. Lo faccio dai tempi della te simile allo spagnolo), e la capacità di scuola, pianto chiodi in solitudine, senraccontare minuscole tragedie del quoza fretta. Mi piace. Prendo un chiodo tidiano privandole quasi completamentra le dita, l’appoggio sul legno e poi te del loro peso specifico senza però snagli do una martellata o due, dipende, turarle del tutto. quelle che sono necessarie. Certe volte lo A guardare queste pagine, insompianto fino in fondo, altre, invece, lo ma, non si potrà fare a meno d’ammetlascio a metà. Su qualsiasi albero, duro tere che ci troviamo davanti a un proo molle, spoglio o frondoso, basso o alto, satore che sa usare mozziconi di realtà come lo trovo. Non ho preferenze in per costruire mondi pacatamente fanproposito. E quando pianto i chiodi certastici, evitando di cedere al mero gioco di non farmi vedere, ma se qualcuno, co combinatorio o alle piatte fatiche putacaso, mi trova con il martello in del realismo minuto. Argentino d’orimano in cima a un albero, pazienza. gine, Bravi si porta così appresso la leNessuno è perfetto a questo mondo. Poi zione dei grandi sudamericani, da cui i chiodi rimangono sui rami, arrugginiriceve quei polverizzati allarmi di senAdrián Bravi. ti, per sempre. Mi piace tanto. Sono sualità, tenerezza e disperazione che Nato a San Fernando (Buenos Aichiodi piantati sui rami. Non ne pianto ad esempio rendono infinitamente dires), Adrián Bravi vive a Recanati. molti, diciamo una decina al giorno. È stanti dal mondo, e tuttavia in esso Il suo primo romanzo, Rio Sauce, esce più che sufficiente. Cinque per albero, ambiguamente radicati, alcuni pezzi nel 1999 a Buenos Aires, per la casa non di più. C’era un tempo in cui ne del Bestiario di Julio Cortázar, o di editrice Paradiso. Esordisce in italiano piantavo molti. Era il periodo che i miei Nessuno accendeva le lampade di Felisnel 2004, con Restituiscimi il cappotto litigavano dalla mattina alla sera, si tiberto Hernández. (Fernandel, Ravenna). È uscito quest’anno La pelusa (nottetempo, Roma). ravano i posacenere addosso, spaccaBravi parte da uno sguardo semvano i piatti per terra, oppure si mipre strabico sugli oggetti della realtà N 12 Caffè Michelangiolo Prosa nacciavano con i coltelli della cucina; allora io, che non sop- lenzio. Ma chissà, nessuno può sapere come vanno a finire porto vedere litigare le persone, li lasciavo discutere da soli, le cose. salivo sul primo albero che trovavo e ne piantavo quindici o Per ora, mi alzo al mattino e m’incammino con il mio venti, di chiodi. In silenzio, così, uno dietro l’altro. Poi mio martello in tasca e una piccola scatola di chiodi verso il bopadre è morto e non ci sono state più liti, allora sono torna- sco (non è proprio un bosco ma io preferisco chiamarlo così). to a piantarne dieci al giorno. Mia madre, dopo che mio pa- Al mattino ne pianto cinque, la sera altre cinque, dieci in tutdre è morto, era molto triste e la sera, prima di addormen- to, circa. Ci tengo. Non riuscirei a campare senza poter piantarsi, la sentivo che si colpiva con i pugni sul petto o si tira- tare dieci chiodi al giorno. Per il momento non ho altre attiva i capelli. Anche io ero triste dopo che era morto mio pa- vità e sono orgoglioso di non essermi mai colpito un dito. Mai. dre, ma continuavo lo stesso a piantare dieci chiodi al gior- E mi piace vedere l’ombra dei chiodi distesa lungo il ramo. no. Li piantavo piano piano, colpendoli L’ombra di un chiodo è la cosa che mi dà appena: non riuscivo a schiacciarli fino in più serenità. Da quando ho iniziato non ho fondo. Con il tempo ho capito che nella mai smesso. Neanche il giorno del funeravita si muore tutti e allora sono tornato a le di mio padre. Quel giorno avrei voluto piantarli come dio comanda. A volte, piantarne uno sopra il suo feretro, povero quando mi sento in pace con me stesso, babbo, era stato un uomo così buono e penso che l’ideale sarebbe piantarne uno al comprensivo nei miei confronti. Sono sigiorno o addirittura nessuno: un colpo di curo che sarebbe stato felice di imbarcarsi martello a vuoto. Sarebbe come raggiunverso l’aldilà con un chiodo piantato sul gere la perfezione: un poema senza parole, legno della cassa. Mi ricordo che quel gioruna musica senza strumenti che suonano, no, a un certo punto, come se mi stesse un martello senza chiodi. Piantare chiodi leggendo nei pensieri, mia madre mi sui rami degli alberi rimane tuttavia la guardò brutto negli occhi e io capii che mio mia passione. Non serve a niente, lo so, padre avrebbe dovuto andarsene senza nesma non posso smettere di farlo. sun chiodo. «Pazienza, saprà farne a Avevo una compagna a scuola che si meno», pensai. era affezionata pure lei a piantare chiodi Magari un giorno avrò un figlio cui insui rami. Ci arrampicavamo insieme, scesegnare a piantare chiodi sui rami degli alglievamo un ramo, ci guardavamo un po’ beri. In fondo mi spaventa pensare che non negli occhi e poi piantavamo cinque chioci siano altri piantatori di chiodi al di fuodi a testa. All’inizio lei ne voleva piantare ri di me. Che oltre ai chiodi arrugginiti, rialtri cinque, tanto le piaceva questa cosa, masti sugli alberi, potrebbero non essercepoi, piano piano, ha capito che cinque erane di nuovi. Per ora continuo a piantare, e no più che sufficienti. I primi giorni avevo Adolf von Menzel, Interno, 1847, olio su poi si vedrà. tela, Monaco, Neue Pinakothek. paura che si colpisse un dito con il martello. Una volta, mentre cercava di piantarne uno su un ramo abbastanza esile, le ho detto di starci LA VIDEOTERMINALISTA attenta col martello: «… potresti farti male». «Nessuno mi osetta Posillipo è una di quelle donne che non sorridono deve insegnare niente, pensa ai tuoi chiodi», mi ha detto. Con mai, ma sono felici lo stesso. Lavora da dieci anni circa il tempo ho imparato ad avere fiducia in lei. Una sera che i suoi erano andati a un ballo in maschera siamo andati in nel Municipio di Anfossi e le sue colleghe dicono che è una camera sua a baciarci sulla bocca. Poco dopo lei si è scoperta donna molto riservata. La mattina, prima d’andare a lavoun seno davanti a me e gliel’ho succhiato. Quel giorno non rare, stende i panni, pulisce il pavimento con un detersivo al ho resistito alla tentazione, quando lei è andata in bagno io limone che a lei piace molto e quando ritorna a casa passa al sono rimasto in camera e ho piantato due chiodi sul parquet, supermercato a fare la spesa. Vive da sola, forse mangia uno sulla finestra e altri due sull’armadio. Erano così belli, poco. I più informati dicono sopra un tavolo piccolo e lucido, tutti diritti. Lei non mi volle più vedere, e quel giorno capii di preferenza senza tovaglia. Ogni sabato pomeriggio – questo lo sanno tutti – prende un interregionale. Ritorna la doche non potevo limitarmi solo ai rami degli alberi. Ma non sono mai stato capito, neanche da mia madre, menica notte a Anfossi con l’ultimo treno. Quindici anni fa abitava in un paese del Molise, in via dei che mi chiedeva ogni volta di non rovinare i mobili. «Non li sto mica rovinando», le dicevo. Sua sorella avrebbe voluto Mappi. Finita l’università, s’era inventata di fabbricare purinchiudermi in un istituto, lo so per certo: «come hai fatto pazzetti di pane intrecciato con listelli sottili che poi colorava a mettere al mondo uno così», diceva. Io non mi facevo in- con lo zucchero sopra. Lei li chiamava “i miei pupazzetti iperfluenzare né dalla mamma né dalla zia, se non potevo pian- bolici”. Una volta terminati dieci o venti pupazzetti li vendeva tare chiodi sui mobili o sulle finestre, e visto pure che non ai panettieri per addobbare le vetrine, oppure alle amiche di sua avevamo il parquet, uscivo e mi arrampicavo sugli alberi, madre per decorare la casa. Non c’era compleanno o battesimo senza dare fastidio a nessuno. So che un giorno smetterò di dove si facessero mancare pupazzetti iperbolici a tavola. Ad un certo punto s’era fidanzata con Mauro, un ragazpiantare chiodi, che appenderò il mio martello su uno dei chiodi e guarderò sui rami per cercare i miei chiodi in si- zotto con un paio di baffi neri e una prominente stempiatu- R Caffè Michelangiolo 13 Prosa ra. Mauro s’appuntava un po’ sulle parole, non si può dire nemmeno che balbettasse, e ad ogni modo ripeteva sempre che era un uomo stressato. L’altro argomento era farle notare che con i pupazzetti di pane non sarebbero potuti arrivare da nessuna parte: «Rosetta ascoltami, non possiamo andare avanti così, trovati un lavoro più sicuro. Con questi pupazzetti non faremo mai niente». Mauro, a suo modo, aveva ragione. Voleva che la fidanzata facesse valere il suo titolo di studio per insegnare in qualche scuola del nord, ma soprattutto fu il primo a capire che il suo handicap alla mano destra l’avrebbe avvantaggiata nelle graduatorie per gli impieghi pubblici. Questo handicap Rosetta l’aveva scoperto un giorno che stava preparando la pasta per i suoi pupazzetti di pane. Si era accorta all’improvviso che le mancava un dito, l’indice della mano destra per la precisione. Stupita di questo fatto aveva cominciato a contare con la mano sinistra tutte le dita dell’altra e, per la prima volta, aveva costatato che, in effetti, le mancava un dito. «Non è possibile» diceva mentre cercava il dito scomparso tra la massa di pane. Quella sera Mauro aveva suonato il campanello alla solita ora, il terzo dall’alto, via dei Mappi. Era entrato in cucina e quando l’aveva vista con le lacrime agli occhi le aveva chiesto cosa le fosse successo. «Mi è scomparso un dito» diceva lei mentre continuava a cercarlo. «Un dito! E come?» «Non lo so.» «Come non lo sai?» «Non lo so. All’improvviso non l’avevo più.» «E ti fa male?» «No, ma lo rivoglio. Sono rimasta senza, guarda qua.» «Ti ho detto che questo lavoro non è per te. Non si può andare avanti con i pupazzetti. Comunque, vedrai che ora senza un dito tutto sarà più facile.» «E se torna?» «Cosa?» «Il dito.» «Lo facciamo scomparire un’altra volta.» «Scomparire?» «Adesso nelle domande potrai scrivere che appartieni alle graduatorie di preferenza per disabili» diceva Mauro, e ogni tanto dava una pacca sulla schiena alla sua fidanzata. Mauro aveva ringraziato due o tre santi imprecisati e se ne era andato a festeggiare la scomparsa del dito con gli amici al bar. Il giorno successivo era tornato a casa di Rosetta con dieci domande pronte da spedire ai comuni. Nel frattempo Rosetta continuava a fabbricare pupazzetti di pane sempre più colorati e iperbolici. Non ci pensava più di tanto a quelle domande spedite da Mauro, ma il giorno che aveva visto il suo nome al primo posto nella graduatoria di un paese trevigiano, aveva fabbricato molti di pupazzetti da regalare ai futuri suoceri. Lassù in montagna aveva trascorso i primi dieci anni di lavoro, di fronte a un terminale collegato con l’ufficio anagrafe. Si trovava bene, diceva che aveva conosciuto un’altra ragazza molisana e che ogni tanto mangiavano insieme lo stoccafisso. Si lamentava solo del freddo di montagna e del fatto 14 che i pupazzetti non le venivano più così iperbolici come laggiù in Molise. Concluso quel decennio aveva ottenuto il trasferimento ad Anfossi: un comune che si trova a duecento chilometri dal suo paese natale anziché settecento come quello trevigiano. Mauro, i futuri suoceri e la famiglia Posillipo erano contenti di questo evento e per festeggiare il trasferimento di Rosetta avevano organizzato, a sua insaputa, un pranzo a base di cotechino. Poi l’avevano tutti accompagnata a prendere il treno. Qui ad Anfossi sono ormai nove anni che Rosetta lavora come operatore tecnico videoterminalista e si trova abbastanza bene. Rimpiange ancora i suoi pupazzetti iperbolici, ma è fiduciosa e spera che entro i prossimi cinque anni la trasferiscano dalle sue parti, laggiù in Molise, accanto a Mauro, forse dirimpetto alla finestra dei suoceri, sulla parallela di via dei Mappi. Perché è ora, dice lei ai suoi, di mettere su famiglia. UNA FACCIA CHE VORREBBE ESSERE UN’ALTRA N on è per niente semplice alzarsi di buonora e dire di fronte allo specchio del bagno: “oggi voglio essere un altro”. Oppure: “oggi voglio uscire e diventare la faccia – per esempio – del libraio all’angolo della strada, che oltre ai libri vende pure matite e quaderni”. Dovrei anzitutto lavarmi il muso, tanto per cominciare a svegliarmi. Dopo mi farei preparare un caffettino da mia moglie e, mentre sale l’acqua nella caffettiera, osserverei com’è il tempo fuori. Poi, naturalmente, farei colazione e, perché no?, inzupperei dentro la tazza di caffè un biscotto al mais. Prima di partire saluterei mia moglie con un bacio sulla fronte e cercherei di dirle qualcosa di tragico e comprensibile. Una cosa del tipo: “Amore mio, esco per essere un altro, ma tornerò per essere me stesso, tuo marito di sempre, più me stesso che mai”; ma ci ripenserei subito e non le direi nulla per non preoccuparla. Poi andrei incontro ai saluti del mattino, al “salve” del giornalaio, al sole già alto, agli odori, alle strade movimentate. Poi aprirei la porta della libreria guardando di non farmi notare troppo. Il libraio è un tipo scorbutico, poche volte riesce a risultare simpatico ai suoi clienti. Ma io entrerei lo stesso e guarderei fisso questo signore mentre comincia a togliersi gli occhiali. Lui abbandonerebbe la sua lettura, appoggerebbe il libro che sta leggendo sopra il tavolo e mi direbbe: «Buon giorno signor Agostino, posso esserle utile in qualcosa?». Tra un occhio e l’altro io gli noterei subito quello spazio dove magari potrei appuntarmi per iniziare a diventare la sua faccia, ma non ce la farei di sicuro, perché il libraio ha il monociglio e quindi troverei quel punto lì in mezzo ricoperto di peletti scuri. Allora, smarrito, mi verrebbe da chiedergli il prezzo del primo libro che trovo a portata di mano e lui mi risponderebbe: «Ventotto, in questa edizione». Ma io non troverei nulla da diventare in quel: «Ventotto, in questa edizione». Allora mi girerei e dopo un: “Grazie, ci vediamo”, me ne andrei un po’ stranito. Tornato a casa, dovrei aprire la porta del bagno per guardarmi allo specchio. La mia faccia sarebbe la stessa di ogni mattina; con una disgrazia in più: quella di do■ ver essere, per tutta la vita, la stessa. Caffè Michelangiolo Prosa IL TEMPO CHE PASSA, IL TEMPO CHE C’È un racconto di Mario Graziano Parri Un’arancia sul tavolo il tuo vestito sul tappeto e nel mio letto, tu dolce dono del presente JACQUES PREVERT, Alicante A quest’ora?, e guardò suo marito. Chi può essere, fece Patricia. Aspettiamo qualcuno? chiese lui. Lei aveva udito l’inequivocabile sfrigolio della ghiaia sotto la pressione delle gomme. Veniva dal retro. Siro vai tu, disse. Io sto mettendo la teglia in forno. Avranno portato il pane, aggiunse. Domani è domenica. Siro girò attorno alla casa. Dove arrivava il vialetto che viene su tagliando in diagonale il prato di trifogli era ferma una Golf nera. Il sole stava scomparendo in una vampa rossoviolacea che striava il Trasimeno come la coda iridescente di una cometa. Nell’aria c’era quella luce crepuscolare che obnubila la vista di chi come lui possiede quel tipo di occhi eccezionalmente chiari, più del più chiaro pastello di un bambino. Siro ebbe qualche difficoltà a distinguerli, erano scesi dall’auto e ora di fronte aveva due sagome accostate. Una maschile, l’altra… l’altra femminile. Sentì subito l’odore di lei, per niente dolce. Acre ed eccitante tra gli effusi profumi selvatici del timo e del rosmarino che a cespugli crescevano là attorno con le rose di siepe e gli oleandri. Abbiano letto l’annuncio stamattina sul “Corriere dell’Umbria”. L’uomo gli stava tendendo la mano. Buonasera… Mi chiamo Matteo. C’era venuta voglia di vederla, disse. Et nous voilà, intervenne la donna. Io sono Julie. La voce era trillante, e anche lei si fece avanti a stringergli la mano. Lui le prese tutte e due nelle sue, un po’ interdetto. Oh… è che siete in controluce, si scusò. Quasi non vi distinguo… Ecco, io sono Siro. Gli altri due risero. Be’ è comprensibile, disse Matteo. Piombiamo qui senza preavviso ma abbiamo perso il cellulare. E Julie si strinse nelle spalle. Coppia si trasferisce e vende accogliente casale in campagna vista lago eccetera… ci ha incuriosito, continuò Matteo. Non siamo di qui, ma siccome ci passiamo spesso… e l’Umbria ci piace, proseguì. Mia moglie è del Midi. Anche là tutti vivono fuori. Venite, li invitò Siro. Vi mostro intanto il fuori della nostra casa. Il sole era quasi del tutto scomparso e una pacata ombra con qualche striatura dorata si stava distendendo sull’acqua laggiù e risaliva il poggio. Oh regard Mathieu, fece Julie. E prese per mano il marito. La même lumière qu’à Cessenon-sur-Orb lorsque le soleil se couche. Le ciel se ferme lentement… Era alta e con lunghi capelli biondi stretti in un fermaglio, il viso un po’ lungo e il naso affilato. Gli occhi di Siro pian piano avevano ripreso a vedere. Matteo era suppergiù Caffè Michelangiolo alto come lui, un poco più rotondo semmai e la faccia piena. I capelli piuttosto lunghi e sul castano chiaro. Come gli occhi, probabilmente. Sì, disse Siro. È sempre uno spettacolo sorprendente. La luce stava declinando e gli occhi cominciavano a valutare meglio le linee di lei e di lui. Non ci aspettavamo una visita così presto, proseguì. A dire il vero avevamo ben poca fiducia nel quotidiano locale. Mia moglie aveva in mente qualche giornale di Monaco o di Düsseldorf. Molti tedeschi della Baviera e della Renania hanno già comprato in questa zona. E con la mano segnò nell’aria un’ampia parabola. Le proprietà non sono recintate, continuò. Nemmeno la nostra. Vedete?… va giù verso il lago fino a quella fila di alberi. E indicò a mezzacosta il gruppo di eucalipti. È il confine, tenne a precisare. Patricia stava venendo verso di loro, camminava a piedi nudi sul bordo d’erba e lo spacco della veste di un bel prugna denso mostrava a tratti lo svelto bagliore della gamba. Mi chiedevo dov’eri finito, disse. Sono venuti per la casa, fece lui. Julie e Matteo, aggiunse. Benvenuti, li salutò lei. Il mio nome è Patricia. Ho appena aperto un grechetto d’Orvieto, ci state? Volentieri, disse Matteo. Je suis d’accord moi aussi, aggiunse Julie. Negli scartocci di opalina le fiamme delle candele sotto il portico animavano una luce tenue di perla, Patricia aveva portato dei crostini spalmati di ciauscolo. Ottimi, fece Matteo. La sua bocca era ampia e morbida, sensuale, e c’era una vistosa fossetta nel mento. Cos’è? domandò. Spalla, pancetta e grasso di maiale, spiegò lei. Una specialità dei Monti Sibillini. Per un po’ lui la guardò, quel viso carico di emozione e la nuda gola svettante. Anche lei guardò lui, i capelli dorati come un dattero che gli ricadevano sulla fronte in un’ampia ciocca e il sorriso sfacciato che dilatava le narici mobili del naso carnoso. On est si bien ici, intervenne Julie. Pourquoi la vendez-vous? Siro ha vinto un concorso alla Sapienza a Roma quando non se lo aspettava più, spiegò Patricia. Da ormai vecchio ricercatore di filologia italiana è passato a essere un giovane promettente ordinario. Già, fece lui. Mi hanno trasferito alle rotte transcontinentali, scherzò. Ma ormai per me i tempi a terra si sono ridotti. Stiamo pensando di avvicinarci, s’intromise Patricia. Sempre nei pressi di un lago, preferibilmente. Abbiamo visto qualcosa a Nemi, aggiunse. Borgo medievale e selve: è ciò che cerchiamo. Insieme al silenzio. Potremmo comprarci una chiatta, disse Siro. Da una tasca dei pantaloni aveva tirato fuori una pipa ricurva che faceva pensare a un uncino. Una sorta di casa galleggiante, soggiunse. Caligola ce le aveva piazzate, due grandi navi che venivano usate per le cerimonie religiose. Oltre l’anfiteatro e il tempio di Diana, non voleva che si costruisse niente altro lungo quelle rive. Un autentico ecologista, l’imperatore. 15 Prosa Certo, l’idea è seducente, disse Matteo. Ma non avete paura di annoiarvi. Risero tutti. Patricia e Matteo si guardarono, lei aveva capelli che scendevano morbidi e sensuali sulla scollatura con quel giro di grani d’ambra e argento. Scuri come gli occhi grandi e allungati. Quelli bruni di lui erano occhi da camera da letto, è in tal senso che guardavano una donna. Un invito sottinteso, perché lei sostenne lo sguardo. Dicevate che da queste parti ci venite abbastanza spesso, osservò Siro. È per il vostro lavoro? chiese, e si accese la pipa con lo zippo cavato dall’altra tasca. Ah bien… antiquité, disse Julie. Commerce d’objets anciens. Qualche buon pezzo qui si riesce ancora a scovarlo, aggiunse Matteo. In qualche vecchia casa, in certe sacrestie di campagna. Julie posò il bicchiere sulla tavola. Ancora un po’? fece Patricia. Oh sì, disse Julie. Très volontiers. Patricia restò con la bottiglia inclinata. Anche lei Matteo? disse. È una delizia, fece lui. Certo, come tutto qui… Perché non restate a cena, e Patricia guardò prima Matteo e poi Julie. Potrete così vedere la casa con tutto comodo. Avec grand plaisir, accettò subito Julie. Oui, con piacere… Per me va bene, disse Matteo. La tavola era ingombra di piatti e bicchieri, e un paio di bottiglie di sagrantino erano a fine. Attorno agli scartocci di fiamma svolacchiavano sciami di nottue e altri insetti della sera, alcuni avvampavano con un sottile sfrigolio. L’aria che saliva dal lago era impregnata dell’odore delle rose muschiate e del brusio euforico dei grilli. Siro e Patricia erano da una parte del tavolo, di fronte avevano Julie e Matteo. Julie, ascolti… Siro levò il braccio come per dare la battuta all’orchestra: I miei baci son lievi, ricordano le efimere che sfiorano a sera i laghi trasparenti… Fu Julie a proseguire: Et ceux de ton amant creuseront leurs ornières comme des chariots ou des socs déchirants… Matteo riprese, e guardò fisso Patricia: Ti passeranno sopra con zoccoli spietati come un pesante tiro di buoi o di cavalli… E lei a sua volta scandì: Per uno dei tuoi sguardi dall’incanto divino son pronta il velo ad alzare dei piaceri più oscuri… E Julie concluse: Et je t’endormirai dans un rêve sans fin! Be’, qui non ci annoiamo…, e Siro accennò a battere le mani. Patricia sorrise e si appoggiò alla spalla del marito. Un po’ di rocciata, poi domandò. Vi va?… è una specie di strudel di queste parti: mele, nocciole, noci, pinoli e uvetta… Una ricetta medievale, aggiunse. Che io ho un po’ rielaborato. Mia moglie è bravissima a scovarle, intervenne Siro. E ci scrive sopra dei libri di cucina che riesce perfino a vendere molto cari. Sarà certamente squisita, Patricia…, e Matteo tornò a guardarla. Vado a prendere i piattini, disse lei. Vengo ad aiutarla, si offrì lui e si alzò. Gli sguardi di Julie e Siro s’incrociarono. Lui la fissa, senza dire niente. Anche lei lo fa, una lunga occhiata senza un battito di palpebra. Poi si concentra sul bicchiere col lungo gambo che ha davanti, e con studiata lentezza passa il dito tutto intorno al bordo. Ne ricava un suono nitido, prolungato. Alza di nuovo la testa e torna a guardarlo… la fronte sensibile di lui, quel naso risolutamente arcuato. 16 Matteo è di ritorno con i piatti. Non c’è dubbio, annuncia. Anche l’interno è magnifico. Siro si alza. Potete visitare tutto, dice. Prende i piatti dalle mani di Matteo. Grazie, fa. Credo che una grappa morbida e asciutta sia quello che ci vuole a questo punto. Dovrei avere dell’eau de vie, non del Midi però. E allarga le braccia mimando il disappunto. È solo marc d’Alsace, aggiunge e ride. Patricia è all’acquaio, ha finito di disporre il dolce sul vassoio che ha messo sopra il tavolo e la cucina è un po’ in disordine. Sono venuto a prendere la grappa, dice Siro. Lei è di spalle. Ah sì, dice. Ma ha il pensiero altrove, e lo dà a vedere. Raccoglie meccanicamente le posate dal cestello che è da una parte, allunga un braccio e fa per porgergliele. Ma apre la mano prima che lui sia abbastanza vicino per prenderle. Al rumore che fanno cadendo si volge ed è quasi sorpresa. Patricia…!, e ora lui le si è avvicinato. Oh scusa, fa lei e lo guarda disorientata. E dopo un reciproco indugio si abbracciano. Un veloce abbraccio perché la porta si è aperta, sono entrati i loro ospiti. Ci ha preso freddo, dice Julie. Je souffre du froid. L’abito blu pervinca liscio e lungo è infatti abbastanza scollato. No, nessun gioiello e non ha neppure l’orologio al polso e i sandali in pelle argento con la striscia che attraversa il collo del piede hanno un tacco diritto. Che la slanciano. I fianchi s’inclinano sulle gambe con delle piacevoli curve. Nell’incerta luce là fuori questo insieme di particolari poteva anche sfuggire. L’aria rinfresca in fretta, dice Patricia. Anche se ormai siamo si può dire all’estate, aggiunge e va incontro a Matteo. Una grappa? gli domanda. Si guardano negli occhi. Sì, risponde lui e c’è nel tono un che di carezzevole. Grazie, Patricia. E si spostano nel soggiorno, all’angolo dov’è il carrello con bottiglie e bicchieri. Siro è al caminetto, ha un ginocchio a terra e sta per accostare il fiammifero alla carta sotto la pila di legna. Lo preparo fino dalla mattina, dice a Julie che gli sta accanto in piedi. Una fiammata, aggiunge lui mentre si alza. In serate come questa fa ancora un certo piacere. Posso andare al bagno? lei gli chiede. S’il vous plaît… Di sopra, lui le risponde. Si guardano. L’accompagno, aggiunge. Vous me suivez? Oui, fa lei. Je vous suis. Patricia e Matteo li osservano andar su per la scala di legno abbastanza stretta e che fa angolo con la parete. E tornano a guardarsi. Matteo ha il bicchiere in mano, lei ha posato la bottiglia. C’è un sospiro soffocato, e viene dal fondo di lei. Si guardano ancora, come per rilanciarsi uno stesso pensiero. È qui, dice Siro. E apre la porta. Sono sulla soglia, Julie gli passa davanti e appena lo sfiora. Resti pure, gli dice. Vous pouvez rester, si vous voulez… Sì, dice lui. Certo che lo voglio… Julie si scioglie con un gesto naturale i capelli, va a mettersi sul bidè. Rivolta verso di lui. Si sfila dalla testa l’abito, sotto non ha niente. Apre il rubinetto che ha dietro e guarda lui che la sta osservando. Poi si leva da lì, lui prende l’asciugamano. Glielo passa fra le gambe. Grazie, fa lei. Lui la tocca dove ha appena passato l’asciugamano. Scendiamo, le dice. Lei gli va dietro. Ha solo i sandali argento con l’alto tacco che scandisce la discesa di scalino in scalino. Il soggiorno Caffè Michelangiolo Prosa è ora rischiarato esclusivamente dal bruciante riflesso del caminetto. Siro si siede sul bordo di una poltrona, Julie gli si è accoccolata di fronte. Molto vicina e si sporge su di lui, si toccano. Gli prende il viso fra le mani e subito trova la sua bocca. Gli tira su la T-shirt e lui l’asseconda facendosela passare sopra la testa come lei aveva fatto nel bagno col proprio vestito, e subito tornano a cercarsi e si abbandonano a quella intimità abbagliata dal fuoco e che è un pulsare affannoso di ansimi. Dall’altra parte della stanza, con la schiena alla parete, Patricia si tiene diritta e ha un piede sul bracciolo del divano e il ginocchio scoperto piegato in avanti come a offrirlo alle lingue della fiamma, e la oscura veste alzata e cedevole sul seno fa l’effetto di un insidioso drappeggio su quella candida carne. Matteo è in ginocchio, nudo. E ha la faccia affondata in lei, nel più intimo di lei. Che tiene la testa leggermente girata, col mento levato sul bianco collo in tensione e le dita convulse nei capelli di lui. E sogguarda il marito e l’altra con un riverbero che resta nella pupilla, in un crescere quasi angoscioso del respiro. Lui innanzi e lei subito dietro, Matteo e Julie vennero giù per la scala fra i bruschi scricchiolii del legno. Si erano rivestiti e lui aveva i capelli umidi tirati indietro. Sull’ultimo gradino si volse e sorrise a Julie. Anche lei si era soffermata, gli appoggiò la mano sulla spalla in un gesto complice e gli sorrise. Siro e Patricia li aspettavano. Nel soggiorno le lampade erano state riaccese e il fuoco ravvivato. Il grosso ceppo aggiunto faceva balenare una fiamma bluastra dalle liquide movenze. Allora…, disse Matteo. Allora grazie dell’ospitalità. Non volete finire di cenare? propose Patricia. Il dolce… Grazie, disse Julie. Nous avons encore beaucoup de route à faire. E poi non mi piace guidare di notte, intervenne Matteo. Specialmente di sabato. Patricia dette un’occhiata d’intesa a Siro. Magari sarà per un’altra volta, disse. Ci dispiace, disse Matteo. Ma noi non rivediamo mai nessuno. Sì, fece Siro. Sì, capisco… Allora, disse Patricia. Buona fortuna… A vous aussi, disse Julie. E grazie ancora, ripeté Matteo. Ça a été tres agreable, aggiunse Julie. Siro e Matteo si guardarono e fra loro ci fu un rapido abbraccio. E anche Patricia e Julie si abbracciano, poi Matteo bacia Patricia sulla bocca. Allo stesso modo Siro bacia Julie, e tutti e due chiudono gli occhi mentre lo fanno. Matteo dà ancora la mano a Patricia, la sinistra. E lei gliela trattiene, prima di lasciarla accompagnandola. Sono già alla porta Matteo e Julie, quando Siro dice: Volevate davvero vedere la casa? Matteo si volge. Ah sì, risponde. Sì, sì… Cet endroit nous plait beaucoup, dice Julie. Il posto ci piace, oui… mais tout ne vas pas toujours comme on le voudrais. Vi capita spesso? dice Patricia. Voglio dire, questo tipo d’incontri… Des fois, dice Julie. Le samedi soir… Ma di rado per caso, aggiunge Matteo. Come stasera. Oui, ripete Julie. È stato davvero… davvero molto bello. Un plaisir. Caffè Michelangiolo Fate attenzione alla strada, dice Patrizia. Faites attention… Il telefono si fece sentire mentre cominciavano il dolce, seduti al tavolo di cucina e con il bicchierino davanti di Marc d’Alsace Gewurztraminer. Conoscevano Baudelaire, Patricia aveva appena osservato. Sì… non erano dei banali, aveva detto Matteo. Patricia andò a rispondere. E quando fece ritorno, annunciò: Anna e Michele si sposano, mi ero dimenticata di dirtelo. Lo sapevo da una settimana, e scosse la testa. I capelli si ammassarono sul viso, e lei con le due mani insieme se li ricompose ai lati. Mi era passato, aggiunse. Adesso era Carolina, mi chiede di essere la testimone di Anna. Dovrai farle un grosso regalo, commentò lui. È l’unica figlia che lei e Gianfranco hanno e lui ci stravede. E quando sarà? Ad agosto, rispose Patricia. Tornò a sedersi, lui si portò il boccone alla bocca e un attimo guardò sua moglie. È il loro turno, disse. Il nostro…, fece poi. Quanto tempo fa è stato? Anche lei prelevò col cucchiaino un pezzetto di rocciata. I figli…, sospirò Siro. Forse è stato un male non averne avuti. Ormai, fra noi… conosciamo tutti i codici d’ingresso. Non c’è più sorpresa. Non so, disse lei. È come quel caldo avvolgersi nel vecchio caro accappatoio… è sempre una confortante sensazione, soggiunse. Ti ridà fiducia. Patricia raccolse i due piatti e le posate e li dispose nella lavastoviglie. Il resto che è rimasto fuori lo metto a posto domattina, disse e prese con sé il bicchierino della grappa. Vado su in studio, soggiunse. Ho quasi terminato il capitolo sulla cucina rustica. Devo farci solo qualche aggiunta e poi rivederlo qua e là. Sì va bene, disse lui mentre riaccostava le sedie alla tavola. Ah Siro, fece lei. Si era soffermata a metà della scala, e si era voltata. Sì, Patricia. Cosa c’è? Stavo pensando… Che cosa? … perché vendere, dopotutto? Infatti, acconsentì Siro. Possiamo benissimo continuare a vivere qui. Niente m’impedisce di andare su e giù con Roma. Faccio solo il semestre, e posso sempre trovare un pied-à-terre e così qualche volta anche tu puoi venirci. Proprio così, disse Patricia. Sarà anche più bello poi ritornarcene qui. Nel portico le candele si saranno ormai spente da sé, disse Siro. Vado a vedere, poi faccio quattro passi. Però mettiti qualcosa, si raccomandò Patricia. ■ È stellato, disse Siro. Ed è uscita anche la luna. NOTA Come i precedenti, Compleanno in famiglia e Tutti gli orologi fermi, usciti su “Caffè Michelangiolo” rispettivamente n. 3, anno X (settembredicembre 2005) e n. 1, anno XII (gennaio-aprile 2007), anche Il tempo che passa, il tempo che c’è è tratto dalla stessa raccolta ancora inedita. Il racconto si ispira liberamente al film Peindre ou faire l’amour dei fratelli Arnaud e JeanMarie Larrieu, con Sabine Azéma, Daniel Auteuil, Amira Casar, Sergi López. 17 Profili La scomparsa di Antonioni e di Bergman maestri di quell’azzardo chiamato cinema RIEN NE VA PLUS di Sandro Melani I l 30 luglio di quest’anno, a poche ore di distanza l’uno dall’altro, sono scomparsi Ingmar Bergman (Uppsala, 14 luglio 1918) e Michelangelo Antonioni (Ferrara, 29 settembre 1912), il primo sull’isola di Fårö, il secondo nel suo appartamento romano. Non so se sul piano astrologico la coincidenza possa nascondere una rilevanza significativa, di qualsiasi genere possa essere, ma certo è che, ora che entrambi, al pari del cavaliere del Settimo sigillo, hanno perduto la partita a scacchi con la morte, il cinema è stato privato di altri due artefici della sua storia. E senza timore di offendere nessuno aggiungerei che, nonostante il discutibile risultato delle sue ultime prove, con Antonioni il cinema italiano ha detto addio all’ultimo Maestro che gli fosse rimasto dopo la morte, in meno veneranda età, di Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Roberto Rossellini e Federico Fellini. Forse, adesso, sulla scia tracciata dalla suggestione della coincidenza del loro decesso molti cederanno alla tentazione di cercare di fare il punto, in via più o meno definitiva, su quanto, al di là del pessimismo esistenziale che li contraddistingue, li possa in qualche modo accomunare, a dispetto della loro formazione in contesti culturali che si presentano se non assolutamente inconciliabili di sicuro profondamente dissimili l’uno dall’altro. Antonioni, dunque, era adolescente negli anni del pieno rigurgito nazionalistico dell’Italia provinciale del primo dopoguerra, ma adulto allorché tanti poterono cominciare ad assaporare e a condividere l’ansia di rinnovamento offerta dalla cultura antifascista e, sul versante specifico della cinematografia, dalla corrente del neorealismo, magari fin dalle sue anticipazioni con i film di Alessandro Blasetti. Allievo a Roma del Centro Sperimentale di Cinematografia, sceneggiatore, tra gli altri, di Un pilota ritorna 18 Michelangelo Antonioni durante le riprese di L’Avventura, con Gabriele Ferretti e Lea Massari. (1942) di Rossellini – e sceneggiatore tornerà ad essere con Caccia tragica (1947) di Giuseppe De Santis e con Lo sceicco bianco (1952) di Fellini – dopo essere stato assistente di Marcel Carné in Les visiteurs du soir (L’amore e il diavolo, 1942), approdò alla re- gia con due cortometraggi, Gente del Po (1943-47) e N. U. (1948), seguiti infine dal suo primo film, Cronaca di un amore (1950), un noir di ambientazione milanese che faceva già chiaramente avvertire che il suo cinema si sarebbe progressivamente distaccato dai moduli neorealistici per entrare in una dimensione di impianto introspettivo, quella dimensione di cui Il Grido, analisi della crisi sentimentale ed esistenziale di Aldo (Steve Cochran), un operaio della Padania che pone fine al suo calvario interiore gettandosi dalla torre di una raffineria, sarebbe stata la conferma definitiva. Bergman, dal canto suo, aveva alle spalle da un lato il severo retaggio della tradizione protestante, dall’altro la lezione intimistica del teatro scandinavo, Strindberg in particolare, e da entrambe le parti gli giungeva quindi un pressante invito allo scavo interiore. Sul piano strettamente cinematografico questo bagaglio culturale era inoltre arricchito dalla conoscenza del cinema di Victor Siöström – l’indimenticabile professor Isak Borg che nel Posto delle fragole è costretto a fare il rendiconto della sua esistenza nel momento stesso in cui, quando è ormai vicino alla morte, si celebrano i suoi cinquant’anni di attività professionale – e, anche nel suo caso, l’esperienza del realismo poetico francese e dell’opera di Carné. Una riconsiderazione complessiva, per quanto rapida, della loro filmografia non può non condurre alla constatazione di come al centro dei loro interessi stia il disagio profondo non tanto di una specifica classe sociale, nonostante l’attenzione sia spesso focalizzata sulla borghesia, quanto del singolo individuo, uomini e donne colti nel ferreo isolamento della loro crisi dei sentimenti e della loro incapacità di rapportarsi all’altro e fotografati con uno sguardo di insuperata lucidità nel suo programmatico distacco che, nel caso Caffè Michelangiolo Profili di Antonioni, si rivela capaalla definizione della realtà ce di rielaborare l’esperienesterna ma del paesaggio inza del documentarista in teriore dei personaggi, di funzione di una impietosa quella loro essenza che poradiografia del mondo intetrebbe anche essere definita riore del personaggio. Colla loro anima. Probabilmenpisce poi il comune impulso te non può che essere grigia a confrontarsi con tecniche l’anima di una donna ormai di ripresa diverse: se Bergsprofondata nella nevrosi e man non disdegna di cinella depressione come Giumentarsi a più riprese con il liana (Monica Vitti) in Delinguaggio della televisione serto rosso, ma per Berge di presentare poi sullo man, come ebbe modo di schermo versioni ridotte del dichiarare, il suo colore era materiale girato per il picil rosso, come se l’anima colo schermo – ed è il caso Monica Vitti e Marcello Mastroianni in una scena tratta da La Notte, la pellicola fosse una sorta di membradi Scene da un matrimonio firmata da Michelangelo Antonioni nel 1961, che fa parte della tetralogia iniziata na protettiva di un’essenza e di Fanny e Alexander – con L’avventura (1960) e proseguita con L’eclisse (1962) e Deserto rosso (1964). ancora più delicata e preAntonioni sceglie di trasporziosa. re sullo schermo L’aquila a due teste di vergine o al più recente passato di SusIn ultima analisi si tratta dunque Jean Cocteau sperimentando nel Mi- surri e grida e dell’autobiografico di una questione di empatia. Confesso stero di Oberwald le possibilità offerte Fanny e Alexander. A questo punto per allora che, ferma restando l’ammiradall’uso del colore elettronico. Certo, le ogni cinefilo sarà allora un gioco intri- zione per la profondità dell’indagine e somiglianze sono a loro volta stretta- gante rovistare nel proprio archivio fil- l’estremo rigore formale della trilogia mente legate alle divergenze: Antonio- mico per individuare quale opera del dedicata al dubbio esistenziale e relini, a differenza di Bergman, non af- cantore della tragedia dell’alienazione gioso e all’angosciante solitudine delfronta in nessun film problematiche e dell’incomunicabilità e quale tra l’uomo in un mondo in cui Dio si rifiureligiose, che addirittura sembra gli quelle dell’angosciato testimone del si- ta di lasciare un segno chiarificatore e siano del tutto estranee, mentre Berg- lenzio di Dio possano vantarsi di esse- consolatorio della sua presenza, la triman, a differenza di Antonioni, rivolge re l’epitome della loro visione del mon- logia, cioè, costituita da Come in uno il suo sguardo non solo alla contempo- do o del loro modo di puntarvi sopra lo specchio – “Perché ora vediamo attraraneità ma anche al cupo Medioevo del sguardo e, subito dopo, l’obiettivo del- verso uno specchio scuro; ma poi faccia Settimo sigillo e della Fontana della la macchina da presa. È naturalmente a faccia: ora conosco solo in parte; ma assai probabile che le risposte siano quanto mai discordi, non foss’altro alla luce di una prima linea di discriminazione: li rispecchia maggiormente il rigoroso bianco e nero della prima parte della loro filmografia o, per Antonioni, il colore di Deserto rosso, così dimesso nelle sue tonalità grigiastre che tanto ricordano le tele di Giorgio Morandi, e, per Bergman, quello di Sussurri e grida, con il suo netto e tagliente contrasto tra il rosso delle pareti della casa in cui si consumano l’agonia e la morte di Agnese (Harriet Andersson), il nero imposto solo dalle convenienze degli abiti da lutto delle due sorelle (Ingrid Thulin e Liv Ullmann) e il bianco delle lunghe vesti femminili delle tre donne che definisce cromaticamente uno degli ultimi e più intensi momenti di illusoria felicità della malata? Che dietro la macchina da presa ci sia Carlo Di Palma o Sven Nykvist, si tratta in ogni caso di un colore reinventato antinaturalistica- Ingmar Bergman fotografato con Bibi Andersson, Vanessa Redgrave nella parte di Jane, la donna mente e funzionalizzato quindi non 1975. misteriosa e sfuggente di Blow-up. Caffè Michelangiolo 19 Profili La locandina de Il settimo sigillo (1956). Prima di diventare il film che avrebbe consacrato nel mondo la fama di Ingmar Bergman, era un’opera teatrale intitolata Trämalning (Pittura su legno). poi conoscerò come anch’io sono conosciuto” (Lettera di san Paolo ai Corinzi, 13: 12) – Luci d’inverno, da molti critici considerato la vetta più alta raggiunta da Bergman, e Il silenzio, a Jack Nicholson nel film Professione: reporter, girato da Michelangelo Antonioni nel 1975. 20 suo tempo vittima degli strali della sessuofobica e miope censura italiana, le mie preferenze vanno ai film con cui, sul finire degli anni Cinquanta, ho iniziato a conoscere Bergman. Vanno quindi alla parabola medievale, funebre e vitale, tragica e ridente del Settimo sigillo, con il tormentato cavaliere dal volto ascetico Antonius Blok (Max von Sydow) che torna dalle crociate in compagnia del suo fedele, ateo e irriverente scudiero (Gunnar Biörnstrand) per perdere sì la partita a scacchi con la morte ma al tempo stesso vincerla grazie alla sua capacità di distogliere l’attenzione dell’avversario dalla fuga della compagnia degli attori, insieme ai quali attraversa per un breve momento un paese devastato dalla peste e sconvolto dal fanatismo religioso dei flagellanti. Oppure vanno alla fluidità narrativa di quella sorta di on the road nel tempo e nello spazio che è Il posto delle fragole, in cui il realismo degli incontri del professor Borg – con i tre giovani in vacanza e alla scoperta delle difficoltà dell’amicizia e dell’amore, con la coppia travolta dall’asprezza della loro irreversibile crisi coniugale e con la vecchia madre rinserrata nel gelo del suo egoismo e dei suoi sferzanti giudizi – l’espressionismo del macabro sogno premonitore di una morte sempre più prossima e la poeticità nostalgica del ritorno, condotto sul filo della memoria, verso un passato che non può più essere corretto e verso il vagheggiato posto delle fragole si fondono in una sintesi ammirevole e struggente. Ancor più netta si fa poi per me la scelta nel caso di Antonioni, di cui meno apprezzo il tentativo di catturare il genius loci di un luogo in un particolare momento della sua storia, sia esso quello della swinging London di Blow up o dell’America contestatrice di Zabriskie Point degli anni immediatamente successivi alla sommossa studentesca di Berkeley, anche se mi rendo ben conto che lo spirito del luogo non costituisce certo l’intento centrale dei due film in questione, le cui ambizioni travalicano i confini naturali del reportage documentaristico d’autore. Non amo molto nemmeno l’assunto pirandelliano dell’inafferrabilità della realtà, implicito nella surreale partita a tennis senza pallina che conclude Blow- up proiettando l’ombra del dub- Fotogramma del film del 1955 Sogni di donna, di Ingmar Bergman, con Eva Dahlbeck, Harriet Andersson, Gunnar Bjornstrand, Ulf Palme, Inga Landgré. bio anche sul delitto di cui il fotografo di patinate riviste di moda (David Hemmings) è convinto di essere stato testimone, o della stessa identità dell’individuo, che in Professione: reporter, quasi a ripetere l’esempio di Mattia Pascal/Adriano Meis, David Locke (Jack Nicholson) si reinventa assumendo le vesti del defunto trafficante d’armi David Robertson fino al tragico Liv Ullmann. Nata a Tokyo nel 1939, ricevette una educazione internazionale. Venne scelta da Bergman, incontrato per caso a Stoccolma, per il ruolo dell’attrica afasica nel film Persona (1966). Ha vissuto per cinque anni con il regista a cui ha dato una figlia. Caffè Michelangiolo Profili finale filmato in uno dei più celebri piani sequenza della storia del cinema. Anche stavolta quello che continua a imporsi con la stessa forza della rivelazione di allora è l’Antonioni dei primissimi anni Sessanta, l’Antonioni dell’Avventura, primo capitolo della trilogia dell’incomunicabilità seguito dalla Notte e dall’Eclisse (ma per alcuni bisognerebbe parlare di una tetralogia, aggiungendovi Deserto rosso). Se Cronaca di un amore può essere considerato a suo modo un noir, L’avventura è un geniale giallo senza soluzione, orchestrato nei meandri dell’interiorità di tre esponenti dorati della borghesia romana. Di Anna (Lea Massari), improvvisamente sparita tra gli scogli brulli di Lisca Bianca durante una crociera su uno yacht privato, non vi potrà essere più traccia solo perché è stata cancellata dai sentimenti e dall’affettività di Sandro, suo fidanzato ed esangue architetto senza più idee (Gabriele Ferzetti), e, sebbene con sprazzi di conflittualità che scaturiscono da un residuo di eticità, della sua amica Claudia (Monica Vitti). Il loro incontro erotico e sentimentale, immediatamente successivo alla scomparsa di Anna, non può portare che allo sconfortante silenzio e alla lunga pausa contemplativa delle ultime immagini, girate sulla terrazza dell’Hotel san Domenico di Taormina, quando Sandro e Claudia si rendono conto che dalle ceneri di Anna, inghiottita nel vuoto senza lasciare traccia di sé, non è nato niente e che anch’essi possono subire la stessa sorte e regalare la propria assenza all’indifferenza di un mondo che non può più provare nessun sentimento, al massimo un effimero, transitorio e in fondo inutile senso di colpa. Con L’avventura Antonioni imponeva al cinema non solo italiano una svolta determinante, creando uno stile personalissimo quanto quello del suo collega svedese, uno stile che sarebbe stato da lui stesso riproposto con esiti spesso felici, come nella Notte la lunga passeggiata solitaria di Lidia (Jeanne Moreau) in una Milano estiva e semideserta o l’accorato riconoscimento della fine del suo matrimonio con l’intellettuale Giovanni Pontano (Marcello Mastroianni) nella luce livida di un’alba in Brianza, o come nell’Eclisse le immagini composte di sole “cose” che nella loro desolazioCaffè Michelangiolo Una inquadratura tratta da Il settimo sigillo, firmato da Ingmar Bergman nel 1956: grande affresco medievale, ispirato alle pitture delle chiese e alle saghe popolari, è il manifesto della poetica bergmaniana, fra amore e morte, speranza e angoscia, uomo e Dio. ne rendono consapevole lo spettatore della dissoluzione del rapporto sentimentale tra Piero (Alain Delon) e Vittoria (Monica Vitti). Altre volte il cinema di Antonioni sarebbe stato minato da un eccesso di rarefatto intellettualismo e dalla smaccata letterarietà dei dialoghi, ma niente avrebbe potuto sminuire la portata dell’originalità del suo modo di fare e concepire il cinema. E ne è una riprova finale lo scoperto omaggio che oggi gli viene offerto dalla cinematografia orientale con i film di ■ Tsai Ming-liang e Kim Ki-duk. Una scena tratta da Fanny e Alexander, del 1982, congedo e testamento di Bergman, uomo di cinema, e compendio di trent’anni di lavoro all’insegna di un altissimo magistero narrativo (ebbe quattro Oscar). Divisa in cinque capitoli, è la storia della famiglia Ekdahl di Uppsala tra il Natale del 1907 e la primavera del 1909 con una sessantina di personaggi, divisi in quattro gruppi, che passa per tre case e mette a fuoco tre temi centrali: l’arte (il teatro), la religione, la magia. 21 Profili UN FILM NON È UN LIBRO FILMOGRAFIE Non essendo coinvolto in prima persona, credo di poter serenamente esprimere qualche riflessione provocata dalla recensione di Irene Bignardi su Al di là delle nuvole. In primo luogo penso sia stato un errore (di vari critici, non soltanto suo) porsi di fronte al film «en critique». Un’occasione rara per i critici di prendersi un attimo di vacanza, sospendere l’automaticità professionale del giudizio e dirsi: non si va a vedere Antonioni, oggi, per giudicarlo, ma per assorbire, godere e farsi coinvolgere dal meglio che ancora riesce a darci un autore fondamentale nella storia del cinema. Già è un miracolo (lo dico senza facile commozione e pietismo) la vittoria di Michelangelo nella lotta contro l’impedimento fisico, così sapientemente elaborato, che lo ha bloccato per dieci anni. Lo sforzo pesantissimo di pensare, scrivere, girare, montare e accompagnare il suo film è bilanciato dalla leggerezza che fa pensare a Giacometti. Sarebbe bastato un briciolo di “cinephilie”, di quel sentimento che accomuna tutti quelli che si ricordano che «le travelling est un affaire de moral» per capire fin dal primo episodio, anche se il meno felice, che Antonioni è riuscito con successo a ricollegarsi al suo periodo più ispirato e più prolifico, quello che va dall’Avventura fino a Deserto rosso. Quasi tentando di chiudere l’ultimo tratto di un cerchio, Antonioni, oggi come allora, mantiene una misteriosa costante tensione poetica, anche nei momenti meno riusciti, con il vezzo, oggi come allora, di seminare qua e là il film di dialoghi così letterari da suscitare il sorriso. Ai tempi della Notte e dell’Eclisse lo sceneggiatore non era Tonino Guerra che dunque non accuserei ingiustamente: sono parole di Antonioni ed è lui, oggi come allora, a prendersene la responsabilità. Chi non si ricorda le sghignazzate di Arbasino negli anni Sessanta, mentre la Vitti diceva «mi fanno male i capelli». Ma anche ad Arbasino, così sottile, così immensamente colto, mancava il dono della “cinephilie”. Un film non è un libro e le regole di analisi e di valutazione sono altre e diversissime. Vale la pena di ricordarlo, nella giungla di inutili e fastidiose celebrazioni del centenario, quando arriva Antonioni con un film pieno di speranza nel mezzo cinematografico. Bernardo Bertolucci Michelangelo Antonioni (6 settembre 1995) 22 1950: Cronaca di un amore 1952: I vinti 1953: L’amore in città (episodio “Tentato suicidio”); La signora senza camelie 1955: Le amiche 1957: Il grido 1960: L’avventura 1961: La notte 1962: L’eclisse 1964: Deserto rosso; I tre volti (episodio “Prefazione”) 1966: Blow Up 1970: Zabriskie Point 1974: Professione: reporter 1981: Il mistero di Oberwald 1982: Identificazione di una donna 1995: Al di là delle nuvole 2004: Eros (episodio “Il filo pericoloso delle cose”) La locandina del film L’avventura di Michelangelo Antonioni (sceneggiatura dello stesso regista, con Elio Bartolini e Tonino Guerra), prima proiezione a Bologna nel settembre 1960. David Hemmings nei panni del fotografo alla moda di Blow-up, l’ermetico film di Antonioni che coglie l’atmosfera della “Svinging London”. Ingmar Bergman 1946: Crisi; Piove sul nostro amore 1947: Musica nel buio; La terra del desiderio 1948: Città portuale 1949: Prigione; Sete; Verso la gioia 1950: Ciò non accadrebbe qui; Un’estate d’amore 1952: Donne in attesa; Monica e il desiderio 1953: Una vampata d’amore 1954: Una lezione d’amore 1955: Sogni di donna; Sorrisi di una notte d’estate 1956: Il settimo sigillo 1957: Il posto delle fragole 1958: Alle soglie della vita; Il volto 1959: La fontana della vergine 1960: L’occhio del diavolo 1961: Come in uno specchio 1963: Luci d’inverno; Il silenzio 1964: A proposito di tutte queste… signore 1966: Persona 1968: L’ora del lupo; La vergogna 1969: Passione; Il rito (film tv) 1971: L’adultera 1972: Sussurri e grida 1973: Scene da un matrimonio 1974: Il flauto magico 1976: L’immagine allo specchio 1977: L’uovo del serpente 1978: Sinfonia d’autunno 1980: Un mondo di marionette 1982: Fanny e Alexander 1983: Dopo la prova (film tv) 1986: Il segno (film tv) 1997: Vanità e affanni 2000: Il creatore di immagini (film tv) 2003: Sarabanda (film tv) Caffè Michelangiolo Vetrina Su Graham Swift, narratore di spicco nel panorama contemporaneo inglese, ritornando al suo The Light of Day (La luce del giorno) LA CORDA PAZZA di Elisa Zampetta I nsieme a Ian McEwan e Kazuo Ishiguro, Graham Swift è uno degli autori britannici contemporanei più noti e importanti. La sua fama risale al 1983 col romanzo storico di ampia riflessione postmoderna Waterland (insignito del Guardian Fiction Award e del Winifred Holtby Memorial Prize e uscito in Italia presso Garzanti, Il paese dell’acqua), ed è stata definitivamente sancita nel 1996 con il riconoscimento più prestigioso per un romanziere inglese, l’assegnazione del Booker Prize per Last Orders (versione italiana Feltrinelli, Ultimo giro), nonostante le polemiche scaturite per una vicenda troppo simile a quella narrata da William Faulkner in As I Lay Dying (versione italiana Adelphi, Mentre morivo). Di Swift è da poco apparso l’ultimo lavoro, Tomorrow, incentrato sulle riflessioni notturne di una madre che giace insonne accanto al marito, perché deve rivelare il giorno dopo – il domani del titolo – ai suoi due figli gemelli qualcosa del passato familiare che potrebbe cambiare completamente il corso delle loro esistenze. A giudicare dalle prime recensioni, il romanzo non ha suscitato però reazioni positive in Inghilterra. Si è parlato di “disappunto” (Carol Birch, su “The Independent”, 27 aprile 2007) e “delusione” (Adam Mars-Jones su “The Observer”, 8 aprile 2007), soprattutto se messo a confronto col precedente The Light of Day (La luce del giorno, Feltrinelli, 2003), che impiegava la stessa tecnica narrativa e poneva gli eventi in una locazione temporale molto simile: qui una sola, intera notte, lì un’unica, intera giornata. Fra tutti i recensori, il più sarcastico e pungente è stato senz’altro Tim Martin su “The Independent” del 15 aprile 2007, il quale, con un riferimento assai poco implicito, ha così concluso la propria recensione: «nonostante le virtù di questo soliloquio notCaffè Michelangiolo Graham Swift. Graham Swift è nato a Londra nel 1949. Ha studiato letteratura alla Cambridge University e alla York University. Tradotto in più di venti lingue, è considerato uno dei maggioriautori inglesi viventi. Ha vinto numerosi premi, tra cui il Guardian Fiction Award e il Premio Grinzane Cavour per Il paese dell’acqua (Garzanti 1986), il Prix du Meilleur Livre Étranger per Per sempre (Einaudi 1995) e il Booker Prize 1996 per Ultimo giro (Feltrinelli 1999), da cui è stato tratto il film di Fred Schepisi L’ultimo bicchiere. È stato pubblicato in Italia anche Via da questo mondo (Garzanti 1990). Dopo sette anni di silenzio è uscito The Light of Day, in edizione italiana presso Feltrinelli nella traduzione di Vincenzo Mantovani (2003). Tomorrow è il suo ultimo lavoro, non ancora apparso in Italia. turno, ci si sente sollevati quando fuori si vede riapparire la luce del giorno». Torniamo dunque a La luce del giorno e al suo scenario estremamente mutevole, nel quale si rincorrono immagini di episodi presenti e passati, reali e ipotetici della vita di un detecti- ve privato espulso dal corpo di polizia per una falsa accusa di corruzione, George Webb, il quale, trascinato nel flusso dell’esistere cui non riesce a dare un senso, si trova improvvisamente coinvolto non solo in un’indagine investigativa commissionatagli da Sarah Nash, donna affascinante e misteriosa, ma anche e soprattutto in un rapporto di amore totale. Sarah, avendo saputo che la ragazza croata con la quale suo marito Bob intrattiene una relazione sentimentale sta per tornare al proprio paese d’origine, ha incaricato George di accertare che l’uomo non fugga con la giovane. Il detective controlla che i due amanti si lascino, ma, quando Bob ritorna a casa, Sarah, resasi conto di averlo perso sentimentalmente, spinta da un istinto irrefrenabile, lo uccide. Webb, a distanza di due anni dall’accaduto, seduto su una panchina in attesa di far visita alla donna che ama, rinchiusa in carcere, ricostruisce, in un susseguirsi di flashback della memoria, gli eventi che hanno cambiato la sua vita. In sessantasette brevi capitoli, costituiti ciascuno da paragrafi ruvidi, scarni, instabili, in cui si succedono con ritmo incalzante frasi brevi, brevissime, dialoghi sintetici, concisi e talora disorientanti, Swift foggia un’originale struttura a mosaico dalla quale traspare e nella quale si fonde lo spirito dubbioso del protagonista-narratore. Da un delitto noto, destreggiandosi con abilità tra sentimenti e quotidianità, Swift fa scaturire suspense, in un progredire asciutto e contemporaneamente intenso, con una prosa efficace e decisa, consumata in un continuo presente. Il linguaggio è denso, essenziale e, seppure costellato di interiezioni, riesce a tessere una trama intrecciata con un disegno ipotetico, a creare inalterabili percorsi dell’immaginazione. Più volte, si delinea tra le righe del romanzo una sorta di flusso di 23 Vetrina coscienza, pervaso da un continuo interrogarsi, in uno scorrere di sensazioni e associazioni mentali. E la frase diviene spezzata, talora ellittica del verbo, difficilmente interpretabile da chi non cerchi di condividere il vissuto dei personaggi. Si intuisce, sotteso allo stile di Swift, un paziente lavoro, quasi artigianale, un metodo di ideazione che, citando le parole di Italo Calvino, non si realizza «per folgorazione improvvisa, ma […] di regola vuol dire una paziente ricerca del “mot juste”, della frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di significati»1. Attraverso acrobatiche fantasie, avvincenti situazioni, contraccolpi di intere vite, rallentamenti improvvisi, il tempo del raccontare si dilata all’interno di intime retrospezioni e, come in uno scritto della reminiscenza, esso non individua una sequenza cronologica ma si sposta avanti e indietro, tra realtà e congettura, teso a collegare il passato del protagonista con quello di persone a lui vicine. Così le figure di Rachel, l’ex moglie, di Helen, figlia ribelle, di Rita, la segretaria, di altri che hanno condiviso il vivere di George emergono da un passato ancora coinvolgente. E proprio l’intreccio di più vite e la compresenza di piani temporali diversi fanno sì che uno spazio ristretto di tempo, una sola giornata – analogamente a quanto accade, ad esempio, nei romanzi Mrs. Dalloway di Virginia Woolf o nell’Ulisse di Joyce – pervada un intero romanzo, dilatandosi attraverso la coscienza del protagonista, per il quale la riscoperta del proprio passato non è solo un’ossessione, ma un’urgenza di vita. Nonostante la labilità delle cose e delle persone, qualcosa dura: l’interiorità individuale serba una traccia indelebile di tutte le esperienze, liete o dolorose, attraverso le quali la vita trascorre. Lo stesso bisogno di Swift di creare, per il suo romanzo, un’ambientazione geograficamente individuabile, l’ufficio nella Broadway di Wimbledon, la casa in Fulham Road, il parco a Chislehurst Common, il cimitero a Putney Vale, l’aeroporto di Heathrow, le strade metropolitane, Worple Road, St Mary’s Road, Wimbledon Parkside, sembra voler soddisfare una necessità di certezze 24 reali alle quali ancorare le incertezze dei personaggi. La mancanza di attendibilità, di una concezione della realtà ben definita e chiara porta a riconoscere che l’esistere è un continuo mutare, maturare, creare nuovamente se stessi e, serbando integralmente l’intero passato, trovarsi, non potendo vivere più vite, a La copertina di La luce del giorno (The Light of Day), pubblicata in Italia da Feltrinelli (prima edizione ne “I Narratori” ottobre 2003) nella traduzione di Vincenzo Mantovani. operare delle “scelte”. L’autore conduce i propri personaggi ad agire in base a queste intuizioni che alle volte non nascono dalla ragione, ma da un connettersi di eventi. Verrebbe da domandarsi: sono forse frutto del caso? La fatalità svolge un suo ruolo? L’uomo è completamente libero nel vagliare le alternative che gli si offrono? «Come succede? Come si compie la nostra scelta? Qualcuno entra nella nostra vita, e non possiamo più vivere senza di lui o senza di lei. […] Come se fossimo solo la metà di noi stessi e non l’avessimo mai saputo»2. È un groviglio insolubile. Libero arbitrio e casualità: i due opposti che si annodano, mentre si frappongono l’uno all’altro. Come si può essere liberi di agire in un mondo casualmente determinato? In cosa consiste la responsa- bilità morale? Per Swift, come per gran parte della filosofia contemporanea, non esiste più l’identificazione tra determinismo e ineluttabilità e indeterminismo ed eluttabilità. Questa alternativa viene superata ampliando l’idea soggettiva di libertà, che scaturisce non solo dalla razionalità, dalla coscienza morale, ma, inglobando emozioni, passioni, disposizioni naturali dell’individuo, anche dall’interazione con il mondo sociale. L’insicurezza e problematicità della vita dell’uomo, il quale continuamente si trova di fronte all’enigma delle possibilità da prediligere e realizzare, nasce dalla ricerca incessante di una realtà stabile, sicura, luminosa, quella realtà cui anche George aspira. Egli, in tutto il romanzo, combatte con la propria coscienza per cercare, prima di tutto dentro di sé, una verità che continua a sfuggirgli, per trovare, rimuginando sul passato, la vera origine delle azioni. E sembra lo faccia con una ossessione scientifica, attraverso l’analisi approfondita e minuziosa delle circostanze e dei loro attori: «Ogni momento, ogni indizio. Riviverlo. […] Cercando di trovare il punto dove la sequenza avrebbe potuto essere diversa, dove avrebbe potuto prendere un’altra direzione» (p. 169). Solo alla fine lo scrupoloso detective capirà che non è possibile dare una spiegazione a tutto, ma che occorre accettare le ambivalenze della vita; e l’antieroe, dubbioso, insicuro, incapace di definire la sua stessa identità si trasforma nell’eroe romantico: l’amore per Sarah, sorto in lui visceralmente, vi si radica così a fondo da fargli scoprire una nuova dimensione dell’esistere fatta di dedizione, di attesa, di speranza. La tensione del narrare, che ha il suo punto culminante, la Spannung, nel momento dell’omicidio, si scioglie nella ritrovata serenità di George: «Esiste una vita, comunque, che non sia per metà fatta di attese? Costellata di detenzioni? “Vale la pena di aspettare”» (p. 115). In fondo i personaggi de La luce del giorno potrebbero tranquillamente essere attori, con quel loro entrare e uscire dalla scena dei ricordi, col loro pensare e poi ripensare, con l’intreccio scambievole di vite, con l’indugiare nella riflessione sulla complessità delCaffè Michelangiolo Vetrina l’esistere, con la doppiezza dei comportamenti. Tutti cercano qualcosa, apparentemente al di fuori di se stessi, per esorcizzare una condizione di solitudine interiore, quella stessa che accomuna entrambi i protagonisti: l’uno, George, allontanato dal lavoro e dalla famiglia, l’altra, Sarah, tradita dal marito, vivono nell’inquietudine che nasce dal proprio isolamento. A questa situazione si contrappone l’attesa della luce del giorno, costantemente intesa nella tradizione letteraria come esempio di sopravvivenza, rinascita alla vita. L’incontro tra i due, irrompendo improvvisamente nei loro destini, diviene occasione di speranza, ipotesi consolatoria. Il buio dell’esistenza viene illuminato dalla scoperta di un senso da dare a essa. «Siamo cacciatori, ecco quello che siamo, sempre all’inseguimento, alla ricerca della cosa che manca, la parte mancante della nostra vita» (p. 115). Pensiero questo che conduce l’autore non al senso di negatività e annientamento dell’essere, ma all’ottimismo di una ritrovata serenità, emersa dolorosamente e con difficoltà dallo scandagliare continuo nell’intimo della coscienza, smarrita di fronte alle incomprensibili casualità del vivere. E se l’amore è così potente da far mutare l’animo umano e volgerlo al bene, la forza lacerante di una passione non ricambiata può essere travolgente e condurre persino all’omicidio. È questa l’altra faccia dell’amore: Sarah giunge a uccidere chi ama, quasi senza accorgersene, vinta da un istinto irrazionale che poi la lascia tramortita e incredula. Una volta Sarah aveva detto: «Mi spiego, George? Amare significa essere pronti a perdere, no? Significa non avere, non tenere. Significa anteporre la felicità di un’altra persona alla tua. Non è così che dovrebbe essere? Dunque, se l’altra persona prende una strada diversa, cosa ci puoi fare?» (p. 77). E allora, perché questo delitto? Neanche George riesce a capire: «Non la conoscevo abbastanza per sapere cos’era capace di fare. Eppure sì, lo sapevo, girai il volante, voltai la macchina. Non la conoscevo, come non si conosceva lei. Non è avere o tenere: e non è neanche sapere» (p. 234). È il prevalere dell’irrazionale, la perdita di controllo che, scatenando le Caffè Michelangiolo pulsioni sotterranee dell’inconscio, conduce Sarah a un’azione così aberrante. Nello stesso individuo si ha, per citare Nietzsche, quella coincidentia oppositorum, in cui si sintetizzano dialetticamente razionale e irrazionale, apollineo e dionisiaco: l’apollineo tipico del senso della misura, della bellezza, dei modi eleganti, della sensibilità di Sa- La copertina di Tomorrow, il più recente romanzo di Graham Swift da poco uscito in Inghilterra. rah, il dionisiaco che balza fuori nel gesto folle di lei, conducendola all’eccesso. C’è soltanto l’illusione di un io unitario: il conflitto intimo rende l’uomo terreno di scontro tra istanze coscienti e inconsce. Accade che, nel suo precario equilibrio, quest’io congiunto si frantumi e l’individuo perda la sua coerenza. Lo scrivano Campa, protagonista de Il berretto a sonagli di Pirandello, esprime con immagini concrete, corporee tutto ciò: «Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa […] La seria, la civile, la pazza. Soprattutto, dovendo vivere in società ci serve la civile; per cui sta qua, in mezzo alla fronte […] Ma può venire il momento che le acque si intorbidino. E allora… allora io cerco, prima, di girare qua la corda seria, per chiarire, rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni […] Che se poi non mi riesce in nessun modo, sferro, signora, la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so quello che faccio!» (I.IV). Se, quindi, l’uomo è dominato da questi due impulsi vitali in continua antitesi, la verità della vita e della creazione artistica risiede nel loro coesistere, perché l’uno è necessario e allo stesso tempo bisognoso dell’altro. Lo scatenarsi della forza distruttiva di Sarah, nel passaggio tra la morte e il dolore, mette a nudo la parte sconosciuta di lei, rendendola protagonista della tragedia. Quell’impeto devastatore si placa, poi, quando riesce a ritrovare se stessa, attraverso l’amore di George. «La verità è che ci incontriamo, ci separiamo, andiamo per la nostra strada. Non esistono leggi, non esistono regole. Non siamo qui per seguirci a vicenda, per proteggerci scambievolmente la vita» (p. 60). Ma il senso del vivere è in quegli incontri, in quel rapportarsi agli altri e tramite loro a se stessi, anche se un fondo oscuro e inconfessato nell’animo, spesso, non permette all’uomo di relazionarsi consapevolmente. «Quale chimera è, dunque, l’uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizione, quale prodigio? […] Chi sbroglierà questo garbuglio?»3. Parole di un antico filosofo che esprimono quale meraviglioso viluppo inestricabile sia la natura umana. Conclusa la concitata e tormentosa narrazione della propria storia, Webb, ritrovata l’identità personale e la dignità di “piccolo-grande uomo”, immagina che Sarah possa tornare libera, da lui, in un giorno di novembre azzurro, immobile e smagliante: «Quando sarò là, quando aspetterò, col batticuore, col fiato che mi forma nuvolette davanti agli occhi, quando lei tornerà indietro, quando uscirà finalmente nella limpida luce del giorno» (p. 262). ■ NOTE 1 I. CALVINO, Lezioni americane, Mondadori, Milano, 1993, pp. 55-56. 2 G. SWIFT, La luce del giorno, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 86. D’ora in poi ogni citazione è intesa da questa edizione. 3 PASCAL, Pensieri, in Antologia filosofica a cura di Alberto Moscato, La Scuola, Brescia, 1967, p. 171. 25 Vetrina In edizione italiana il secondo romanzo di Sándor Márai, scritto nel ’34 LA FORMA DEI SENTIMENTI di Elena Frontaloni P er la prima volta in libreria nella traduzione italiana di Laura Sgarioto, L’isola usciva nel 1934, dalla penna di un Sándor Márai trentaquattrenne e già prossimo a dare alle stampe quello smagato affresco d’epoca in forma d’autobiografia che sono le Confessioni di un borghese (19341935). Qui, Márai si decideva per una testarda fedeltà alla scuola della «ragione»; metteva a ferro e a fuoco mentiti entusiasmi e visibili cancrene ideologiche della vecchia Europa a un passo dalla Seconda Guerra Mondiale. Riconosceva, dentro tutte le sue scritture, il rovello unico d’una domanda sul «segreto della vita», illuminato in seguito non da una trafila ordinata di parole, da una qualsiasi risposta “verbale”, ma dal fugace e irripetibile incontro con uno sconosciuto essere femminile, «in territorio straniero». C’è da dire che nessuno di questi saperi sarebbe probabilmente entrato così pacatamente nelle Confessioni senza la precedente stesura d’un libro come Isola, dove si dipanano e, in fondo, si esorcizzano i rischi connessi a ogni ricerca d’«appagamento» e di senso condotta al di fuori sia delle difficili strettoie della «ragione», sia dei più vieti o perversi cascami della morale corrente. Critico ambiguamente affine a Sándor Márai di quest’ultima è senz’altro il protagonista dell’Isola, Victor Henrik Askenasi: maldestro professore di lingue anatoliche che, sulla spinta di una serie di coincidenze solo apparentemente banali e di poco definite insoddisfazioni, si mette in cerca d’una risposta sul “segreto” cui si accennava sopra. Abbandona dunque una moglie perfetta, s’istalla a casa di una sensuale ballerina, si disamora pure di lei (ma solo provvisoriamente) e finisce così per trovarsi solo, immalinconito, balbettante e incapace di leggere alcunché se non giornali e riviste di bassa lega. Da parenti e amici verrà dunque la prevedibile proposta di gettarsi alle spalle l’intera vicenda con un viaggio in un luogo ritenuto adatto ai nervi infranti 26 d’un professore: un posto sperduto e «silenzioso» della patria delle lettere, la Grecia. Ma Askenasi non si dà per vinto; forse è ancora possibile, per lui, «cambiare il costume di scena», attingere alla linfa pulsante della vita, togliersi di dosso il grigiume di un’esistenza già decisa e sbugiardare una volta per tutte le parole troppo semplici («amore», «divorzio», «donna») con cui è vizio umano tentar costantemente di definire sentimenti e fatti ineffabili. E anziché proseguire verso la meta prescelta, Askenasi, partito da Parigi, si ferma a Dubrovnik (Ragusa, negli anni Trenta): repubblica marinara talmente selvatica e invitta da voler dare in passato filo da torcere alla potente e raffinata Venezia; luogo che infine lo appaga proprio perché privo «di letteratura», essendo la culla d’una lingua indocile alla prosa e alla poesia, fatta tutta di puntute consonanti. Da questa Ragusa-Dubrovnik intensamente mediterranea, invasa da non troppo irreali presentimenti di morte, prende avvio il romanzo. Con una panoramica sull’ormai decaduto Hotel Argentina, dove una combriccola di borghesi non più ricchi e non più colti come un tempo si stanca in chiacchiere sul caldo, la trasvolata del Polo Nord, la spaventosa supremazia tecnologica raggiunta dalla Germania. Solo, in disparte, c’è appunto Askenasi, che entra nel romanzo quasi di soppiatto, per poi occupare il centro della storia, narrando i suoi trascorsi e il suo presente fino agli esiti ultimi e meno prevedibili: quando il desiderio d’attingere al mistero della vita tramite una domanda rivolta prima alle carni d’una donna, e poi direttamente alla realtà, si risolve in un gesto di violenza gratuita e immemore, in uno sperdimento dentro la fisicità accecante d’un mercato e, alla fine, in un velenoso monologo gridato contro il muto specchio del cielo. Messo nelle stesse ambasce del Casanova reinventato da Márai nella Recita di Bolzano (1940), il professor Askenasi soccombe dunque proprio dove il triste e volatile libertino vince. Giacomo, come Askenasi, interromperà difatti il suo viaggio perché avvertito da molti segni di dover rispondere a un incontro col destino, con l’apparizione dell’Unica, dello spettro del femminino che incarna fuggevolmente il «segreto». Ma da questo incontro non uscirà folle né disincantato; troverà invece conferma del suo compito di «uomo», di viandante «apolide e infelice»: sapere l’attimo in cui si potrebbe dispiegare la pienezza dei sensi e della mente e, poi, continuare a vivere, consapevole dell’impossibilità d’ogni facile riscatto o prosecuzione di quell’attimo fuggevole e, molto spesso, mancato. Un libro necessario sulla strada di robusta tristezza e sottilissima ironia ch’è traguardo dei migliori affondi di Márai sull’universo della passione, dunque, quest’Isola. E, nondimeno, un memorabile pezzo di bravura: per lo stile che mano a mano va a internarsi nei pensieri del protagonista senza smettere di presentarli con la riserva della distanza; per la costruzione fatta di pannelli solo apparentemente staccati l’uno dall’altro, e che poi, a volume chiuso, si ricompongono in un’unica amalgama nella mente del lettore. Infine, per il modo già esemplare con cui Márai dà tono e forma a indimenticabili personaggi femminili, con rarefatti e traslucidi sfioramenti. Tratteggiando i silenzi della moglie di Askenasi. Alludendo alle bizze, alle disarmanti ingenuità e ai tradimenti dell’amante Elitz. Riuscendo a insufflare aria persino nei torridi locali dell’Hotel Argentina, quando s’appresta a descrivere con due giri di frase i capelli, le movenze dell’estrema e disgraziata «sconosciuta» che forse, con un’impercettibile modulazione del tono di voce, ha invitato il professore a raggiungerla in camera per un breve rendez-vous. ■ In filigrana, la copertina de L’isola di Sándor Márai, il secondo romanzo dello scrittore ungherese, uscito nella Biblioteca Adelphi dopo La sorella, pubblicato l’anno scorso. Caffè Michelangiolo Politica e filosofia Una lezione dell’intellettuale bolognese: pluralismo e multiculturalismo, falsi sinonimi MATTEUCCI, MAESTRO LIBERALE di Danilo Breschi I l’azionismo troppo spesso irrigidito dall 9 ottobre del 2006, all’età di otla retorica dell’antifascismo e da uno tant’anni, ci ha lasciato Nicola Matsguardo pregiudizialmente rancoroso e teucci, uno dei più profondi conosfiduciato nei confronti della società scitori del liberalismo europeo e noritaliana e dei suoi cittadini, tutto vizi e damericano. Prolifico animatore culpoche, pochissime, quasi nulle virtù. turale, è stato nel 1951 tra i fondatori Il modo migliore per commemorare della rivista “il Mulino” di Bologna, degnamente uno studioso appassionanonché dell’omonima casa editrice tre to e scrupoloso come Matteucci è rianni dopo, nel 1954. Insieme a Mario portarne un brano per diverse ragioni Delle Piane, Luigi Firpo e Salvo Maestremamente significativo. Si tratta, stellone ha fondato nel 1968 la rivista anzitutto, di un testo che testimonia la “Il Pensiero politico”; mentre nel 1987 centralità che il tema del pluralismo ha dato vita alla rivista “Filosofia poaveva nell’opera dell’intellettuale bolitica”, della quale è stato anche diretlognese. Matteucci mostrava nel 1996 tore. A lungo professore ordinario di di aver ben chiaro dove si annidasse il Storia delle dottrine politiche e di Firischio di una sua declinazione errata, losofia morale presso l’ateneo bolodi una degenerazione e perversione gnese, egli è stato il punto di riferidella sua natura e significato: in quel mento di tanti giovani in seguito affermulticulturalismo, di cui tanto si parmatisi come studiosi a livello nazionaNicola Matteucci ritratto a trentasei anni. A venlava da alcuni anni oltreoceano e che le e internazionale. ticinque era tra i fondatori de “il Mulino”. sempre più ha invaso il dibattito filoAbbiamo a che fare con «uno dei pochi veri grandi maestri che il libera- va presenza intellettuale, sarebbe sta- sofico-politico europeo dell’ultimo lismo italiano abbia avuto nella secon- ta ancora più impaludata nel confor- quarto di secolo. Pluralismo e multiculturalismo non da metà del XX secolo», secondo il mismo delle mode ideologiche postgiudizio di Angelo Panebianco (“Cor- 1945, dal marxismo in tutte le sue pos- sono affatto sinonimi, questo Matteucriere della Sera”, 9 dicembre 2006). sibili declinazioni novecentesche al- ci teneva a precisare nelle pagine conclusive di una voce scritta Ma non solo, Matteucci è sul Pluralismo per l’Enciclostato anche un “liberale scopedia delle scienze sociali. modo”, per citare il titolo di L’anno dopo lo scritto venne una recente trasmissione deripubblicato nella nuova dicata al Nostro e andata in edizione di un suo libro orionda su Radio3 Rai grazie ginariamente uscito nel alla cura di Massimo Teodo1993, ovvero Lo Stato mori. Ne è poi uscito un voluderno2. Se pluralismo è l’acme che raccoglie interessancettazione del nuovo e del ti interviste ad amici e illudiverso all’interno di un stri studiosi conoscitori delconfronto pacifico o di leale l’opera di Matteucci, da (e legale) concorrenza, ciò Luigi Pedrazzi a Gianfranco non significa che ogni noPasquino, da Luigi Compavità e ogni diversità possano gna a Tiziano Bonazzi, da essere incamerate e gestite Edmondo Berselli a Roberto all’interno della logica della Pertici1. convivenza politica liberalAnche a noi preme ricordarlo per non dimenticare il democratica. Non a caso si prezioso contributo fornito 1959: il giorno del matrimonio con gli ami de “il Mulino”, Federico Mancini, parla di “convivenza” e non ad una cultura politica ita- Pier Luigi Contessi, Antonio Santucci, Fabio Luca Cavazza, Luigi Pedrazzi, di mera compresenza, non di una inevitabile condiviliana che, senza la sua atti- Marino Bosinelli e Vittorio Volterra. Caffè Michelangiolo 27 Politica e filosofia sione di spazi, magari in tolleranti, e Matteucci dediuna prossimità così stretta ca l’intero suo scritto a spieda eccitare l’istinto naturale gare come il pluralismo euall’aggressività che agita l’aropeo-occidentale sia stato nimale uomo, secondo le l’esito di un lungo e travanote osservazioni dell’etologliato percorso snodatosi atgo Konrad Lorenz3. traverso guerre civili di reliÈ proprio questa prossigione che hanno dilaniato e mità incontrollata e invasiva insanguinato il Vecchio Conche, sperimentata sulla protinente per secoli. Un perpria pelle, genera una divercorso infine giunto all’ideasa valutazione del multiculvalore del riconoscimento turalismo particolarmente reciproco e incrociato delapprezzato invece da chi sol’altro-diverso-da-me. Un litamente ne ha un’idea puesito dovuto quasi più all’eramente teorica, o dispone stenuazione che non all’afdi quelle risorse materiali fermazione della validità fiche consentono di mantenelosofica di un principio; alre le distanze di sicurezza l’impossibilità di annientare dai crescenti insediamenti a l’altro piuttosto che alla forte connotazione etnica. Nicola Matteucci con Francesco Cossiga nella pausa di un convegno tenutosi constatazione del suo essere La frequentazione turistica a Roma su Costituzionalismo e diritti individuali. in qualche misura portatore o comunque passeggera e di un valore aggiunto. occasionale della comunità radical- sibilità, le altrui pratiche, fino al punI primi cristiani riformati non si dimente altra è cosa ben diversa da un to di negarne ogni possibilità di mani- stinguevano per una particolare tollecontatto obbligato e ininterrotto nel festazione. Non tutte le culture sono ranza nei confronti di chi ritenevano in tempo, dove la quotidianità rende diferrore. Da parte protestante, non si ficoltosa la convergenza attiva di intemetteva tanto in discussione l’assoluressi e abitudini difformi persino tra tezza della verità, ma si contrapponesingoli individui perfettamente omova nuova verità, ossia verità vera, a loghi per lingua, usi e costumi (ad vecchia verità, ossia verità falsa. E il esempio, una coppia di coniugi o connuovo era piuttosto una re-formatio, viventi della stessa nazionalità), figuuna restituito in pristinum, una rimesrarsi quindi fra gruppi che coltivano sa in forma, quella pura, quella giusta. regole di organizzazione interna tra E allora ecco il secondo merito del loro molto distanti. Il multiculturalibrano che vi proponiamo. Matteucci, smo tende spesso a distorcere il signinell’anno di grazia 1996, aveva ben ficato dell’individualismo, a ridurlo a chiaro dove stesse la nuova minaccioquel gretto egoismo che dissolve ogni sa sfida all’idea di tolleranza e a quelsolidarietà interpersonale e che è efla sua evoluzione teorica e pratica che fettivamente la malattia da cui è affetè il pluralismo. Lo studioso bolognese to nelle nostre società d’Occidente. Ma non si limita a segnalare i rischi del con ciò viene dimenticato quanto l’incosiddetto “revival etnico”, i nuovi nadividualismo “buono”, cioè la valorizzionalismi tribali rigurgitati dalle terzazione dell’individuo, e la libertà siare ferite dei Balcani, ma sottolinea no, loro sì, sinonimi. piuttosto quanto l’integralismo islamiBisogna inoltre intendersi sul signico rappresenti «un grave fattore perficato del termine-concetto di cultura, turbante per un vero pluralismo». Le che può indicare il patrimonio di idee, domande fondamentali sul destino del pregiudizi, usi e costumi di un singolo pluralismo occidentale erano dunque individuo oppure di una comunità coegià tutte formulabili più di dieci anni sa e più o meno chiusa verso l’esterno. fa, ben prima dell’11 settembre 2001. C’è cultura e cultura: vi sono usanze e Fino a che punto possono spingerpratiche sociali compatibili con il ricosi le diversità di giudizi e comportanoscimento dell’altro, perché hanno menti all’interno di una società aperta? introiettato il valore della tolleranza o Quali sono i limiti di inclusione oltre i qualcosa di analogo; vi sono tradizioni quali la divaricazione diventa squartache prescrivono comportamenti in- Nicola Matteucci nel suo studio bolognese, foto- mento? E qui si inserisce la citazione compatibili se non urtanti le altrui sen- grafato nel 1999, a settantatré anni. del John Rawls di Political Liberalism 28 Caffè Michelangiolo Politica e filosofia (1993)4, a conferma dell’attenzione sempre mantenuta da Matteucci verso le più recenti elaborazioni della filosofia politica internazionale, specialmente angloamericana. Il pluralismo “ragionevole” del filosofo statunitense è, ad avviso dell’intellettuale bolognese, l’antitesi del «pluralismo in quanto tale, il quale ammette dottrine non solo irrazionali, ma folli e aggressive». Si tratta insomma dei classici interrogativi su quanta diversità può tollerare una società, la quale piomba facilmente nell’anarchia e nella conflittualità endemica quando smette di conoscere e di apprezzare legami interpersonali che vadano al di là dell’appartenenza etnica e/o dell’identità religiosa. Se religione ed etnia sono una delle tante componenti della costruzione di ciascuna identità individuale, esse non possono che apportare ricchezza alle società ospitanti. Se si tratta di matrici esclusive e totalizzanti di identità, la politica si paralizza e la società civile deperisce fino all’inciviltà. Pertanto l’integrazione è risorsa per chi arriva, necessità per chi riceve. Da entrambe le parti occorre fare opera educativa. Altrimenti l’immigrato resta “estraneo”, di qui la xenofobia di chi non accoglie, di qui lo spirito di rivalsa e l’odio sociale di chi non vuole essere integrato ma solo «rinchiudersi in ghetti per ricostituire la piccola patria». Perché è questo cui mira la predicazione dell’islamismo radicale e jihadista; ed è quello che viene agevolato da politiche ispirate ad un multiculturalismo maldestramente maneggiato da politici, amministratori locali e apprendisti sociologi, ma che in sostanza è solo un “monoculturalismo plurale”, secondo la felice espressione formulata da Amartya Sen, Premio Nobel per l’Economia nel 1998, in un suo volume recentemente tradotto in Italia5. Matteucci dice dunque qualcosa di più e di diverso rispetto alle classiche argomentazioni sul tema: non dipende solo da noi ospitanti il futuro di una società aperta pluri-etnica; dipende anche dalla buona volontà di chi è inizialmente ospitato. E da quanta acqua togliamo ai pescicani dell’odio etnico o religioso, come ad esempio imam estremisti e agenti del terrorismo jihadista. Il multiculturalismo che Caffè Michelangiolo Nicola Matteucci. Nicola Matteucci Armandi Avogli Trotti (questo il suo cognome anagrafico) è nato a Bologna il 10 gennaio 1926. Dopo aver studiato al Liceo classico Luigi Galvani, si è laureato nel 1948 alla Facoltà di Giurisprudenza di Bologna con una testi su “Il diritto nella Filosofia dello spirito di Benedetto Croce”, e nel 1950 alla Facoltà di Lettere e Filosofia con una tesi su “Antonio Gramsci e la Filosofia della prassi”. Borsista dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, sotto la direzione di Federico Chabod ha iniziato a studiare il giornalista ginevrino Jacques Mallet-Du Pan cui ha dedicato un’importante monografia. Ha sviluppato le sue ricerche negli Stati Uniti sul Fondo Tocqueville alla Yale si presenta come elogio della comunità di comunità (al plurale) rischia di trasformare il mosaico inter-etnico in un puzzle dalle tessere così numerose da rendere impossibile ogni composizione. Senza un comune denominatore, senza valori ultimi condivisi (tendenzialmente) da tutti, non c’è una società, quell’unum figlio dell’incontro dei molti e diversi. “Ex pluribus unum” è la formula propria del federalismo americano, ma oggi per federazione si intende piuttosto una giustapposizione di elementi esistenziali e culturali eterogenei che non produce sintesi, perché questa è vista come violenza del più forte sul più debole, oppure perché questa presupporrebbe una capacità autocritica da parte della stessa cultura ospitante. Ma autocritica non significa affatto rinnegamento o misconoscimento di senti- University e in Francia alla Bibliothèque Nationale. Fondatore nel 1951, insieme ad altri studiosi, della rivista “il Mulino”, ne è stato il direttore nei periodi 19591690, 1970-1973, 1984-1990. Dal giugno 1966 al novembre 1969 è stato presidente dell’Istituto Carlo Cattaneo; poi, presidente dell’Associazione di cultura e politica il Mulino dal gennaio all’ottobre del 1969 ed ancora dal 1980 al 1983. Da sempre è stato membro del comitato direttivo dell’Associazione il Mulino e del consiglio editoriale della casa editrice. Dopo la libera docenza in Storia delle dottrine politiche ha avuto l’incarico di docento di Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, e dal 1966, da professore ordinario ha insegnato Storia delle dottrine politiche nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna. Fino al ’72 ha diretto l’Istituto storico-politico della Facoltà di Scienze politiche di cui fu anche preside fino al ’74. Passato alla Facoltà di Lettere e filosofia come ordinario di filosofia morale, insieme a Mario Delle Piane, Luigi Firpo e Salvo Mastellone ha fondato, nel 1968, la rivista “Il Pensiero politico” e nel 1987 ha dato vita alla rivista “Filosofia politica” di cui è stato direttore. Ha fatto parte del Comitato direttivo della Enciclopedia delle scienze sociali, ed è stato socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino e socio effettivo dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna. menti di appartenenza comunque da difendere quale importante fonte di significato e di identità individuale e collettiva. Anche perché qui si tratta dell’appartenenza ad un insieme di storie, tradizioni, usi e costumi che possono ragionevolmente fregiarsi del titolo di “civiltà”. E la soluzione è tutt’altro che facile, non sta dietro l’angolo, perché cristianesimo e islam sono, sì, religioni entrambe monoteiste, ma «troppi secoli di storia le separano». Non hanno percorso le stesse tappe di dubbi e ripensamenti, lo stesso travaglio come dottrina e come istituzioni. Giovanni Sartori ha fra l’altro osservato come l’immigrante di cultura teocratica ponga problemi ben diversi, solitamente più seri e più gravi, rispetto all’immigrante che accetta la separazione tra politica e religione6. C’è poi da comprendere poten29 Politica e filosofia IL PLURALISMO POSSIBILE1 di Nicola Matteucci Quanta diversità può sopportare una società al suo interno? L’ideale è ex pluribus unum; ma cosa succede se quei “pluribus” diventano divaricanti? Aristotele, contro il monista Socrate (Platone), aveva chiaramente indicato la necessità un equilibrio fra unità e pluralità: «È chiaro che se una polis nel suo processo di unificazione diventa sempre più una, non sarà neppure e diventando sempre più una si ridurrà da polis a famiglia […]: chi fosse in grado di realizzare una tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe la polis» (Politica, II 1261a, ma anche 1263b). Il pluralismo implica sempre un tasso – più o meno alto – di conflittualità, non ha come fine la pace sociale, che solo un regime autoritario può garantire. Nel passato con la libertà religiosa e poi con la libertà politica – in Europa e in America – questo equilibrio è stato trovato, ma c’era – prima – la comune eredità cristiana e – dopo – la vittoria del liberalismo, che riteneva naturale l’esistenza di più partiti. La rivoluzione democratica porterà a compimento questa profonda trasformazione culturale, che ha inciso sulla mentalità collettiva. Ma nuovi problemi oggi si danno. Si parla molto di società multi-culturali e di società multi-etniche, senza accorgersi che culture ed etnia sono cose diverse, o meglio, non coincidenti, e senza tenere presente il fatto che l’integralismo islamico rappresenta un grave fattore perturbante per un vero pluralismo. Le diverse nazioni culturalnazionali possono benissimo coesi- zialità e limiti delle religioni, di qualsiasi religione, in termini di educazione al ragionamento e predisposizione a porsi in ascolto dell’altro e delle sue ragioni. Un’attitudine che un laico come Amartya Sen giudica scarsamente presente, se non completamente assente, nella religione quando intesa come fede non meditata. Sono più importanti le tradizioni culturali o la libertà culturale? Questo l’interrogativo che Sen si pone nel solco di un liberalismo imparentato con quello elaborato dallo stesso Matteucci. «Nascere in un particolare background sociale non è di per sé un esercizio di libertà culturale […], non essendo frutto di una scelta», osserva ancora Sen, «al contrario, sarebbe un esercizio di libertà la decisione di restare saldamente all’interno del sistema tradizionale, se la scelta venisse 30 stere, anzi c’è un vero arricchimento per tutti quando la partita di dare e avere è aperta: pensiamo ad esempio alla musica nera e come essa sia diventata un patrimonio di tutti. Ma le etnie sono società chiuse, legate ai ricordi del proprio passato e con vincoli di sangue: è la parentela e non la cittadinanza a tenerle unite. Con le immigrazioni in Europa o in America gli immigrati hanno unicamente la scelta fra l’integrazione nel paese ospite o rinchiudersi in ghetti per ricostituire la piccola patria. Il solo segnale dell’uscita dai ghetti etnici o religiosi può venire solo dalla sfera privata: il vero indicatore sono i matrimoni misti. È una sfida aperta, densa di rischi e di pericoli. Ma non si può dare per risolto il problema inneggiando – senza alcun realismo – alle società pluri-etniche o a un facile incontro fra la religione cristiana e quella islamica, solo perché sono religioni monoteiste. Troppi secoli di storia le separano. Il solo pluralismo possibile è quello “ragionevole” di Rawls, perché, dove c’è frattura sui valori ultimi, appare soltanto una irrazionalità aggressiva. Il pluralismo può darsi solo all’interno di una cultura condivisa, che abbia alcuni valori comuni, soprattutto quello della tolleranza. NOTA 1 Cfr. N. MATTEUCCI, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, il Mulino, Bologna, 1997, pp. 344-345. compiuta dopo aver preso in considerazione altre alternative». In conclusione, il ragionamento di Sen è il seguente: «se si vuole il multiculturalismo in nome della libertà culturale risulta difficile pensare che la condizione irrinunciabile possa essere un sostegno inamovibile e incondizionato al rigido mantenimento della tradizione culturale ereditata”7. La coesistenza non è di per sé un fatto positivo: può significare semplice compresenza di elementi eterogenei, oppure contaminazione reciproca nel pieno rispetto di regole del gioco, che nel caso europeo e occidentale dovrebbe significare mantenimento delle istituzioni politiche e giuridiche proprie dello Stato sociale di diritto. Per inciso, non possiamo nasconderci che la qualifica di “sociale” è sempre più messa in discussione dalla reiterata im- missione di cospicue quote di popolazione emigrante in Italia. Per mantenere un alto standard di welfare si potrebbe pensare necessario, ai fini di un aumento del numero di contribuenti, un rapido inserimento degli immigrati con il conseguente riconoscimento della piena cittadinanza civile e politica, ma una tale rapidità renderebbe quasi inevitabile il consolidamento di comunità chiuse definite sulla sola base dell’appartenenza etnica. La ricerca di una “piccola patria” che ripristini, sia pure in forma surrogata, usi e costumi – se non luoghi – dei paesi di origine, da cui si è emigrati prevalentemente per necessità, genera quasi automaticamente quelle “società chiuse” che sono le etnie. Se non si opera dentro queste ultime prima che si solidifichino nelle periferie o in quartieri-ghetto delle nostre città, il rischio è la frantumazione del legame sociale e la nascita di molteplici enclaves nel tessuto urbano e provinciale. La cittadinanza che poi concederemo sarà a quel punto facilmente alterata dalla parentela, ossia da criteri di regolamentazione interna al gruppo ormai già consolidatisi ed essenzialmente antitetici al garantismo, cioè alla tutela dei diritti individuali. Nelle parole del brano riprodotto nel riquadro al lato, troviamo tutta la pacatezza, tutta la determinazione, tutto l’anticonformismo intellettuale mai disgiunto dalla lucidità dell’analisi di un “liberale scomodo”. Da rileg■ gere per i tempi che verranno. NOTE 1 Cfr. M. TEODORI, Nicola Matteucci. Il liberale scomodo, Luiss University Press-Rai Eri, Roma, 2007. 2 N. MATTEUCCI, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, il Mulino, Bologna, 1997. 3 Cfr. K. LORENZ, L’aggressività, intr. e postf. di G. Celli, tr. it. di E. Bolla, Il Saggiatore, Milano, 1994; Id., Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, tr. it. di L. Biocca Marghieri e L. Fazio Lindner, Adelphi, Milano, 1991. 4 Cfr. J. RAWLS, Liberalismo politico, a c. di S. Veca, tr. it. di G. Rigamonti, Edizioni di Comunità, Milano, 1994. 5 Cfr. A. SEN, Identità e violenza, tr. it. di F. Galimberti, Laterza, Roma-Bari, 2006. 6 Cfr. G. SARTORI, Pluralismo multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Nuova edizione aggiornata, Milano, Rizzoli, 2002, p. 117 e sgg. 7 A. SEN, op. cit., p. 160. Caffè Michelangiolo Esposizioni Si è aperta il 10 giugno a Venezia la cinquantaduesima Mostra di Arti Visive della Biennale dal titolo: Pensa con i sensi, senti con la mente. L’arte al presente BIENNALE, POURQUOI FAIRE? di Eliana Princi «J e suis la seule femme de ma vie, pourquoi faire? Un million d’âmes à sauver, pourquoi faire? Ma tristesse infinie, pourquoi faire? Le pavillon africain, pourquoi faire?» L’installazione di Bili Bidjocka con cui si apre il padiglione africano reca dubbi e un senso di vanità delle cose che rimane sottotraccia come compagno insidioso della visita alla rassegna. Una biennale che registra primati storici: la prima presenza turca, oltre a quella appunto dell’intero continente africano, la più estesa partecipazione di rappresentanze straniere, distribuite nei palazzi veneziani, il primo curatore statunitense, Robert Storr. Uno sforzo organizzativo senza precedenti su cui grava l’interrogativo di Bidjocka: pourquoi faire? Cosa vale un nuovo padiglione di fronte alla ineluttabile diaspora africana? Cosa vale di fronte ai diritti civili che in quel continente continuano a essere negati? Cosa vale attaccare la guerra, argomento principale delle opere allestite all’Arsenale, quando ogni giorno si registrano centinaia di vittime a causa dei conflitti sparsi nel mondo? Puorquoi faire? La cinquantaduesima biennale ci invita a riflettere, a indagare, a ricercare risposte individuali di fronte alle inquietudini del mondo e alle nostre inquietudini quotidiane. Il versante corale, anche se variegato, della critica che sale dall’Arsenale sfuma in riflessioni personali, sposta l’attenzione sull’atteggiamento privato, sulla condizione dell’individuo ai Giardini. I conflitti, dagli scenari di guerra, dall’ambito delle nazioni, divengono familiari o più spesso interni, sottili, ma allo stesso modo devastanti. La grande mappa degli Stati Uniti, costellata dei ritratti a matita dei cittadini statunitensi morti in Iraq di Emily Prince si presenta come una inedita cartina geopolitica di quella terra, mostra un paesaggio spettrale quanto freddaCaffè Michelangiolo mente analitico. Dall’America dell’Arsenale, una sorta di convitato di pietra su cui sono puntate molte delle riflessioni degli artisti, ci spostiamo ai Giardini, al dramma individuale di Sophie Calle che nel suo video ci introduce al capezzale della madre nei suoi ultimi momenti di vita. L’analisi della morte – del resto ogni morte è individuale, anche se comune a altre vittime nel caso delle guerre – e in generale la riflessione sull’esistenza, sono i temi ricorrenti di questa biennale. Tanto più insidioso, doloroso, è l’interrogativo posto dall’artista africano Bidjocka, tanto più tenace, ostinato è l’invito a indagare che propone Robert Storr. Pensa con i sensi, senti con la mente è il titolo composito elaborato Robert Storr, direttore della 52a Esposizione Internazionale d’Arte, (Photo: Giorgio Zucchiatti, Courtesy: Fondazione La Biennale di Venezia). Robert Storr, cinquantasette anni, statunitense, è stato senior curator del Dipartimento di pittura e scultura del Museum of Modern Art di New York dal 1990 al 2002, attualmente è rettore della Yale School of Art di New York. dal curatore che ha chiesto agli artisti, e chiede oggi al visitatore, una riflessione ampia, profonda sull’esistenza. Una riflessione che appare oltretutto ineludibile, in tempi in cui la dimensione del dubbio sembra essere l’unica certezza a nostra disposizione. «Mostre come questa non sono fatte per chi ritiene l’incertezza un incubo. E di fatto coloro per i quali il dubbio, l’interrogazione e l’inesausto mettersi in discussione sono eccezionali o insostenibili dovrebbero risparmiarsi il disorientamento e il disagio di una situazione che richiede proprio quel tipo di spirito e di forma mentis. Inoltre guardare l’arte contemporanea, riflettere su di essa richiede appetito e tolleranza per cose che possono risultare irritanti tanto – o di più – di quanto non soddisfino il gusto. Dopo tutto il gusto è per definizione conservatore e si forma solo ex post»1. Il criterio del gusto è opinabile per eccellenza e di nuovo si imbatte nel quesito, questa volta sintetizzato nel gigantesco, ironico, punto interrogativo che l’artista giapponese Hiroharu Mori ha sospeso sul suo pallone aerostatico fluttuante nell’aria delle Corderie. Alle Corderie però c’è poco da fare ironia. La visita scorre nella lunghissima navata del percorso in un calvario pressoché ininterrotto di immagini di morte e di guerra. Annunciato da chi la guerra l’aveva acclamata come “igiene del mondo” – l’acutissimo video di Luca Buvoli che elabora miti e forme del Futurismo – si sfila davanti alle opere visitando luoghi e persone, protagonisti dei conflitti recenti o ancora in corso. Nel settantesimo centenario della nascita di Guernica Storr compone la sua critica agli attuali “costruttori di macerie”, secondo i versi celebri di Paul Eluard dedicati proprio alla città basca, mettendo insieme un percorso dolente e sconcertante che declina la guerra in tutte le lingue del mondo. 31 Esposizioni Performance di inaugurazione alla Biennale (8 giugno 2007), foto Eliana Princi. Veduta dei Giardini verso il Padiglione Italia alla Biennale, foto Eliana Princi. Dal 2003 Jenny Holzer realizza «L’arte tutto questo non lo può fergrandi pannelli a olio su lino in cui demare – scrive ancora il curatore in canuncia gli effetti delle premonizioni di talogo – ma è in grado di farci vedere i Gaines: gigantografie dei documenti dedanni possibili e di indurci a riflettere su segretati del Dipartimento di Stato amequel che ci aspetta se rinunciamo a ferricano e del Pentagono relativi ai primare l’opera di quanti vogliono digionieri militari in Medio Oriente e a struggere la società e la cultura»2. I testi dello spagnolo Ignasi Aballí, Guantanamo, in cui sono trascritti lunghe liste nere di titoli tratti dai quo– spesso oscurati dai segni neri della tidiani, di cui conservano anche il cacensura – i verbali degli interrogatori e le rattere tipografico, scandiscono numeri, autopsie delle vittime nelle mani dei miquantità che divengono agghiaccianti litari americani. quando si riferiscono ai muertos e ai Óscar Muñoz, Proyecto para un Memorial, 2003Più sottili, leggere, evanescenti sono le desaparecidos, mentre Tomer Ganihar 2005, Video proiezione a cinque canali, 7’ a ripe- visioni pure dolenti dell’algerino Adel Abfotografa le bambole a grandezza natu- tizione senza suono, Courtesy Galería Alcuadrado, dessemed e del colombiano Óscar Muñoz. rale, ferite e sfigurate, usate per eserci- Bogotá, Colombia. Il primo traccia con il neon, posto sopra zi di pronto soccorso negli ospedali le porte del Padiglione Italia e dell’Arseisraeliani. linea, un modellino sospeso a un’asta nale, la scritta Exil su cui, se non si pasComposta, immota, rarefatta è la di metallo che colpisce il grattacielo. sa distrattamente, si riflette che di “esiBeirut di Gabriele Basilico ridotta in Un’opera perfino irritante, se non se ne lio” e non di “uscita” si tratta: un pasmacerie monumentali, senza alcuna conoscesse la data e dunque la fulmi- saggio indicato da una luce fredda e bapresenza d’uomo, una composizione nante premonizione. luginante, un varco fragile verso l’ignoto quasi astratta di dolore sordo per molte popolazioni. e lacerante, mentre sguaiaMuñoz presenta un Proto, ancorché gratuito, è il viyecto para un Memorial, una deo di Paolo Canevari Bounproiezione simultanea di cincing Skull, girato nell’ex que video in cui si assiste a quartier generale dell’eserciuna strana quanto vana strato serbo a Belgrado devastategia del ricordo: una mano to dalle bombe, in cui si asdipinge incessantemente risiste al gioco spietato di un tratti di desaparecidos, la ragazzo che calcia ritmicapittura è fatta d’acqua e il mente un teschio. supporto é la pietra; appena Airplanecrashclock delil pennello traccia i segni sull’americano Charles Gaines la superficie questi si assorè un lavoro del 1997, un plabono progressivamente e il stico piuttosto grande di alvolto evapora, si volatilizza cuni isolati di Manhattan, riducendosi a poco a poco a con l’inconfondibile skyline Yinka Shonibare, How to blow up two heads at once, 2006. Installazione, contorni sfigurati, erosi, a su cui si abbatte con un mec- 175 x 245 x 122cm. Courtesy Sindika Dokolo African collection of contem- macchie indistinte e poi più a canismo a tempo un aereo di porary art, foto Eliana Princi. niente. 32 Caffè Michelangiolo Esposizioni Felix Gonzalez-Torres, Untitled (Public Opinion), 1991, Caramelle cilindriche e nere alla liquirizia individualmente avvolte nel cellophane, rifornimento continuo, dimensioni complessive variabili a seconda dell’installazione, Peso idale: 317,5, Solomon R. Guggenheim Museum, New York, Veduta dell’installazione, foto Eliana Princi. Altri volti, in questo caso rigidi, urlanti, stampati su fogli d’alluminio, sono appesi al tragico Maypole da Irena Jůzová, Collection – Series, 2007, veduta della parte centrale dell’installazione, foto Eliana Princi. Caffè Michelangiolo Nancy Spero, la cui antica protesta contro la politica americana in Vietnam ha mutato la sola destinazione geografica per l’Iraq. Decine di altri volti – giovani, rugosi di anziani, infantili o semplicemente adulti – si alternano nelle multiproiezioni dell’artista cinese Yang Zhenzhong. Ciascuno recita, grida, sussurra in dieci lingue diverse la stessa frase, «I will die»: «Quando chiedo alle persone di dire la frase “Io morirò” davanti alla mia videocamera – spiega l’artista – tutte sanno che le sto riprendendo. La maggior parte recita come in una performance, si preoccupa del proprio aspetto. Davanti alla camera, la gente mente sempre, ma ‘Io morirò’ è la verità. Mi interessava l’espressione del volto prima e dopo che la persona aveva detto “Io morirò”»3. Le voci diverse che si avvicendano sulle file di monitor in sequenza costituiscono un tragico quanto ironico memento mori che accompagna il visitatore all’uscita delle Corderie. Più meditativi, frastagliati, ma non per questo meno acuti, laceranti, sono i racconti dei conflitti interiori o dei rapporti interpersonali: Sophie Whettnall oppone nel suo video il corpo fragile ma tenacemente eretto di una giovane donna, immobile contro gli assalti simulati di un boxeur che la sfiora, la schiva con una violenza inaudita, a ondate di attacchi incessanti. La donna rimane impassibile, un’esile forma verticale contro le onde dinamiche del movimento che si scaglia contro di lei, a assorbire i colpi degli scontri quotidiani nei rapporti di coppia. Alla dimensione del conflitto, ma interno, risponde un altro corpo fragile, apparentemente di cera candida. È il calco del corpo della stessa artista, rappresentante le repubbliche Ceca e Slovacchia ai Giardini, Irena Jůzová. Il calco è in realtà in lukoprene, un materiale industriale che stride con l’aspetto di morbida modellazione scultorea della figura, nella tradizione di Auguste Rodin e Medardo Rosso. L’intero padiglione risulta del resto assolutamente spiazzante; siamo immersi in un’atmosfera lattiginosa e rarefatta, la luce abbacinante che piove dall’alto annulla i profili delle cose e non permette di capire dove ci troviamo: un algido laboratorio hi-tech, una raffinata boutique di lusso, sale avveniristiche di un inedito museo anatomico. Felix Gonzalez-Torres, Untitled, Stampa offset su carta, copie illimitate, 17,8 cm di altezza ideale x 114,9 x 97,8. Walker Art Center, Minneapolis, Veduta dell’installazione, foto Eliana Princi. Il corpo traslucido dell’artista è sospeso all’interno di un cilindro di plexiglas, ancorato in una struttura di me- Nancy Spero, Maypole/Take No Prisoners, 2007, Impronte su alluminio, nastro, catena e palo in alluminio, 9 x 9 x 10.5 m, © Nancy Spero, fotografia Eliana Princi. 33 Esposizioni Kendell Geers, 7 deadly sins, 2006, Istallazione con neon, dimensioni variabili, Courtesy Sindika Dokolo African collection of contemporary art. Sophie Calle, Take Care of yourself Philosophe, 2007, Lavoro fatto di 106 fotografie, testi, film, Courtesy : Galerie Emmanuel Perrotin, Paris; Arndt & Partner, Berlin; Paula Cooper Gallery, New York; Gallery Koyanagi, Tokyo. tallo cromato, ma il corpo è vuoto, e alla lettera. Ho chiesto a 107 donne, mal chiuso, la pelle si sovrappone a falscelte in base al loro mestiere, di interde e mostra evidenti segni di sutura nel pretare questa lettera da un’angolazionastro di raso candido che intesse a ne professionale. Analizzarla, comtratti la superficie. Altri calchi del cormentarla, recitarla, danzarla, cantarla. po – i seni, le mani, i piedi – sono moEsaurirla. Capire al posto mio. Ristrati in bacheche di vetro, disposti in spondere per me»4. raffinatissime scatole e carta velina: ogL’artista sciorina la propria vicenda getti preziosi, sconcertanti ex-voto, personale, si offre ai commenti di quancomposizioni simili a confezioni di rare te lei stessa ha chiamato – una crimiprelibatezze dolciarie. Quanto più il nologa, scrittrici di ambiti diversi, una corpo è sezionato, violato – la testa delfilologa, una fisica, una giocatrice di la figura è divelta brutalmente – esposto Minnette Vári, Alien, 1998, video digitale, 52’’, scacchi, una veggente, un’attrice, una all’avidità dello sguardo del visitatore, Courtesy Sindika Dokolo African collection of con- prestigiatrice, una maestra elementare e tanto più è etereo, iridato dalla luce che temporary art. molte altre ancora – e si offre anche ai imperla le forme, allo stesso tempo fravisitatori in un gioco sottile di svelagile e inattingibile. cenda privata: «Ho ricevuto una mail mento e celamento, giacché non mostra Ancora di corpo violato parla Tracey di rottura. Non ho saputo rispondere. effettivamente il testo della mail riceEmin dal padiglione inglese che è stata Come se non fosse indirizzata a me. vuta, né fornisce la propria versione dei chiamata a rappresentare. Forme che Terminava con le parole: Abbia cura fatti. Mentre racconta un fatto del tutattingono nuovamente alla tradizione di sé. Ho preso la raccomandazione to privato l’artista si nega – non compare neppure nelle fotografie della storia dell’arte, la Sedelle proprie interlocutrici cessione e l’Espressionismo presenti in mostra – e rende viennese, e ne conservano il tutte plausibili le diverse inconnubio di nevrosi e erotiterpretazioni della lettera smo che, calato nella complessa storia personale delesposte all’interno del padiglione sotto forme diverse: l’artista, diventa una cinica disegno, video, fotografie, teesposizione delle proprie ferite private. sti, dipinti, tessuti. La Francia offre un nuoUn gioco di rimandi, di identificazioni infinite che fivo privato femminile e allo stesso tempo lancia un apnisce per investire il visitapello pubblico nel titolo stestore che da osservatore si trova spiato, atteso al varco delso del padiglione: Prenez l’invito che Sophie Calle gli soin de vous. Abbia cura di sé. L’artista Sophie Calle lo Sophie Whettnall, Shadow Boxing, proiezione video, 3min, 2004, Courtesy rivolge: «Prenez soin de vous». fa esponendo la propria vi- of the artist. 34 Caffè Michelangiolo Esposizioni Monika Sosnowska, 1:1, installazione, 2006, © Monika Sosnowska, foto Eliana Princi. La dimensione esistenziale prosegue nel padiglione americano – il più poetico e allo stesso tempo il più intensamente emotivo – dedicato all’artista di origine cubana Felix Gonzalez-Torres, morto nel 1996 a trentanove anni. Una dimensione che lascia smarriti per i se- Ignasi Aballí, Llistats (Morts I), 1997-2003, Stampa digitale su carta fotografica, 150 x 105 cm., Courtesy Elba Benítez Gallery, Madrid. Caffè Michelangiolo gni esili con cui si esprime: fili di lampadine accese, un tappeto di caramelle di liquirizia, una stampa che copre l’intera parete di una stanza vuota, in cui si scorge un cielo sconfinato dove vola un unico uccello, appena percettibile. L’artista si manifesta quasi per sottrazione, nel vuoto, nel volo, nell’incerta luminosità di luci accese di giorno, e allo stesso tempo fa dono di sé nelle pile di stampe che ciascun visitatore può portar via, come avviene anche per l’installazione di caramelle – il loro peso equivale alla somma del peso dell’artista e di quello del suo compagno, morto di AIDS – reintegrate continuamente dal personale del padiglione. Gesti che appaiono perfino predatori a pensare ai corpi metaforici dei due uomini che vengono erosi, smangiucchiati, violati, ma che alimentano insieme il senso di una presenza costante, oltre la morte dell’artista, e la natura del dono che lui stesso ha concepito. Un dono che è anche condivisione di responsabilità, ciascuno di noi reca il peso del corpo dell’altro, l’artista regala stampe che mostrano vuote cornici mortuarie o tratti di mare scuro e agitato. Doni, metafore, presenze evanescenti e meditative che fanno della roccaforte dei padiglioni presenti a Venezia, il cuore pulsante della più acuta critica anti-americana. La mostra reca in ogni caso suggestive declinazioni poetiche: le sequenze luminose di lampadine rimanda al tendaggio di perline dorate voluto da Robert Storr all’interno del Padiglione Italia, una cascata di sfere leggere che frullano lievi al passaggio del visitatore, mentre compongono e scompongono geometrie diverse. L’aspetto formale è fortemente sotteso a ciascun’opera di Gonzalez-Torres, che concepisce i propri messaggi in precisi equilibri di forme e colori. Fuori dai padiglioni istituzionali, nel solco della tradizione ai Giardini, si dispiega la “giovane” Africa5, nel nuovo padiglione alle Artiglierie dell’Arsenale. «Io vi auguro di sentire, come me, l’emozione profonda di essere visti. Perché il bianco ha goduto per tremila anni del privilegio di vedere senza che lo vedessero. […] L’uomo bianco, bianco perché era uomo, bianco come il giorno, bianco come la verità, bianco come la virtù, illuminava la creazione come una torcia e rivelava l’essenza segreta e bian- Bili Bidjocka, L’écriture infinie #3, installazione, dimensioni variabili, courtesy Sindika Dokolo African collection of contemporary art, foto Massimiliano Vannucci. ca degli esseri»: in questo modo il curatore del padiglione, Simon Njami introduce la mostra, citando un passo dal- Nalini Malani, Talking About Akka, 2007, Pittura rovesciata su acrilico, 185 x 100 cm, parte sinistra di un trittico, Courtesy of the artist. 35 Esposizioni l’Orfeo negro di Jean-Paul che ci scrutano con Sartre6. espressioni indefinibili; L’emozione di essere visti quindi si volgono e lentasi percepisce densa anche mente tornano sui loro nella scelta di esporre non passi, sprofondando di una selezione di artisti, ma nuovo nell’oscurità. Una una collezione privata, quelintensa opera sacrale di la di Sindika Dokolo, che inBill Viola che fin dai suoi clude nomi storici e non primi lavori ha riflettuto africani come Andy Warhol sulla morte e sulla vita, e o Jean-Michel Basquiat, sul concetto di passaggio. mentre altri artisti come Un’opera che suggella Chéri Samba, El Anatsui e i contenuti della cinquanOdili Donald Odita, comtaduesima biennale venepaiono nella mostra di Storr ziana e invita nuovamene non qui. te a riflettere, con i sensi e L’Africa sbarca a Venezia la mente, sui contenuti con forza e una compiuta della nostra esistenza. ■ eleganza formale. Le immagini che si susseguono nel pa- Gabriele Basilico, Beirut 1991, 9 fotografie, stampa fotografica, Courtesy del- NOTE diglione parlano appunto di l’artista e Studio Guenzani, Milano. 1 R. STORR, Pensa con i senun continente giovane – un si – Senti con la mente. L’arte al continente in senso lato perchè molti deSofisticate e perfettamente bilanciate presente, in Pensa con i sensi – Senti con la mengli artisti in mostra risiedono altrove – sono le stampe digitali di Ndilo Mutima, te. L’arte al presente, catalogo della mostra, Marpieno di idee: lo dicono i video, le instal- mentre crudele quanto fulminante è l’in- silio,2 Venezia, 2007, s.p. R. STORR, Ivi, s.p. lazioni, i dipinti, le sculture, le fotografie, stallazione di Yinka Shonibare How to 3 Y. ZHENZHONG, Ivi, p. 378. 4 S. CALLE, Prenez soin de vous, Actes-Sud, le cifre espressive di Kendell Geers che, blow up two heads at once, 2006, che oltre a una gigantesca parete ironica- dispone effettivamente due soldati, vestiti Paris, s.d. [2007], s.p. 5 S. NJAMI, Check List-Luanda Pop. Padigliomente partita in forme bianche e nere, con i consueti tessuti a batik riferiti a un ne Africano in Pensa con i sensi – Senti con la propone una installazione con luce di generico quanto improbabile stile colomente. L’arte al presente. Partecipazioni nazionaWood che esalta i colori chiari (i denti, le nialista, che si sparano a vicenda. li. Eventi collaterali, Marsilio, Venezia, 2007, p. 5. 6 J.-P. SARTRE, Orfeo negro in Che cos’è la letunghie, i vestiti, gli oggetti) e rende più Alien, il video di Minette Vari, conscure le altre parti, con il risultato che densa l’intera teoria dell’evoluzionismo teratura?, Milano, Il Saggiatore, 1966, p. 377, dentro la stanza anche la pelle dei bian- in un video che modula immagini ana- citato da Simon Njami in Check List-Luanda Pop cit., p. 2. chi diventa nera. morfiche che sembrano sgusciare l’una dall’altra. Oltre i confini dell’Arsenale, nella chiesa rinascimentale di San Gallo, altre videoproiezioni raccontano nuove nascite e evoluzioni: si tratta della sequenza proposta da Bill Viola in Ocean without a shore. Il posto delle pale d’altare è occupato da tre grandi monitor rettangolari, un trittico serrato per la piccola chiesa con pianta a croce greca, in cui si assiste a un lento viaggio di uomini e donne che avanzano verso di noi, avvolti in una brumosa oscurità. Maggiore è la vicinanza a quella che si intuisce come una soglia – quasi una fitta coltre d’acqua – maggiore è la definizione che le figure acquistano: il passaggio verso di noi è fatale, scolpisce le forme con un getto fortissimo che sembra di gesso, le figure acquistano totale definizione e colore, mentre un rombo Murray, The New World, 2006, Olio su assordante accompagna il loro passag- Elizabeth Dan Perjovschi, White Chalk Dark Issues, 2003, tela su legno, 245.1 x 200.7 x 4.4 cm. Photo Ellen gio. Davanti a noi sono uomini e donne Labenski, Courtesy PaceWildenstein, New York. disegno in gesso su muro, dettaglio dell'istallazione nel Padiglione Italia, foto Massimilano Vannucci. appena nati o appena tornati in vita © Elizabeth Murray. 36 Caffè Michelangiolo Esposizioni Il simbolo come antidoto all’indirizzo naturalista e al materialismo. Un progressivo incontro tra esperienze tecniche, rivelazioni poetiche ed eventi musicali. Il sogno dei Rosacroce e dei Preraffaelliti. La riscoperta del mito e dell’identità nazionale LE MOLTE STAGIONI DEL SIMBOLISMO di Piero Pacini L e frequenti esposizioni, dedicate agli indirizzi figurativi maturati tra l’ultimo quarto dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, sono giustificate dalla progressiva riscoperta di quelle esperienze isolate, ma consequenziali che per lungo tempo sono state considerate con sospetto dalla cultura ufficiale, ancorata alle certezze del “finito” o della ‘bella forma’. Da tempo è stato appurato che, dopo la pubblicazione dell’Après-midi d’un faune di Mallarmè (1876) e di A rebours di Huysmans (1884), la scena culturale europea non era più la stessa: nonostante la concreta esperienza di Émile Zola e le precise indicazioni dei fratelli Goncourt, l’indirizzo naturalista di buona parte d’Europa è “alle corde” e, pertanto, sempre più legittime appaiono le “evasioni” e le sperimentazioni di quei letterati che sono più o meno coinvolti nel vasto e, per certi versi, sfuggente filone del decadentismo. Mallarmè, ad esempio, ricorre ai simboli per chiudere la sfera dei sogni e per rendere l’assoluto; Huysmans si apparta in una squisita clausura di artificiosi manufatti e di coltivate sensazioni per eludere la banalità del quotidiano, anche se talvolta è consapevole di incorrere in nuovi turbamenti psichici. Rilevante è poi la schiera dei ‘nipotini’ di questi letterati, che non mancano di influire sulle sorti delle arti figurative (l’influsso o i riflessi della poetica di Mallarmè si estendono a tanta cultura letteraria e figurativa posteriore, dal Futurismo al Dadaismo, fino alla “Poesia Visiva” dei nostri giorni). Su questa variegata e, sotto certi aspetti, sfuggente vicenda si sono espressi da oltre mezzo secolo gli osservatori storici del fenomeno simbolista, da Joséphin Péladan a Maurice Denis a Odilon Redon; ulteriori acquisizioni sono venute dagli studiosi impegnati ad inquadrare l’esuberante produzione figurativa fin de Caffè Michelangiolo La copertina del catalogo edito da Ferrara Arte, Il Simbolismo. Da Moreau a Gauguin a Klimt, a cura di Geneviève Lacambre. siècle (da Jean Read a John Rewald), mentre da noi fanno ancora testo il catalogo della storica rassegna torinese Il sacro e il profano nell’arte dei simbolisti, i saggi di Renato Barilli e quelli di Anna Maria Damigella. Una nuova generazione di studiosi sempre più agguerriti ha riversato le sue conclusioni critiche e proposto nuovi stimolanti correlazioni nella nutrita mostra sul Simbolismo, tenuta al Palazzo dei Diamanti di Ferrara e alla Galleria d’Arte Moderna di Roma tra il febbraio ed il settembre dell’anno in corso. L’esposizione, curata da Geneviève Lacambre, si avvale della collaborazione di Luisa Capodieci e di Dominique Lobstein, oltre che dei puntuali saggi firmati da Robert Upstone, da Anna Maria Damigella e da Barbara Guidi. La varietà degli studi – accentrati sull’esplorazione di precise aree culturali e supportati da personali scelte bibliografiche – già di per se stessa prospetta un’indagine non convenzionale sugli apporti forniti da un movimento figurativo non facilmente circoscrivibile, e sull’entità dei sotterranei influssi in un clima culturale aperto alle novità, ma anche denso di occasioni a volte sottovalutate ed altre decisamente enfatizzate dalla mania della scoperta a tutti i costi e da un nazionalismo male inteso. Ancora una volta si riscopre che, come nella letteratura, l’area figurativa simbolista continua ad apparire incerta in quanto alle intuizioni personali si sommano echi formali di diversa estrazione ed esiti tecnici alquanto dissimili tra loro, ma sempre intesi a superare la asettiche parvenze del naturalismo sostenuto dalla cultura ufficiale o dallo sfruttamento pubblicitario del plainair impressionista. La Lacambre, ad esempio, ricorda come alla sua prima apparizione su “l’Art Moderne” e su “Le Figaro”, il termine “symbolisme” sia stato giustificato con il ricorso al positivismo francese ed ai principi filosofici di Kant e Fichte; ma di pari passo precisa come, già dal settembre 1886, il poeta Verhaeren si era posto il problema della legittimità di un “simbolismo plastico” nel quale si poteva includere l’opera di Gustave Moreau, di Odilon Redon e di Fernand Khnopff. La prudenza di questa proposta aveva la sua ragione di essere in quando di lì a poco questo termine sarà applicato con varia convinzione e con varie argomentazioni critiche ad opere maturate nella sfere preraffaellita, spiritualista, ideista, sintetista, secessionista e perfino futurista (come rileva Georges-Albert Aurier sul “Mercure de France” del marzo 1891, le sottili disquisizioni degli osservatori più assidui fanno la fortuna del suffisso “ista”). A più di un secolo dalla proposta di Verhaeren – nonostante gli apporti do37 Esposizioni cumentari e le equilibrate letture estetiche – il Simbolismo pittorico non è collocabile in una precisa area geografica e temporale in quanto nella maggior parte dei casi questa tendenza figurativa non trova giustificazione in precisi programmi estetici, anche se trova rispondenze nelle invenzioni letterarie più audaci del momento (Mallarmè, Huysmans, lo stesso Rodenbach); si dà per scontato che si affida soprattutto alla sensibilità e all’immaginazione dei singoli operatori. Nell’ultimo ventennio dell’800 e agli inizi del ’900 il Simbolismo allunga i suoi tentacoli un po’ ovunque e tenta, con esiti variamente consistenti, anche l’immaginazione di artisti alimentati di cultura classica ed orientati dal naturalismo; ne consegue una pittura a volte sostenuta da preziosismi e da raffinatezza tecnica, altre volte sbrigliata al limite della stravaganza ed in ogni caso tesa a superare il risaputo o le banalità del naturalismo. Dominique Labstein, che firma il saggio su Joséphin Péladan, ricorda gli stadi conoscitivi attraverso i quali questo esteta acceso ed esaltato arriva ad individuare le principali cause della decadenza dell’arte nell’accoglimento incondizionato del realismo e Gustave Moreau, L’apparizione, 1876 c,. Parigi, Louvre (prestito Musée d’Orsay). 38 Fernand Khnopff, I lock my door upon myself (part.), 1891. Monaco, Neue Pinakothek. del materialismo. Péladan – che già prima della fine degli anni Ottanta si fregia del titolo di Sâr (Son Altesse Royale) – attraverso varie esperienze letterarie o teosofiche, diventa uno dei punti di riferimento degli adepti al Salone dei Rosacroce e il promotore acceso delle organizzazione che ad esso fanno capo, quali l’Ordine della Rosacroce del Tempio e, più tardi, quello del Tempio e del Graal. Il “manifesto” del 1891 invita a ripristinare il culto dell’ideale con la “tradizione” come fondamento e la “bellezza” come mezzo, proclama la necessità «di distruggere il realismo, riformare il gusto latino e creare una scuola d’arte idealista»; in altre parole, sono bandite la pittura di storia, quella prosaica, la pittura patriottica o militare, le rappresentazioni di vita pubblica e privata; riabilita, viceversa, la dottrina cattolica e i temi pittorici italiani da Margaritone ad Andrea Sacchi, le teogonie orientali, le allegorie espressive o decorative, il «nudo sublimato, del genere di Primaticcio e di Correggio», «gli studi d’espressione alla Leonardo o alla Michelangelo». Alla sterile retorica del materialismo si oppone, pertanto, la nuova retorica dell’idealismo, ma, nonostante la labilità di questi enunciati, su “Le Figaro” del 2 settembre 1891, Péladan annuncia l’adesione di oltre ottanta ar- tisti tra i quali figurano Puvis de Chavannes, Odilon Redon, Khnopff, Astruc e il compositore Erik Satie; lo stesso dà per certe le adesioni di Burne-Jones, di Watt e di altri cinque preraffaelliti inglesi, oltre di quelle dei tedeschi Lenbach e Böcklin. Queste adesioni sono progressivamente disattese nei cinque Saloni successivi, ma è un dato di fatto che nei Salons organizzati dal Sâr si riversa una vera legione di «fate, arcangeli, muse, angeli, vergini, martiri, divinità di tutte le religioni, misteri e sogni». Con diversa convinzione e con diversi esiti, i Rosacroce rivelano al pubblico che esistono altre vie dell’immaginazione da esplorare oltre a quelle codificate dai pittori di storia e dai cantori della vita borghese; oggi si dà per certo che, senza l’acceso proselitismo di Péladan, il simbolismo si sarebbe diffuso più faticosamente in Francia e nei paesi limitrofi. Il saggio di Luisa Capodieci ribadisce – talvolta con informazioni di prima mano – che non tutte le attese dei Rosacroce sono deluse: vuoi per esperienza personale o vuoi perché suggestionati dalle parole infiammate del pirotecnico Sâr, alcuni artisti attuano il sogno di riallacciarsi a certo Jean Delville, L’amore delle anime, 1900. Bruxelles, Musée d’Ixelles. Caffè Michelangiolo Esposizioni “nudo sublimato” del Rinascimento in opere di vario spessore, se ne ha conferma in dipinti come La scuola di Platone di Jean Delville, Il poeta e la sirena di Gustave Moreau, Eros di Armand Point ed anche nelle creazioni androgine di Lucien Lèvy-Dhurmer, che citano liberamente Leonardo, Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1864-70. Londra, Tate Gallery. Michelangelo e Raffaello, vale a dire “il triangolo prodigioso” del sublime. Queste invenzioni – realizzate con finezza tecnica e quasi in una ipnotica contemplazione dei capolavori dei Maestri elettivi – non inaugurano alcun itinerario artistico originale, ma, già per la decisa dissociazione dalla pittura storica e dal realismo pittorico, trovano consensi da parte di Hyppolite Taine e dello stesso Paul Valéry per il quale il nome di Leonardo è già sinonimo del “potere dello spirito”. Nonostante la calorosa ammirazione dei Rosacroce per i Preraffaelliti inglesi, non tutti gli artisti invitati da Péladan compaiono nei Salons da lui organizzati: alcuni prendono le distanze da queste esposizioni (BurneJones, ricorda con ironia “uno strano opuscolo dal tono pomposo”), altri si limitano ad inviare qualche fotografia delle loro opere; ma di lì a poco diversi preraffaelliti fanno la loro comparsa nelle esposizioni della “Libre Esthétique”, che segnano un ulteriore tramCaffè Michelangiolo polino di lancio per la pittura simbolista. Da rimarcare, in queste esposizioni, la presenza di artisti come Puvis de Chavannes, Jan Toorop, Odilon Redon, Maurice Denis e James Ensor; il critico Roger Marx pone l’accento sulla “lotta per un’espressione spirituale” e “contro il materialismo”. Si constata, comunque, che una greve malinconia, se non un malessere latente alle contemplazioni e alle evocazioni estatiche, pesano sulle opere di Edward Burne-Jones, di Dante Gabriel Rossetti, di George Frederick Watts e di altri preraffaelliti di minor spessore: scoperta è la volontà di formulare un’alternativa al materialismo vittoriano e ad un’estetica convenzionale che ha fatto il suo tempo; ma è altrettanto evidente che dall’opera di questi artisti si dipartono molte delle ebbrezze e degli stordimenti, nonché delle atmosfere allucinatorie che alimentano le giornate del decadente Des Esseintes di Huysmans. Ancora una volta – sottolinea Robert Upstone – il “simbolo” costituisce una risposta di artisti insofferenti a regole stabilite a priori e desiderosi di spaziare nei cieli più aperti della sensibilità interiore: ed è proprio per questo desiderio di purezza e di assoluto che le creazioni dei preraffaelliti si impongono all’attenzione dei centri culturali di tutta l’Europa. In una rapida, ma lucida sintesi, Barbara Guidi conferma che, ad una certa data, Simbolismo, Idealismo e Preraffaellismo s’intrecciano nelle mostre delle Secessioni organizzate a Monaco, Vienna e Berlino tra il 1892 e il 1898. Nella Germania guglielmina le novità della rivoluzione estetica operata dagli impressionisti penetrano lentamente, e la maggior parte degli operatori artistici seguita ad essere intrappolata tra le nozioni del naturalismo e dell’idealismo; ma, ad un dato momento, una schiera di giovani artisti reagisce senza mezzi termini ai criteri organizzativi delle giurie “politicizzate” reclamando «la più ampia autonomia possibile», ed ecco che si fa strada uno stile allegorico-decorativo in linea con la pittura di Böcklin e con la filosofia di Nietzsche. La personale concezione della composizione e l’uso antinaturalistico del colore avvicinano L’ora blu di Max Klinger (1890) alle più nuove creazioni della pittura francese inaugurando l’esplorazione dei più «remoti regni della creazione fantastica» e – si aggiunge – del subconscio. Negli anni della maggior diffusione del naturalismo Franz von Stuck espone (1889) Edward Burne-Jones, Merlino ingannato da Morgana, 1874. Nat. Museums Liverpool. Il guardiano del Paradiso dal contenuto chiaramente simbolista e, in corsa col tempo, avvia quel filone di pittura più cupa i cui soggetti allegoricosimbolici sono sostanziati da un erotismo sempre più manifesto, da una forma che sottolinea – e, ad un tempo, esorcizza – le angosce e le paure del tempo. Questa pittura scandalizza i benpensanti, ma, viceversa, impone l’artista ad un pubblico meno conformista, consapevole delle nuove realtà e difficoltà della società in cui vive. Il passo da Von Stuck a Böcklin e a Klimt è breve – tutta la loro opera sembra voler «destare meraviglia o far rabbrividire» – ma si precisa in un breve giro di anni per il personale procedimento tecnico e per la progressiva conquista di un originale mondo figurativo in cui sono calate molte attese e 39 Esposizioni Ferdinand Hodler, La notte, 1890. Berna, Kunstmuseum. molte sollecitazioni del tempo. Böcklin, Klimt, Ludwig von Hofmann ed altri sono avvantaggiati dal possesso di una cultura letteraria e filosofica propriamente germaniche: i turbamenti ancestrali della Grecia preclassica – derivati dalle riletture di Nietzsche e dai temi di Wagner – conferiscono alle evocazioni mitologiche una sostanza decisamente attuale: la sirena della Calma del mare di Böcklin è inquietante come le femmine fatali di Von Stuck; l’atmosfera del Bosco sacro e delle diverse redazioni dell’Isola dei morti è irrespirabile e decisamente funebre. La stessa corrusca e demoniaca Pallade Atena di Klimt – assurta, dal 1898, ad emblema delle Secessioni – costituisce una ripresa ed un potenziamento di un’invenzione di Von Stuck: diviene, secondo il pensiero di Nietzsche, «il vessillo di un recupero ancor più radicato e vitalistico della classicità, che in realtà nasconde più sottese pulsioni di morte» (cat., p. 73). Le implicazioni con il simbolismo europeo riprendono il sopravvento in opere come Le tre età della donna (1905) – in cui riaffiora l’opposizione Eros-Thanatos della lunga tradizione iconografica – e, più chiaramente, nei pannelli del Fregio di Beethoven del 1902, una parafrasi dell’Inno alla gioia di Schiller, tradotta in “pura magia visiva” (L. Hevesi, 1902) grazie ad una intelligente riflessione sulla linea scattante di Toorop e su quella più ricercata di Beardlsey, e grazie anche ad un empatetico incontro con le possibilità decorative dell’oro dei mosaici bizantini. Questa creazione risulta ancor più sorprendente se si osserva la diversa ripresa del filone iconografico tradi40 zionale in L’eletto che lo svizzero Ferdinand Hodler esegue tra il 1893 e il 1894: una personale elaborazione del ritmo insito nella teoria del “parallelismo” potenzia una semplificazione en progress ed approda a un personale stile ieratico, decisamente in linea con il gusto decorativo fin-de-siècle. La penetrazione delle proposte simboliste nell’area italiana – sottolinea il conciso, ma denso saggio di Anna Maria Damigella – si scontra invece con la complessità delle informazioni che gli artisti ricevono intorno alle nuove poetiche idealistiche; e, dati i forti richiami della tradizione, nonché il livello economico e sociale della nazione, si estrinseca con maggiore prudenza, secondo precise qualità di adattamento, e questo nonostante la Gustav Klimt, Il fregio di Beethoven (part.), 1902. Vienna, Osterreichischte Galerie Belvedere. lenta, ma progressiva divulgazione della convergenza pittura-musica dell’estetica wagneriana, e la ripresa del misticismo figurativo incoraggiato dalla rapida diffusione delle religioni orientali e dei principi teosofici. Notevole è comunque l’adesione al simbolo anche da parte dei simbolisti italiani: decisamente coraggiosa è la risposta di Segantini, artista fedele allo studio del vero, ed operoso in un rapporto diretto e costante con la natura. Un sottile fil rouge sembra legare le sue Cattive madri e l’Angelo della vita alle tipologie delle donne preraffaellite e secessioniste, anche se il risultato ultimo rimane indissolubilmente legato ad una esperienza personale e le percezioni sono ricomposte da una singolare sensibilità percettiva. Su un diverso piano creativo si pone invece l’opera di Gaetano Previati che, perseguendo una stretta connessione tra l’immaginazione dell’artista e la tecnica più idonea ad esprimerla, esprime l’eterno conflitto tra il bene e il male, il cammino degli umani attraverso la ciclicità del tempo in un ordine cosmico e, in particolare, la concezione wagneriana della redenzione, secondo la quale l’uomo riconquista la luce partendo dalle tenebre. Su tali convinzioni matura un’opera che, già nel 1891, appare all’Aurier come espressione di un’arte «a un tempo soggettiva, sintetica, simbolista e ideista». Di ben altra opinione sembra essere, invece, Pellizza che mette la sapienza tecnica al servizio della conoscenza del “vero”: vero di memoria e vero trasfigurato da fenomeni luminosi peculiari, di forte afflato poetico. Riflettendo su queste esperienze figurative, il Cena intravede una lunga vita nel simbolo in quanto, da quando il mondo è mondo, sono mutate solo le parvenze esteriori delle cose, mentre «l’idea dell’amore, della lotta umana […] e della inutilità dello sforzo umano sono ingenite in noi; non hanno mutato dal tempo che gli antichi le espressero per mezzo di simboli». Ed ecco pertanto che anche Leonardo Bistolfi fissa nella Sfinge sentimenti senza tempo, legati all’idea della morte e al mistero insondabile dell’aldilà; mentre G. Aristide Sartorio, pur informato delle atmosfere corrusche di Von Stuck e di Böcklin, conCaffè Michelangiolo Esposizioni tinua a professare una fede assoluta “Trittico” di Pavia, alle illustrazioni ripiegamenti in varie esposizioni annegli esempi della classicità e attenua riversate sulle riviste “Fiammetta” e tologiche, non ultima delle quali quelin direzione vitalistica la caducità del- “Riviera Ligure”, ma anche nella la allestita alla Galleria d’Arte Moderle cose e gli smarrimenti privilegiati Commedia edita dagli Alinari). Un na di Roma, dove è stata presentato il dai simbolisti. Sulla strada indicata analogo innamoramento del simbolo dipinto Le Frodi, un’opera che più di da Rossetti e da Burne-Jones, anche si riscontra anche nel ricco immagi- altre lascia intendere una rara comuAdolfo de Carolis sembra essere con- nario di Galileo Chini, in vari mo- nione d’intenti con i protagonisti del vinto che si possano recuperare «le menti della sua attività, nell’impatto Simbolismo ufficiale. idealità del nostro Rinascimento» e con gli eventi traumatici della storia o È ovvio che ogni movimento artiquelle degli idealisti belgi; stico si colloca entro precisi nell’opera si propone di vitermini cronologici, ma è sualizzare l’eterno conflitto anche notorio che, quando “tra slancio combattivo e una tendenza pittorica od sentimento della sconfitta, un certo gusto si precisano tra ascesa e caduta, attraal di fuori di un preciso prozione e rifiuto” (cat., p. 59), gramma secondo apporti ma con una vena di ottimipersonali e con libertà di smo che non si riscontra nei azione, i suoi effetti vanno simbolisti d’oltralpe e – si ricercati anche al di fuori aggiunge- con recuperi fordel cosiddetto “momento mali più o meno sentiti e tastorico”: è stato, ad esemlora anche condizionati da pio, appurato che anche i una scoperta retorica pafuturisti – e Boccioni in pritriottica. mis – hanno ricevuto più di Nel pieno della stagione un impulso da una pittura dannunziana e del maggior alquanto eterogenea, fatta accoglimento delle immerdi incontri eterogenei e di sioni simboliste di Roden- Giulio Aristide Sartorio, La Gorgone e gli eroi, 1895-99. Roma, Gall. Naz. esperienze tecniche anche bach, i simboli fanno la loro d’Arte Moderna avventurose, ma sempre ricomparsa in percorsi stilivolte a salvaguardare la listici alquanto dissimili tra loro e se- al momento delle prove più dolorose. bertà espressiva dell’artista, il suo vicondo parvenze più o meno camuffa- Fabio Benzi e lo scrivente hanno avu- tale bisogno di esprimere le sotterrate. Tra il Lido d’Albaro e la Versilia to modo di sottolineare la ragione di nee attese del tempo e le sensazioni Nomellini, ad esempio, deduce da essere di questi ‘incontri’ o di questi che sono fonte di esaltazione, ma anBöcklin e dagli artisti di Villa Romana che di assillanti interrogativi e di trela voce possente e le furie dell’elemori antichi come il mondo. mento marino, ma ha anche sentore In questo senso, con il termine di della rinascita del mito nell’area gerSimbolismo si è indicato e si contimanica. In ogni caso, la spettacolarità nuerà ad indicare una stagione cultudi certe sue “marine” è spesso riconrale densa di incontri e di proposte fiducibile più ad un afflato panteistico gurative non necessariamente consemolto diffuso nell’aria del tempo e ad quenziali, sulla quale lo storico deluna instancabile adesione ad ogni sorl’arte ha fatto un discreto ordine, ma ta di evento visivo piuttosto che alla sulla quale persistono ancora molti involontà di rivelare agli altri le forze terrogativi ed eventi rimasti nell’omoscure che regolano il destino dell’uobra o svisati da un’ottica strettamente mo e che agiscono indipendentemente personale. La bella mostra, che Maria dalle sue attese. Anche senza raggiunVittoria Marini Clarelli ha ospitato alla gere la coerenza espressiva delle opeGalleria Nazionale d’Arte Moderna di re di Segantini e di Previati, molti alRoma, arriva a confermare la validità tri artisti toscani si soffermano sul di antiche e – secondo vecchi censori – “simbolo” per una breve stagione o rischiose acquisizioni, ed insieme ha tornano a riconsiderarlo in momenti offerto l’occasione per proporre al critici della loro esistenza: a titolo pubblico una più equilibrata lettura esemplificativo, si richiama l’attenziodi una stagione culturale di fondane sull’impatto che il Simbolismo ha mentale importanza per la nascita del sullo scultore e pittore Giorgio Kie- Giovanni Segantini, Il castigo delle lussuriose gusto moderno e per il superamento nerk negli anni a cavallo tra Ottocen- (part.), 1891. Liverpool, The Walker Art Gallery, dei pregiudizi estetici e delle barriere ■ to e Novecento (si pensi, oltre al noto National Museum. culturali. Caffè Michelangiolo 41 Esposizioni Nel monastero di Santa Maria degli Angeli (oggi seminario arcivescovile di Firenze) la mostra dedicata a Maria Maddalena de’ Pazzi nel quarto centenario della morte «L’AMORE NON AMATO» di Francesca Baldassari A quattrocento anni dalla morte, Maria Maddalena de’ Pazzi (15661607) è protagonista di una piccola ma istruttiva mostra nei locali del Seminario arcivescovile di Firenze, già sede dell’antico monastero di Santa Maria degli Angeli, che fu testimone della sua silenziosa vita claustrale, segnata da una straordinaria avventura mistica. Qui ancora oggi si trovano le reliquie più importanti della santa: il pozzo, il refettorio, la cella e la cappella dove si sono svolte le sue ripetute estasi, nonché la lapide che indica il luogo della sua sepoltura. Nel primo chiostro del monastero è, inoltre, ancora visibile la sua bella statua marmorea di Antonio Montauti (1726), restaurata in occasione della presente esposizione. La mostra, curata da Piero Pacini e illustrata dal bel catalogo di Mauro Pagliai (Polistampa), presenta un significativo nucleo di opere d’arte rimaste nascoste a lungo nell’ambito conventuale del monastero delle carmelitane di Careggi ed altre poco note, per lo più appartenenti a collezioni private, che illuminano sull’evoluzione della sua rappresentazione, da umile carmelitana a mistica appassionata. Al pittore fiorentino Francesco Curradi, che professò una particolare devozione per Maria Maddalena anche in seguito alle guarigioni miracolose di alcuni parenti, spettano una quantità infinita di testimonianze artistiche, a partire dalla celebre Vita della Santa madre, datata 1610, composta da ottantasette disegni a matita rossa in cui sono fissati i momenti salienti della sua vicenda terrena e dei miracoli post mortem. L’assenza di questi disegni in mostra, per ragioni di conservazione, è compensata da una serie esaustiva di opere di Curradi e della sua bottega, tra cui si segnalano il Paradiso e la tela ottagonale dove Maria Maddalena è ritratta in preghiera con gli occhi rivolti verso l’alto, in occasione della sua beatificazione (1626). Con queste opere inizia il processo di umanizzazione della santa, il cui sguardo non è più austero e severo, 42 La copertina del catalogo edito da Pagliai Polistampa, Maria Maddalena de’ Pazzi. Santa dell’Amore non amato, a cura di Piero Pacini. come nelle testimonianze più antiche dedicate dal pittore alla santa, ma esprime un senso di adorazione improntato ad una serenità maggiore. La mostra mette in evidenza, inoltre, l’importanza dei Barberini, la famiglia di Papa Urbano VIII, per le celebrazioni di Maria Maddalena. Nel 1637 Donna Costanza Barberini, cognata del Papa, in segno di riconoscenza al monastero che accolse le giovani figlie Camilla e Clarice, inviò alle Carmelitane, trasferitesi nel frattempo nel grande monastero di Borgo Pinti, regali preziosi, tra cui una serie di quadri dedicati alla santa. In mostra sono presenti le due grandi lunette superstiti: Cristo dona alla Beata Maria Maddalena la corona di spine, alla presenza della Madonna e dei santi Angelo carmelitano e Caterina da Siena di Andrea Sacchi e lo Sposalizio mistico della Beata alla presenza dei Santi Agostino e Caterina da Siena di Andrea Camassei. Entrambe le opere sono caratterizzate da un senso di umanità comunicativa, lontane dalle auto flagellazioni e dalle mortificazioni delle prime immagini curradiane. Nel 1669, in occasione della santificazione di Maria Maddalena, fu allestito un teatro sacro nello spazio reale della Cappella Maggiore, ancora più spettacolare di quello della Beatificazione, di cui purtroppo sono sopravvissuti solo i progetti grafici forniti da Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano. A questo punto il visitatore, per completare la conoscenza delle opere dedicate a Maria Maddalena, dovrebbe spostarsi nella chiesa di Borgo Pinti ed ammirare la volta con gli affreschi di Chiavistelli e Gori, la fascia sottostante decorata con dieci tele eseguite da vari pittori, sotto la guida del Volterrano, la straordinaria cappella reliquario di Ciro Ferri (1674-1685) con bassorilievi dell’allievo prediletto Carlo Marcellini, nonché le straordinarie tele della cappella maggiore, affrescata da Pier Dandini, ad opera di Luca Giordano dove la santa è mostrata in tutto il suo ardore mistico. Una delle opere più interessanti della mostra, che compare anche nella copertina del catalogo, è Sant’Agostino che scrive sul cuore di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi. Il bel dipinto spetta, a mio avviso, a Giovanni Camillo Sagrestani di cui costituisce forse la prima opera. La dipendenza dal tardo Simone Pignoni è talmente palese nella Vergine in alto e nel volto di Sant’Agostino, da pensare che Sagrestani l’abbia eseguito quando ancora frequentava la bottega dello stesso Pignoni, verosimilmente negli anni ottantanovanta. Lo stesso soggetto dipinto da Sagrestani nel 1702, conservato nella chiesa di San Frediano al Cestello, mostra l’avvenuta assimilazione della pittura chiara di Alessandro Gheradini, di Sebastiano Ricci e di Luca Giordano che furono i maestri fondamentali per lo sviluppo del suo stile originale e ricco di conseguenze per la pittura locale. L’influenza della pittura francese portò Sagrestani ad adottare una pittura sempre più chiara e leziosa, lontana dalle prime opere ancora legate all’ambiente fiorenti■ no tardo-barocco. Caffè Michelangiolo Esposizioni Al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci a Prato «DANIEL SPOERRI, NON PER CASO» di Eliana Princi I l timbro rotondo, riprodotto nella paquello interno, la natura dell’oggetto, gina iniziale del catalogo della mostra giacché subisce uno slittamento di signidi Daniel Spoerri a Prato avverte: «atficato, una deviazione di senso che sottotention oeuvre d’art», dunque il lettore pone il visitatore a continui interrogativi può supporre che ciascuna parte del voe sollecitazioni. lume, dalla biografia dell’artista a termiL’opera dell’artista è dunque rivolta a ne del libro, alle introduzioni istituzionadisorientare i sensi e il senso comune: i li, risponda al marchio imposto e risulti – quadri sono trappole concettuali, gli asperché sigillata in modo perentorio dalla semblaggi sono Détrompe-l’oeil, perfino volontà dell’artista – essa stessa opera la stanza della pensione in cui l’artista è d’arte. vissuto è riprodotta in bilico, nella giganL’autore, con la sua aura che sfida tesca installazione di bronzo realizzata ogni arbitrio, trasforma il piombo della nel parco di sculture a Seggiano o fotocarta del catalogo e gli interventi diversi grafata in frammenti, secondo la scomche vi sono stampati, nell’oro dell’arte; lo posizione cubista del 1961. stesso ignoto lettore che consulti per caso La mostra, curata da Marco Bazzini e il libro, si trova coinvolto in un compliStefano Pezzato, riassume le tappe sacato gioco di rimandi: da lettore a spetlienti della copiosa carriera artistica di tatore dell’opera che ha tra le mani, e da Spoerri, dai primi Tableaux-piège, alla spettatore perfino a piedistallo dell’opera- Daniel Spoerri, Attention chien mechant, 1962, Catena genetica del mercato delle pulci détrompe-l’oeil, assemblaggio su tela, Milano, libro che sta sorreggendo e sfogliando. (2002), una sorta di fregio neo-rinascicollezione Peruz. Del resto l’assemblage scelto come mentale, allestito con una perfetta strateimmagine della mostra presenta un’ul- criticare fin dai suoi primi dipinti cubisti gia curatoriale a cui ha partecipato lo teriore manipolazione percettiva: un ri- e che Marcel Duchamp aveva totalmen- stesso autore, che funziona come un luntratto infantile di fine Ottocento, un bebé te rifiutato come condizione fuorviante, go e suggestivo racconto autobiografico: in camicina di pizzo, accomodato in pol- torna ad essere analizzata come atto il- un diario visivo delle passioni, delle matrona, dal cui volto pende una vera mu- lusorio. nie, degli incontri casuali con gli oggetti seruola, rafforzata dal titolo: Attention: L’intero lavoro di Spoerri agisce tra – gli interlocutori di una vita – ma anche Chien méchant. inganno e disinganno, tra ciò che sembra le ossessioni, gli interessi, i gusti. Il bebé è un cane mordace, il catalo- e ciò che potrebbe essere: gran parte dei L’ultima stanza della mostra è dedigo della mostra è un’opera d’arte: atten- suoi assemblages propongono immagini cata agli Idoli di Prilwittz (2005-2006), to visitatore, sembra ammonire Spoerri, precofezionate (autentici readymades) bronzi che conservano i canali di scolo il senso delle cose è nascosto e soprattut- piatte, bidimensionali, sui cui l’artista in- della fase di fusione e intrappolano come to non è mai diretto, pronto sulla via terviene incollando oggetti svariati; si mo- in perfide gabbie, figure umane, animali maestra. dificano così le condizioni spaziali del- e oggetti: i titoli ne acuiscono ulteriorBisogna prestare appunto attenzione, l’immagine, l’aspetto esterno, ma anche mente lo straniamento e combinano, tra affinare lo sguardo interno, piuttovista e significato un cortocircuito sto che fare un semplice esercizio aspramente ironico, come accade della vista: in tal senso si pone la sein Ragazzo cinghiale con aratro rie di opere che riflettono sull’atto (2005), Tamburo cappello macchidel vedere, dagli Autoportraits aux na da scrivere, Capra ermafrodita lunettes, 1963, in cui gli occhi sono o ancora Ragazza cefalopede col più oscurati che protetti, al rilievo piede d’elefante. dipinto di rosa Ça crève les yeux Il catalogo propone, per la prique c’est Rose in cui le forbici accema volta in italiano, la traduzione cano la vista di Rose (1966), pasdegli scritti dell’artista dalla fine sando attraverso Voir la paille dans degli anni Cinquanta a oggi, sugl’oeil du voisin et pas la poutre gestivamente montati con le immadans le sien (1964). gini in sezioni autonome, e altra La vista, la visione retinica che Daniel Spoerri, Camera dell’Hotel Carcassonne, 1959-1965, ver- preziosa documentazione come inPablo Picasso aveva cominciato a sione II, Giardino di. terviste e fotografie dell’artista. ■ Caffè Michelangiolo 43 Esposizioni Il “Maestro del Bigallo” entra agli Uffizi. Un percorso essenziale nel panorama variegato della pittura toscana del Duecento. Maria: da “Théotokos” e da “Sedes Sapientiae” a Madre universale. Scientificismo e buon senso nel restauro delle opere d’arte INGRESSO AI SOMMI DELL’ARTE di Piero Pacini L’ acquisizione, da parte degli Uffizi, della Madonna con Bambino in trono e due angeli del cosidetto Maestro del Bigallo – auspicata da Antonio Paolucci e portata a buon fine da Cristina Acidini e da Antonio Natali – esige un’adeguata pubblicizzazione in quanto quest’opera viene a precisare ulteriormente un capitolo della pittura del Duecento e ripropone, in termini di esperienza intellettuale e secondo il buon senso estetico, il problema spinoso e di difficile pacificazione dei metodi d’intervento sulle opere che portano i segni del tempo, dall’usura agli “aggiornamenti” più o meno invasivi. Una volta tanto, queste novità sono state affidate non ad una di quelle pubblicazioni sesquipedali che lusingano la vanità dello storico d’arte e dell’acquirente facoltoso, ma ad un agile volumetto – realizzato con il consueto livello grafico da Polistampa di Mauro Pagliai – e curato da Angelo Tartuferi, un sicuro conoscitore dei Primitivi (gli Maestro del Bigallo, Madonna col Bambino in trono e due angeli, Galleria degli Uffizi. Particolare della Madonna e del Bambino. 44 La copertina del volumetto edito da Polistampa, maggio 2007: Il Maestro del Bigallo e la pittura della prima metà del Duecento agli Uffizi, a cura di Angelo Tartuferi. addetti ai lavori reputano già “classici” testi come La pittura a Firenze nel Duecento del 1990 e L’arte a Firenze nell’età di Dante del 2004). Nell’introduzione alla pubblicazione sul Maestro del Bigallo, Antonio Natali sottolinea i criteri adottati per inserire il nuovo acquisto nella sala progettata sulla metà degli anni Cinquanta da Gardella, Michelucci e Scarpa per accogliere i capisaldi dell’arte occidentale (Cimabue, Duccio e Giotto) e, in «una sequenza di vuoti e pieni liricamente scanditi», le opere di quei pittori che hanno avviato un nuovo corso dell’arte sacra. L’inserimento della tavola del Maestro del Bigallo e della Madonna di Casale in uno spazio considerato uno dei punti d’arrivo della museologia moderna, poteva incrinare l’equilibrio espositivo a cui erano pervenuti gli architetti ricordati, ma la soluzione adot- tata risulta ugualmente meditata e valorizza ulteriormente la Sala dei Primitivi. Ecco pertanto che, in virtù di queste importanti acquisizioni, il quadro della pittura toscana del Duecento si arricchisce di due presenze che hanno avuto un ruolo non secondario nella graduale conquista del “naturale” o, se vogliamo, nel passaggio dal “greco al volgare” di vasariana memoria. Angelo Tartuferi ripropone, con una chiara esposizione di confronti e di stringenti relazioni culturali, la figura del poco noto Maestro del Bigallo: analizza le peculiarità stilistiche delle poche opere sicuramente autografe, ma tiene conto anche di quelle che gli sono attribuite con argomentazioni degne di considerazione; di pari passo, ricostruisce la mobile trama figurativa del tempo – variegata di convergenze, di echi o di suggestioni formali – in cui operano personalità indiscusse, ma dal percorso ancora problematico, come il Maestro del Crocifisso n. 434, Coppo di Maestro del Bigallo, Madonna col Bambino in trono e due santi (completamente ridipinta), FIrenze, Conservatorio delle Montalve a Villa La Quiete. Particolare della Madonna e del Bambino. Caffè Michelangiolo Esposizioni Marcovaldo, Bonaventura Berlinghiero ed altri. La nuova presenza artistica appare tutt’altro che ordinaria, in quanto rimette in discussione i consolidati schemi della tradizione figurativa in sintonia con le attese del tempo e con un rinnovato approccio alla immagini della Fede. Il Crocifisso dipinto della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, ad esempio, s’impone per quella rasserenata conquista del motivo che, in anticipo sulle più energiche invenzioni di Cimabue, trova esempi nella scultura lignea toscana del primo Duecento (tra i tanti, quello, altissimo, della sperduta chiesa di San Gersolé, oggi al Museo d’Arte Sacra di Certaldo), ma che trova ulteriori e stimolanti esempi nelle croci dipinte, diffuse tra Pisa e Lucca. Ma è soprattutto nella produzione delle immagini di Maria – intesa come “Theotokos” e come “Sedes Sa- Maestro del Bigallo, Madonna col Bambino in trono e due angeli, Firenze, Galleria degli Uffizi. Caffè Michelangiolo tone e, in tempi più vicini a noi, lo stesso Gino Severini ha riconsiderato con grande interesse in quanto vi riscopriva tanta di quella sapienza costruttiva alla quale gli artisti del suo tempo si erano avvicinati mediante l’applicazione alla pittura delle regole geometriche e la riflessione sulle teorie scientifiche della luce e del colore. L’itinerario attraverso la pittura del Duecento – che Angelo Tartuferi ha precisato sui dati acquisiti in indagini progressive e consequenziali – ripropone con autorevolezza anche il problema del restauro delle opere d’arte, che in questi ultimi anni – vuoi per eccesso di zelo o per un malinteso criterio di “scientificità” – ha motivato sterili e, talora, anche poco civili discussioni tra gli addetti ai Maestro del Crocifisso n. 434 (e Pittore del XVII secolo), Crocifisso dipinto, Firenze, Villa La Quiete, Conservatorio delle Montalve. pientiae” – che si avverte l’effetto della diffusione delle più antiche litanie mariane, ovvero la chiara intenzione di infondere nella sacralità delle immagini di estrazione bizantina caratteri e modi di essere più accessibili o più vicini al “naturale”. La Madonna del Maestro del Bigallo, esposta oggi nell’area riservata ai Sommi dell’arte, si presenta con un’espressione ancora concentrata, ma non rimanda più alle icone bizantine: la rotondità del volto e la semplicità del gesto arrivano invece ad evocare una sana donna del popolo (Giotto valorizzerà ulteriormente quest’impressione di semplicità e di maternità); gli occhi «lievemente in tralice» – annota Cristina Acidini – «ci fissano serissimi, vigili e un po’ curiosi» (si richiama l’attenzione del lettore sulla pregnanza di quest’ ultima indicazione). Lo stesso Bambino – inteso ancora come “Dominus” e, con minor convinzione, come “Dominatur” – costituisce una buona indicazione per il più vigoroso pargolo di Giotto, di sano ceppo contadino. L’icona in questione risulta ulteriormente comunicante per i siglati modi plastici fortemente allusivi e potenzialmente “dinamici”, potenziati da un decorativismo che, sulla fine del Duecento, ha sedotto l’aretino Margari- Pittore toscano, Madonna col Bambino in trono e Annunciazione, Firenze, Galleria degli Uffizi. 45 Esposizioni lavori. Partendo dal principio che un’opera d’arte non può essere confrontata con un’altra se non se ne conosce la “pelle” – ovvero le superfici cromatiche liberate dallo sporco e dagli “aggiornamenti” più o meno invasivi – Tartuferi segue con passione le tappe dei restauri e, solo a conclusione degli interventi, le sue ipotesi si tramutano in certezze. La recente pulitura del Crocifisso dipinto di Tereglio (Lucca), ad esempio, gli ha permesso di avvicinare questo testo al Maestro del Crocifisso n. 434 degli Uffizi, mentre la pulitura della Madonna con Bambino e due Santi del Museo d’Arte Sacra di Certaldo gli ha rivelato i modi pittorici del Maestro del Bigallo. Date questi apporti, oggi egli auspica la pulitura di opere fortemente ridipinte come la Madonna con il Bambino in trono e due angeli del Conservatorio delle Montalve e la Madonna col Bambino del monastero di Rosano, come della stessa Madonna del Bordone di Coppo di Marcovaldo in Santa Maria dei Servi a Siena. Tartuferi affronta il «problema spinoso delle ridipinture più o meno “ravvicinate” dei dipinti duecenteschi» senza timore di apparire isolato o controcorrente: ritiene che «il mantenimento aprioristico di ogni qualsivoglia riipintura, persino di quelle molto antiche, non sia da ritenere dogmaticamente la strada più giusta da seguire». Per questa convinzione, reputa che si debba ancora intervenire nel Crocifisso dipinto del Conservatorio delle Montalve, opera ascritta con certezza al Maestro del Crocifisso n. 434 agli Uffizi, ma nelle tabelle totalmente ridipinta da un anonimo pittore del XVII secolo. I paladini della “storicizzazione” dei mutamenti del gusto continuano a trovare legittimi gli aggiornamenti seicenteschi; ma, già in un primo impatto con l’opera, l’osservatore riceve impressioni contraddittorie ed ambigue: le figure laterali non rendono giustizia allo strazio delle immagini primitive; il Padre Eterno con la Colomba dello Spirito Santo, la Maddalena e gli angeli dele tabelle terminali immettono nella rappresentazione del Crocifisso un anacronistico spirito controriformistico. Pertanto la proposta di Tartuferi si prospetta più che doverosa non solo per la dissonanza stilistica dell’aggiornamento seicentesco, ma soprattutto per il fatto che le radiografie 46 MACCHIAIOLI A ROMA nel Chiostro del Bramante (11 ottobre 2007-3 febbraio 2008) La mostra curata da Francesca Dini, che già l’aveva presentata a Torino alla Fondazione Palazzo Bricherasio, è ulteriormente arricchita per l’edizione romana di splendidi capolavori quali La scolarina di Giovanni Fattori, Il rio a Riomaggiore di Telemaco Signorini esposto per la prima volta, Carro e bovi nella Maremma toscana di Giuseppe Abbati. La rassegna propone un itinerario di oltre cento opere, articolato in otto sezioni, volto a studiare l’originale e rigoroso rapporto dei Macchiaioli con “i princìpi del vero”, ossia con quella realtà naturale che già Emilio Cecchi individuò come l’approdo poetico del movimento toscano. I Macchiaioli rappresentano il più straordinario evento pittorico italiano dell’Ottocento e una delle più originali avanguardie nell’Europa della seconda metà del secolo. Soltanto in tempi recenti gli studi sono venuti riscoprendo la complessità ideologica e culturale sottesa alla vicenda della “macchia”, per cui essa appare finalmente non come un fenomeno occasionale bensì il riflesso di una civiltà con i suoi valori ideali e civili, le sue aspettative di libertà e di giustizia sociale, le sue predilezioni culturali. Edito da Silvana, il catalogo a cura di Francesca Dini che è anche presente con un proprio scritto intitolato Poesia dei Macchiaioli, si avvale delle schede critiche di Silvestra Bietoletti e Rossella Campana e offre un panorama dell’epoca dei Macchiaioli, grazie ai contributi di Zeffiro Ciuffoletti (Il patriottismo melanconico e sofferto dei Macchiaioli), di Luciano Alberti (I macchiaioli e la musica), di Silvio Balloni (Telemaco Signorini, i macchiaioli e gli ambienti letterari del tempo). La Redazione hanno attestato che «la pittura ducentesca sottostante è conservata per la maggior parte e presenta interessanti variazioni iconografiche […] non solo nel tabellone principale, ma anche in quelli laterali». Finalmente una voce chiara nel campo del recupero delle opere d’arte, in cui si scontrano opinioni sostenute da argomenti più o meno solidi, ma anche interessi settari destinati a creare nuovi centri di potere nel settore che tutela le opere d’arte, e in un momento in cui, in nome delle scientificità operativa, si tende ad omologare l’unicità delle varie espressioni figurative. La diatriba tra gli interventi conservativi e gli interventi stilistici, tra il criterio “purista” e quello “imitativo” ha superato i limiti di un corretto confronto dialettico: da tempo dilga la moda delle “toppe” bianche che ostacolano la comprensione dell’unità compositiva dell’opera e, in certi casi, ne vanificano la funzione didattica in quanto la presentano agli spettatori come disiecta membra sopra un tavolo anatomico (per esemplificare questa situazione, si richiama alla memoria del lettore la situazione attuale degli affreschi di Giotto a Santa Croce e della stesssa Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi). Contrariamente ad alcuni storici dell’arte che sbandierano il problema del restauro con colpi di scena o con conclusioni intransigenti, Tartuferi porta avanti il dibattito sul restauro in termini civili e con argomentazione riprovate sul contatto quotidiano coi testi pittorici e sulle indagini tecniche (se na più di una conferma nelle motivazioni serene che oppone a certe ipotesi critiche di C.L. Ragghianti, di A. Caleca, di L. Bellosi e dello stesso M. Boskovits); ma, purtroppo, certe prese di posizione tardano a fare marcia indietro o ad imboccare la via del “buon senso”, in quanto l’acribia e le conclusioni critiche si appigliano sempre più frequentemente ad argomentazioni fumose e a preconcetti che distolgono l’osservatore dalla comprensione della funzione primaria delle opere d’arte, dalla loro qualità di “segno” e di “Biblia pauperum”, nonchè dai criteri di visibilità studiati dagli artisti del passato per inserire le immagini della Fede in determinate at■ mosfere ambientali. Caffè Michelangiolo Decima Musa Per i settant’anni di Dustin Hoffman (Los Angeles, 8 agosto 1937) e alla presenza di Jon Voight, riproposto alla Festa Internazionale del Cinema a Roma in ottobre il cult movie di John Richard Schlesinger che lanciò definitivamente i due attori NEL FANGO DI MANHATTAN di Sandro Melani Q uando approdò sull’altra sponda dell’oceano per realizzare Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, 1969), adattando l’omonimo romanzo di James Leo Herlihy che probabilmente sarebbe stato altrimenti destinato a un rapido oblio, John Schlesinger (1926-2003), dopo un tirocinio costituito da esperienze documentaristiche culminate in Terminus (1961), si era già assicurato una discreta fama di regista eclettico, in grado di passare, e con notevole disinvoltura, da lungometraggi più o meno strettamente legati al clima culturale degli Angry Young Men e del Free Cinema britannico ad accurate trasposizioni di opere letterarie. Aveva infatti al suo attivo da una parte Una maniera d’amare (A Kind of Loving, 1962), Billy il bugiardo (Billy Liar, 1965) e l’allora sopravvalutato Darling (1965), che aveva valso l’Oscar a Julie Christie, e dall’altra il fedele ma un po’ inerte adattamento di un romanzo di Thomas Hardy, Via dalla pazza folla (Far from the Madding Crowd, 1967). L’esperienza maturata ai margini del Free Cinema del Karel Reisz di Sabato sera, domenica mattina (Saturday Night and Sunday Morning, 1960), del Tony Richardson di Sapore di miele (A Taste of Honey, 1961) e del Lindsay Anderson di Io sono un campione (This Sporting Life, 1963), quel “Kitchen Sink Cinema” proteso a rivolgere l’attenzione agli strati sociali troppo spesso ignorati dalle produzioni ufficiali, lo aveva reso il regista ideale per dipingere un ritratto di New York e dell’America che sfuggisse, come ormai imponeva la tendenza anti-hollywoodiana della New Wave cinematografica, ai frusti stereotipi del cinema più convenzionale. Erano gli anni in cui l’immagine ottimistica ed edulcorata degli Stati Uniti veniva sistematicamente frantumata da una serie di pellicole tese a rivelarne, senza peraltro rinunciare a un’appassionata dichiarazione d’amore, un volto nascosto. La dissacrazione poteva con SolCaffè Michelangiolo Dustin Hoffman e Jon Voight in un fotogramma famoso tratto da Un uomo da marciapiede, il film di John Richard Schlesinger del 1969. dato blu di Ralph Nelson (Soldier Blue, 1970) ribaltare la versione ufficiale delle lotte tra bianchi e pellerossa ed equiparare senza possibilità di equivoci lo sterminio degli indigeni alla guerra nel Vietnam, oppure con Easy Rider di Dennis Hopper (1969) puntare il riflettore sulla violenza e sull’intolleranza della società e con altrettanta inequivocabilità alludere nel tragico finale agli assassini di John e Robert Kennedy e di Martin Luther King, o ancora, per portare un ultimo esempio, con Cinque pezzi facili di Bob Rafelson (Five Easy Pieces, 1970) scavare nel profondo ma vitale disagio interiore di quanti non potevano rinunciare allo sviluppo di una coscienza critica, rivelandosi così incapaci di accettare una serie di valori preconfezionati e ormai sclerotizzati. Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, Un uomo da marciapiede è diventato un cult movie, anche se la forza d’urto che esso ebbe alla sua prima uscita si è senza dubbio attenuata, sorpassata da maggiori audacie rappresentative, e la violenza emotiva del suo impatto lascia quindi trasparire con sempre maggiore evidenza i limiti e, più che altro, le astuzie di un’operazione che finiva per farsi riassorbire nel meccanismo dello star system nel momento stesso in cui sembrava prenderne le distanze. Ne erano già allora una spia abbastanza eloquente le interpretazioni di Jon Voight nel ruolo di Joe Buck e di Dustin Hoffman in quello di Enrico “Ratso” Rizzo (Rico nella versione italiana, che così rinuncia, forse per un soprassalto di orgoglio nazionalistico, all’allusione ai topi di fogna contenuta nel soprannome), il primo un insoddisfatto lavapiatti ma aitante all American boy che nella sua sprovveduta ingenuità si trasferisce dal Texas a New York con l’intenzione di intraprendere una strepitosa e remunerativa carriera come stallone per ricche signore deluse dalle prestazioni sessuali dei loro consorti o amanti, il secondo un claudicante imbroglione e reietto italo-americano, figlio di uno sciuscià che fino alla morte ha inalato l’odore della cera da scarpe nei meandri della metropolitana: interpretazioni esemplari, certo, ma forse fin troppo degne dei collaudati insegnamenti dell’Actor’s Studio newyorkese di Lee Strasberg. Ne furono poi un’ulteriore spia gli Oscar che gli vennero assegnati nonostante che la censura americana lo avesse contrassegnato con la X riservata alle pellicole pornografiche (miglior film, migliore regia e migliore sceneggiatura a Waldo Salt) o le nominations che ricevette (Dustin Hoffman, Jon Voight e Sylvia Miles nel ruolo della prostituta Cass da cui Joe Buck, forse convinto che dal suo stesso cognome si possano sprigionare magici influssi in grado di fargli piovere in grembo le verdi banconote, non riceve il compenso sperato e a cui deve anzi scucire parte dei suoi risparmi). E l’elenco delle pecche del film potrebbe continuare: è troppo insistito nella sua dimensione il47 Decima Musa lustrativa e documentaristica il festino a base di alcol, droghe e musiche e luci psichedeliche in cui Joe e Ratso si mescolano alle creature di Andy Warhol, da Viva a Paul Morrissey, e appare sovrimposta la poeticità che dovrebbe scaturire dalla nascita dell’amicizia dei due diseredati nel corso della loro forzata convivenza nel fatiscente edificio in cui cercano riparo dalle inclemenze dell’inverno di New York, con quella tosse continua dell’italo-americano che stuzzica inevitabilmente il ricordo delle tisiche eroine del melodramma nostrano, come a suo tempo notarono Tullio Kezich e Alberto Moravia, citando l’uno la Mimì pucciniana e l’altro la Violetta verdiana. Sono scivoloni kitsch nel patetico, come lo è la morte di Ratso in una pozza di fetida urina proprio quando il greyhound su cui sono saliti muovendo alla ricerca di un’impossibile guarigione per l’uno e di un’ardua rigenerazione morale per l’altro si sta avvicinando a Miami. È il momento in cui i risvolti melodrammatici della vicenda rischiano di far precipitare il film nel grottesco, ma subito dopo l’intelligenza di Schlesinger riprende il controllo della situazione, cosicché, nel momento in cui si dovrebbe definitivamente configurare come una sorta di agognata terra promessa in cui piantare di nuovo le radici, Miami viene spogliata di qualsiasi mistificazione dalle ultime immagini, dedicate ora al volto livido di Ratso e allo sguardo impaurito di Joe, ora alle anziane signore che dimenticano all’istante la tragedia a cui hanno appena assistito per ritoccarsi ancora una volta il trucco, ora ai segni di una sfacciata opulenza urbana che per i due diseredati può solo riflettersi nei vetri del finestrino per poi lentamente oscurarsi e lasciare spazio ai bianchi titoli di coda su fondo nero. A dispetto dei suoi difetti e in virtù dei sui pregi, il film continua intanto a sedurre lo spettatore e a imporsi su di lui con una suggestione innegabile, forse sprigionata dall’amarezza perfettamente riassunta dal titolo originale, in cui midnight smentisce, minandola alla base, l’eroica e integra robustezza del termine cowboy, che di per sé rimanda istantaneamente a un mito di virilità ben più prepotente di quello offerto dal semplice man. Joe Buck non è certo un cowboy professionista, anche se di un cowboy come John Wayne assume o cerca di assumere l’abbigliamento – dal giaccone di 48 pelle con le frange alla valigia di pelle di mucca, probabilmente finta, e agli stivali scuri con i ghirigori in cui sarà costretto a versare un po’ di profumo per nasconderne il puzzo – e magari l’andatura spavalda di chi crede di potersi sempre reggere bene sui talloni. In compenso Joe si ritiene un magnifico stallone. Quello Jonathan Voight (Yonkers, Stato di New York, 1938) in una scena di Enemy of the State, 1998, regia di Tony Scott. Dopo essere stato uno dei belli della new wave americana anni settanta, con Runaway Train del 1985 anticiperà la sua seconda stagione artistica di personaggi negativi ma di massiccia vigoria. che non sa, però, è di essere in realtà un Ercole senza piedistallo, costretto a prostituirsi sulla Quarantaduesima strada con giovani impacciati gay che non possono nemmeno rispettare l’accordo economico pattuito e che finiscono per suscitare la sua compassione o con non più giovani omosessuali della middle class, tormentati dai sensi di colpa, a cui deve estorcere il compenso concordato ricorrendo a una violenza che essi sono costretti a subire affinché il loro segreto possa conservarsi tale. Con Shirley poi, l’unica sua cliente danarosa, interpretata da Brenda Vaccaro, come hustler Joe è un vero fallimento: colpa dell’alimentazione sommaria che lo ha sostentato a New York e magari delle sostanze assunte al festino psichedelico oppure di un’insicurezza sulla propria identità sessuale a cui sembra alludere la violenza di gruppo a cui è stato sottoposto al tempo della sua relazione adolescenziale con la ragazza, Annie la pazza, le cui adoranti parole continuano a riecheggiargli nella mente? Ancor prima che appaiano i titoli di testa, il film si apre con una sequenza straordinaria: sullo schermo bianco di uno squallido drive in texano rimbomba il frastuono di alcuni colpi di fucile e degli zoccoli dei cavalli, poi la macchina da presa si allontana per inquadrare uno spazio vuoto e desolato in cui campeggiano sullo sfondo le attrezzature di un parco giochi, tra cui un cavallino a dondolo cavalcato da un bambino, forse lo stesso Joe, che da adulto, dei cowboy del mito americano sarà soltanto una sorta di scoronamento parodico. Nel suo passato non vi è che il ricordo di una serie di dolorosi e traumatici abbandoni, dalla madre che, in quanto frutto indesiderato di chissà quale amplesso, lo lascia bambino alle cure della disinvolta nonna Sally e dei suoi non più giovani cavalieri di estrazione rurale alla squilibrata Annie, sottrattagli dalla polizia dopo il suo definitivo crollo nervoso, abbandoni reiterati poi dalla scomparsa della nonna durante il servizio militare e, infine, dalla morte di Ratso, quel trapasso inglorioso che non è assolutamente possibile esorcizzare. Del passato, o meglio, delle svanite presenze di questo passato, continuano a riecheggiare le voci delle persone che ha incontrato, quelle che lo hanno lasciato e quelle da cui si è volutamente staccato allorché ha dato inizio all’inutile inseguimento dell’effimero sogno americano, che Ratso condensa nell’immagine di una spiaggia assolata su cui trascorrono in ozio i loro ultimi anni di vita e di pacchiani piaceri fitte schiere di anziane signore impellicciate e cariche di gioielli, moderne garguglie delle quali Ratso, in un immacolato abito bianco, è il ricercato e coccolato beniamino. Sono voci lontane che si perdono in spazi enormi, ora assolutamente deserti ora gremiti di corpi rigorosamente anonimi, quasi senza volto e senza espressione, distese urbane o extraurbane solcate da strade su cui nessuno ti può soccorrere perché non c’è nessuno che lo possa fare o nessuno che abbia l’intenzione di farlo. Sul greyhound che lo porta a New York o su quello che lo conduce a Miami Joe Buck scivola verso una meta illusoria sulle strade di un’America indifferente che non chiede e non concede nessuna forma di perdono e gli offre soltanto la dimensione di una inde■ siderata solitudine. Caffè Michelangiolo Arte e Scienza Sorprendenti quadri di patologia nelle Metamorfosi di Ovidio LE SCOPERTE DI UN PATOLOGO di Giorgio Weber … lor vanità che par persona Inf. VI 36 L a prima volta che l’ho visto, il Marsia scuoiato, è stato sfogliando il catalogo delle opere di Tiziano, esposte al Prado nel 2003, in una memorabile mostra. Il quadro, di incredibile espressività, è pressoché inaccessibile giacché si trova a Kromeric, nella Repubblica Cèca. L’ho ritrovato, quel satiro dal cui sangue avrà origine il fiume Marsia, nelle mani del figlio di Latona, nei versi delle Metamorfosi di Ovidio (Libro VI, vv. 388395), ove a lui, per la funesta gara col flauto, «la pelle», dice il poeta, «viene strappata da tutto il corpo»: ed ecco che Ovidio si incanta a guardarli quei muscoli «che restano alla scoperto, con le vene pulsanti e brillano non più protetti dalla cute» e conclude che a Marsia «glieli potresti contare i visceri che palpitano». Mosso da queste immagini, ho principiato a scorrere, con attenzione di patologo, il folto bosco delle Metamorfosi di Ovidio incontrando qua e là quadri nascosti di vere e proprie malattie che mi sono giunti inaspettati. Così è stato per l’incontro con l’affascinante ninfa Cìane siciliana, addolorata e per il ratto di Proserpina e perché la sua fonte è disprezzata. Ella «portò in silenzio dentro di sé quella ferita e si distrusse in lacrime». E, continua e insiste Ovidio, «Avresti visto le sue membra ammollirsi, le ossa flettersi (ossa pati flexus), le unghie perdere durezza […] e tutta lei svanire in gelida acqua». S’erano veduti dunque i visceri palpitanti del satiro Marsia durante lo scuoiamento; ora si vedono della ninfa Cìane le ossa flettersi, le unghie perdere di durezza: e come non pensare per lei a una intensa decalcificazione, se non a un vero e proprio morbo di Paget, o ad una osteogenesi imperfetta o, più facilmente, a una forma di rachitide? A contrasto, ecco Niobe, la figlia di Tantalo, moglie del re di Tebe, fiera dei Caffè Michelangiolo Apollo e Dafne, nella stupenda scultura di Gian Lorenzo Bernini della Galleria Borghese a Roma: sono evidenti l’allungarsi dei piedi della Ninfa in radici, il mutarsi delle sue chiome in fronde d’alloro, come nel Libro I delle Metamorfosi di Ovidio. suoi dodici figli: che Apollo e Diana, nati dalla gelosa Latona, ad uno ad uno, per ordine della madre, le uccidono, tutti quanti. E Niobe (Libro VI, vv. 248-315) la vediamo come serrarsi e bloccarsi in una rigidità totale del corpo e farsi muta, finché diviene pietra. È ovviamente una metamorfosi, rapida (com’è tutto in Ovidio, nota Italo Calvino), ma per me patologo questa rigidità potrebbe anche esprimere aspetti di un morbo di Parkinson avanzato o di un morbo di Alzheimer in fase terminale, allorquando il paziente diviene tutto rigido e muto (per riprendere le parole del grande Atlante neurologico del Netter (CIBA). Dopo questi primi incontri, pressoché casuali, con inattesi (e finora non considerati) quadri di malattia, celati sotto le fantastiche metamorfosi del poeta, ho intrapreso un esame più metodico, pur negli ovvii limiti di una simile indagine, dell’intero testo del poema di Ovidio con intenti di esplorazione patologica. Ed ho anzitutto constatato come non sempre ci si trovi di fronte a feroci attività punitive di divinità giacché alle volte sono gli dei stessi a patire malattie improvvise, affatto imprevedibili per loro nonché per lo stupefatto patologo esploratore della selva ovidiana. Ci accorgiamo così come alla notizia che la bella Corònide, da lui amata, (Libro II, vv. 600-603) giace con un giovane dell’Emònia, accada al dio Febo stesso qualcosa di fulmineo: al dio innamorato infatti cade l’alloro dal capo ed egli perde la vista, gli cade di mano l’archetto e impallidisce il volto. Per me patologo qui si narra inconsapevolmente, sotto veste di metamorfosi, lo svolgersi di un’amaurosi totale transitoria nel quadro di un vero e proprio attacco ischemico cerebrale transitorio (un TIA come oggi si dice). E infatti il dio, poco dopo, a vendetta, terminato l’attacco, può colpire a morte l’infedele amata e a lei «col sangue si disperse la vita, fredda morte invase il suo corpo, svuotato dell’anima». Qualcosa di similmente transitorio (pur senza la cecità) accadde a Cèrere (Libro V, vv. 509-510) quando «rimase a lungo come paralizzata» (Stupuit ceu saxea voces adtonitaeque diu similis fuit) a causa del dolore per l’avvenuto rapimento della figlia, Proserpina. Poi il tremendo stordimento (gravis amentia dice Ovidio) passò. E si ricordi come già nell’Iliade sia proprio Ecuba a perdere la luce degli occhi quando vede il figlio Ettore morto, trascinato via dagli Achei (Canto XXII, v. 466). Analoga, anche se meno patetica (ma non transitoria), è la cecità di Fetonte (Libro II, vv. 180-181) quando, preso dal terrore di ciò che ha fatto, «un velo di tenebra gli calò sugli occhi» ed 49 Arte e Scienza egli perde del tutto la capacità di dirigere i focosi cavalli del carro paterno e tutto finisce e crolla fino al fulmine di Giove, che descriverà poi Michelangelo stesso. E quindi piangono le sorelle, le Elìadi, in lutto per la morte che ha colto lui, il fratello Fetonte (Libro II, vv. 350-360). E la maggiore d’età, Faetusa, si accorge a un tratto che le si sono irrigiditi i piedi. Accorrerebbe subito verso di lei la “candida” sorella Lamezie ma anch’essa viene trattenuta dal muoversi per via di una “radice” che le trattiene il piede e non può muoversi neppure la terza sorella cui adesso un ceppo serra il corpo e, mentre con le mani crede di strapparsi i capelli, questi sono ora fronde d’albero. Questi tragici impedimenti possono esprimere, mi sembra, una serie di paralisi, forse forme di poliomielite. Il tutto ci appare qui addirittura quasi come un’epidemia familiare della paralisi stessa. Analoghe le sventure che accadono a Drìope (Libro IX, vv. 350-355) figlia di Eurito, re di Eucalia, quando «i piedi le rimasero inchiodati mettendo radici […] una corteccia le serra gli inguini, fa per strapparsi i capelli ma si trova le mani piene di foglie». È divenuta anch’essa una pianta, di giuggiolo; le Elìadi invece erano divenute pioppi. E così è quindi per Mirra (Libro X, vv. 490-494) e per le donne di Tracia che hanno ucciso Orfeo (Libro XI, vv. 71-84). Qualcosa dunque, come è accaduto anche a Dafne nel Libro I (vv. 548-552), inseguita da Apollo innamorato, alla quale «il piede resta inchiodato da pigre radici» mentre il petto vien cinto da una fibra sottile: Dafne è divenuta alloro, come ci narra poi il Bernini nella statua stupenda. Ma non si avverte qui il peso, altrove a me palese, di una malattia, nella estrema levità innamorata dei versi di Ovidio. Il fatto che accade è lo stesso che accade alle Elìadi o a Drìope. Ma la poesia, qui altissima, quasi annulla la realtà della malattia forse perché, come dice Niels Bohr, «è ciò che circonda la parola che le dà significato». Lucrezio ha ragione di dire (Lucrezio II, vv. 700-706, trad. Enzio Cetrangolo): Nemmeno è da credere che tutte le specie di atomi si possano insieme legare con altre specie qualsiasi: ché allora vedresti dovunque sorgere mostri […] 50 nascere rami fronzuti da corpi viventi stirpi terrestri mischiarsi a stirpi marine […] Ma Ovidio, impavido, quei rami li vede nascere dal corpo delle Elìadi, di Drìope e di Dafne e vedremo appresso come addirittura egli ci mostri anche il trasformarsi del pescatore Glauco, inna- uccise, Cadmo «cade bocconi sul petto», le gambe «si fondono insieme»: divengono cioè ingovernabili (Libro IV, vv. 579590); «in pectus cadit pronus» dice il poeta ed al patologo appare davanti agli occhi un’apoplessia da emorragia cerebrale con paraplegia bilaterale, che progressivamente si estende agli arti superiori. E qui Ovidio tocca vertici di pietà e di umana poesia. Cadmo infatti tende le braccia «finché gli restano» e chiede alla moglie di prendergli una mano «finché è una mano, finché il serpente non mi invade tutto […]» e le parole quindi si spengono «in un sibilo» e la moglie grida (v. 591): Cadme mane […] his exue monstris Cadme quid hoc? Ubi pes? Lo scheletro nell’Osteogenesis imperfecta e le ossa che si flettono nel rachitismo, come nella Ninfa Cìane dal Libro V di Ovidio (da Pathologische Anatomie di Ludwig Aschoff, Jena, 1913). morato di Scilla, in un essere acquatico, simile a una sirena. Accanto a queste, si colloca la storia, per noi anch’essa da leggere nell’ambito della patologia neuropatologica, del fondatore di Tebe, il mitico re Cadmo. Egli, prostrato dal dolore per le sciagure occorsegli e come frastornato per i prodigi che ha veduto, lascia la città, peregrino, insieme con la moglie e con lei discorre delle sventure degli anni trascorsi. E a un tratto, mentre rievoca il serpente che egli «Cadmo rimani, non andartene, Cadmo cosa accade, dov’è il tuo piede?» chiede, e per le sue parole ci sembra di essere all’improvviso con Amleto quando si appresta la seppellitura di Ofelia e lui ha intanto in mano il teschio di Yorick e si domanda dove sono ora le labbra del buffone che baciavano lui da bambino. Il dramma di Cadmo si attenua infine con il divenire anch’ella, la moglie, serpente, a lui abbracciata. Complessi e ben singolari ci compaiono adesso dinanzi, nel Libro II (vv. 820-832), gli accadimenti che colpiscono la famiglia di Cècrope, il primo e mitico re di Atene (per metà uomo e per metà serpente). Infatti un giorno lo sguardo di Mercurio cadde sulla ieratica processione (quella stessa che troveremo scolpita nei fregi del Partenone) di regali e caste fanciulle, che portavano alla rocca di Pallade, su canestri inghirlandati poggiati sul capo, puri e santi arredi. Il figlio di Giove subitamente si invaghisce della più bella, Erse. Ma quand’egli la cerca nella reggia, la sorella Aglàuro lo respinge dalla casa. Suscita così la collera di Minerva, che scatena addosso alla povera Aglàuro la stessa Invidia, rimossa dalla sua tana, ove essa si ciba di vipere. Aglàuro adesso è morsa da un dolore occulto e, dice Ovidio, spasimando ella di giorno e di notte, si logora a poco a poco, come ghiaccio che sia esposto a un sole incerto. E finalmente la figlia di Cècrope diviene rigida e rimane immota: «[…] le parti che si piegano quando ci sediamo sono prese da torbida pesantezza, non si muovono più […] le Caffè Michelangiolo Arte e Scienza giunture delle ginocchia sono irrigidite, un freddo si spande fino alla punta delle dita, le vene impallidiscono. Essa non tenta nemmeno di parlare, c’è come una pietra che le serra il collo, la bocca si è indurita […]. È una statua esangue, seduta.». «Nec conata loqui est, nec […] vocis habebat iter: saxum iam colla tenebat, oraque duruerat […]» (vv. 829831) e, aggiunge il poeta, per di più diviene nera. E come non prospettare noi qui, per Aglàuro, una forma di “reumatismo (artrite reumatoide) anchilosante” con quella cardiopatia reumatoide, così spesso ad esso concomitante, per cui si sviluppa l’intensa cianosi da scompenso di cuore che la rende “nera”? Anche al di fuori da questi complicati quadri ci incontriamo nel poema in altri impressionanti eventi morbosi come l’ittero verdinico, ben drammatico, che invade subitamente il povero Ciparisso (Libro X, vv. 136-139) che diviene cipresso: (in viridem verti coeperunt membra colorem): e la notizia è enunciata con tanta estrema semplicità da sembrare cosa ovvia. Per le attinenze botanico-farmacologiche, seppure al confine con la magia, appare mirabile la trasformazione del pescatore Glauco che, innamorato di Scilla, osa respingere l’infuriata Circe, ma poi, portando alla bocca erbe di un prato da nessuno mai calpestato, si accorge di essere divenuto un pesce, un dio marino, con le gambe «fuse insieme in forma di pesce pinnuto» (Libro XIII, vv. 944-964). Per me patologo è stata una sorpresa insolita davvero questo avvenimento anche perché esso si verifica, nella metamorfosi di Ovidio, in un essere adulto anziché nell’utero materno ove la scienza medica ben sa che poteva essersi in realtà verificato; e ben curiosamente, giacché anche il sesso è coinvolto nella malformazione, ed invece è di sesso maschile la figura che vediamo in Glauco. Un’immagine come di sirena maschile è peraltro raffigurata anche nell’ Ortus sanitatis, noto libro di Storia naturale, pubblicato a Magonza nel 1491 da Jacob Meydenbach e riportato da Lorraine Daston e Katharine Park nel loro Wonders of Nature (1998 a New York). Asessuate sono poi le Sirene (1927) nei gessi di Libero Andreotti. Dobbiamo a Cesare Taruffi, il famoso anatomo-patologo dell’800 di BoloCaffè Michelangiolo gna, alla sua magistrale e monumentale Storia della Teratologia (8 volumi, pubblicata nel 1894) la conoscenza della casistica cinquecentesca (da Nicola Rocheus, a Ulisse Aldovrandi, anch’egli bolognese). È il Taruffi a ricordare qui i cinquantacinque casi di “simpodia” osservati allora (egli stesso poté vederne tre casi nella sua città). Fu poi usato per Il Marsia scuoiato nel dipinto di Tiziano, che riprende il racconto dalle Metamorfosi di Ovidio (Libro IV). questi mostri il termine di “sirenomeli” o di “simmeli”. A questo esempio, eccezionale, di patologia malformativa degnamente si affianca, nelle Metamorfosi, la fusione di Salmàcide ed Ermafrodito (Libro IV, vv. 283-388) in un solo individuo, bisessuale come nella statua famosa agli Uffizi. A fronte di questi avvenimenti che si collocano nella patologia teratologica si incontrano nel poema anche esempi di patologia della vecchiaia come quando si dice della nutrice di Mirra che allunga le mani, tremolanti per l’età (Libro X, vv. 414-416): tremulasque manus annisque metuque. E ancora è vecchiaia, anche se diversa, quella, illustre, della Sibilla cumana (Libro XIV, vv. 144-149) in cui l’età si prospetta estrema, fino alla cachessia senile, giacché ella non può morire ancora per chissà quanti anni e sa bene che la lunga esistenza la renderà piccola, il corpo consunto si ridurrà a un peso minimo. E queste cose ella dice a Enea, mentre con lui risale dalle profondità dell’Ade. Eliot cita il Satyricon là dove quei ragazzi di Cuma chiedono alla decrepita Sibilla attrappita nell’ampolla: «Sibilla cosa vuoi?», e lei risponde: «Desidero morire» (et cum illi pueri dicerent: Sãbulla tã yàleiw; respondebat illa: Ïpoyaneçn yàlv). Citazione che Mario Graziano Parri riprenderà in Codice occidentale (1983), alla poesia XIV: «come Sibilla al fanciullo oltraggioso | non potrò che vaticinare | fammi morire». Il tremolio della vecchiaia si ritroverà poi nel celebre discorso di Pitagora (Libro XV, vv. 212-213) ove ha «tremulo il passo l’inverno, senile, raggrinzito, spoglio dei suoi capelli e, se un pochi ne ha, è canuto». E diviene tremulo per la vecchiaia il passo di Giunone (Libro III, vv. 275-277) che si fa canuta e rugosa quando si traveste per recarsi alle case di Sémele. Se la vecchiaia rassecca dunque il corpo tremulo, il corpo può essere preda di cachessia anche per fame. Struggente la vediamo, questa perdita di se stessi, del proprio corpo, consunto dalla cachessia (come sarà la Maddalena di Donatello, tanti secoli dopo), tutta soffusa di tenerezza e pietà nella ninfa Eco, vanamente innamorata di Narciso, che non prende più cibo finché di lei resta soltanto la voce (Libro III, vv. 393-401). E ancora la cachessia, ora atroce, si fa estrema nella personificazione della Fame del Libro VIII. Irto il crine, sotto la pelle scabra, risecchita; si distinguono in trasparenza i muscoli, al posto del ventre c’è soltanto lo spazio per esso, il torace è come sospeso, sorretto dalla colonna delle vertebre. Quando poi essa attacca l’empio Erisìctone, egli diviene preda di una fame inesauribile, una bulimia feroce, inarrestabile, per cui distrugge tutti i suoi beni per acquistare cibo, vende più volte la figlia, infine divora se stesso. E ci sembra quasi di essere con Dante in qualche girone dell’Inferno, tanta è la forza di queste narrazioni in versi del poeta antico. Ma in Ovidio, (Libro XV, vv. 234-236), vediamo ancora che piange la Tindàride Elena, quando scorge nello specchio le rughe senili «oh tempo divoratore e tu invidiosa vecchiaia», ella grida, «fate ogni cosa morire, rosa dai denti dell’età, di morte lenta» (del duro dente degli anni parlerà poi anche Leonardo). Accanto a queste tristi anche se placide, e pressoché rassegnate, immagini di patologia della vecchiaia, ecco scoppiare il quadro della follia, con Atamante e la moglie di lui, Ino, figlia di Cadmo, rea di aver allevato Bacco e pertanto odiata da 51 Arte e Scienza Giunone. Ed è Giunone stessa (Libro IV, vv. 495-510) che le scatena addosso una Furia (andando di persona a chiamarla), la tremenda Tisìfone. Essa getta loro addosso due serpenti cui non occorre neppure morderle le due vittime: basta infatti il loro fetido alito (graves animas) ché essi impazziscono («solo la mente avvertì il terribile assalto») ma, come se ciò non bastasse, ecco Tisìfone versar loro sul petto un tremendo filtro magico (che a noi par uno di quelli del Macbeth) e con esso li sconvolge fin nel profondo del cuore (praecordiaque intima movet dice, al v. 507, Ovidio), e si scatena adesso l’orrenda furia di Atamante che vuole uccidere la moglie Ino, che adesso gli sembra una leonessa, e le strappa uno dei figli che fracassa poi contro una pietra, mentre ella fugge con l’altro figlioletto e sta per gettarsi con questi in mare da un’alta rupe. adesso un corno di cervo che era appeso a un alto pino e la cima forcuta del corno caccia negli occhi di Grine e glieli cava. Gli occhi in parte restano attaccati alla punta del corno, in parte colano giù nella barba e penzolano misti col sangue (vv. 268-270). E ora Reto fa saltare con un tizzone semibruciato le suture del cranio a Carasso e le ossa gli si I A bbiamo più volte notato segni di umana pietà affioranti nelle Metamorfosi di Ovidio. Ma esistono interi e lunghi brani del poema, come quello delle stragi di Perseo o come l’orrenda scena della regina Ecuba prigioniera del re Polimèstore, quando ella «come una leonessa» cui han portato via un cucciolo ancora lattante si avvicina con un inganno al re e «gli caccia le dita nei perfidi occhi […] gli strappa il bulbo dall’orbita e vi tuffa dentro le mani e continua a scavare nel posto degli occhi che non ci sono più» (libro XIII, vv. 550564) o, infine, come nella Centauromachia con i Lapiti (Libro XII, vv. 210541) ove la crudele serie delle scene di violenza ha momenti di atroce pesantezza, nella minuziosa descrizione, che ricordano da vicino quelli dell’Iliade nel Canto della Battaglia presso le Navi. Comincia la lotta atroce, con il vaso «irto di figure in rilievo» che Eràsito scaglia in faccia a Teseo e questi «vomitando grumi di sangue con cervello e vino» (pariter cerebrumque merumque, dice il v. 238) stramazza al suolo e «scalcia sul terreno inzuppato» (è la “madida harena” del v. 235). Ora è la volta del Làpita Celadonte cui il viso “sfracellato” è “irriconoscibile”: Exiluere oculi, disiectisque ossibus oris acta retro naris medioque est fixa palato, e gli occhi schizzano via e il naso andò dentro fino al palato (vv. 252-253) e la battaglia orrida continua. Essàdio prende 52 mi viene alla mente e che mi balena da un breve passo della Recherche di Marcel Proust. Esso potrebbe trarre remota connessione proprio con il peculiarissimo parto di Mirra divenuta albero, nel tronco del quale si formano crepe da cui nasce il bellissimo Adone. Mi è parso qui quasi d’essere, con Proust, presso a quei campanili di Martinville che Proust appunto ricorda rompersi nella superficie dov’è soleggiata ed è, come se fosse celato dalla loro scorza, qualcosa che è pronto adesso ad apparire. Mi son domandato se anche Proust, come secoli prima fece nella Commedia Dante, non abbia tratto da Ovidio «schegge di immagini e di parole», come dice Vittorio Sermonti nel suo Commento al XIII canto dell’Inferno. Un simpode o sirenomelo: l’effige è quella di una sirena al maschile e con le vesti: in qualche modo simile al Glauco di Ovidio (Libro XIII). Siamo sulla copertina di un Ortus sanitatis, pubblicato nel 1491 a Magonza da Jacob Maydenbeck (da Wonders and the Ordei of Nature, di Lorraine Daston e Katharine Park, New York, 1998). infossano nel cervello, ridotto a poltiglia (vv. 288-295). Infine, Dicti rovinando giù per un dirupo spezza un olmo che viene ad essere rivestito i suoi visceri (vv. 339-340) e Peleo caccia a Dòrilo la spada nel ventre e questi li strascina a terra i propri visceri e, pestandoli, li rompe e vi si impiglia e crolla sul ventre ormai vuoto (vv. 386-391). Sarà poi Feòcome a fracassare il cranio di Téctafo e attraverso la bocca, le narici, gli occhi e le orecchie, il cervello spiaccicato cola «come fa il latte rappreso attraverso un graticcio», dice Ovidio (vv. 434-439). E sembra di assistere a scene di film di Quentin Tarantino. Mi si consenta infine un singolare (anche se forse astruso) riferimento che n conclusione, ogni disciplina vede, guarda, misura secondo se stessa (come osserva Ilya Prigogyne) e, come dice Niels Bohr, la ricchezza della realtà straripa da ogni linguaggio particolare: non ci stupisce quindi se, diversamente da Ovidio, che le vede mutare in un attimo sotto i suoi occhi di artista le forme delle persone, lo scienziato Charles Darwin veda un giorno mutate, pur nel lento correre dei secoli, le forme di tartarughe e di uccelli alle Galàpagos. Dopo tutto, ognuno di noi ha visto diventare nere le farfalle in prossimità di grandi miniere di carbone, quasi come accade al corvo di Ovidio che diviene nero, da candido che era, nel Libro II delle Metamorfosi, o come accade per il nevo del volto di Gilberte, che ha cambiato di posto nel Temps retrouvé. Ecco dunque che, sia pure con tempi diversi, le immagini delle cose vengono a cambiare, sono “fuggitive” (come direbbe Proust appunto); “Cuncta fluunt” dirà Pitagora nel Libro XV al v. 178. E infine perché non ricordarla allora qui anche la “patomorfosi” per cui la forma di molte malattie, immota per millenni e simile a quelle che abbiamo ora visto già osservate dal poeta Ovidio, ci appare oggi cambiata sotto il potente urto delle terapie, finalmente conquistate dalla Scienza medica nel XX secolo? ■ NOTA Le ampie citazioni da Ovidio sono tratte dall’edizione Einaudi delle Metamorfosi (19942). Caffè Michelangiolo DI NECESSITÀ, GRANDEUR… Q uando Charles-André-Joseph-Marie de Gaulle sulla Citroën Pallas nera attraversava gli Champs Elysées e Parigi, le strade tutto intorno venivano chiuse e un cordone di gendarmi schierato ai due lati dell’intero percorso. Ma si sa, Lui era la Francia: n’estil pas vrai?, e il “rango della Francia” caro appunto all’Uomo di Lilla, il suo rango nel Pianeta, esigeva questo atto di deferenza verso Colui che dopo i Re e dopo Napoleone il destino chiamava a incarnarne la secolare grandeur, «le cui basi furono sempre Dio, la Chiesa, la Nobiltà» (Karl Ferdinand Werner, Naissance de le noblesse. L’essor des élites politique en Europe, 1998). Probabilmente è il motivo per cui i francesi sono convinti di aver vinto anche le guerre che hanno perduto. All’opposto degli italiani che soffrono permanentemente della sindrome di Custoza e Caporetto. Le quali furono solo due battaglie perse, come ci hanno poi detto la scienza militare e la storia (per Caporetto si veda: Adriano Alberti, 1923; Paolo Gaspari, 2007); sconfitta, e ambedue le volte, fu la nostra diplomazia, ma su questo si sorvola. Gli Champs Elysées, Nicolas Sarkozy li ha attraversati a piedi il 16 maggio scorso. Poi sono entrati in scena i cavalleggeri della Gard Répubblicaine, i cannoni alla tomba di Napoléon, i picchetti all’Arc du Triomphe, la Marseillaise, i fiori alle statue di de Gaulle e Clemenceau, la glorification del diciassettenne communiste Guy Môquet, un caduto della Résistance che d’ora in poi sarà ricordato ogni anno al primo giorno di scuola nei licei. Ecco, un misto di royalisme e di tradizione, di omaggio ai valori della Republique e di preannuncio di réformes. E secondo i dettami della “comunicazione”, per cui poco c’è da nascondere e quasi tutto va mostrato: sotto questo segno si è svolta la disinvolta sfilata lungo la guida rossa che conduce alle trecentosessantacinque stanze dell’Eliseo. Era guidata dalla disinvolta Cécilia, vestita Prada, che con la destra tiene per la mano il decenne Louis nato dal matrimonio con Nicolas e che intorno alle spalle ha il braccio protettivo del ventenne Jean, l’altro figlio Caffè Michelangiolo BLOC-NOTES di Bartleby Un disinvolto scatto sulla spiaggia di Bordeaux di Cécilia Maria Sara Isabel Giganer-Albeniz e del consorte Nicolas Sarkozy de Nagy-Bocsada, ventitreesimo presidente della Repubblica francese. di Sarkozy frutto dell’unione con la prima moglie Marie-Dominique Culioli; con la sinistra, Cécilia stringe la mano di sua figlia Judith la quale tiene a sua volta quella della sorella Jeanne-Marie, ambedue frutto del primo matrimonio con l’animatore televisivo Jacques Martin. Alla sinistra di quest’ultima, il ventiduenne Pierre, l’altro figlio di Sarkozy e di Marie-Dominique. Il completo scuro del nuovo Presidente era stato confezionato da Armani. Con l’imperatore dei Fran- cesi ha in comune la statura: uno e sessantacinque (Jacques Chirac è alto uno e novantadue). Napoleone proveniva da una famiglia livornese i cui titoli di nobiltà erano stati riconosciuti nel 1757dal granduca di Toscana Francesco Stefano di Lorena, Nicolas Sarkozy de Nagy-Bocsada viene da una famiglia iscritta al Gotha di Ungheria. Il primo lasciò cadere il dittongo nel cognome nel 1796, il secondo ha messo da parte il predicato nobiliare. L’esordio di Sarkozy ha visto l’offerta degli affari esteri al fondatore di Médecins sans Frontères ed ex ministro socialista Bernard Kuochner. A quello stesso incarico, Bonaparte all’indomani del 18 brumaio aveva chiamato Charles-Maurice principe di Talleyrand-Périgord e vescovo di Autun che la Convenzione aveva messo sotto accusa dopo la scoperta di un carteggio con Luigi XVI. C’è una certa logica nella matita dei caricaturistes d’Oltralpe, il ventritreesimo Président è stato raffigurato sui giornali umoristici nel Bonaparte del David che passa le Alpi in sella allo scalpitante cavallo bianco. A differenza di noi che la politica estera la facciamo con il piede in casa, la Francia ha sempre avuto l’occhio ben alto sopra i propri confini. La Gloire, certainement!... ma tenendo anche conto che il francese medio, come hanno sempre fatto notare i Flaubert e i Balzac, i Camus e le George Sand, mantiene saldo un fondo d’animo épicier (cioè, bottegaio) che valuta con realismo il dare e l’avere. Probabilmente è per questi due aspetti che Oltralpe i treni vanno à toute vitesse e da noi impiegano anche undici ore per coprire quattrocentosessanta chilometri (tanto è durato il viaggio dell’inviato di “Repubblica”, Attilio Bolzoni, da Trapani a Modica). Ecco perché il presidente della Repubblica francese può permettersi il giorno del trionfo di andarsene a piedi sugli Champs Elysées mentre i minisri della Repubblica italiana sono costretti a viaggiare sugli aerei blu di Stato oppure sulle corsie di emergenza dell’Autosole per assistere a un Gran Premio o a una festa di partito. E perché da noi un duello come quello fra Sarkozy e la Royal è (e sarà sempre) ■ impensabile. 53 LETTURE Casorati, Ragazza che legge. di Danilo Breschi, Mirella Billi, Milva Maria Cappellini, Mario Domenichelli, Elena Frontaloni, Federico Lenzi, Giuseppe Napolitano, Leandro Piantini, Daniele Santoro, Monica Venturini CHARLES MAURRAS E LE DESTRE DI FRANCIA C ome ogni buon libro di saggistica, anche quello che Domenico Fisichella ha dedicato allo studio del pensiero politico di Charles Maurras offre molto più di quanto si possa intuire dal titolo. La scelta del personaggio, sotto molti aspetti cruciale nella storia politica di Francia, consente infatti all’autore di affrontare la più ampia tematica della cultura politica controrivoluzionaria che nella nazione transalpina ha ovviamente il suo luogo di origine e di maggiore sviluppo. Noto è poi come correnti storiografiche più recenti abbiano ravvisato proprio in quell’ambiente politico-culturale la prima matrice del pensiero rivoluzionario-conservatore novecentesco e persino dell’ideologia fascista. Estremamente cauto su quest’ultimo punto, Fisichella preferisce concentrarsi sul concetto di destra contestualizzandone genesi e contenuti, secondo un approccio insieme storico e analitico. Dicevamo del ruolo “cruciale” del pensiero e dell’opera di Maurras. Egli è in effetti l’autore che forse più di altri può aiutare lo studioso a cogliere la dimensione plurale della destra francese, collocandosi «alla convergenza dilemmatica tra molte destre». Si è soliti infatti riflettere e discutere a proposito della travagliata storia delle sinistre, molteplici e tra loro confliggenti, spesso generatesi da scissioni interne secondo un costante e periodico processo di scavalcamento “a sinistra”, in nome di una rivoluzione che si pretende “presa più sul serio” di quanto abbiano fino a quel momento fatto gli altri compagni, rinnegati proprio a causa di questa presunta moderazione. Un’analoga pluralità polemica e rissosa caratterizza la storia delle destra europea, e in Francia molto più che altrove. Il volume si apre così con una rapida ma efficace rassegna delle varie destre transalpine che si sono succedute nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento, senza esser mai riuscite a fondersi insieme, se non per un breve 54 momento attorno ai primi anni Trenta in virtù dell’attrazione esercitata dal fascismo italiano e dal desiderio di emularlo. Quanto accadde a Vichy, secondo molti studiosi, apparterrebbe invece alla sfera della contingenza e della costrizione imposta da eventi bellici, piuttosto che ad una logica di convergenza ed amalgama ideologica o di volontaria aggregazione politico-elettorale. Le destre che si manifestarono in Francia dopo la Rivoluzione del 1789 risentirono del disorientamento di una monarchia scossa nelle sue fondamenta di legittimità ed effettività, e costituirono altrettanti tentativi di risposta alla ricerca di un’identità monarchica perduta o alterata. Il primo grande filone della destra francese fu l’oltranzismo monarchico (ultra-royalisme, o ultracisme) che a sua volta germinò quasi subito il legittimismo. Il passaggio fu nel segno dell’ammorbidimento di alcune intransigenze, dal momento che la Restaurazione non fu, non poté, essere completa e un residuo parlamentaristico permase. Il successo che arrise agli ultraroyalistes nelle prime elezioni dell’agosto Fragonard, Ragazza che legge. 1815 della Camera della monarchia restaurata di Luigi XVIII (ben 350 deputati su 392 seggi da attribuire) fu motivo di lento ma irreversibile attaccamento, o quanto meno di crescente attenzione, verso i meccanismi e le opportunità dell’azione parlamentare. Tra 1816 e 1820 il regime parlamentare penetrò così gradualmente nei costumi politici nazionali, destra legittimista compresa. Questa si costruì attorno al concetto di “ordine naturale” contrapposto a quello di rivoluzione, perché il primo era sinonimo di stabilità mentre il secondo foriero di disordine e anarchia. In questo ordine naturale rientravano il cattolicesimo, talora innervato di aspirazioni gallicane, le istituzioni temprate e collaudate dalla durata storica, a partire dalla monarchia, e quindi la famiglia, cellula fondamentale della società e prima istituzione capace di garantire stabilità e prosperità. Forte l’avversione del movimento legittimista nei confronti del centralismo statale, in quanto eredità del periodo rivoluzionario. Le alterne fortune dell’istituto monarchico francese post-rivoluzionario determinarono la nascita dell’orleanismo, movimento sorto dalla cosiddetta Rivoluzione di Luglio e dal conseguente avvicendamento tra i Borbone e il ramo cadetto degli Orléans. Peculiarità dell’orleanismo, debitore in ciò dell’elaborazione dei dottrinari costituzionali dell’età della Restaurazione, è il sostegno ad un sistema stabilmente incardinato sull’equilibrio fra due istituzioni: monarchia e parlamento. «Il re non è più l’unto del Signore ma il primo magistrato dello Stato», e il parlamento è il luogo deputato alla composizione dei conflitti tra i gruppi sociali e le opposte tesi politiche, secondo il principio-guida del juste milieu. Fisichella sottolinea a ragione le forti analogie fra l’orleanismo e il gruppo dei cosiddetti monarchiens all’Assemblea Nazionale nell’estate del 1789. Comune è il disegno di mantenere l’istituto monarchico attraverso l’innesto di una costituzione di tipo inglese, in modo da prevenire modifiche più radicali grazie ad Caffè Michelangiolo Letture un’affermazione costituzionale del primato regio all’interno di un regime di equilibrio fra poteri di diversa composizione sociale e legittimazione politica. Fisichella definisce perciò l’orleanismo una «destra liberale, destra moderata, sollecita della libertà politica», che aveva nella grossa borghesia della proprietà fondiaria e immobiliare il proprio gruppo sociale di riferimento. Il crollo della monarchia orleanista e l’avvento di una repubblica democratica, la seconda in Francia dal 1789, presto fagocitata dal plebiscitarismo autoritario di Luigi Napoleone Bonaparte, genera un’altra destra che va ad affiancarsi alle precedenti: il bonapartismo, appunto. L’esito catastrofico del Secondo Impero e l’avvento della Terza Repubblica scompagina il quadro politico e culturale, e le destre orfane dell’istituto monarchico faticano a dialogare con un bonapartismo che evoca riferimenti egualitari e democratizzanti, come il plebiscito e il suffragio universale. Il nazionalismo, nato a sinistra come patriottismo rivoluzionario, diventa a fine Ottocento il collante di queste destre, ma sempre in modo parziale e temporaneo. Ed è proprio in questo contesto politico e culturale di arretramento e difficoltà delle destre che Maurras inserisce la propria riflessione. È proprio all’interno di «due grandi crisi», quella delle destre e quella della Terza Repubblica, che Maurras muove la sua ricerca politica e istituzionale volta a scongiurare una decadenza della Francia che a lui pare ad uno stadio avanzato ma ancora arrestabile. L’orrore della morte dei popoli e delle civiltà è infatti la molla che spinge lo scrittore provenzale a cercare realtà imperiture e le trova nella famiglia, nei corpi intermedi e nella nazione. Convinto altresì che non si diano costumi senza istituzioni, Maurras pone particolare attenzione alle forme di governo della cosa pubblica ed è su questa base che fonda la sua opzione a favore della monarchia. L’istituto regio è il più affine al modello e alla struttura della famiglia, e come il padre pensa e provvede al bene di tutti i suoi cari così fa il re. Famiglia e monarchia sono istituzioni capaci di filtrare al meglio le passioni umane, di ridurre l’incidenza dell’interesse particolare e di favorire massimamente il bene generale. La non elettività, sostituita dal criterio ereditario, rende il sovrano meno Caffè Michelangiolo vulnerabile agli umori mutevoli e alle ambizioni sfrenate delle fazioni in lotta, la cui azione semmai stempera in nome del mantenimento di una famiglia, la dinastia, la cui dignità corrisponde a quella della nazione governata. Le pagine con cui Maurras argomenta non solo la sua preferenza ma l’affermazione di una oggettiva superiorità della monarchia ereditaria rispetto alla repubblica democratica non paiono, a dire il vero, convincenti. Dopo averle lette non trova ad esempio confutazione una vecchia obiezione come quella di Benjamin Constant, secondo cui «l’ereditarietà ci presenta soltanto una successione di governanti allevati nel potere, e l’esperienza è quasi superflua per indicarci il risultato di due elementi quali il caso e l’adulazione»1. Fisichella interviene in soccorso, talvolta mescolando le tesi maurrassiane con i propri convincimenti, ma resta l’impressione di una comparazione condotta fra entità non omogenee: da un lato, la monarchia quale modello idealtipico, in cui la storia fa eccezione e le cui caratteristiche sono frutto di deduzione; dall’altro lato, una democrazia repubblicana tutta descritta sulla base della sua fenomenologia, spesso rilevata nei suoi casi patologici, come la tarda Terza Repubblica francese, o nelle gravi disfunzioni odierne che minacciano le democrazie occidentali di derive oligarchiche e tecnocratiche. Maggiormente persuasive sono invece le distinzioni operate dal Fisichella scienziato della politica a sostegno della tesi secondo cui il regime politico auspicato da Maurras può essere definito un «autoritarismo attenuato», un sistema autoritario «retto a monarchia temperata». Sebbene l’autore precisi che l’intento del libro sia discutere di «teorie politiche e di impostazioni storiografiche», sarebbe stato comunque interessante e fruttuoso per la stessa comprensione delle idee maurrassiane coniugare teoria e storia, narrare e analizzare come e perché, con la seconda guerra mondiale, lo scrittore provenzale pervenne «a scelte contingenti antitetiche rispetto ai convincimenti dottrinali» (il corsivo è mio). Anche perché una tale diversione rispetto alle teorie politiche fin lì professate potrebbe far dubitare della consistenza delle medesime. A meno che da una disamina più storica e meno filologica dell’opera di Maurras non emergano elementi ulteriori e diver- genti rispetto ai molti già colti da Fisichella. Danilo Breschi NOTA 1 B. CONSTANT, Principi applicabili a tutte le forme di governo, tr. e introduzione a cura di S. De Luca, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro), 2007, p. 66. Domenico Fisichella La democrazia contro la realtà. Il pensiero politico di Charles Maurras, Carocci, Roma, 2006 pp. 188. € 13,80 L’ETERNO PRESENTE N ulla può essere pronunciato nel momento del passaggio cruciale di un uomo sospeso tra la vita e la morte. L’opera di Paolo Ruffilli smentisce con forza questa convinzione, dal momento che è dedicata proprio alla soglia per eccellenza, allo sciogliersi dei legami fisici e sentimentali esistenti, al momento in cui le forze abbandonano il corpo dopo tanto dibattersi e lottare, le voci del passato e del presente s’annebbiano e si confondono in una nuova dimensione temporale indefinibile e tutto viene attratto a sé dal potere funereo dell’estremo passo. Paolo Ruffilli, nato nel 1949, è autore di alcune raccolte poetiche, tra cui ricordiamo Piccola colazione (1987), che ha vinto l’American Poetry Prize, Diario di Normandia (1990) vincitore del Premio Montale, Camera oscura (1992) e Nuvole (1995). Ha, inoltre, pubblicato una versione della Vita di Ippolito Nievo (1991) e Vita, amori e meraviglie di Carlo Goldoni (1992). È curatore di un’edizione delle Operette morali di Leopardi, della traduzione foscoliana del Viaggio sentimentale di Sterne, delle Confessioni d’un italiano di Nievo e ha tradotto autori come Gibran e Tagore, i Metafisici inglesi e la Regola celeste del Tao. La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids affronta due dei tabù più grandi della nostra società, in grado di annientare ogni assoluto e dare scandalo: la morte “giovane” e la malattia del secolo. 55 Letture Fanno parte della raccolta, vero e proprio percorso di un io morente, testi scritti dal 1987 al 2000 e organizzati in una compatta struttura poematica che segue, passo dopo passo, l’allontanamento progressivo dalla vita, da diversi punti di vista e sfiorando più generi, dal “compianto” o “lamentatio” al diario. Fin dal titolo ossimorico, che potremmo definire “ungarettiano”, emerge l’intento profondo della poesia di Ruffilli: indagare un momento centrale della vita umana, senza evitare le contraddizioni che questo comporta, i sentimenti contrastanti e in antitesi che la vita e, ancora di più la vita in punto di morte, scatenano. In copertina, la riproduzione di un particolare della Pietà di Giovanni Bellini fornisce un’eloquente immagine del sentimento straziante e, allo stesso tempo, così carico di vita che accompagna il distacco. Il requiem si alterna e confonde alla lode alla vita e, paradossalmente, rappresenta di essa, una profonda esaltazione. Come dichiara Mengaldo, nella Prefazione, quest’opera, «diario privato e (tragicamente) amicale»1, segna la fase della maturità raggiunta e affronta, sublimandolo, il rapporto tra la natura tragica del tema e la semplicità del dettato, attraverso un linguaggio che si tiene equidistante sia dalla tentazione dell’eterno sia da quella del concreto quotidiano. Il corsivo viene utilizzato come pausa di riflessione, l’alternanza di versi brevi e di misura più ampia crea un ritmo inquieto, senza continuità, l’uso della rima “di appoggio” contribuisce a questo effetto antimelodico, che combina ragione e reazione, speculazione e lirismo, collocando l’esperienza di Ruffilli lungo quella linea di “poesia di pensiero” della nostra tradizione, che ha in Leopardi e in Gozzano i due grandi esponenti. Le parole di Ezra Pound introducono l’opera, dedicata ai “figli del mondo” e individuano nell’amore l’unica eredità possibile, l’unica minima resistenza contro la perdita e il lutto, contro «l’accendersi e | lo spegnersi | (per caso?) della vita»2. Corporalità e spiritualità si fondono nelle voci, di volta in volta dialoganti o monologanti, di madre, figlio o amico, che fissano le tappe di questa comune via crucis di cui solo l’epilogo è certo. Il tempo abbandona lentamente il passato, rinuncia al futuro, per farsi presente intermittente, lampo incerto, «piede | incespicante | scivolato sul 56 2 P. RUFFILLI, La gioia e il lutto, cit., p. 17, vv. 1-3. 3 P. RUFFILLI, op. cit., p. 56, vv. 1-8 e 19-25. Paolo Ruffilli La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids Prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo Marsilio, Venezia, 2006 (I edizione 2001) pp. 86. € 10,50 Alessandro Serpieri, il secondo romanzo DALL’ALTRA PARTE DEL TEMPO S niente». La preghiera diventa esplicita con il proseguire del rito di separazione che precede il morire: O Dio nascosto ma forse non lontano agognato e inseguito senza essere stanato, o Dio segreto del cuore e della mente che tutto vede e sente, decifra e ricompone, […] tu, scandalo del mondo, allunga la tua mano e reggilo nel suo precipitare, portalo di là oltre il fosso grigio del nostro disamore3. La convinzione che resti di noi la miglior parte, l’amore, «un grande | fiume di energia» e che esista, qualsiasi possa essere la sua forma o il suo stato, un’altra realtà, anima il poema, che da canto in morte si fa, in modo inequivocabile nella sua conclusione, poema in onore e difesa della vita. Monica Venturini NOTE 1 P.V. MENGALDO, Prefazione in Ruffilli Paolo, La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids, Marsilio, Venezia, 2001, (terza edizione nel 2006), p. 6. pesso capita nel Modernismo che la scrittura torni al mito omerico. Ulisse è il titolo del capolavoro di Joyce; con un tempo bloccato sull’isola di Circe inizia Hugh Selwyn Mauberley di Pound; con la nekya, il descensus ad inferos inizia il grande poema seriale di Pound, i Cantos. Eliot richiama Ulisse anche in Terra desolata, ma soprattutto in quel verso «Old Men should be explorers» dei Four Quartets. L’Odissea diviene una metafora per la scrittura stessa, l’avventura della scrittura come interrogazione della memoria, del passato, delle tombe nella memoria, e nella scrittura tornano le morte voci come schegge di passato alle quali si tratta di dare senso e coesione, forma e senso di racconto alla vita vissuta. Mare scritto, il secondo romanzo di Alessandro Serpieri – a distanza di trent’anni l’altro romanzo “marino”, Mostri agli Alisei (Bompiani 1977) – inizia con la rievocazione dell’arcano canto dei morti nel poema omerico (XI), in cerca di risposte sul passato, riguardato dal presente, verso il futuro. Serpieri certamente ricorda quello che scrive, con qualche eco pascoliana, il Pasolini de “Il luzoùr” (La Meglio Gioventù ) che così traduciamo dal friulano del poeta: «Giova più ciò che si smemora, di quel che si ricorda: | meglio spezzare la corda| che mi lega a una terra morta e insieme nuova. | meglio questa vita nuova e morta | il breve inverno che vivo | mentre a Casarsa l’inverno eterno riluce nel cortile […] | Laggiù i miei cari mort i| portano in cuore e sulla lingua la luce del piccolo paese che vive fuori dalla vita | nelCaffè Michelangiolo Letture la vita di chi vi è già vissuto. | per altro destino, io muto, sto qui a parlare | loro che non san che parlare | sono laggiù, lontani, muti nel chiarore». Michele Zandonà, la voce narrante di Mare Scritto, incontra i suoi morti in un “limpido pomeriggio d’inverno” in una radura tra alberi dalle foglie ingiallite. In quella radura del ricordo, in quel chiarore così trovato, giungono le morte voci del passato, le voci segregate nella memoria, a cui la scrittura deve ridare suono e accento. Scrittura autobiografica, persino romanzo di formazione, per certi versi, se non fosse che la scrittura stessa ne fa un romanzo lirico; questa scrittura liriconarrativa si struttura a partire da un mito, quello di Ulisse, e si chiude su un mito, quello del tempo rovesciato nel mito di Medea che ridona la gioventù a Esone; la storia in chiave di automitobiografia si fa tuttavia nel compenetrarsi di tempo personale e tempo della storia, attraverso il tempo del mito che è esattamente quella radura, che circoscrive lo spazio in cui vengono ad affollarsi le voci del passato. Weinrich nella sua analisi del mito di Ulisse in Letteratura, arte e critica dell’oblio (il Mulino, 1999) vede tutto il percorso dell’eroe come teso tra necessità del ricordo che spinge al ritorno ed esigenze dell’oblio che spingono verso l’alto mare, verso la metamorfosi marina su cui si chiude il romanzo – certo lo Shakespeare della Tempesta, e l’Eliot della Terra desolata di cui Serpieri si è a lungo e memorabilmente occupato nel suo mestiere di anglista. Queste due linee di tensione, la memoria e l’oblio, appaiono chiare nel romanzo di Serpieri, nella sua scrittura tesa al ritorno, al “tempo perduto”, certo e, nello stesso momento, ritmata su una volontà di nuove infinite partenze, di molteplici rinascite a partire da un altro mito in chiave, quello di Er, dalla repubblica di Platone, in cui le anime dei trapassati vengono chiamate a scegliere il daimon che deciderà della loro prossima vita dopo però aver attraversato il Lete, il fiume dell’oblio che tutto smemora (Davanti alla scelta) per una nuova partenza. Le ombre richiamate così, già in chiave, alla fine del primo capitolo (All’Ade) divengono non più figure del ricordo e del ritorno, ma figure dell’oblio. «Ombre spiavano da dietro a barriere di vetro che impedivano contatti. Ombre buie in galCaffè Michelangiolo lerie di ricordi. Dicendo addio, avevano girato via con vele nere, al centro di un mare di piombo, nella luce verticale dell’assenza. Dall’altra parte del tempo». Le presenze femminili, tutte con le maschere del mito, Calipso, Circe, Nausicaa, Penelope lontana, alla fine si risolvono in Medea e in quel ritorno che è il tempo capovolto della scrittura, il tempo di Esone, a cui la magia di Medea restituisce ciò che il tempo ha divorato, sicché Esone è, nell’interpretazione di Serpieri, l’approdo sconosciuto, il “vero giovane amante” che deve a Medea il suo stesso rinnovato sangue. In Mare scritto, il ritorno al tempo perduto nella memoria, tutti i ricordi delle amicizie, degli affetti, degli amori dunque si articolano all’interno del mito, e il mito è quella polifonica radura a cui giungono e divengono riconoscibili le voci del passato. E la scrittura di questo romanzo a metà tra parola lirica e necessità narrativa trova accenti strani, bizzarri, incantati, di vera e forte poesia. Una scrittura senza direzione che non sia quella del fluttuare infinito del mare: «Tracce, Scie. Cammini. Mare scritto. Riscritto da altri venti. Sparpagliamento di immagini. Immagini adunche sulle ciglia abbagliate dal sole, immagini laterali in fuga sulla terra dimenticata, immagini aperte come fiori innamorati, immagini chiuse su piccoli delitti, immagini spente ai lati della strada, immagini accese nello specchio dove muoiono e rinascono le immagini. Rotazioni di cerchi ed elissi, stagioni, giri di luna e di sole, galassie sgranchite nei vortici. Dovunque curvature di venti e correnti a formare ciottoli tondi, rotolati verso la costa concava della morte». Non troviamo migliore descrizione del metodo, del verso, della qualità della scrittura di questo romanzo di Serpieri, tra l’andare e il tornare, tra il ritrovarsi e lo sperdersi, tra il darsi forma e il disciogliersi d’ogni forma in immagini d’acqua, creature d’acqua, in perenne metamorfosi marina, ogni forma cancellata e mutata dalla marea, ma in quel mutare che nessuno veramente può decifrare, sta una «testimonianza felice… forse l’unica risposta sensata che fosse mai partita dalla terra incontro ai brividi irrisolti delle stelle». Un “trovar chiuso”, certo, che nel celarsi trova la magia del tempo capovolto, e il brivido delle stelle. Vale davvero la pena di leggerlo. Mario Domenichelli UNA GOCCIA NEL MARE S ottende tutto il romanzo Mare Scritto – in cui tracce autobiografiche vengono ricostruite e ricomposte in una biografia che comprende il racconto di altre vite e altre vicende – la metafora marina, nel cui ininterrotto e misterioso fluire tutto si origina, si muove, passa e infine si disperde, lasciando comunque un segno indelebile di ciò che la compone e che ne fa parte. Come ne Le onde di Virginia Woolf, nel romanzo di Serpieri – che, pur nella sua diversità dall’opera delle scrittrice inglese, ne condivide non solo l’impianto metaforico, ma il senso di una ciclicità che accomuna l’uomo e il cosmo – la vita individuale viene associata alla singola onda, che fluisce e defluisce, si forma e si disfa, per poi ricomporsi e ricostituirsi in altre nello scorrere e nell’infinito movimento delle acque marine, la cui origine si perde, così come la sua – apparente – dissoluzione, nel tempo. L’incipit del romanzo si apre significativamente con una citazione dall’Odissea, la prima opera in cui si fondono la metafora marina con quella della vita umana come viaggio, iniziato in un momento e in un luogo imprevedibile e inesorabilmente diretto verso il mondo delle tenebre: E quando al mare fummo giunti, la nave per prima cosa spingevamo nel mare divino, e albero e vele alzavamo 57 Letture sulla nave nera […] Per un giorni intero, a vele spiegate, corremmo sul mare. Tramontò il sole […], l’ombra giungeva ai confini di Oceano […] fino all’Ade, dove dimorano, privi della parola, i fantasmi degli uomini morti. La citazione colta – una delle moltissime contenute nel libro, ma che l’autore,. finissimo docente e critico letterario oltre che già romanziere, riesce nel non facile compito di mantenere prive di qualsiasi pedanteria, al contrario rivitalizzando e rinnovando il senso delle opere cui fa riferimento – si lega alla coscienza centrale del romanzo, che risponde al nome di Michele Zandonà, alternativamente narratore in prima persona o onnisciente, e commentatore distaccato, in un alternarsi molteplice e fluido che anche a livello enunciativo si rivela coerente con la basilare metafora marina che sottende, come si è detto, tutto il romanzo. Ancora come in Woolf, questa coscienza centrale corrisponde a quella di uno scrittore (che testimonia e fissa con la parola, da artista, ciò che resterebbe labile, sconosciuto o dimenticato), ma non dell’autore stesso; infatti, anche se in vari momenti Michele Zandonà rimanda a chi scrive, e a vicende e figure della sua vita personale, mai si identifica con lui, e anzi, evitando un fastidioso e sterile autobiografismo, ne fa un personaggio staccato, con una sua personalità distinta, il cui percorso esistenziale si articola nel romanzo indipendentemente dal proprio. Tale percorso del personaggio è scandito in vari “movimenti” e fasi, contrassegnati da intitolazioni precise, quali “Crescendo”, “Cercando”, “Approdi e ritorni” – tutti, come si vede, coerenti con l’idea del movimento, del trascorrere, e del fluire. Le memorie legate all’infanzia, della nonna, della madre, della sua nascita, dei primi giorni di vita, sono tutte legate al mare, fonte di vita, all’origine e nell’approdo definitivo: Sua madre l’aveva poi amata moltissimo. Era come il mare lieve e verde o azzurro dell’infanzia, il mare dove lo avevano immerso tante volte fino al petto la stessa estate sulla cui soglia gli era capitato di nascere. Mare fresco, mare caldo, mare salato negli spruzzi che certamente erano saliti alle sue labbra facendogli assaporare un altro liquido, più antico, più universale e non meno vitale di quello che gli giungeva da diverse 58 […] fonti. Forse il mare fu per lui la vita stessa […] Cosi come il mare «ha tante voci, ma non le usa sempre in maniera polifonica», anche gli umani, nelle loro differenze, nelle varie fasi della loro vita e dei loro umori, parlano con voci diverse. Accanto a lui, si muovono – fluiscono – le persone e le immagini dei nonni, delle zie (delizioso il ritratto della zia Bettina, perennemente impegnata, nell’oscurità della sua abitazione chiusa al resto del mondo, a rovistare e scartabellare le vecchie e nuove carte delle tante cause che ha intentato contro tutti i possibili enti pubblici e privati della sua città), del fratello afflitto da strabismo, delle cugine, del maestro, dei compagni di scuola. E già nell’infanzia, è la scrittura – allora su un quaderno a quadretti – ad allontanare l’amarezza delle delusioni, il senso di colpa, il disagio, le paure, l’angoscia della precarietà, l’incognita inquietante del caso, che già si affacciano nella sua vita, e che saranno superate soltanto nella fase più adulta e matura, quella in cui iniziano la riflessione e la ricerca – di se stesso e del mondo. L’incanto dell’infanzia (le vacanze trascorse al mare, l’incontro con “la signora”, i giochi) e i turbamenti dell’adolescenza (le prime schermaglie amorose, l’evidenziarsi della propria mascolinità, la scoperta del sesso), vengono ricordati e registrati sullo sfondo della guerra e delle sue tragedie, che restano, per il bambino e per il ragazzo, inevitabilmente lontani: la Storia ancora non entra, se non episodicamente, nella coscienza e nella percezione del mondo, ed è soltanto con il passare del tempo che si ampliano gradualmente nell’incontro con altri paesi e altre culture – dal viaggio a Londra all’esperienza americana – quando ancora sono la storia personale, e una visione individuale, a prevalere. Nella sezione intitolata “Cercando” abilmente si ricostruisce il passaggio a un livello di consapevolezza più ampio, e le esperienze personali vengono gradualmente inserite, fatte defluire fino a fondersi nella onnicomprensività del flusso vitale; la citazione dei significati di “mare” nel corso del tempo trasporta la concretezza dell’esperienza individuale – a livello enunciativo contrassegnata dal passaggio dalla prima alla terza persona – in una prospettiva più ampia, si dilata nella vastità di spazi e tempi e si apre alla complessità delle culture, che tutte convergono sulla centralità del mare nella vita della natura e dell’umanità: Un giorno, Michele si mise a consultare dizionari e testi antichi alla ricerca di almeno qualcuno dei segreti di quel mare, che più di una volta e forse da sempre, gli era apparso come lo spazio figurato del tempo – e come il suo specchio: da intendere del tempo e, in qualche modo, della sua stessa mente che soprattutto nei dormiveglia sembrava mareggiargli dentro. E se prima dei Greci e dei Romani il mare, come viene rilevato, designa acque ferme, o un abisso tenebroso, nel corso del tempo si fa «luogo della prova, di esperimenti e ricongiungimenti, di dei favorevoli o sfavorevoli, di ninfe e di sirene, di mostri in agguato sotto o sopra le acque su rotte felici-infelici», ma soprattutto rimanda alla fecondità e alla vitalità, e all’erotismo di Venere, la dea nata dalle onde, che Omero rappresenta anche in altre figure, Calipso, Circe, Nausicaa, e nella lontana Penelope, le donne che accompagnano il viaggio di Ulisse su un mare multiforme, dalle mille definizioni, che si ripete da sempre «in una folla maestosa di onde». Lo scrittore stesso si perde nel flusso, nella sua vastità, nei suoi infiniti aspetti: Tracce. Scie. Cammini. Mare scritto. Riscritto da altri venti. Sparpagliamento di immagini. Immagini adunche sulle cime abbagliate dal sole, immagini laterali in fuga sulla terra dimenticata, immagini aperte come fiori innamorati, immagini chiuse su piccoli delitti, immagini spente sui lati della strada, immagini accese nello specchio dove muoiono e rinascono le immagini. Rotazioni di cerchi ed ellissi, stagioni, giri di luna e di sole, galassie sgranchite nei vortici. Dovunque curvature di venti e correnti a formare ciottoli tondi, rotolati verso la costa concava della morte. […] Spiaggia di piccoli ciottoli bianchi, qua e là sporchi di catrame. Riva di mare smeraldo. Poi striscia di verde pallido e poco più in là intenso. Quindi blu oltremarino in fuga verso l’orizzonte separato in lontananza da un’altra banda di verde quasi d’erba. In fondo, linea scura di orizzonte netto a crudele nell’alta luce del sole. In pun- Caffè Michelangiolo Letture ti lontani, due barche a vela, spicchi bianchi accidentali. Basse sul mare due nuvolette dai contorni accesi. Nel caleidoscopio, pezzettini a strisce di carta colorata, rotolati chissà come nella capsula trasparente del mattino per assestarsi in un unico panorama. Questi due passi descrittivi, come molti altri di notevole suggestione estetica, in successione anche nel testo, ne confermano l’ineccepibile strutturazione formale, coerente con il senso, basata sul contrappunto tra una visione cosmica del mare, come forza, movimento, flusso, incessante e inarrestabile vitalità, e la visione individuale, di luoghi e momenti determinati, precisi, legati all’esperienza personale, che comunque tutti in quel fluire rifluiscono e defluiscono (si vedano, a conferma, anche i sintagmi finali dei due passi, evidenziati graficamente). Il senso di perdita, di smarrimento (come è detto suggestivamente, “nel gomitolo delle forme”), che inevitabilmente coglie l’autore-narratore-protagonista, ribadito nel sogno che egli racconta, e nelle sue considerazioni sulle forme che mutano, e su tutte le cose «che sono e che non sono nell’eterno cambiamento», ma anche sul «non-essere che è nell’essere e questo è il divenire», si stempera nel lucido ricorso alla conoscenza fornita dalle culture conosciute attraverso i viaggi, quelli compiuti con la sola lettura dei grandi testi filosofici e religiosi, e lo studio di opere del passato e più vicine all’autore (si vedano gli echi da T.S.Eliot, ad esempio, del quale Serpieri è straordinario studioso e interprete), e quelli reali nei luoghi visitati nella maturità, quando forse soltanto è possibile la riflessione sui sistemi con cui l’uomo ha cercato di arginare il terrore del caos, di ritrovare e di ricostruire, nel flusso eterno, un disegno armonico e coerente sotteso al tutto o al tutto immanente, che ne giustifichi l’esistenza e le dia un senso. I viaggi, infatti, narrati – scritti – dal protagonista-narratore all’interno dei vari sistemi culturali, su cui si sofferma interrogandosi in una sua incessante ricerca di senso, coincidono o comunque si accompagnano con quelli concreti in luoghi familiari o remoti, in un affascinante vagare, di cui il lettore diventa compagno e confidente. Da questi viaggi in luoghi, tempi e dimensioni disparate, scaturiscono considerazioni sull’apparente – per Caffè Michelangiolo l’autore – casualità della vita individuale e una profonda riflessione sulla vita stessa del tutto, che comprende il passato e il presente. Il messaggio trasmesso dai luoghi, dalle credenze, dalle filosofie, dall’antichità ai nostri giorni e nei luoghi più diversi, sembra suggerire che è saggio e positivo abbandonarsi al flusso, come al divenire continuo rappresentato dal mare, che tutto trasporta con sé in un incessante mutare e rinnovarsi. La conclusione del romanzo, che coincide con la maturità della coscienza centrale del romanzo e ne annuncia anche la vecchiaia e dunque la fine inevitabile, il finale disperdersi dell’onda, ma per comporne o far parte immediatamente di un’altra, e dunque per rinnovarsi, si intitola significativamente “Ouverture”, ovvero “inizio”, “primo tempo” di un’opera, appunto sinfonia di voci, fluire di suoni, e ancora una volta conferma la ciclicità di un disegno, la continuità di un percorso, insieme umano e cosmico, anch’esso iniziato con una “fine” (“All’Ade” è il titolo del capitolo iniziale) che tale non è, o è comunque anche principio e origine. Autobiografia, racconto, considerazione filosofica, visione esistenziale si amalgamano anche nel finale in questo romanzo profondo e complesso, però avvincente e persino accattivante a livello narrativo, nel quale felicemente si incontrano e si fondono, in un linguaggio ricco e raffinato, liricità e realismo, e i toni di una problematica, ma serena consapevolezza della vita. Mirella Billi Alessandro Serpieri Mare scritto Manni editore San Cesario di Lecce, 2007 pp. 216. € 15,00 FU VERA GLORIA? H a tutti i requisiti per farsi notare questo Non muore nessuno di Sergio Claudio Perroni. Non si potrà dire – come per tanta narrativa italiana – che ricalca formule usate e abusate. L’autore è già un personaggio di spicco nella nostra letteratura, e forse da lui – famoso editor e traduttore di romanzi di culto come Piattaforma di Houellebecq – non ci si poteva aspettare nulla di meno intrigante. Perroni ha messo insieme un romanzo di genere particolare, combinando insieme generi, trame, modalità stilistiche le più diverse, in un caleidoscopio di trovate di calcolata e sofisticata abilità. La trama, se di trama si può parlare per queste brevi narrazioni che mutano continuamente punto di vista, ruota intorno alla figura di R.T. Fex, scrittore di successo, che muore forse suicida nel momento culminante della sua carriera. Chi ne racconta le gesta sono le sue segretarie che hanno raccolto le sue memorie in ventisei ore di registrazione. A parlare di lui sono amici e conoscenti, le donne che lo hanno amato – fu un vero dongiovanni –, gente famosa e persone comuni. Gli editori hanno inoltre deciso di interpolare al materiale già predisposto da Fex anche brani delle sue opere inedite. Quel che ne risulta è il ritratto sfaccettato di una personalità eccentrica, un esibizionista inafferrabile, un camaleonte della scrittura, un narcisista della più bell’acqua. Vengono evocati momenti salienti della sua breve vita, i suoi tic, le sue manie, le mille stranezze e stravaganze che lo hanno reso famoso: a volte nonsense e bagattelle surreali e insignificanti, a volte invenzioni che fecero sensazione come quella di «farsi le seghe» in modo originale (la «pippa al trotto»), oppure la sua idea di «cronometrare il niente» o la ricerca che per anni lo appassionò di trovare la «sesta vocale» dell’alfabeto. Non mancano momenti più elevati, “filosofici”, come la passione che Fex ebbe per «la materia ridisegnata dai contatti», per quei luoghi che recano i segni del tempo, come per esempio le scalinate consunte dei vecchi palazzi di giustizia. Insomma il singolare libro di Perroni è fatto di un materiale eterogeneo che mira a costruire una personalità d’eccezione, presa tra il sublime della genialità e l’idiozia di fatterelli palesemente assurdi, più adatti ad un cabarettista che a uno scrittore serio. A lettura finita resta l’interrogativo: chi fu veramente Fex? Un genio o un innocuo e magari patetico guitto? Qualcuno a tale riguardo ha fatto il nome di Pirandello ed evocato il tema dell’identità inafferrabile della persona, ma non credo che sia questa la pi59 Letture sta giusta. Perroni gioca sempre e il movente ludico è a mio parere la molla principale di tutte le sue invenzioni narrative, egli gioca e si diverte mettendo in opera le astuzie e le risorse della sua sterminata cultura ed erudizione letteraria. A volte usa un tono algido che può ricordare il “calore di fiamma lontana” del Foscolo sterniano e didimeo. Certi momenti di finta innocenza e reale leggerezza ricordano il primissimo Zavattini, quello delle invenzioni angeliche e surreali di Parliamo tanto di me, la fantasia aerea e stralunata dei primi libri dello scrittore di Luzzara che non hanno avuto, in una letteratura seriosa e retorica come la nostra, la fortuna che meritavano. A un certo punto di Non muore nessuno si parla della fantascienza e «degli schemi narrativi troppo rozzi» con cui in genere è scritta. Perroni rifugge con orrore proprio da tali stereotipi e ha imboccato la strada postmoderna del riuso e della manipolazione di materiali eterogenei. Egli “fa il verso” a esempi capitali del romanzo moderno, a Calvino, a Yehoshua (di cui ripete il dialogo monodirezionale, cioè privo delle parole di uno dei dialoganti) e comunque fa sfoggio di una non comune abilità mimetica e parodistica. Tuttavia, tra il serio e il faceto, l’alter ego di Perroni, lo scrittore Fex, mira in alto, ai personaggi della grande narrativa, destinati all’immortalità: «Perché nei libri non muore mai nessuno: se un personaggio che ami muore, per resuscitarlo ti basta tornare indietro di un paio di pagine – e sai che lo ritroverai vivo…Vivo e identico, visto che i personaggi non mettono rughe». In questo campionario di bizzarrie e di giochi di prestigio, forse le cose più gustose a mio parere sono quelle in cui non ci sono sofisticazioni intellettuali ma si fa il verso al barbiere o al cameriere romano, o alla ragazza che voleva andare a letto con Fex. Perroni ha molte frecce al proprio arco e le usa tutte creando un affascinante pastiche che però a volte pecca di eccessiva disinvoltura. A pezzi di autentica poesia si affiancano “goliardate” meno incisive. L’opera prima di Perroni ha lanciato un vero scrittore. Resta da chiedersi se sarà in grado di cimentarsi in opere più impegnative che ne limitino e ne disciplinino al meglio le capacità affabulatorie. Leandro Piantini 60 UN CASO LETTERARIO G Sergio Claudio Perroni Non muore nessuno Bompiani, Milano, 2007 pp. 218. € 15,00 Sergio Claudio Perroni. iù la piazza non c’e nessuno è stato per ben due volte un caso letterario. Lo fu nel 1980, quando uscì per Einaudi come opera d’esordio dell’ottantasettenne Dolores Prato. Poi nel 1997, quando Giorgio Zampa, morta da quindici anni l’autrice, curò la stampa integrale del libro per Mondadori. Scopo non secondario della nuova edizione era rendere giustizia ai tagli cui furono sottoposte le circa mille cartelle consegnate dalla Prato a Einaudi. E sul banco degli imputati si trovò allora Natalia Ginzburg, che curò la confezione del volume, scorciandolo ampiamente e andando spesso a normalizzare lessico e sintassi. Sull’opportunità dell’operazione di Zampa, salutata con favore da lettori esperti e dissimili come Lalla Romano e Alfredo Giuliani, non occorre forse tornare, se la Prato riesce ancora a parlarci proprio per via della lingua inclassificabile con cui ha imbastito testi dove tutto è superfluo e insieme robustamente detto, dunque niente si può tralasciare senza perdita almeno quantitativa di bellezza. Rispetto a tagli e rimaneggiamenti, fu lo stesso Zampa a pronunciare un giudizio ripetuto in seguito, con diverse sfumature, da stampa e critica: la Ginzburg volle pubblicare e amò le intenzioni generali di questo libro arditamente fatto di tessere quasi accatastate l’una sull’altra, di anacoluti, idiotismi, costrutti dall’inarcatura dialettale. Solo, provò a riversarlo dentro una dimensione che non gli apparteneva: quella del romanzo ben fatto, linguisticamente pulito, dotato di una stranita derivazione ottocentesca. Il tutto anche sulla spinta di due fattori ineludibili: da una parte il gusto personale (gusto di lettrice e di scrittrice insieme); dall’altra, le esigenze di Einaudi, che non poteva rischiare su un libro troppo corposo e scritto da un nome per nulla affermato. S’inserisce a questo incrocio il bel volume pubblicato a giugno da Angela Paparella per Aracne: una ricostruzione della prima vicenda editoriale di Giù la piazza non c’e nessuno attraverso le lettere spedite e ricevute dalla Prato. Dopo un primo capitolo dedicato alla biografia della scrittrice, riletta sulla base dei carteggi e del lavoro di Stefania Severi (L’essenza della solitudine. Vita di Dolores Caffè Michelangiolo Letture Prato, Sovera, Roma 2002; è uscito da poco un nuovo e documentato volume della Severi, Voce fuori coro. Carteggi di una intellettuale del Novecento, il lavoro editoriale, Ancona 2007), si entra nel vivo della questione con una panoramica sui molti contatti epistolari della Prato, che fruttano oltre duecentocinquanta unità conservate presso l’Archivio Contemporaneo Bonsanti del Gabinetto Vieusseux e circa duemila lettere da poco recuperate e custodite da Ines Ferri e Filippo Ferrari a Roma. Donna senz’altro stravagante e provvista di una certa grovigliosa impetuosità, la Prato immagazzinò puntigliosamente per tutta la vita le missive scritte e ricevute. Tra queste, un caso a parte è costituito da La vera e dettagliata storia Einaudi, come si legge su una scatola dove Dolores aveva chiuso il carteggio con la casa editrice e le centodieci missive scambiate con l’amica Lina Brusa Arese tra il 1977 e il 1981. Corrispondente dell’autrice fin dagli anni Trenta anche per questioni legate alla sorella Andreina, una ragazza con problemi mentali affidata prima alla Prato e poi ricoverata in una clinica romana, la torinese “Linuccia” era proprietaria dello stabile di via Biancamano affittato all’Einaudi, e va a lei addebitata l’idea di proporre il libro alla casa editrice e il ruolo di tramite (quando non di imbonitrice) nei rapporti tra quest’ultima e la Prato. Sintetizzando e stralciando lettere private e ufficiali, Angela Paparella fa così riemergere nel secondo capitolo del suo saggio un affascinante e composito intreccio di voci, attorno a due fuochi principali. Da una parte c’è la Prato, che, preda pure degli acciacchi dell’età, detta a pagamento il suo libro sulla base di appunti accumulati nel corso quasi d’una vita; teme i tagli fin da subito prospettati dal consulente einaudiano Gian Carlo Roscioni e da Natalia Ginzburg; scrive all’uno e all’altra per discutere sul titolo dell’opera e sapere cosa accadrà alle sue pagine; accoglie con autentico tremore la possibilità di essere letta da Calvino. Dall’altra c’è Lina Brusa Arese: la quale aiuta l’amica a stendere la copia da consegnare all’editore; suggerisce modalità di lavoro, titoli e tagli; la rassicura; commenta e spesso difende l’operato e i tempi della Einaudi giura sulla buona fede e l’interesse di lettori e consulenti. Caffè Michelangiolo In appendice al volume, si troverà per l’appunto il carteggio con le persone della casa editrice: i messaggi dell’elegante e netto Roscioni, dei molto cortesi Elena de Angeli e Carlo Carena, di Natalia Ginzburg (da leggere senz’altro quelli fattivi, intrisi di disponibilità e stima, degli ultimi mesi del ’79). Quanto alla Prato – e pur mettendo in conto alcuni veleni sulla Ginzburg, le molte perplessità, il dolore per il libro ferocemente tagliato, la rottura dei rapporti con Einaudi dopo la pubblicazione – va senza dubbio considerata con attenzione la missiva spedita al direttore dell’“Espresso” Enzo Golino, il 16 settembre 1980, in merito a una recensione inesatta e maliziosa al libro, uscito dopo molti travagli nell’estate di quell’anno. La Prato si dichiara stanca d’essere ricordata soprattutto per la sua età, infioretta un po’ la sua biografia e corregge a ragione alcune stoccate. S’appunta, in particolare, sul tentativo di mettere «zizzania» tra lei e la Ginzburg, nei confronti della quale il pezzo la definiva «rabbiosa» a causa dei famigerati tagli. Nelle righe dedicate all’argomento, si troverà una diplomazia non rintracciabile nelle lettere spedite a Lina Arese e comprensibilmente destinata a ridimensionare la portata degli interventi stilistici dell’editor su un volume di cui si rivendica comunque la creazione. Ma si avrà pure il referto sicuro e pacato di una doppia consapevolezza, quella del proprio valore e dei propri debiti: «alla Ginzburg sono sempre stata, lo sono e continuerò ad esserlo, gratissima. Con la debolezza e la semicecità che mi ritrovo, quanto tempo avrei impiegato per tagliare un lavoro che stampato avrebbe raggiunto le 700 pp. fino a ridurlo alle 300 circa? Forse un paio d’anni, più verosimilmente avrei buttato tutto all’aria pur di non continuare quella fatica. Che la Ginzburg si incaricasse di procedere ai tagli al posto mio fu una benedizione, anche se prevedevo che i suoi tagli non avrebbero coinciso con quelli che avrei fatto io. Ma questo era un guaio previsto e accettato che non ha intaccato la mia riconoscenza per l’enorme generosa fatica della signora. L’unica sofferenza che mi venne dalla Ginzburg fu quando mi arrivarono le bozze già corrette da lei. Non erano solo correzioni, qualche volta erano rimpasti e io con Fiore [Bruno Fiore, uno dei ragazzi che dattilografò sotto dettatura della Prato il libro, ndr] dovemmo fare l’estenuante fatica di riportare tutto a come era. Mentre faticavamo non capivo le ragioni che l’avevano mossa a manomettere un po’ qua, un po’ là il testo. Ma poi ho capito e ho finito per volerle bene anche per questo. Lei ha sempre amato questo libro, con quelle manomissioni voleva renderlo più accessibile. Io salto i verbi come se qualcuno mi corresse dietro; i miei passaggi sono ponti levatoi mai abbassati; lei riduceva più intellegibile il mio modo di scrivere; ma io preferivo tenermi i miei difetti. Avevamo ragione tutte e due». Elena Frontaloni Angela Paparella «Giù la piazza non c’è nessuno» di Dolores Prato: la vicenda editoriale attraverso le lettere Aracne, Roma, 2007 pp. 294. € 16,00 GLI AMMALIATI N el poema in terzine dantesche L’asino d’oro, di Niccolò Machiavelli, la bella Circe, dopo aver ristorato con banchetti e amori l’io-narrante in predicato di diventare asino, lo accompagna in un dormitorio-serraglio, dove costui potrà 61 Letture considerare «tutta la condition» dello stato umano osservando le sembianze animali delle molte vittime degli incantamenti metamorfici. La maga esorta il perplesso ospite a rivolgere la parola a un porcello, dichiarandosi graziosamente disposta a restituire l’animale alla sua «antica forma umana». Il porcello, inaspettatamente, rifiuta con sdegno, ben argomentando la superiorità dei bruti sull’uomo. Qui il poema si interrompe, omettendo la trasformazione asinina. Come Machiavelli, altri poeti e narratori, lungo i secoli (da Dante e Petrarca a Federico Frezzi, da Giambattista Gelli a Giordano Bruno, da Pascoli e d’Annunzio a Ercole Morselli fino a Sandra Petrignani), hanno avvertito il fascino ambiguo di Circe, signora del cambiamento, della regressione e della rinascita. La fortuna del mito circeo si spiega anche pensando come la metamorfosi sia essenza stessa della poesia: la parola poetica è in sé mutamento anche quando è lapidaria, è apertura continua e talvolta estrema a trasformarsi, in se stessa e nella relazione con le altre parole, con gli altri significati, con gli altri codici. Altrettanto disponibile a mutare – sia pure in altro senso – è la parola narrativa, che adatta se stessa e si consegna a quella variazione di condizioni ed eventi che costituisce la fibra del racconto. Se la metamorfosi interessa la sostanza della poesia come quella del racconto, a maggior ragione coinvolge il racconto in poesia (forse il mutamento è l’unico oggetto di racconto a cui la poesia può aspirare), sia esso palesemente e distesamente diegetico, sia invece organizzato in quadri o lasse narrative, ciascuna delle quali costituisce una micronarrazione ellittica e allusiva, magari connessa alle altre, come nel modello ovidiano, proprio dal motivo della trasmutazione. È, quest’ultimo, il caso del volumetto La scuola di Circe, con poesie di Roberto Piumini illustrate da Cecco Mariniello, nel quale si declinano diciannove racconti (più un prologo) di sparizione e rinnovamento, diciannove incantesimi a opera delle «sorelle d’attesa», degne allieve di Circe, «Maga di donne, donna maga, grande | levatrice dei sensi, scura e dolce | dispensiera, regina, | ammaliatrice» (Prologo). Le circette glamour (metà fate metà pinup, quindi del tutto stranianti) di Mariniello disegnano una sorridente Spoon River, in cui la voce di poesia è concessa 62 non ai defunti, bensì a «Circe divina», testimone, oltre che garante, dell’efficacia dei propri insegnamenti: è una voce melodiosa e talvolta ironica di incantatrice a narrare, sul mare di un’isola «che lieve | a volte increspa | l’orizzonte, e sparisce, si rinnova | e fa spazio a leggende, ai raccontari» (Prologo). Forse Circe e le sue scolare si sono trasferite da Eea a Cipro, plausibili ospiti di Venere, o forse percorrono a nuoto o in volo il Mediterraneo, spazio eternamente privilegiato del variare e del raccontare. Gli ammaliati sono, dal canto loro, uomini di diversa provenienza e fisionomia, segnati tutti da uno scontento o inettitudine che li rende vulnerabili e destinati al passaggio di stato: non sono eroi, costoro, sono piccoli uomini oppressi da convenzioni e ruoli (come il delicato tenente Newcombe-Lyle, compreso e salvato da Emade, «la più pigra di noi»), oppure sminuiti da virtù non possedute, oppure soffocati da talenti non congeniali o faticosi (quale «l’immensa memoria» di Lafcadio, in Sinoè, o l’«ossessionata meticolosità» dell’archivista Jêrome Lusselier, in Imalia). Sono uomini segnati da manchevolezze inequivocabili (tale il brevilineo Hans Snakle, in Melisea) o da qualità che gli altri frettolosamente intendono come difetti (così la lentezza di Hi No Dan, in Urana). O sono, ancora, uomini feriti da universali incomprensioni, come lo scienziato scandinavo dal lungo nome e dalla inerte «volizione conoscitiva» (Nede). Ciascuno di loro è in realtà, nella propria forma umana, una sorta di antomata, creatura sbozzata e sospesa che aspetta di sbocciare in essere compiuto. Per ciascuno di loro, la metamorfosi è esaltazione e adempimento del proprio tratto autentico e fondante, del dato davvero positivo e creativo, dell’elemento verace che appartiene all’essenziale e non alla maschera. Tutti loro fanno dolorosa espe- rienza della normale disarmonia del mondo degli uomini: a loro le donne, maghe misericordiose, propongono soluzioni naturali, per quanto appartenenti a una logica tutt’affatto diversa. La trasformazione è infatti una grazia che la bella Circe concede, è un privilegio riconosciuto, un bel dono, un sollievo, un’ospitalità, un’accoglienza sempre appropriata (a volte segretamente appropriata, altre volte esplicitamente, come in un dolce contrappasso: così Imalia abbracciò l’arabista Lusselier, «poi lo tradusse | in servizievole amico»). Talvolta, è l’amor di simmetria – la dovuta ricomposizione di un ordine necessario – a determinare e innescare la conversione, come accade per i quattro giovani sulla piattaforma, salvati dalle quattro circi nuotanti e danzanti (Mavè, Coa, Limèle, Sesena), oppure per Stephen ed Edward Tilleul, gemelli scompagnati dalla vita pratica e ricongiunti da Iniga e Orema, «unico caso nella casta d’Olimpo | […] perfette gemelle». In nessun caso la metempsicosi animale (in elefante o bradipo, scimmia o cane o rinoceronte o koala) è sovvertimento, rottura, negazione; è invece ogni volta armoniosa salvezza e piena fioritura delle qualità misconosciute dell’uomo (per quanto anche tra le divinità la perfezione scarseggi, visto che Ezio Marchi non perde la sua sospettosità paranoica «dopo che Nemile l’ha accompagnato, | requisendolo con fermezza»: Nemile). Nel mito, Circe è colei che giunge da una terra fertile e umida, dalla terra dell’inizio del mondo, feconda di ogni possibilità: qui vive con le sue alunne nel mare, in cui fermenta la vita. Con le sue parole, Circe ammaestra le donne e guida gli uomini nel cammino insidioso dell’andare e del trattenere. Ma il suo vero prodigio è nei sensi: è il profumo di Nicla a sedurre il prete confessore, non avvisato in seminario di come, in materia di tentazioni, si tratti «principalmente, prevalentemente | di una questione di olfatto» (Nicla). Ben addestrate, le maghe annusano (lo fanno, qui, Emade e Urana) l’eletto-vittima, approfittando del più antico dei sensi umani, quello che avvicina all’animale e dunque al numinoso. Non è forse fuori luogo ricordare come la scrittura poetica di Piumini (che solo un pregiudizio tenace continua, anche dopo le raccolte L’amore morale, L’amore in forma chiusa e Non alCaffè Michelangiolo Letture tro dono avrai, a definire poeta «per bambini») si caratterizzi, prima di tutto, proprio per la sua virtù sensuale. Il sortilegio carnale delle circi è dunque congeniale ai toni della poesia piuminiana, come anche ai suoi ritmi, qui modellati in andamento lungo e narrativo, senza schema metrico rigido ma con frequenza tuttavia di endecasillabi, novenari e altre misure canoniche. Senso e conoscenza (Nede, «già sapiente», non chiede «altro rigore che il desiderio») confluiscono docilmente nella parola, detta e scritta: Dusa sa comporre lettere «di tale mistero, | di tale avvincente seduzione», da indurre un arabo obeso e straricco a gettarsi in mare «nella prescritta notte senza luna, | nell’esatto incrocio di perpendicolari». Anche nella Scuola delle Circi, com’è frequente nell’opera di Piumini, corre sottotraccia una teoria estetica: nel culto del dettaglio di Georghios («sosteneva, | sfiorando il tono mistico, che un corpo, | tutto intero, è l’eccesso, la vertigine, | e che alla bellezza basta meno»: Pomeide) come nei sogni di reciproca fecondazione tra scultura e pittura che conducono Boris Naktanov a una «quieta pazzia»: «Una malinconia lo tormentava | dell’impossibile scambio: | e pure, pochi decenni dopo, | quella sarebbe stata un’invenzione» (Lumene). Il tema della infinitezza e integralità dell’opera d’arte è peculiare in Roberto Piumini (si consideri per questo almeno la sua più recente raccolta narrativa, Le opere infinite), come il connesso motivo della morte: la speranza di vincere l’ombra è riposta nell’aspirazione dell’arte all’infinito, e nello speculare abbandono al potere misterioso della grande donna maga, «mescitrice di canti, di potenti | vini d’amore, amica, scura e dolce | levatrice dei sensi». La metamorfosi più profonda è, infine, quella capace di sottrarre alla morte, rendendola insignificante: così, l’acrobata da crociera Davide Lini «urtò con la testa e rimbalzò in mare | stordito, e morituro. | Non per Noma». Milva Maria Cappellini «POI TI RAGGIUNGO PIANO…» S eguo già da tempo l’operato di Mario Fresa, autore di due raccolte poetiche e di vari scritti critici (non ultimo Il grido del vetraio in collaborazione con Tiziano Salari), che, con la presente plaquette La dolce sorte, si rivela in veste di poeta in prosa. Invero, l’autore non si discosta da quelli che sono i temi chiave già presenti nei componimenti in versi. Emerge piuttosto una continuità di fondo che, beninteso, non è sintomo di un isterilirsi della vis creativa, piuttosto è un accreditarla, un confermarla attraverso un genere letterario di altrettanta impegnativa realizzazione. Si tratta, nel complesso, di nove prose poetiche che, seppure autonomamente compiute, possono nel loro insieme costituire i tasselli di una narrazione continua, una sinfonia ripartita in più movimenti. Nove brevissime esplorazioni nella luce del subconscio ovvero resoconti di sogni, spesso macabri e inquietanti («l’invenzione delle vipere-luci che assembrano, curiose, il corpo […] il suo tema è di formiche pietrificate») che rivelano vigore descrittivo e stile nel piegare una materia che scorre fluminale o si distende pacata («Poi ti raggiungo pia- no, dietro la sete luminosa delle finestre accese»). Novità di queste prose è da ricercare in una narrazione che si dipana volutamente scompaginata, contorta, che parla il linguaggio astruso, non meno potente, dell’inconscio, in un affastellarsi di periodi brevi, solo apparentemente buttati au hasard, talora indecifrabili, obbedienti ad un flusso di coscienza che paga in termini di logica salvo poi riscattarla per forza evocativa (chissà che proprio in questo non risieda l’intento dell’autore interessato a suggestionare, piuttosto che a spiegare, se lo stesso non esita a ribadire che «il fatto è che vedere non significa capire…»). Ne deriva uno stile caotico dove la punteggiatura non s’incarica di conferire ordine al testo, perché essa è continuamente franta, volutamente interrotta; ugualmente, la predilezione per una struttura paratattica della sintassi non risulta funzionale, come ci si aspetterebbe, alla chiarezza espositiva ma la contraddice per le ragioni di cui sopra a tradurre un complesso mondo psichico («Dunque, mi siedo. La luce pettina lo sguardo. Allora sì. Eccome, ho detto: resto in ascolto, già dolcemente armato. Vedi: nella mia mano cresce un sorriso basso, tutto piene di richiesta dolorose, fragili, assurde…»). L’autore, insomma, si colloca nel solco di un genere che, pur nella sua ricchezza di varianti, non manca da sempre di sedurre per la sua brevitas, per la sua densità in grado di risaltare le qualità musicali della parola, per la dimensione immaginifica; componenti che risultano presenti anche nella prosa poetica di Fresa cui si deve il coraggioso tentativo di aver voluto realizzare un discorso poetico rispettoso in toto del poème en prose. Daniele Santoro Mario Fresa La dolce sorte Nuova Frontiera, Salerno, 2005 pp. 16, edizione limitata f.c. La scuola di Circe poesie di Roberto Piumini illustrate da Cecco Mariniello Edizioni Nuages, Milano, 2006 pp. 64. € 12,50 Caffè Michelangiolo 63 Letture CIÒ CHE È STATO S otto la sabbia è il titolo del secondo romanzo di Luca Masini, nato a Firenze nel 1971 e già autore del romanzo giallo Quinto comandamento, pubblicato nel 2005 e di alcuni racconti apparsi in antologia (Un amico dal buio e Dietro la porta). Il titolo rappresenta la prima importante indicazione sulla natura dell’opera: “sotto la sabbia” si trova il passato di una famiglia, un tempo personale e collettivo, con il quale il protagonista, Fabio, non può non fare i conti, soprattutto perché in un momento decisivo della sua vita. Fabio si trova nella casa di famiglia, luogo reale (Viale Canova n. 23) e luogo dell’anima, deciso a venderla al miglior offerente, ma sembra che la casa non possa lasciarlo andare prima che il passato, custodito in essa, non sia del tutto dissotterrato, svelato, attraversato ancora e ancora. Così, attraverso il sovrapporsi di diversi e molteplici piani temporali la storia emerge lentamente nei brevi capitoli, dedicati ognuno ad un personaggio della vita di Fabio. Il fratello più grande, “Vince”, ragazzo ribelle e vitale, si rifiuta di seguire la strada scelta per lui dalla famiglia e viola le tacite regole del vivere: vuole diventare un dj e, senza freni, intreccia una segreta relazione con la bella e triste zia Susanna, trascurata e “tradita” dallo zio Franco, a causa della sua sfrenata passione per la Fiorentina. Erika, la ragazza «dagli occhi verde smeraldo e dai lunghi capelli neri» incontrata da bambino a Lido di Camaiore in una vacanza estiva, appare attraverso gli occhi di Fabio come una figura sfuggente e sensuale, quasi irreale. Nonno Osvaldo, sopravvissuto alla seconda guerra mondiale e alla deportazione, ma non alla morte dell’amata moglie, trova nel nipote, Fabio, la possibilità dell’ascolto e come se seguisse una terapia in grado di scongiurare la morte, racconta e sperimenta il potere della parola, ciò che solo la comunicazione può salvare, anche se per poco, dall’oblio del tempo. Francesco e Paolo, gli amici d’infanzia e i compagni dei giochi più entusiasmanti – Subbuteo, il calcio, le prime competizioni – accompagnano Fabio nel suo percorso di crescita. La piccola Giulia Arzilli, l’audace bambina «bravissima in matematica» e pronta anche ai «giochi da maschio», i primi baci con lei, i giochi, gli incontri: i 64 ricordi emergono come da scatole cinesi, l’uno custodita nell’altro, in un ritmo incessante che all’improvviso rivela anche squarci di futuro fino a poco prima impensabili. Fabio, dopo il matrimonio con Giulia, si trova ora ad una svolta. La vita sembra, nel fluido narrare di Luca Masini, non avere pause, essere un difficoltoso percorso ad ostacoli, una strada ricca di curve e soluzioni inaspettate che non può essere percorsa più di una volta, se non con la memoria. E la memoria, al contrario, crea altri percorsi, circolari, che vanno e tornano, e disperatamente si accaniscono con la loro paradossale precisione contro ciò che la sabbia ricopre e fa scomparire. Il romanzo di Luca Masini è un partecipato affresco familiare dedicato al tempo e alla forza dei legami che ci legano anche a distanza o ci allontanano anche se vicini ogni giorno, una sorta di diario che ripercorre e ricostruisce il passato attraverso il presente e il presente attraverso il passato, nel quale un ruolo determinante hanno gli oggetti che evocano il ricordo e che si caricano di un valore particolare in rapporto all’evento o alla persona a cui sono associati. Il tempo viene scomposto e lentamente ricomposto in un nuovo scenario, quello finale, che in realtà non rappresenta in nessun modo una conclusione, ma l’immagine di trasformazioni ancora in atto: lo stesso gruppo di un tempo è di ritorno da una vacanza in Sardegna, ma Fabio ora siede accanto ad Erika, Paolo e Francesco stanno insieme, Elisa, la sorella più piccola, ha incontrato Alessio, Vincenzo ha realizzato il suo sogno e lavora in una radio. Il romanzo, ambientato in Toscana dal 1978 ai nostri giorni, è da considerarsi al confine tra diversi generi – il romanzo di formazione, il diario, l’autobiografia, il romanzo “alla ricerca del tempo perduto” – e, attraverso i numerosi e improvvisi flashback, registra e rielabora molti riferimenti alla storia italiana degli ultimi trenta anni, dal sequestro di Aldo Moro alle vicende calcistiche di quel periodo. Molti sono, inoltre, i temi toccati, allo scopo di mettere in discussione quel fastidioso ma imperante concetto di normalità, così diffuso nella maggior parte delle famiglie italiane: gli abusi (quello su Erika da parte del padre, dal quale nascerà Cristina) i tradimenti (quello di zia Susanna con il nipote Vincenzo) l’omosessualità (l’amore tra Paolo e Francesco). Il bisogno intenso e necessario di guardare in faccia tutto quello che è stato, senza più rimandare o illudersi o fuggire, è ciò che anima la scrittura di Luca Masini ed ogni pagina sembra ribadire questo monito al “faccia a faccia” con la vita: La donna tira fuori una brocca in vetro che appoggia sul tavolo davanti a me. Riempie due bicchieri me ne porge uno. «Quando ero piccolo, al mare, mi divertivo a nascondere le palline dei ciclisti sotto la sabbia. Una volta finito, chiamavo mio fratello e gli chiedevo di cercarle. Ci impiegava una decina di minuti prima di trovarle tutte. Ero davvero bravo. Lo siamo tutti…» […] «All’essere umano piace nascondere i problemi, fare finta che non esistano, evitarli… In modo che la sua vita non subisca violenti scossoni. Lo rende più sereno, invincibile»1. Monica Venturini NOTA 1 L. MASINI, Sotto la sabbia, Pavia, I Fiori di Campo, 2006, p. 57. Luca Masini Sotto la sabbia I Fiori di campo, Pavia, 2006 pp. 168. € 12,00 Caffè Michelangiolo Letture UN DON CHISCIOTTE PADANO Q uando per le strade di città, alle ore più inadatte del giorno, si incontrano e maledicono quelle fumiganti autospazzatrici che esalano cattivi odori e schizzi, mal si immagina che due di loro siano diventate le protagoniste di un racconto, e che possano affrontarsi, come in un duello alla Sergio Leone: «incrociandosi e beccandosi invidiose con ugelli spruzzatori e spazzole rotanti, in scaramucce di bracci idraulici e pistoni a cannocchiale, protesi e ritirati in affondi di fioretto, nascoste da nebbie di fumogeni – aviogetti rasoterra di parata in arditissimi disegni del giro della morte – le spazzatrici ammiraglie del Comune di nuovo si assaggiavano alla cieca a fanali e parafanghi più sporgenti, sputando vetri e parabole argentate, urtandosi e rigettandosi distanti fra scintille d’irriducibili avversarie sulla scena e nella vita, ricomparendo ammaccate, da lati opposti d’autoscontri, sul proscenio di World’s People Security Bank fumigata dai petardi, come attori convergenti nel cono illuminato di un palco d’operetta» (p. 42). entro i racconti di Rossi carambolano i personaggi più inauditi. Così, accanto a Vernula Laboris e Colubra Repens Maculata, i due mezzi che puliscono le strade in cerca di tesori la notte di capodanno, troviamo Canaja e Romualdo Romito (Rom Rom), due vecchietti arzilli e speculari nella giovanile animosità, uno nel primo e l’altro nell’ultimo dei quattro racconti. E poi il gallo Bernardo Becone, taumaturgo di indubbia efficacia; spose namibiane nel fiore degli anni; Giannazzo, aleatorio parrucchiere per signora e a tempo perso mago da strapazzo, in combutta con l’estetista Giannino e Mariella; una vettura blindata del regime sovietico, la Zil|Zis 110, che punisce e segnala alle autorità l’autista e i passeggeri in caso di abbandono dell’abitacolo; l’equipe di scienziati che studiano il linguaggio dei polli: nel Mare Padanum si dispiega il teatro del mondo, con impeto visionario e un ampio ricorso al fantastico. Al centro ci sono ancora loro, Gerbasius e Panfilius, colleghi presso l’archivio di Stato e intrepidi avventurieri nelle valli del Rosello, vicino Piacenza. I due, che D Caffè Michelangiolo sembrano nati dalla fantasia di Cervantes, illuminano con la loro presenza tutti e quattro i racconti, e come divi da avanspettacolo inducono spesso al sorriso, raggiungendo talvolta inesplorate vette di comicità. Nei racconti di Rossi va in scena un complesso sistema di contaminazioni, intanto fra i fatti di attualità (influenza aviaria, truffe agli anziani, matrimoni combinati) e le storie della provincia italiana più profonda, legata ancora a tradizioni popolari e pratiche stregonesche, soprattutto di natura gastronomica. Altra contaminazione incorre a livello di genere. Come ha notato Vela nella postfazione, la narrazione sembra piegarsi alle regole del fumetto, dei cartoni animati: «ma questo spingere sul pedale di un surreale spesso incline a inflessioni fumettistiche si rivela via via sorprendentemente proprio come il mezzo più adatto a sezionare la realtà illuminandone in particolare gli aspetti gratuiti, folli» (p. 155. Lo stesso Vela è inghiottito dal processo di trasfigurazione del reale, e trasformato nel pacifico filologo dell’ultimo racconto). In questo alchemico laboratorio di scrittura, teso continuamente all’associazione di elementi eterogenei, non stupisce di assistere in ogni racconto ad invasioni di vario tipo, perché la scrittura stessa sconfina dai seccori del ragionevole, per approdare alla meraviglia della visione, alla freschezza del genio. Quel baldo padano di Rossi impone alla scrittura un regime festivo, la stira e la tende come certi surrealisti francesi, ma non ne smarrisce mai il senso. Festivo è il tempo di due racconti su quattro, che si svolgono la notte di capodanno. Un tempo che subisce improvvise e fulminanti accelerazioni, come in Rune al pelo: «Gerbasius e Panfilius, alla corsa dei sacchi per la festa del raccolto, rincorsi dallo stazzo di mucche e di cavalli incitati dal guardiano in berbero predone, saltellavano nella notte, coi pantaloni afflosciati in fondo ai piedi degli inciampi, raccolti e rovesciati sulle groppe, palleggiati da partitelle collegiali, nel rimbalzo attutito fra pelli brunalpine e manti bardigiani di aerostati a terra. Le bestie, alla vendetta per formagge e vitelli trafugati nottetempo nel self-service della Cisa, virtuose del canestro e della rete, di pallavolo e pallamuro, si scambiavano al galoppo i cavalieri nella destrezza tartara d’un circo d’alta scuola, con corna cannoniere, colpi d’anca e di ginocchia da dive dello stadio al tripudio della curva» (p. 70). Salvo poi, quel tempo stesso, ritrarsi in elegiaco rimpianto dell’amore perduto, in struggente desiderio di Mariella, cinica e sbrigativa Dulcinea dei Baggini. Per quanto le quattro storie di Rossi restino legate alla memoria con un doppio filo di felicità, smossa dalla tonitruante immaginazione, il vero miracolo di questi racconti è nascosto nel prodigio della sintassi, nella fiabesca ricchezza del linguaggio. Un linguaggio catalogatore – di termini desueti, neologismi, parole straniere – che a partire dalla varietà del lessico riesce a costruire un universo iperdefinito nel dettaglio, ma nello stesso tempo brulicante di vita. Lo scrittore Rossi sembra il miracolato reduce di un qualche esiziale diluvio, e dalla sua isola ci regala pagine di memorabile bellezza: che possa continuare per altri mille libri, non valeo contare quidem quam fortiter obstat1. Federico Lenzi NOTA 1 F. TEOFILO, Il baldo padano, trad. di Giuseppe Tonna, Imprimitur, Padova, 1998, libro decimo, p. 126. Maurizio Rossi Mare Padanum Lavieri, Sant’Angelo in Formis, 2006 pp. 160. € 12,50 65 Letture IL FRAGILE MITO DEL TEMPO L uigi Martellini, critico letterario e poeta, professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo), vive a Fermo nelle Marche e collabora attualmente alla terza pagina de “L’Osservatore Romano” e alle riviste “Studium” e “Otto|Novecento”. La sua formazione è stata fortemente segnata dall’insegnamento di due grandi personalità del nostro Novecento, Carlo Bo e Mario Petrucciani, con il quale Luigi Martellini ha discusso una tesi su Gabriele d’Annunzio, poi pubblicata nel 1975 (Il mare, il mito). Nell’ambito della sua produzione critica, ricordiamo i suoi studi su Malaparte (Mursia, Milano 1977), Matacotta (La Nuova Italia, Firenze 1981), la poesia delle Marche (Forum, Forlì 1982), Pasolini (del quale recentemente ha pubblicato un Ritratto per Laterza (Roma, Bari 2006). Una serie di saggi su altri autori (Petrarca, Monti, Svevo, Cardarelli, Ungaretti, Pavese, Calvino, Primo Levi) è ora raccolta in tre volumi: Modelli, strutture, simboli, Nel labirinto delle scritture e in Novecento segreto. In ambito poetico, le prime pubblicazioni di Luigi Martellini risalgono agli anni Settanta: Quasar (Lacaita Manduria, 1977, con introduzione di Mario Petrucciani) inserito nella rosa dei Premi Viareggio e Martina Franca e risultato vincitore del Tagliacozzo ’77 e del Milano ’78, Infiniti sassi (Fermo, Edizioni del Girfalco 1977, con prefazione di Giorgio Caproni), Mistificato enigma (Sciascia, Caltanisetta-Roma, 1982, con uno scritto di Mario Luzi), Poseidonis (Edizioni del Girfalco 1986, Fermo, con una nota critica di Emerico Giachery e infine Eìdola (Marzorati Milano, 1987, con la prefazione di Carlo Bo). Selected Poems è il titolo di questa antologia, pubblicata a New York nel 2006, che raccoglie testi poetici scritti tra il 1964 e il 1987, tradotti in inglese da Sara De Angelis, laureatasi all’Università degli Studi di Urbino e già traduttrice di autori come W. Word66 sworth, S.T. Coleridge e di alcuni testi tratti da Gente di Dublino di J. Joyce e da La Terra Desolata di T. S. Eliot. L’introduzione di Vincenzo De Caprio, professore di Letteratura italiana all’Università degli Studi della Tuscia, ricostruisce in modo accurato le fasi della produzione poetica di Luigi Martellini, la sua formazione e attraverso la storia della critica relativa alla sua opera, da Carlo Bo a Mario Petrucciani, da Giorgio Caproni a Mario Luzi. Così De Caprio definisce la poesia di Luigi Martellini: È una poesia scarna e scabra, un impietoso lavoro di scavo nella coscienza e sotto la coscienza, negli strati nascosti del subconscio e in quello dirompente delle folgorazioni percettive. Il poeta non ha pietà per se stesso e per gli altri; non ha messaggi da lanciare, certezze, ponti verso il futuro, miti illusori da avvalorare. È l’asciutto ma solidale partecipe di una condizione umana offesa, dalla quale sono scomparsi ogni principio immobile di verità e ogni sicuro punto di riferimento1. L’unico punto di riferimento è proprio la parola, il suo potere di svelare la realtà, di trasformare l’io che parla in “noi”, di rifiutare le molteplici maschere offerte dal vivere quotidiano, come sottolinea Carlo Bo nell’introdu- zione del 1987. Tale scavo alla ricerca del valore essenziale della parola non può non rimandare all’esperienza di un grande poeta del Novecento così importante anche per l’esperienza di Luigi Martellini, Giuseppe Ungaretti. E “ungarettiani” possono, senza dubbio, essere definiti i temi trattati: l’assenza e la memoria (Le rughe dei giorni), il paesaggio scabro e roccioso delle Marche e quello marino, descritto in modo così dettagliato ed emblematico in molti testi tra cui Il nonno pescatore, Il cormorano, Notturni, Ippocampo, Gabbiani, Conchiglie. “Il mare, il mito”: quasi fossero i due poli dell’immaginario nel quale affonda il linguaggio poetico di Luigi Martellini – non a caso, è questo il titolo del giovanile studio dannunziano – rappresentano i nuclei tematici che determinano l’interna struttura e l’estrema coesione dell’opera. Il mito, come in larga parte della letteratura del Novecento, viene rivisitato e ri-attraversato per assumere un valore nuovo e dissacrante: non un nostalgico ritorno al passato, non una prova di erudizione ma, al contrario, la proposta di una inedita prospettiva sul presente, la verifica di una fuga impossibile e di una feroce assenza, che esattamente coincide con la vita stessa. Ulisse e Giasone, spogliati della loro eroica forza senza pari e dell’alone favoloso che da sempre li accompagna, si mostrano umani e fragili di fronte all’enigma insolubile del tempo e del nostro essere o non essere qui. Così in Poseidonis, che chiude la raccolta, si addipana il filo d’Arianna e compare Euridice, «– donna degli Inferi – | clandestina e triste creatura | dietro il pianto di Orfeo». Le figure mitiche sembrano identificarsi con il poeta e assumere il suo stesso disincantato sguardo sul mondo, quello che Luigi Martellini in modo così fulminante sintetizza in Epigrafe: Ho restituito la morte al destino preferisco la condizione di allora quando conversavo col mare raccoglievo pezzetti di vetro levigati dalla salsedine inventavo pupazzi d’argilla2. La vita è un veloce passaggio, noi fragili eroi incapaci di «risolvere | il miCaffè Michelangiolo Letture stero dell’esser comparsa», di rispondere all’unica domanda: «A che vale dunque?». Monica Venturini NOTE 1 V. DE CAPRIO, Introduzione in Martellini Luigi, Selected Poems. 1964-1987, Gradiva Publications, New York, 2006, p. xvii. 2 L. MARTELLINI, Selected Poems. 1964-1987, cit., p. 50, vv. 1-6. Luigi Martellini Selected Poems. 1964-1987 Translated by Sara De Angelis Introduction by Vincenzo De Caprio Gradiva Publications, New York, 2006 pp. 128. $ 20,00 UNA LETTURA DELLA MENTE «H o cancellato le date e ho mescolato i brani» (così l’autore de Il nastro di Möbius nella sua Nota): a sentir lui, quindi, non c’è percorso in questo libro di memorie, dichiaratamente memoriale (anche se nel titolo stesso del libro c’è un tentativo di depistaggio: quel nastro dovrebbe infatti rappresentare proprio una specie di ripiegamento della memoria su se stessa); non ci si crede, però, non gli si può credere – e del resto un ingegnere che mescoli i dati in suo possesso sarebbe uno strano pericoloso ingegnere… Frammenti di memoria, di rimpianti.Ricordando, ne modifico il corso, riempio i vuoti e taglio,ricompongo. Per farne sinfonie. Così nel “prologo” del “Disperato eros”. Musica per camaleonti, verrebbe da parafrasare, ma ci si deve adattare alla bacchetta del direttore per gustare una sinfonia, a meno di non essere il direttore o, meglio, il compositore! Il poeta scandisce tempi e misure: l’ascoltatore, il lettore si adegua o non segue. Questo Nastro di Möbius è dunque un viaggio sinfonico nelle memorie delCaffè Michelangiolo l’autore. Il quale torna addirittura indietro più ancora di quanto ha fatto nel suo libro d’esordio Magia, decima musa, rispolverando – è davvero il caso di dirlo – i panni sporchi nell’armadio dell’adolescenza, e raccontando, come sfogliando un vecchio album, le foto più significative della sua formazione esistenziale. La freschezza del ricordo è nella stessa tramatura dei versi, quasi di giovinetto pronto (e inesperto) a cogliere assaporare la vita, a impadronirsi (magari!) di un momento vitale – oraziana suggestione in quel «taceva e sorrideva. | Ma non ebbi il coraggio | di toccarla.» Ascoltiamo quindi questi sfoghi del cuore con la benevolenza che merita l’onestà di mettersi a nudo – e l’età chiede ulteriore venia: qui non c’è più il ragazzo che si esibisce ma l’uomo consapevole che non può giocare a rimpiattino con la coscienza. Il foscoliano velo protettivo qui serve a proteggere dai famelici e impietosi sguardi del tempo l’innocenza di una lontana adolescenza, una primigenia età dell’oro mai dimenticata, anzi avvertita come unica età vera (dell’istinto e della ratio) e per questo desiderata ancora e sentita in qualche modo presenza viva. Le composizioni dedicate agli affetti familiari e ai sentimenti più nobili come l’amicizia fanno un po’ contrasto con la sezione erotica del libro, e dan- no insieme la misura dell’uomo, che sa di sé e vuole dirsi intero. Nella personale “nota” introduttiva, peraltro, l’autore scriveva di aver «compreso che mentre tentavo di fissare sulla carta, per riviverli poi, quei sentimenti, li alimentavo, li rendevo estremi, conducendoli fino al parossismo», e – in tutta modestia – concludeva: «Chiedo perdono alla Poesia». La consapevolezza dell’uomo è anche dell’artista, mentre cerca esiti probanti e sa di avere non pochi debiti con la sorte e con l’arte. L’omaggio più o meno dichiarato a Lorca e Ungaretti, apertamente citati, sembra fondersi in un dettato caldo e asciutto insieme, anche se una messe così abbondante di testi (ottanta, in un anno e mezzo appena) andava forse un po’ sfrondata. Dopo aver ricordato le tappe formative della sua vita, le storie e storielle dei sensi, l’impegno duro del lavoro e il bene dei familiari, dopo aver ripercorso l’esistenza come su un atlante, è inevitabile il bisogno di un porto sereno, di un approdo amico – ma Ulisse è proprio il simbolo del viaggio che non ha mai termine, e del viaggiatore che non si stanca di ripartire. Non invecchia il “fanciullo” in noi, ma troppo spesso diventa un “vecchio-bambino”, inadatto a questo mondo nel quale è entrato con difficoltà, che ha vissuto soltanto a modo suo – e in definitiva si sente vivo soltanto nella scrittura di sé (espediente tipico e, non c’è nemmeno bisogno di esplicitarlo, autoreferenziale di chiunque abbia un cattivo rapporto con la propria crescita, di chi abbia finito per credere solo alle figure della mente per paura di sottostare alle istanza del cuore). L’ansia del dire è diventata evidentemente una specie di ultima frontiera, OK Corral o Fortezza Bastiani, un posto della mente in cui credere che la mente almeno sia lontana dalla “senescenza” (che anch’essa poi – direbbe Svevo – è solo una malattia della mente). Giuseppe Napolitano Nando Pierluisi Il nastro di Möbius Polistampa, Firenze, 2007 pp. 128. € 10,00 ■ 67 NORME DI EDITING per i collaboratori di “Caffè Michelangiolo” Citazione di testo = G.W.F. Hegel, Scienza della logica, tr. di A. Moni, Laterza, Roma-Bari, 1972, vol. II, p. 115. Citazione di saggio = R. Bloch, La religione etrusca, in H-C. Puech (a c. di), Storia delle religioni, Laterza, Roma-Bari, 1976, vol. I, tomo II, pp. 499-531. Citazione di articolo apparso in una rivista = P. Ruminelli, Alberto Caracciolo: un pensatore moderno del religioso, in “il cannocchiale”, vol. 3/1991, pp. 15-37. Citazione di capitolo o paragrafo di una monografia = cfr. il cap. VI La nevrosi dei bambini, in M. Klein, La psicoanalisi dei bambini, tr. it. di G. Todeschini e C. Carminati, a c. di L. Zaccaria Gairinger, Martinelli, Firenze, 1970. Rimando a testo citato = G.W.F. Hegel, Scienza …, cit., pp. 118-120. Rimando a testo o luogo appena citato = Ivi, p. 12. Citazione di versi nel testo = … come ad es. nei versi «Sovente in queste rive / (spazio) che, desolate, a bruno / veste il flutto indurato, e par che ondeggi, / seggo la notte;…» in cui il poeta ritrae… Citazione col rientro = … come nell’es. Sovente in queste rive che, desolate, a bruno veste il flutto indurato, e par… Citazione nel testo con virgolette a caporale = … dunque, come ricorda Bianco, «lo stesso Habermas aveva fatto valere contro Gadamer la scoperta psicoanalitica di un livello paleo-simbolico» e se ne forniscono prove incontrovertibili nel saggio… Discorso diretto introdotto = Lui si impose: «Tutto deve svolgersi così!». (segno di interpunzione all’esterno) Discorso diretto non introdotto = «Tutto questo doveva pure accadere.» (segno di interpunzione all’interno) Discorso diretto nella citazione = Così prosegue l’evangelista (versetto 39): «Alcuni farisei tra la folla gli dissero: “Maestro, rimprovera i tuoi discepoli”. Ma egli rispose: “Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”». Citazione nella citazione = Klossowski ricorda che prima di Nietzsche «Kierkegaard, per il quale la musica non esprime che l’immediato nella sua immediatezza, osserva che il linguaggio ha inglobato in se stesso la riflessione: “perché esso non può esprimere l’immediato”». Evidenziazione di termini e frasi mediante inglesi doppie = … gli uomini “speciali” vivono sempre altre dimensioni … Titoli di opere nel testo = Fra le composizioni della maturità, La ginestra è quella che … Le parentesi indicanti soppressione di testo nel corso di una citazione o intervento del traduttore, sono quadre = … come sembra […] così avviene per … Indicazioni degli anni nel testo = 1956-’57; ’56-’57; anni ’50; il ’900. Altezza dell’esponente delle nota = ad apice come nell’es. … fino alla luna13. Esponente della nota = precede il segno di interpunzione. L’inizio del capoverso è rientrato. Congiunzioni causali, modali, temporali, etc., hanno sempre l’accento acuto = poiché, allorché, perché, … I termini stranieri nel testo ed in citazioni vanno scritti in corsivo. I titoli di capitoli e paragrafi hanno il rientro di cm 0,5. Lo stesso vale per capitoli e paragrafi indicati con il solo numero e senza titolo. Le note vanno numerate e inserite alla fine del testo. L’apostrofo è segnato con un inglese semplice = ’ Il carattere utilizzato per i testi: Bauer Bodoni nel corpo 10 a cura di = a c. di aforisma/i = af./aff. Autori vari = AA.VV. capitolo/i = cap./capp. confronta = cfr. eccetera = etc. E maiuscola con accento = È. frammento/i = fr./frr. introduzione di = intr. di nota/e = n./nn. pagina/e = p./pp. pagina 10 e seguenti = p. 10 e sgg. postfazione di = postf. di prefazione di = pref. di traduzione italiana di = tr. it. di verso/i = v./vv. volume/i = vol./voll. AVVISO AI COLLABORATORI Per necessità connesse alla realizzazione elettronica della stampa, è indispensabile attenersi alle “regole editoriali” sopra esposte. I contributi devono essere registrati in formato RTF (Rich Text Format) e trasmessi via e-mail all’indirizzo [email protected] (specificando come oggetto: per Caffè Michelangiolo, più il proprio cognome) oppure tramite supporto informatico (floppy-disk, Compact Disk, etc.) con copia cartacea all’indirizzo: redazione Caffè Michelangiolo, c/o Polistampa s.n.c., via Livorno 8/32, 50142 Firenze (tel. 055 737871 - fax 055 7378761). ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI DI ARTI LETTERE SCIENZE FONDATA NEL 1660 MODIGLIANA ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI DI MODIGLIANA NOTIZIE STORICHE L’Accademia degli Incamminati venne fondata nel 1660 dal letterato Bartolomeo Campi col nome di Accademia dei Pastori del Marzeno e con sede in Modigliana, città della Romagna appenninica allora compresa nel Granducato di Toscana. Entrata in crisi dopo il 1720, fu ricostituita il 27 ottobre 1755 ad iniziativa dello storico Gabriele Sacchini, che le impose la denominazione attuale e le diede nuove norme statutarie. Con rescritto 24 aprile 1795 del Granduca di Toscana Ferdinando I, confermato poi da Leopoldo II il 17 agosto 1825, l’istituzione ottenne la «sovrana protezione» assumendo il titolo di Imperiale e Reale Accademia degli Incamminati. Successivamente, per la ribellione patriottico-risorgimentale degli Incamminati, con risoluzione granducale 19 agosto 1857, resa esecutiva in data 24 agosto, venne imposta la sospensione dell’attività accademica. Ritiratosi da Firenze Leopoldo II, il subentrato Governo Provvisorio della Toscana, per «debito di giustizia», il 13 dicembre 1859 riabilitò l’antica Accademia «al libero esercizio dei suoi diritti e delle sue funzioni» e, dopo l’avvento del Regno d’Italia, come da nota 18 luglio 1861 della Delegazione del Governo di Modigliana, essa assunse la denominazione di Regia Accademia degli Incamminati. Nel 1925, precluso il libero esercizio alle associazioni culturali non appartenenti al partito fascista, l’Accademia dovette cessare l’attività. Questa riprese nel 1946 ad avvenuta proclamazione della Repubblica Italiana. Nel 1961 fu eletto Presidente il dott. Gilberto Bernabei, alto dirigente ministeriale, poi Consigliere di Stato e Sindaco di Modigliana. Questi assunse importanti iniziative fra cui quella di chiamare nell’Accademia eminenti personalità della letteratura, delle scienze, delle arti, delle istituzioni, dell’imprenditoria e del lavoro. L’attività degli Incamminati ricevette così un notevole impulso, accentuatosi ulteriormente con l’On. Pier Ferdinando Casini, Presidente effettivo dal 1990 al 1997, e oggi Presidente d’Onore, e con l’Avv. Natale Graziani, Presidente in carica dal 1997. Organo ufficiale dell’Accademia è “Caffè Michelangiolo”, rivista di discussione edita in Firenze con periodicità quadrimestrale, fondata e diretta da Mario Graziano Parri. FINI E COMPITI ISTITUZIONALI L’Accademia degli Incamminati, di Arti Lettere Scienze, sorta nel 1660 e munita di personalità giuridica (D.P.R. 27 luglio 1970 n. 753), ha lo scopo di promuovere e diffondere le conoscenze umanistiche e scientifiche nel quadro dell’universalità e unità della cultura; di studiare e dibattere i temi nazionali, dell’Europa, dei doveri e dei diritti dei cittadini; di svolgere nei territori della Romagna e della Toscana fiorentina – fascia appenninica in particolare – attività di studio, ricerca e valorizzazione della storia e della civiltà dei luoghi. Premio Nazionale Finalista CORRADO ALVARO 2006 PREMIO VIAREGGIO 2005 Opera Prima Opera Prima MARIO DOMENICHELLI, anglista e comparatista, docente all’Università di Firenze, esordisce come romanziere. Ambientata nella Somalia del 1989, poco prima che la caduta di Siad Barre trascinasse il paese nel caos del tribalismo, è la storia densa e avvincente di Tomas, un bizzarro e elusivo professore che nell’ambito della Cooperazione italiana insegna nell’Università di Magadiscio. E con lui, di una generazione e di un mondo crudelmente ingannati. MARIO SICA, già ambasciatore d’Italia a Windhoek, a Mogadiscio, a Vienna e al Cairo, saggista e pubblicista, esordisce come romanziere. L’eroina è la celebre Pia, «quella fatta da Siena e disfatta dalla Maremma» come scrive Franco Cardini nella prefazione, protagonista di una storia di sangue e passione che incalza il lettore con un ritmo da film o da fiction televisiva. 11,6 x 21 cm., 272 pagine, € 14,00 11,6 x 21 cm., 216 pagine, € 12,00 @ Polistampa s.n.c. - Via Livorno 8/32 - 50142 Firenze - Tel. 055.737871 - Fax 055.7378761 e-mail: [email protected] - http://[email protected] Caffè Michelangiolo si trova in queste librerie BARI Libreria Feltrinelli Via Melo da Bari, 117 - Tel. 080 5207511 BOLOGNA Libreria Feltrinelli Via Zamboni, 7 - Tel. 051 268210 Alta Marea La Libreria Delle Donne Via S. 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